Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
FRANCO NICOLI CRISTIANI, OLTRE CHE PER UNA TANGENTE DA 100.000 EURO, INDAGATO ANCHE PER PECULATO.. PER LUI PRANZI E CENE ERANO “IMPEGNI ISTITUZIONALI”
Le incombenze di un politico sono molte. 
Proposte di legge, riunioni di maggioranza, discussioni infinite all’interno del proprio partito. Qualcuno però, almeno alla Regione Lombardia, i propri impegni istituzionali li ha lungamente consumati con le gambe sotto il tavolo.
È il caso dell’ex vicepresidente del consiglio regionale lombardo Franco Nicoli Cristiani. La cui carriera politica all’interno del Pdl si è infranta contro un ordine d’arresto per corruzione.
Centomila euro trovati dalla Procura di Brescia nel novembre del 2011, nella sua abitazione. Il prezzo, secondo l’accusa, di una concessione per l’apertura di una discarica di amianto in provincia di Cremona.
Ora, nelle pieghe dell’inchiesta chiusa poche settimane fa dai pm Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Antonio D’Alessio, si scopre come l’ex esponente del Pdl abbia attinto a piene mani dal fondo per le spese istituzionali del Pirellone.
Un vero e proprio recordman.
Capace di fare spendere alla Regione «27mila euro e 9 centesimi», in soli cinque mesi del 2010, dal 13 maggio al 28 novembre, con una pausa estiva ad agosto, quando Nicoli probabilmente anzichè di politica si stava occupando delle sue vacanze.
L’ex politico è indagato per peculato per le sue spese pazze. Ma non è detto che, nonostante le anomalie vistose, possa essere perseguito in un processo.
Formalmente, Nicoli Cristiani ha giustificato tutte le uscite come «impegni istituzionali».
Difficilmente il Nucleo di polizia tributaria potrà scoprire a ritroso se realmente quelle erano tutte cene o pranzi con finalità politiche.
Di certo, l’ex vicepresidente del consiglio non si è fatto mancare nulla.
Il 24 febbraio 2011 Nicoli è al ‘Centro ittico’ di via Martiri Oscuri con sei persone. L’occasione è per «incontrare i presidenti delle Comunità montane». Decisamente delle buone forchette, con una vera e propria passione per il pescato fresco.
Nel conto allegato alle carte dell’indagine, la ricevuta ripercorre le scelte della delegazione montanara.
Due piatti «gran crudo di pesce» (64 euro), un «gran misto frutti di mare» (49 euro), ma anche due gratinati misti (59 euro).
L’ospite più sfacciato ha scelto «l’astice catalana da 1,75 kg». Un crostaceo ambito, si sa, e piuttosto salato se fresco: nel conto incide per 157,50 euro. In coda al pranzo «5 liquori invecchiati» (altri 55 euro), e per sciacquare la bocca dal gusto salmastro, gli ospiti si concedono un sorbetto al limone (altri 36 euro).
Il conto saldato dal Pirellone, alla fine, arriva a un totale di 729,50.
‘Centro ittico’, ma non solo.
I locali preferiti da Nicoli Cristiani comprendono anche da ‘a Riccione’ (specialità pesce), ‘Le terrazze’ di Bergamo, ‘la Posta’ di Brescia.
Un vero e proprio debole, il corpulento ex rappresentante del Pdl, lo riservava per il locale ‘da Berti’ in via Algarotti.
Tra il gennaio e luglio del 2011 Nicoli ci si è recato ben 32 volte. Una volta «con i sindaci di Pisogne, Monte Isola e Sale Marasino», un’altra con il presidente di Federacciai, oppure con quello di Assopetroli. Spesa media 160 euro a botta.
Per saldare i conti, di certo piuttosto salati, ci pensava la Regione: agli atti ci sono le copie degli assegni con il timbro del «consiglio regionale della Lombardia».
Emilio Randacio
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
CIVATI, SEL E DISSIDENTI SULLA CARTA POTREBBERO SOSTITUIRE IL NCD
Più che una scissione, una slavina. Un bollettino di guerra con numeri da brivido.
Almeno dieci senatori sbattono la porta in faccia a Beppe Grillo, altri cinque sono pronti all’addio. Un magma per ora indistinto, informe, caotico.
Pronto però, nelle prossime settimane, a strutturarsi in gruppo assieme a Sel e civatiani.
Con un sogno che prova a farsi progetto politico: sostituire il Ncd di Alfano, dando vita a una diversa maggioranza di governo.
Pippo Civati, per dire, già si lecca i baffi: «L’area del nuovo centrosinistra è a quota 23 senatori». E come se non bastasse, anche alla Camera una manciata di deputati lavora a una mini fronda.
Piangono tutti, nel giorno più amaro della giovane storia grillina. Oppure urlano e si insultano, mentre il Movimento cinque stelle va in frantumi.
Il capogruppo Vincenzo Santangelo punta il dito contro l’eretico Lorenzo Battista: «Esci da questa stanza!».
Tutto si compie in una sala riunioni di palazzo Madama, mentre la Rete ratifica l’espulsione dei quattro parlamentari messi all’indice dal Fondatore.
«Venduti — si sgolano i falchi — serpi in seno». «Neanche i fascisti si comportano così», ribatte una dissidente in lacrime.
È ormai l’ora di una scissione covata per mesi, annunciata sulla stampa, negata con una buona dose di sarcasmo dai guardiani dell’ortodossia pentastellata.
«Una ferita si è aperta ai tempi dell’elezione di Grasso — allarga le braccia Nicola Morra — e mai è stata suturata».
Nel quartier generale grillino tutto ha il sapore amaro del processo trasmesso in streaming.
Il comico genovese, a metà pomeriggio, contatta una senatrice: «Mi dispiace, ma è una cosa che andava fatta in vista delle Europee. Non possiamo permetterci errori». «È stata l’uccisione della democrazia», si infuria Laura Bignami.
Dall’alba al tramonto tutti attendono solo che si consumi il passaggio più scontato, il sigillo degli attivisti sulla cacciata. Quel che gli ortodossi non hanno previsto, però, è la reazione furiosa dell’ala dialogante.
Almeno cinque — Romani, Bencini, Mussini, Casaletto, Bignami si dimettono per solidarizzare con gli espulsi. Altri due sono pronti ad aggregarsi. Una è Michela Montevecchi. L’altra Cristina De Pietro. Sconsolata, trattiene a stento il pianto: «Le dimissioni? Sto troppo male, ci sto pensando. Non possiamo fare finta che non sia successo nulla».
Al Senato i numeri rischiano di spaventare anche il gelido Gianroberto Casaleggio.
«È come un domino», profetizza Bignami. «Non è finita», giura Battista.
Il malessere accomuna anche Francesco Molinari, Elena Fattori e Roberto Cotti.
«Restiamo nel Movimento», assicurano però a sera. La contabilità è comunque dalla parte dei dissidenti. Quattro espulsi, quattro ex grillini che militano da mesi nel Misto, cinque dimissionari (che l’Aula con ogni probabilità obbligherà a restare in Parlamento): tredici in tutto, sufficienti per dare vita da soli a un nuovo gruppo.
Ma c’è chi lavora a un progetto più ambizioso. Nessuno è disposto a votare la fiducia a questo governo Renzi, sia chiaro.
Di fronte a un altro scenario, però, tutto diventa possibile.
Luis Orellana l’ha spiegato in mille occasioni: «Soffro a non mettermi in gioco». Nel Misto, poi, lavorano dall’inizio della legislatura sette senatori di Sel.
Un matrimonio con i dissidenti grillini compenserebbe almeno sulla carta — il Nuovo centrodestra di Alfano.
«Non credo che il premier pensi a un’altra maggioranza — frena la capogruppo vendoliana Loredana De Petris — Noi comunque non siamo interessati a sostenere questo governo. Altro sarebbe se Renzi annunciasse una nuova maggioranza e un nuovo esecutivo, ma non c’è nulla di concreto».
E invece tra i civatiani c’è chi la pensa in un altro modo. Walter Tocci è sempre in bilico, vicino all’addio. Corradino Mineo immagina di lavorare al fianco dei grillini, senza rompere con il Pd: «Se serve, possiamo aiutarli a costruire un gruppo».
Civati, poi, è ancora più esplicito. E immagina una sorta di sottogruppo: «C’è un’area di centrosinistra che si sta articolando, Un nuovo centrosinistra, inteso come rete di relazioni politiche. I numeri sono simili a quelli del Ncd. Ora apriamo un cantiere, lavoriamo insieme sui temi e vediamo cosa succede».
Prima, però, devono consumarsi nuovi e più traumatici passaggi.
Alla Camera, dove i numeri della maggioranza sono meno incerti che al Senato, lo strappo di Alessio Tacconi è la scintilla capace di accendere un’altra mini scissione.
Con un piede fuori dalla porta c’è Tancredi Turco. Come lui, anche Tommaso Currò e Ivan Catalano sembrano rassegnati all’addio.
E poi Marta Grande, Gessica Rostellato, Paola Pinna, Walter Rizzetto e Aris Prodani vivono con crescente malessere la battaglia che lacera il Movimento.
Gli espulsi del Senato, fra l’altro, potrebbero presto strutturarsi anche sul territorio.
Così, almeno, ipotizza un avversario interno come Riccardo Nuti: «Campanella ci dica se è vero questo simbolo: Movimenti attivisti liberi». Il senatore nega sdegnato, ma certo la partita è lontana dal fischio finale.
In fondo, è quanto profetizza anche Battista: «Cosa succede adesso? Chiedetelo al grande Fondatore…».
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
ROMANI, MUSSINI, ORELLARA, CASALETTO, BENCINI E BIGNAMI TIRANO IN FACCIA A GRILLO I SUOI SOLDI, L’UNICO REALE MOTIVO PER CUI SI E’ MESSO A CAPO DEI CINQUESTELLE
Maria Mussini, Luis Orellana, Monica Casaletto, Alessandra Bencini, Laura Bignami e
Maurizio Romani hanno formalizzato le proprie dimissioni dal Senato della Repubblica.
È questione di ore, forse di minuti, e a loro dovrebbero aggiungersi Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella e Lorenzo Battista.
Nove in tutto i senatori del Movimento 5 stelle che vogliono abbandonare Palazzo Madama in dissenso con la gestione del gruppo da parte di Beppe Grillo.
Le motivazioni sono chiaramente indicate nella lettera che Romani ha indirizzato a Pietro Grasso:
“Di mia personale iniziativa mi dimetto dalla carica di Senatore della Repubblica. Lo faccio con dolore ma con convinzione, per rimanere coerente con i miei valori e con l’impegno preso con gli elettori. Definire dissidente ed arrivare ad espellere chi pensa con la propria testa e ha il coraggio delle proprie idee è una mossa suicida; a ciò si aggiunga la rabbia e la violenza che ho visto usare verso i nostri colleghi. Non voglio essere complice di questa specie di linciaggio. In questo modo il Movimento non guadagna coesione, come dice Beppe Grillo, invece perde alcune delle sue forze migliori ed alcuni dei suoi rappresentanti più credibili”.
Analoghe argomentazioni nel testo vergato dalla Bignami:
“In seguito agli ultimi avvenimenti di cui sono stato spettatore attonito e le posizioni assunte dal gruppo parlamentare nel quale sono stata eletta desidero comunicare la mia intenzione di dimettermi dalla carica di Senatore della Repubblica”
“Mi dimetto perche’ voglio un Movimento 5 Stelle sano. Ci credo fermamente, per questo ho presentato le mie dimissioni alla presidenza del Senato”, ha spiegato la Mussini. “Stamani ho sentito l’intervendo di Battista in Aula – ha aggiunto – e non posso rassegnarmi al fatto che il Movimento si privi delle sue menti migliori”.
La strada per l’abbandono dell’emiciclo non sarà breve. Le dimissioni dovranno infatti prima essere calendarizzate e poi votate dall’Aula. E, per prassi istituzionale, la prima volta verranno respinta. Una situazione in continua evoluzione.
Alla Camera li hanno seguiti Alessio Tacconi e Ivan Catalano.
Raggiunto dall’Huffingtonpost, quest’ultimo ha ammesso: “Era una situazione che non si poteva più sopportare, non volevo più rimanere in un ambiente come quello. Ora mi prendo qualche giorno per riposare, poi vedrò il da farsi”.
La settimana prossima Gianroberto Casaleggio sarà a Roma.
(da “Huffingtopost“)
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
E UN ALTRO HACKER DIMOSTRA CHE HA POTUTO VOTARE QUATTRO VOLTE
Violato nella notte il profilo twitter della Casaleggio Associati, la società del guru del movimento 5 stelle da ieri nel caos dopo l’espulsione di 4 senatori considerati dissidenti.
E’ di mezzanotte e mezzo il primo tweet in cui, in inglese, si sbeffeggia Casaleggio per essere riusciti a violare la security del suo account.
Da lì una serie di uscite in cui si dice che la votazione sul blog di grillo per ratificare l’allontanamento di Orellana, Bocchino, Battista e Campanella è stata falsata e in cui si definisce “un colabrodo” il sito del comico genovese.
L’ultimo tweet è delle 2.52: “Il vostro guru è stato bucato. Di nuovo. I suoi account? vulnerabili. I suoi siti? idem. Tutto”.
È lo stesso Beppe Grillo ad ammettere il buco sul suo blog: Ps: Questa notte è stato hackerato l’account twitter @casaleggio, da sempre sostanzialmente inutilizzato, dal quale stanno pubblicando messaggi falsi. La Polizia postale è stata immediatamente avvertita. I responsabili sono stati denunciati.
Ma l’hacker non è l’unico a insinuare che le votazioni potrebbero essere falsate.
Anche a Gazebo, la trasmissione in onda su Rai3, hanno mostrato un filmato in cui un’altro hacker votava 4 volte bucando il sistema.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
E IN SENATO ANCHE CATALANO E TACCONI SE NE VANNO
Il sindaco M5s di Parma Federico Pizzarotti prende una posizione decisa contro l’espulsione
dei 4 senatori “dissidenti” ratificata ieri dal voto online degli attivisti. Scrive il primo cittadino sui Facebook: “Lo dico con estrema buona fede ai nostri deputati e senatori: dateci elementi sulle colpe dei quattro senatori espulsi; convincetemi su quest’azione così forte e che non concede appello, perchè io non l’ho capita. Non ho capito che cosa è stato commesso, e se ciò che è stato commesso riguarda la violazione precisa del vostro regolamento. Ho verificato le restituzioni, e sono allineate con quelle degli altri senatori. Ho controllato l’attività di questi senatori su OpenParlamento – prosegue ancora il sindaco , e oltre ad essere superiore alla maggioranza dei rappresentanti degli altri partiti, sono in linea con l’attività dei nostri altri rappresentanti. E’ stata citata la sfiducia dei territori, ma senza documentare quali sono state le modalità delle deliberazioni, le motivazioni e i votanti”.
In mattinata intanto, come anticipato già ieri, si sono registrate due nuove defezioni dal Movimento. A lasciare, alla Camera, sono stati Alessio Tacconi e Ivan Catalano.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
LA CRITICA DEI DISSIDENTI NON SOLO ERA LEGITTIMA, MA DOVEROSA: PER IL LORO CORAGGIO IL PADRONE LI HA FATTI ACCOMPAGNARE ALLA PORTA DAI SERVI
Com’era prevedibile anche il Movimento 5 Stelle sta facendo i conti in questi giorni con la peggiore malattia della democrazia italiana, il partito padronale.
I quattro parlamentari espulsi dai M5S non hanno violato alcuna regola del movimento, non hanno votato contro una proposta grillina, non hanno trafficato per ottenere una poltrona dal nuovo governo, non hanno rubato nè si sono macchiati di comportamenti immorali. Semplicemente, i quattro hanno osato criticare la performance di Beppe Grillo da Matteo Renzi. Una critica non solo legittima, ma doverosa.
L’atteggiamento di Grillo nei pochi minuti di consultazione con il premier incaricato era di un’arroganza insopportabile.
Non solo e non tanto al cospetto di Renzi, del quale potremmo serenamente infischiarcene, ma nei confronti dei militanti 5 Stelle, i quali avevano chiesto con un referendum online che il leader accettasse di partecipare alle consultazioni.
Ora, Grillo avrebbe potuto benissimo decidere da solo di non andarci.
Ma siccome è schiavo di tutta una retorica per cui lui sarebbe un semplice portavoce in un movimento dove «uno conta uno», ha finto di affidare la decisione a una consultazione.
Una volta ottenuto un risultato a lui non gradito, il sì all’incontro con Renzi, il capo ha deciso comunque di fregarsene in maniera plateale, come tutti hanno potuto vedere.
Qualunque parlamentare grillino dotato di un minimo di dignità avrebbe dovuto protestare contro un simile disprezzo della democrazia interna.
L’hanno avuta soltanto quattro.
Per questo coraggio oggi il padrone li fa mettere alla porta dai servi.
È una storia vissuta cento volte in questi venti anni, da quando la discesa in campo di Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti padronali.
E stavolta non dobbiamo prendercela con la casta, stavolta la colpa è tutta nostra, di noi italiani, sempre contenti di votare a destra, a sinistra, oppure «nè a destra nè a sinistra», partiti che hanno per unica ideologia un nome e un cognome.
Sono passati vent’anni di disastri e ancora la schiacciante maggioranza degli italiani crede alla colossale panzana che un uomo solo al comando possa garantire più efficacia, decisionismo e magari trasparenza.
In questi vent’anni i nuovi partiti padronali si sono rivelati assai meno decisionisti dei vecchi e finanche più corrotti.
Hanno garantito una penosa selezione del personale politico, miracolando corti familiari o personali d’infimo livello.
In qualsiasi Paese un simile, clamoroso fallimento avrebbe provocato una totale inversione di rotta. Invece da noi, la giusta ribellione che cosa ha prodotto? Un partito ancora più padronale degli altri, dove il proprietario ha addirittura depositato il marchio alla camera di commercio e il partito gli serve anche (o soprattutto?) per vendere la pubblicità sul blog, sempre di sua proprietà .
Non è comico, è grottesco.
Non sorprende dunque che alcune ottime persone, appassionate e in buona fede, finite quasi per caso nel mazzo dei maggiordomi di turno, si ribellino contro il padre e padrone del movimento. Stupisce semmai che siano così poche.
I dissidenti sono quattro, i solidali un’altra decina, quelli disposti a lasciare il movimento se verranno espulsi i primi, un’altra dozzina.
Ma dev’essere frustrante anche per buona parte degli altri 120 parlamentari grillini rendersi conto, giorno dopo giorno, d’essere ostaggi della semplice mania di grandezza di un leader. Grillo non vuole cambiare nulla in questo Paese, come tutti i padroni di partito che l’hanno preceduto, da Bossi e Berlusconi a Bertinotti e Di Pietro.
L’unico scopo di tutti lor signori è sfruttare le disgrazie per ottenerne vantaggi.
Se Grillo avesse voluto cambiare l’Italia, avrebbe partecipato all’elezione di un presidente della Repubblica contrario alle larghe intese.
Se poi avesse voluto abbattere davvero le larghe intese, l’avrebbe già ottenuto cercando in Parlamento alleanze su singole leggi e su sacrosante battaglie, come quella contro l’acquisto degli F35 o i diritti civili, che avrebbero inevitabilmente portato a separare la sinistra dalla destra.
Se volesse cambiare l’Italia, Grillo oggi parteciperebbe al processo di riforma istituzionale, dalla legge elettorale all’abolizione del Senato, mettendo in seria crisi il patto di ferro fra Renzi e Berlusconi.
Ma Grillo e Casaleggio sanno benissimo che qualsiasi scelta in positivo comporterebbe una perdita di consenso, a destra o a sinistra, come dimostra la vicenda dello ius soli, mentre una protesta generica contro la casta si continuerebbe a vendere benissimo sul mercato alla più vasta clientela possibile.
Si tratta di un calcolo molto cinico e quindi, per come funziona l’Italia, esatto.
Senza aver portato un solo risultato a casa in un anno intero e con un esercito di 156 parlamentari a disposizione, il M5S otterrà di sicuro un grande risultato alle elezioni europee di maggio.
Il che è del tutto inutile al Paese, ma assai vantaggioso per la Grillo&Casaleggio spa.
Questo non toglie che le brave persone, gli onesti parlamentari grillini, si ribellino a un simile scempio della volontà popolare.
I giornalisti al seguito, una categoria fiorita negli ultimi tempi intorno a Grillo come a chiunque altro abbia acquistato potere politico, sostengono che Orellana e compagnia siano in procinto di ottenere poltrone dal nuovo governo.
Penso si tratti di un’infamia lanciata contro chi dimostra un minimo di spirito critico.
È probabile che Orellana e compagni non entreranno nel governo Renzi e neppure nella maggioranza, anzi si dimetteranno come hanno fatto altri bravi e onesti militanti pentastellati prima di loro, offesi e delusi, lasciando il campo agli opportunisti.
Se sarà così, onore a loro.
Curzio Maltese
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
NON ESISTE ALCUNA REGOLA CHE IMPEDISSE AI SENATORI DISSIDENTI DI DISSENTIRE: LA DEMOCRAZIA E’ QUESTA
A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato
l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di La Democrazia in America di Alexis de Toqueville.
Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari.
E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare.
Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s.
Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo.
Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: “La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto”.
Oggi invece dobbiamo constatare che la libertà di parola nel Movimento 5 Stelle è minacciata e offesa da una brutta voglia di unanimismo.
Dalla decisione di far votare gli aderenti 5 Stelle non sulla violazione di una norma del non statuto o del codice di comportamento parlamentare, ma su una critica al Capo, o se preferite al Megafono.
Discutere se i senatori avessero ragione o torto nel prendere posizione contro le modalità con cui Grillo ha deciso di strapazzare Matteo Renzi in diretta streaming — sbattendogli peraltro in faccia molte verità difficili da contestare — non ha infatti senso.
Il dato importante è uno solo: non esisteva alcuna regola che impedisse ai senatori di farlo.
Certo, per qualsiasi movimento è fondamentale e giusto apparire unito. Ma anche se le cose sono andate così la questione non cambia di una virgola.
Punire qualcuno per dei comportamenti per i quali non sono state previste esplicitamente sanzioni non è solo liberticida.
Rappresenta un rischio per tutti: anche per coloro i quali oggi votano a favore dell’espulsione dei dissidenti.
Domani, e per un motivo qualsiasi, una nuova maggioranza potrebbe infatti votare la loro.
Consolarsi col fatto che le espulsioni (vedi il caso degli amministratori locali del Pd in val Susa fatti fuori perchè anti Tav) sono spesso la regola in altri partiti, non serve.
Il M5S dice infatti (e quasi sempre lo è) di essere diverso dagli altri movimenti politici. Per questo molti elettori, almeno a giudicare dai commenti e dalle mail che arrivano a questo giornale online, avrebbero trovato più intelligente e democratico che il Movimento, già in occasione del brutto e analogo caso di Adele Gambaro, avesse riformato il regolamento e il non statuto stabilendo con chiarezza cristallina diritti e doveri degli eletti.
Non averlo fatto lascia spazio all’arbitrio, alla legge più forte e alle espulsioni di massa.
Oltretutto votate online in blocco senza che agli iscritti fosse permesso esprimere valutazioni diverse su ogni singola posizione.
Pensare, come fa il Movimento 5 stelle, di rivoluzionare (con il voto) il Paese è perfettamente legittimo. Credere che sia possibile farlo rinunciando a dimostrare che, sempre e in ogni caso, si è meglio di ciò che si vuole combattere e abbattere non è solo sbagliato.
È stupido.
Peter Gomez
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
LA STAFFETTA NON PAGA E IL PD PERDE OLTRE IL 2% DI CONSENSI
I numeri cambiano, la sostanza rimane la stessa.
Per i sondaggisti Matteo Renzi rischia tantissimo (e questo si sapeva). La notizia è che la sua ambizione avrebbe già mietuto la prima vittima: il Partito democratico.
La fiducia nel nuovo presidente del Consiglio rimane su livelli accettabili (anche se non trascendentali), mentre le percentuali del Pd nei giorni della nascita del governo sono calate in maniera sensibile.
Antonio Noto, direttore di Irp Marketing, ha in mano i numeri freschi dell’ultimo sondaggio, realizzato dopo i due discorsi di Renzi a Montecitorio e Palazzo Madama. “Esattamente un italiano su due ha fiducia nel nuovo capo del governo. Renzi piace al 50 per cento degli intervistati. È un risultato discreto, non eccezionale: Letta era attorno al 48, mentre Monti, Berlusconi e Prodi all’inizio avevano un consenso personale più alto, tra il 54 e il 58 per cento”.
Roberto Weber, sondaggista di SWG, commenta numeri simili, leggermente più lusinghieri per il presidente del Consiglio.
Il gradimento personale di Renzi sarebbe attorno al 52 per cento, ma l’ultimo campione risale alla scorsa settimana, prima della presentazione della squadra di governo: per conoscere gli effetti dei primi discorsi del rottamatore in Parlamento bisognaaspettare ancora qualche giorno.
Su un dato i due sondaggisti non hanno nessun dubbio: gli elettori del Partito democratico sono disorientati.
La “staffetta” tra Letta e Renzi non è stata capita. E se è stata capita, non è stata apprezzata.
Secondo Irp, la settimana in cui la direzione del Pd ha sancito il passaggio di consegne a Palazzo Chigi, il partito ha subìto un’immediata diminuzione dei consensi, di circa due punti e mezzo.
“Un fenomeno di questa entità in così poco tempo è rarissimo — spiega Noto —. La ‘staffetta’ è stata vissuta come un evento traumatico. Dopo le primarie di Renzi il Pd era stabilmente sopra il 30 per cento. Prima del colpo di mano al governo era al 32. Dopo la fiducia è sceso al 29,3”.
Weber riconosce la stessa tendenza, attenuandone un po’ le proporzioni: “Il Pd ha perso circa un punto e mezzo.
Alle Europee rischia molto. I voti in uscita vanno divisi tra M5s, indecisi e Lista Tsipras. L’investimento personale su Renzi invece rimane alto: la sua figura prevale sui contenutio”.
Anche secondo Alessandra Ghisleri, di Euromedia, il blitz di Renzi a Palazzo Chigi non ha fatto bene al Pd: “Nelle ultime settimane ha perso quasi un punto e mezzo, scendendo attorno al 28 per cento”.
Ma per Ghisleri l’operazione ha macchiato l’immagine dello stesso premier: “Renzi è passato in poche settimane dal 48-49 per cento al 42-43”.
Pure le cifre sulla fiducia dell’esecutivo non sono di buon auspicio: “Il consenso sulla sua squadra non supera il 33 per cento. Un numero più basso di quello dei primi giorni del governo Letta e non molto più alto dei suoi ultimi: dopo un anno difficile e deludente, Enrico era al 24”.
Un quadro non confortante, per l’ex rottamatore. Ora Renzi deve correre.
I tre sondaggisti hanno numeri diversi, ma lo stesso, identico pronostico: “Si gioca tutto nei primissimi mesi”.
Tommaso Rodano
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 27th, 2014 Riccardo Fucile
TROPPE CIFRE SENZA REALI RISCONTRI
Matteo Renzi, con i suoi interventi programmatici in Parlamento, ha cambiato l’approccio
alle relazioni tra Italia e Unione Europea.
Per la prima volta, nelle parole di un presidente del Consiglio, non c’è la preoccupazione prioritaria di impostare la politica economica secondo le raccomandazioni, gli indirizzi o le reprimende della Commissione europea.
Non è un caso che Renzi non abbia fatto cenno alla necessità /obbligo di rispettare la regola del deficit del 3% del Prodotto interno lordo, al pareggio strutturale di bilancio, al Fiscal compact per rientrare dall’abnorme debito pubblico.
E non è un caso che abbia voluto rimarcare come il suo primo viaggio all’estero non sarà nè a Bruxelles nè a Berlino, ma a Tunisi.
Tutto ciò manda all’Europa il messaggio che, dopo la stagione dei governi tecnici o semitecnici, questo è un governo politico, senza alcun timore reverenziale verso i tecnocrati della Commissione europea.
Detto che questa mossa riequilibra un atteggiamento che in passato a tratti è sembrato di sudditanza – che oltretutto finisce per nuocere all’idea stessa di Europa unita – i problemi base dell’economia e della finanza pubblica italiane restano quelli di sempre.
Il governo Renzi potrà anche andare a Bruxelles a chiedere, e magari ottenere, più tempo per rientrare dal debito pubblico, ma se non prenderà provvedimenti efficaci e credibili dovrà fare i conti con i mercati, ai quali ogni anno l’Italia è costretta a chiedere di sottoscrivere 400 miliardi di euro in titoli di Stato.
E credibilità significa innanzitutto prendere misure che abbiano una copertura finanziaria certa .
Va benissimo promettere un taglio del cuneo fiscale per alleggerire di 10 miliardi le tasse su imprese e lavoratori, ma se si dice che questo sconto verrà coperto con il taglio della spesa pubblica per 3-4 miliardi, bisogna spiegare come.
Perchè si può avere la massima fiducia nel lavoro del commissario Carlo Cottarelli, ma è un dato di fatto che altre valide persone prima di lui, da Piero Giarda a Enrico Bondi, ci hanno provato, ma con scarsi risultati.
Che cosa è cambiato davvero per farci credere che nei 7-8 mesi dell’anno che restano si potranno risparmiare diversi miliardi?
Così come, se si dice che una parte della copertura del taglio del cuneo verrà dall’aumento del prelievo sulle rendite finanziarie per allinearlo alla media europea, bisogna che il governo non lasci i mercati nell’incertezza e chiarisca subito che cosa si appresta a fare.
Pensa di partire aumentando le tasse? Farebbe meglio a guadagnarsi prima la credibilità tagliando la spesa.
Così come non ci si può limitare, nell’annunciata riforma del lavoro, a prefigurare l’introduzione di un sussidio universale di disoccupazione senza dire almeno su che ordine di grandezza di spesa si ragiona e dove si prendono le risorse necessarie, perchè un conto è potenziare l’Aspi, cioè l’indennità introdotta dalla Fornero, e tutt’altra cosa è dare 500 euro al mese a 3 milioni di disoccupati, per un costo annuo di 18 miliardi.
Se Renzi non darà presto una risposta a questi interrogativi, che del resto lui stesso ha suscitato mettendo così tanta carne al fuoco, l’entusiasmo col quale sembra essere stato accolto dai cittadini, dalla maggioranza e dai mercati lascerà il posto a tensioni crescenti.
E a danni rilevanti.
(da “il Corriere dela Sera”)
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