Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
“SONO PIU’ I CANDIDATI CHE GLI ATTIVISTI CHE VEDIAMO SUL TERRITORIO”
I numeri sono impressionanti. 750 nel Lazio, 674 in Lombardia, 491 in Sicilia, 332 in Emilia Romagna, 262 in Piemonte.
Circa 4000 “attivisti certificati” ambiscono a un posto in lista con il Movimento 5 stelle in vista delle prossime europee.
“Sono più i candidati che gli attivisti che vediamo sul territorio”, ironizza un parlamentare.
Qualcosa in più di una battuta. La pasionaria Roberta Lombardi lo dice a chiare lettere. “Tranne una quarantina di persone – scrive su Facebook – gli altri non si sono mai visti nè conosciuti”
Un censimento completo è assai complicato, ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 4000 il lunghissimo elenco di aspiranti eurodeputati.
Che si sono ritrovati in lista avvisati da una mail a votazioni già aperte.
Niente campagna elettorale, niente pianificazione di qualche idea per l’Europa che potesse essere messa a disposizione del corpo elettorale per un voto consapevole.
Così sono fiorite strane tabelle programmatiche fatte in fretta e furia, e video di autocandidatura nei quali si spiega che “donando un rene a mia sorella ho scoperto quei valori di altruismo e bontà che poi ho ritrovato nel Grillo pensiero”.
Molte le candidature discusse.
Su tutte quella di Matteo Ponzano, storico vj de La cosa. Anche lui si è presentato con un video: “Vado in mezzo alla gente, non ho paura di farlo. Io stesso adesso non ho un mestiere, ma i soldi non sono così importanti, oltre una certa soglia servono solo a comprare i Suv. Vedete? La felpa che ho addosso non è nemmeno di marca, è del mercato”.
Molti forum stellati hanno biasimato Ponzano, tacciato di voler sfruttare il traino della sua popolarità .
Stessa accusa rivolta a Daniele Martinelli, silurato dal gruppo comunicazione della Camera dopo un’incredibile serie di gaffe e ora assiduo ospite dei salotti televisivi. Ponzano corre a Milano, Martinelli in provincia di Bergamo.
In Emilia Romagna si è presentato Dario Pattacini, già candidato sindaco per l’Idv, balzato agli onori della cronaca per la concessione di interviste televisive in cambio di esborsi di denaro, oggi spesso impegnato con Nicola Virzì (alias Nick il Nero, stretto collaboratore di Claudio Messora), nella realizzazione di video per il blog di Grillo.
Nel Lazio spunta il nome di Leonardo Metalli, giornalista Rai, storico supporter del Movimento, autore de “L’urlo della rete”, il primo inno del popolo di Grillo, poi sostituito da Ognuno vale uno.
Curiosa la presenza in lista di Attilio Anitori. Concorrerà per rappresentare le 5 stelle a Strasburgo, mentre a Roma la sorella, Fabiola, senatrice, ha sbattuto la porta e si è andata a sedere tra i banchi del gruppo misto di Palazzo Madama.
Nutrita la lista dei collaboratori parlamentari in cerca di un posto al sole, che deluderanno il deputato Walter Rizzetto, autore di un (profetico?) tweet in mattinata.
Tenteranno di fare il grande salto (tra gli altri) Fabio Massimo Castaldo, ombra di Paola Taverna al Senato, Vincenzo Gulisano, che supporta il lavoro del questore del Senato Laura Bottici, Alessandro Marchi, che collabora con la senatrice Elisa Bulgarelli, il critico Lorenzo Andraghetti, assistente di Paolo Bernini, Ivan Pastore, che coadiuva l’onorevole Sebastiano Barbanti, Emanuele Menicocci, che nel Cv di candidatura candidamente afferma di essere “assistente parlamentare della Cittadina 5 stelle in Senato Elena Fattori”.
Stasera solo in cinque avranno un posto in lista assicurato. Solo i primi per ogni circoscrizione elettorale. I migliori secondi si sfideranno in una sorta di secondo turno. Che vinca il migliore.
Si fa per dire.
(da “Huffingtonpost“)
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
FORMIGONI PROVOCA: “LA CAMPAGNA ACQUISTI DI BERLUSCONI CHE INGAGGIA STORACE E’ UGUALE A QUELLA DEL MILAN”
Storace torna con Berlusconi e su twitter scoppia la rissa.
Ad aprire il fuoco è Roberto Formigoni che twitta: “La campagna acquisti di Berlusconi che ingaggia Storace è malinconicamente eguale alle campagne acquisti del Milan”.
Storace risponde subito: “Sei abituato a farti comprare evidentemente. Ma sicuramente non sarà vero”, e lancia l’hashtag #ClubDeiRosiconi.
A questo punto arriva anche il cinguettio di Alberto Zangrillo , il medico del Cav: “Formigoni, ma lei che ha l’impudenza di attaccare anche il Berlusconi sportivo, da quanti anni entra gratis a San Siro?”.
Formigoni però rilancia: “Ah, dimenticavo, la campagna di Forza Italia si rivolge anche a cani e gatti: anche loro fan parte della rivoluzione liberale…”.
E ancora: “La notizia del giorno è che Berlusconi e Storace fanno alleanza per le Europee ma in Europa si separeranno, la coerenza è il loro forte”.
Schifani all’attacco
Il leader de La Destra allora ci va giù pesante: “Oppure (in Europa) ci andiamo in vacanza. A spese nostre”. Così a dare una mano a Formigoni arriva Renato Schifani: “Nel 2008 Storace era troppo estremista, adesso invece va bene! Cosa non si fa per non scendere sotto il 20%… Basterà ?”, chiede polemico.
A questo punto interviene Gasparri, in soccorso di Storace e attacca Schifani: “Ognuno badi alla sua percentuale, c’è chi rischia di non raggiungere il quorum minimo del 4%. Nel 2008 il veto su Storace lo aveva messo Fini, come sai”, risponde polemico.
Storace infierisce: “Deve giustificare se stesso, Schifini, l’ex seconda caricatura dello Stato merita di entrare nel club dei rosiconi”. S
chifani non è solito twittare col coltello tra i denti, a differenza dei suoi avversari: ” Non eri tu che richiamavi ad un linguaggio più consono su twitter? Amnesia o malafede?”.
Formigoni allora torna alla carica: “Vedo grandissima agitazione dalle parti di Storace e Forza Italia. Ragazzi, capisco le vostre angosce ma più vi agitate più godono gli altri. Occhio”.
m.m.
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
CON QUALE SISTEMA DI CAMBI INTENDONO SOSTITUIRE L’EURO?… UN PO’ DI STORIA SERVE A CAPIRE
Fatico molto a considerare un successo il fatto che Marine Le Pen abbia ottenuto il 6% dei voti (sul 61,5% dei votanti) e conquistato il 2% dei 600 comuni in cui erano presenti suoi candidati (su oltre 36.000 che andavano al voto).
E mi lascia ancora di più perplesso che la questione euro sia stata determinante per la conquista di primarie località francesi come Bèziers, Frejus e Hènin-Beaumont.
La perplessità è confermata dalla lettura del programma del Front National (fermo alle presidenziali del 2012): all’euro è dedicata una pagina e poco di più (la n. 68), su 106 di sciocchezze tardo ottocentesche, in cui si dice candidamente che si vuole tornare al franco francese. E basta.
Mi dispiace per la sovrappesata signora transalpina, ma non basta.
Perchè una domanda si impone: e poi, cosa succede?
Non mi riferisco tano alle temute conseguenze economica (svalutazione, inflazione, tassi di interesse), sulle quali, bene o male, un po’ di discussione c’è.
Parlo di qualcosa di più strutturale: quale sistema monetario, quale sistema di cambi fra le monete hanno in testa la Le Pen e, con lei, i Grillo, i Maroni, i Salvini, le Meloni e compagnia?
E la risposta mi sembra quella che consente loro la competenza in materia: nessuna. O, almeno, nessuna è quella che sembrano dimostrare.
Il problema è che un sistema di cambi tra diverse monete non può non esserci.
Anche la sua assenza è un sistema, detto di cambi flessibili, che si contrappone al sistema opposto, quello dei cambi fissi.
E, per capire cosa convenga di più, ancora una volta la storia ci può dare una mano.
Fino alla prima guerra mondiale vigeva il gold standard, un sistema di cambi fissi in cui le monete si scambiavano fra loro in base al valore in oro.
Squilibri economici interni o esterni venivano rimessi a posto, in linea di massima, modificando i prezzi di beni e servizi all’interno dei singoli paesi, per rendere i prodotti nazionali più o meno competitivi rispetto a quelli esteri.
È quella che oggi si chiama fiscal devaluation; un’idea che era anche di Keynes, per inciso.
Dopo la guerra si cercò di restaurare il sistema precedente, ma il tentativo fallì. Dal 1931-1932 il sistema monetario fu a cambi flessibili: esso si frammentò in alcune aree, dove le monete dei singoli paesi erano agganciate alle valute più importanti, come dollaro, sterlina, franco, marco, ecc.
Fu un periodo caotico, fatto di svalutazioni competitive e dazi doganali crescenti, ai quali si cercava di porre rimedio con l’autarchia o con un complicato sistema di accordi bilaterali fra i singoli stati. Il commercio mondiale ristagnò (tavola 1), la Grande Depressione, anzichè risolversi, peggiorò e la speculazione finanziaria si scatenò, sfruttando il nuovo giocattolo dei cambi flessibili.
Con il secondo dopoguerra tutti gli stati furono d’accordo per tornare a un sistema ordinato di cambi quasi fissi, stabiliti con riferimento al dollaro, il quale era a sua volta convertibile in oro.
Quasi fissi, perchè era ammessa un oscillazione dell’1% e perchè erano possibili modifiche consistenti dei cambi, ma solo in presenza di forti squilibri economici.
Era il sistema detto di Bretton Woods, che accompagnò (non senza qualche difficoltà , per franco e sterlina, ad esempio) la più formidabile espansione economica della storia mondiale.
Nel 1971 Nixon annunciò che il dollaro non era più convertibile in oro e mise fine al sistema di Bretton Woods. Si tornò a un sistema di cambi flessibili, accompagnato, guarda caso, dagli stessi simpaticoni degli anni Trenta: crisi economica e speculazione finanziaria.
La Tobin Tax, volta a combattere quest’ultima, fu proposta nel 1972 e aveva ad aggetto proprio per le operazioni in cambi.
Un sistema di cambi flessibili poteva (forse) funzionare per le principali economie, come USA, Giappone, Germania.
Per gli altri paesi europei (Gran Bretagna, Francia e Italia comprese) avrebbe significato restare in preda alla speculazione; per l’Europa nel suo insieme avvitarsi in una spirale di svalutazione e protezionismo, come negli anni Trenta, spaccando il mercato unico costruito con tanta fatica nei tre-quattro lustri precedenti, garanzia non solo di prosperità , ma anche di pace.
Particolare, quest’ultimo, che dovremmo sempre tenere a mente.
L’alternativa era secca: o allinearsi a una moneta (il marco, di fatto) o creare un’unione monetaria.
Il primo tentativo (subito fallito) fu il serpente monetario europeo (1972), seguito dallo SME — Sistema Monetario Europeo (1979). Quest’ultimo era un sistema di cambi fissi, ma con bande ampie di oscillazione (2,25% per tutti e 6% per la lira) e possibilità di svalutazioni e rivalutazioni (i “riallineamenti”).
Ebbe un successo limitato: nei 14 anni di vita ci furono 16 riallineamenti e alla fine, nel 1993, crollò.
Da lì venne la decisione di creare una moneta unica, che altro non è se non un sistema di cambi fissi irrevocabili, senza bande di oscillazione e senza riallineamenti.
Perchè una scelta così radicale? Proprio sulla base dell’esperienza dello SME: si era visto che la possibilità di svalutazioni e riallineamenti invogliava attacchi speculativi, con la finalità esplicita di provocare la crisi di questa o di quella moneta, come avvenuto, da ultimo, nell’estate del 1992.
In conclusione, gran parte del secolo e passa che abbiamo alle spalle lo abbiamo trascorsi con cambi (quasi) fissi; e, per quanto i cambi fissi (e la moneta unica) possono aver creato dei problemi, non sembra che il passaggio ai cambi flessibili abbia risolto veramente quei problemi.
Chi pensa di costruire la propria sopravvivenza politica al grido del “no all’euro”, dovrebbe ricordarsi — o imparare una volta per tutte — che alla moneta unica ci siamo arrivati non per capriccio, ma perchè gli altri sistemi hanno fallito in passato.
E non si vede ragione per cui dovrebbero riuscire in futuro.
Ma anche ammettendo di farla finta con l’euro, il quadro non cambierebbe molto.
La tanto rimpianta sovranità monetaria, oggetto più di vacua retorica che di seria riflessione, sarebbe pura illusione (come già era): o finirebbe di nuovo con lo scomparire in qualche meccanismo di accordo di cambio più o meno rigido o ci darebbe, se presa alla lettera con monete nazionali liberamente fluttuanti, la stessa autonomia di una noce di cocco in mezzo ai marosi dell’oceano, con in più il rischio di andare ugualmente a fondo.
E se qualcuno, in Italia, si illude di potersela cavare con qualche svalutazione competitiva, si legga bene il programma di madame Le Pen: a pagina 73 prevede “diritti doganali al fine di ristabilire una giusta concorrenza con i paesi il cui vantaggio concorrenziale risulta da … manipolazioni monetarie”, oltre a un prelievo del 3% su tutte le importazioni. Il che conferma che cambi flessibili e protezionismo vanno a braccetto e che il beggar-thy-neighbour è la politica economica degli stupidi. E che bisogna non averlo ancora capito per dare retta al M5S, alla Lega o a Fratelli d’Italia.
Ernesto Maria Ruffini
(da “L’Espresso“)
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
QUANDO L’EFFICIENZA DI CUI SI VANTA MORETTI NON CORRISPONDE ALLA REALTA’
Tra tutte le orribili esperienze che possono capitare in treno, la richiesta di un rimborso per un ritardo è di quelle che marchiano a fuoco il viaggiatore.
Gli può tener testa solo il combattimento con un controllore testardo su una faccenda che già dal nome fa venire l’orticaria: l’obliterazione del biglietto.
Decine di casi di entrambi i tipi sono state raccolte da diverse associazioni, dal Codacons ad Atc (Associazione tutela del consumatore), da Cittadinanza attiva a Federcosumatori Abruzzo a Confconsumatori, e inviate all’Antitrust.
Che ha aperto due distinti procedimenti nei confronti di Trenitalia
Nel caso della richiesta del bonus, l’Autorità per la concorrenza sospetta che l’azienda ferroviaria bari a più non posso scoraggiando «le istanze degli utenti con una pluralità di comportamenti che renderebbero, in concreto, difficoltoso e in alcuni casi impossibile, il godimento degli indennizzi».
In pratica per il viaggiatore farsi pagare il bonus sarebbe una specie di caccia al tesoro. I tecnici dell’Antitrust hanno individuato almeno 5 ostacoli e trucchetti di Trenitalia per non pagare.
Primo: la richiesta al cliente di un contatto preliminare con un call center, per di più a pagamento.
Della serie: intanto tu viaggiatore paga e poi si vedrà se tocca anche a me Trenitalia. Secondo: l’elaborazione di una casistica «assolutamente discrezionale» in cui nonostante il ritardo sia accertato, il ritardo stesso come per incanto sparisce.
Terzo: anche quando il ritardo è accertato, Trenitalia sostiene che la colpa non è sua. Quarto: quando la richiesta di rimborso non viene accolta, il rifiuto viene comunicato in modo laconico «con scarsa motivazione».
Quinto: i tempi. Trenitalia si concede la bellezza di 21 giorni per accertare se un suo treno ha ritardato e per verificare se il cliente ha diritto al rimborso.
Quando poi si arriva al dunque sul sito www.treni  talia.it   ogni tre per due salta proprio la sezione «richiesta indennizzo». E sicuramente sarà un caso.
Queste le accuse dell’Antitrust.
Anche l’obliterazione spesso è un incubo.
Il regolamento ferroviario prevede inflessibile che il cliente possa viaggiare solo dopo aver obliterato il biglietto, operazione che consiste nel segnare sul ticket con una macchinetta o a mano la data e l’ora del viaggio in modo che lo stesso biglietto non sia utilizzabile una seconda volta.
L’intento ha una sua logica, l’applicazione sovente no.
Istruttiva l’esperienza raccolta da Cittadinanza attiva di una viaggiatrice su una tratta regionale umbra.
La poveretta aveva obliterato con una penna, ma il controllore non ha voluto sentir ragioni e applicando il regolamento l’ha multata senza pietà .
Soprattutto nelle stazioni più piccole i viaggiatori sono spesso costretti a obliterare a mano, dal momento che le macchinette apposite o non ci sono o sono fuori uso, scassate da tempo.
Alle Ferrovie italiane non viene in mente di comportarsi come le altre aziende ferroviarie d’Europa dove acquistare un biglietto in treno non è considerato un comportamento sospetto, ma una normalità .
Daniele Martini
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
DOVE PORTA LA LIBERALIZZAZIONE: STIPENDI TAGLIATI DEL 30%
Inizia oggi il presidio ad oltranza per le centinaia di dipendenti della Croce Rossa piemontese.
Un decreto del governo Monti ha dato il via alla privatizzazione delle Cri.
Tra gli effetti dell’attuazione del decreto c’è il passaggio, per i dipendenti, da un contratto pubblico a uno privato.
“Ci tagliano il 30 per cento dello stipendio — spiega Gianni Perotta della Cgil- senza averci interpellato. Far diventare la Croce Rossa un ente privato significa trasformarci in un’azienda a fine di lucro. Questo avrà delle ripercussioni sulla qualità del servizio”.
In un primo momento la privatizzazione interesserà oltre 4mila dipendenti su tutto il territorio nazionale: “Stiamo parlando del 30 per cento in meno — dice un manifestante — su uno stipendio da 1500 euro. Intanto il nostro presidente nazionale guadagna in un anno quello che noi percepiamo in 20 anni di lavoro”.
Negli ultimi anni si sono susseguiti diversi scandali legati alla gestione della Croce Rossa, il più importante quello della Regione Sicilia, dove è intervenuta anche la Corte dei Conti.
La Cri siciliana è già stata privatizzata già da alcuni anni, permettendo l’assunzione di oltre 3mila dipendenti, molti a tempo indeterminato, con un rapporto che superava le dieci unità per ogni ambulanza a disposizione sull’isola.
La privatizzazione voluta da Monti doveva risolvere le carenze strutturali del più grande ente umanitario italiano che da si è ormai trasformato in un carrozzone parastatale che controlla poco e male i comitati locali.
Non esiste, per esempio, una tesoreria unica a livello nazionale, che controlli l’operato di ogni singolo comitato lasciando così la possibilità di creare buchi di bilancio che sommati tra loro superano i dieci milioni di euro
Cosimo Caridi
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
SORPRESA ADDIZIONALI, SALE IL PRELIEVO
In attesa dei tagli Irpef promessi da Matteo Renzi sotto forma di detrazioni, c’è da fare i conti con il prezzo delle addizionali regionali e comunali imposte dagli enti locali. Tanto che a maggio, se il premier manterrà il suo impegno, gli 80 euro medi mensili di aumento per i ceti medio-bassi serviranno a recuperare, e a dire il vero in molti casi a superare, quanto perso in queste ore.
Infatti, con la busta paga di marzo, piomba una mini stangata sugli stipendi.
I cedolini sono infatti appesantiti dagli acconti e dai saldi dell’Irpef federalista.
Con aggravi che, in alcune città e in alcune regioni, sono particolarmente gravosi. Molti amministratori locali hanno ritoccato le aliquote.
E il risultato lo fotografa un’indagine della Uil: nella busta paga i lavoratori dipendenti e pensionati italiani dovranno versare mediamente 97 euro complessivi, pari al 29,3% in più rispetto allo stesso mese del 2013, con una punta record a Roma. Nel dettaglio, l’indagine sindacale (elaborazione su un reddito di 23 mila euro ) mostra che per l’Irpef regionale, in questo mese, sono trattenuti mediamente 59 euro, a fronte dei 49 dello scorso anno (+20,4%), mentre per l’Irpef comunale si verseranno 38 euro rispetto ai 26 del 2013 (+46,1%).
L’IMPATTO
In termini assoluti, è l’Irpef regionale la posta che determina i prelievi più pesanti. Sono 4 i governatori che hanno aumentato le aliquote.
E dunque in Lazio, Piemonte, Liguria e Umbria l’acconto dell’addizionale relativa al 2014 salirà rispetto all’anno scorso.
In particolare nel Lazio, dove l’aliquota è stata trascinata dall’1,73 al 2,33%.
Per quanto riguarda l’Irpef comunale (in questo mese si paga il saldo del 2013 più una parte del 30% di acconto del 2014 ), ci sarà l’effetto dei ritocchi di aliquota decisi dai comuni lo scorso anno.
Nelle grandi città come Roma (la più tartassata con un’aliquota dello 0,9% ) l’acconto e il saldo peseranno mediamente 139 euro (83 euro per l’Irpef regionale e 56 euro per quella comunale).
E per dare un’idea della situazione, un impiegato pubblico della Capitale titolare di un reddito di 20 mila euro pagherà 90 euro in più rispetto al marzo dell’anno scorso. Prelievo da 126 euro a Torino, da 123 euro a Napoli e di 115 euro a Genova. L’indagine Uil parla di un salasso federalista destinato a durare
Alla fine del 2014 l’Irpef locale complessiva peserà mediamente 564 euro (+12,1% rispetto all’anno scorso).
Infatti su 140 Comuni che hanno già fissato le aliquote Irpef 2014, ben 54 (pari al 38,6% ) hanno aumentato il prelievo.
Si tratta di aumenti dolorosi in quanto, ricorda il sindacato “le addizionali si pagano sull’intero imponibile e non tengono conto delle detrazioni per la produzione del reddito”.
Così il conto finale di quest’anno, per lavoratori e pensionati, sarà salatissimo.
L’Irpef regionale passerà mediamente dai 363 euro del 2013 ai 409 del 2014 (+12,7%), con picchi di 536 euro nel Lazio (+34,3%) e 490 in Piemonte (+25,3%). L’Irpef comunale salirà invece dai 140 euro medi trattenuti in busta paga nel 2013 ai 155 medi di quest’anno (+10,7%), con punte di 207 euro a Roma e 184 a Napoli, Milano e Torino.
Numeri alla mano, un impiegato con un stipendio di 2 mila euro, dal 2010 al 2013, ha versato ben 189 euro di Irpef comunale in più.
Con un aumento del 30%.
Michele Di Branco
(da “il Messaggero”)
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
DA MESI NON SI VEDE A LEZIONE O AGLI ESAMI
Un professore praticamente scomparso.
Dario Nardella, vicesindaco di Firenze e fresco vincitore delle primarie Pd per la scelta del candidato primo cittadino, rischia di essere travolto dai suoi impegni.
Il prestigioso incarico in Comune gli ha infatti sottratto tempo da dedicare ai suoi studenti di Storia e tutela dei beni artistici, cattedra della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Firenze che vede il vicesindaco Nardella da anni professore a contratto.
Negli ultimi mesi, gli studenti del corso di laurea triennale che dovevano sostenere l’esame con lui di Legislazione dei beni culturali ne hanno perso le tracce.
Vibrate le proteste sia su Facebook che su Twitter.
L’ultimo rendez vouz con Nardella è stato infatti il 10 febbraio scorso, quando dopo una serie di innumerevoli sforzi sono riusciti a fissare un appello per consentire ad alcuni studenti prossimi alla laurea di sostenere l’esame.
Un altro che “rischia la faccia” come il suo capomanipolo, insomma.
Potere delle potrone.
(da “L’Espresso”)
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
C’ERA UNA VOLTA IL PAESE DEI FANNULLONI
Il lavoro può rendere “schiavi” non solo perchè sotto-pagato.
Salari e stipendi più bassi, spesso al limite della soglia di povertà , costringono infatti a lavorare più a lungo.
La tendenza in atto ad allungare gli orari di lavoro era chiara, in fondo, nel piano di Marchionne per Pomigliano, prima, e per tutta la Fiat, poi.
Riduzione delle pause da 40 a 30 minuti, riduzione della pausa mensa, portata a fine turno. Non è un caso, quindi, che qualche settimana fa un’altra azienda, l’Alcoa di Venezia, abbia ipotizzato di abolire la pausa mensa perchè l’intervallo per recarsi a pranzare era troppo lungo.
L’idea, dopo le proteste degli operai, è rientrata ma resta indicativa di una tentazione.
C’era una volta il paese dei fannulloni
Eppure l’Italia, secondo l’Ocse, è uno dei paesi dove si lavora di più, il secondo tra quelli dell’Europa occidentale dopo la Grecia paesi in cui si lavora per 2.034 ore medie annue a persona. In classifica scorrono i paesi dell’Europa dell’est, la Russia, la Turchia e gli Stati Uniti ma al tredicesimo posto troviamo l’Italia con 1.752 ore medie annue a persona (dati Ocse, 2012). In Francia sono 1.479, in Germania 1.393, in Spagna 1.666.
La media dell’area euro è di 1.557, molto al di sotto di quella italiana.
Quindi, a dispetto delle tradizionali battute sugli italiani “fannulloni”, il nostro paese è collocabile più nella fascia dei paesi emergenti che in quelli pienamente sviluppati dove pure figura.
Sul piano della produttività , ovviamente, il discorso cambia: per ogni ora lavorata, infatti, il prodotto interno lordo italiano, 46,7 dollari, è sotto la media dell’area euro pari a 52,9 dollari. La Germania produce in ogni ora 58,3 dollari, la Francia 59,5 mentre gli Stati Uniti arrivano a 64,5 dollari.
La produttività , però, dipende da numerosi fattori come lo stato delle infrastrutture, l’innovazione industriale, l’organizzazione del lavoro e, comunque, non elimina il fatto che nel nostro paese si lavori molto
E sempre più si lavorerà , come nel resto dell’occidente, in seguito allo sviluppo di organizzazioni del lavoro basate su internet. L’impatto delle nuove tecnologie sta modificando in profondità il rapporto con il lavoro e per capirne la portata occorre guardare a quanto avvenuto alla Bmw, la casa automobilistica tedesca. In seguito all’accordo raggiunto il mese scorso, infatti, l’orario di lavoro comprenderà anche le ore passate dai dipendenti fuori dall’azienda, in operazioni di lavoro, su computer, smartphone o anche solo ricevendo e trasmettendo mail.
Le ore passate su internet, per conto dell’azienda verranno conteggiate in un conto globale del dipendente e quindi detratte dal proprio orario
L’accordo tedesco mette in evidenza un aspetto apparentemente secondario degli orari di lavoro, e di vita, ma facilmente misurabile da chiunque sia abituato, o costretto, a “portarsi il lavoro a casa”.
In realtà , anche il ritorno a casa dal lavoro è cambiato. Da diversi anni, infatti, la prima serata tv è slittata dalle 20,45 – l’orario di inizio dei film o degli spettacoli di circa venti anni fa-alle attuali 21,30.
Le mail della Bmw cambiano l’orario settimanale
Un modo per adattare la tv allo slittamento degli orari anche se, a giudicare dalle molte proteste degli utenti, il ritardo serale impatta negativamente su famiglie che devono alzarsi molto presto per andare a lavoro.
Il problema degli orari e del “rientro a casa” e quindi della gestione delle famiglie, è stato preso molto seriamente qualche anno fa dall’Ufficio “per la pastorale della famiglia” e da quello “per i problemi sociali e del lavoro” della Conferenza episcopale italiana.
Quando, nel 2007, monsignor Nicolli e monsignor Tarchi hanno presentato il convegno “Un lavoro a misura di famiglia” hanno utilizzato la testimonianza di una giovane “lavoratrice madre “madre lavoratrice”: “Esco da casa alle 6,30 e rientro alle 19,30. Da quando mi sono sposata l’orario di lavoro è diventato insostenibile, soprattutto dopo la nascita del mio primo figlio che oggi ha due anni e mezzo. Nonostante il mio titolo di studio e il lavoro che svolgo, percepisco una retribuzione al netto tra i 1.100 e i 1.200 euro mensili”.
Il marito ha gli stessi orari e percepisce lo stesso reddito. “Rientrati a casa – continua la signora trentenne – nonostante la stanchezza della giornata lavorativa, ci occupiamo di tutte le faccende domestiche: cena da preparare, camere da riordinare eccetera. Oltre a queste attività io e mio marito cerchiamo di dedicare le attenzioni necessarie a nostro figlio che vuole giocare, vuole le coccole che alla sua età sono più che normali. Dopo cena, mentre mio marito lava i piatti e sistema la cucina, io mi occupo di preparare il bimbo per la notte e se tutto va bene per le 23:00 siamo tutti a letto”.
Il giorno dopo, ovviamente, si ricomincia.
Salvatore Cannavò
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Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
“HO 35 ANNI, SONO UN MEDICO CON DOTTORATO E MASTER, COME PATOLOGO PRENDO TRA I 700 E I 1200 EURO: ALMENO DIECI ORE AL GIORNO, PIÙ SERA, E A VOLTE NOTTE E WEEKEND”
È giovane e curata, ti serve il caffè con un sorriso. E tu sorridi di rimando, come se la cabina di un aereo consentisse, almeno per un po’, di lasciare a terra gli incubi di poveri e sfruttati che popolano le nostre città .
Ma Sonia, hostess di 28 anni, non lavora per la nota compagnia di volo low cost di cui indossa la divisa, ma per un’agenzia interinale che fornisce “materiale umano” alle compagnie aeree.
Come racconta il sindacato FamilyWay, Sonia ha speso 3.000 euro per il corso di formazione, 325 euro per la divisa.
Oggi non ha un contratto ed è pagata a ore: 15,33 euro per ora di volo, per uno stipendio di 1100 euro.
Se è malata non guadagna e in più paga le tasse — dal maggio del 2012 — in due paesi.
Provate a distrarvi, leggendo le notizie sull’Ipad.
Aprendo un importante sito di informazione, potreste incappare nell’articolo di Francesca, giovane neomamma.
Scrive per diversi siti che fanno capo a un’unica società , con cui ha un contratto di collaborazione occasionale.
Guadagna 20 euro per 7 pezzi (4 ore), 40 per 14 (8 ore): 2,85 euro a pezzo, calcola, mentre “la signora delle pulizie di mia madre prende otto volte tanto”.
Quando, infine, atterrate all’aeroporto, magari progettato da un’archistar milionaria, potreste pensare alla storia di Alessandra, architetta entrata nel 2009 in un prestigioso studio di progettazione internazionale.
Oggi pratica la “libera” professione con partiva Iva, ma in realtà ha orari stabiliti (10 ore, sabato compreso), postazione fissa, assenze detratte dallo stipendio, obbligo morale di non lavorare con altri committenti, per 1700 euro al mese.
Tante? “Provate a togliere 366 euro di Iva non scaricabile, 300 euro di inarcassa, 500 euro di affitto, spese per l’assicurazione, la formazione, il commercialista e l’ordine. Cosa rimane?”.
Se è il pubblico a sfruttare
Hostess, giornalista, architetto: tre lavori che vent’anni fa erano considerati prestigiosi e remunerativi.
Oggi chi rientra in queste categorie, specie se giovane, è entrato nella fascia sempre più popolosa dei working poor. Quelli che un lavoro ce l’hanno, e quindi dovrebbero ritenersi fortunati rispetto ai colleghi Neet che non studiano nè lavorano.
E invece riescono a malapena a sopravvivere, persi in un girone infernale e ormai incontrollato di sfruttamento, lavoro dipendente mascherato da partita Iva, contratti parcellizzati.
Dove il compenso arriva come un osso spolpato, senza più intorno contributi, tutele per malattia e maternità . Più che precari, come la politica continua genericamente a chiamarli, veri neo-schiavi
Paola è una delle migliaia di precari della scuola.
“Lo stipendio varia a seconda dei giorni lavorati: se lavoro un giorno, guadagno 40 euro, se non lavoro per una settimana consecutiva non ho la disoccupazione”.
Tutte le mattine dell’anno Paola deve restare nella sua città , reperibile al telefono alle otto, per sostituire nel giro di dieci minuti un’insegnante che si assenta.
“Se non rispondo, precipito in fondo alla graduatoria. L’altra mattina mi hanno chiamato alle 11.45 per un ingresso alle 12.30 in una scuola a 50 km da casa: come si può vivere così?”.
La storia di Paola racconta di un ulteriore e inquietante tassello, e cioè il fatto che ormai il pubblico assomiglia sempre più al peggior privato.
Vale per la scuola, vale soprattutto per l’università , oggi un terreno desertificato da tagli e blocco delle assunzioni.
Francesca, ricercatrice sociale da dieci anni, sopravvive con un contratto di collaborazione con l’Università di Milano di poche centinaia di euro e deve continuare a pubblicare per avere chances di lavoro, “anche se ormai ai concorsi si presentano persone di 45 anni già abilitate come professori associati”.
Monica, 900 ore di insegnamento agli stranieri alle spalle tra università , accademie e studenti Erasmus, continua a guadagnare dieci euro l’ora.
E oggi si trova a competere con un girone di disperati costretti al volontariato coatto pressoassociazioni che si spartiscono il mercato dell’italiano agli immigrati, nell’indifferenza del ministero.
Anche nel settore sanitario specializzandi e medici sono costretti a lavorare sempre più ore e sempre per meno, tanto che spesso il privato è l’unico sbocco.
“Ho 35 anni, sono un medico specialista con dottorato e master”, dice Filippo: “Come ricercatore prendo 1200 euro dall’Università , poi lavoro come patologo clinico in una clinica privata con partita Iva (tra i 700 e i 1200 euro): almeno dieci ore al giorno, più sera, e a volte notte e weekend”.
Ancora peggio se la passa chi, da privato, con il pubblico ci lavora.
Come Laura, che ha una piccola società di ricerca: “I bandi pubblici prevedono budget sempre più leggeri, qui siamo ipercompetenti eppure guadagniamo 800 euro al mese, senza tredicesima ferie, tfr”.
“Sono un’archivista specializzata, emetto fatture anche per cinquanta euro”, aggiunge Sara, “ma lavorare con un pubblico che ti paga in ritardo perchè crede che la cultura sia un privilegio è umiliante”.
Dipendenti e non, tutti sottopagati
L’altro fenomeno di questa Italia dove il ceto medio lavorativo sta scomparendo è che dipendenti e autonomi finiscono ormai per assomigliarsi, sovrapporsi, confondersi.
Il gap tra tutelati e non, che le famose riforme avrebbero dovuto avvicinare, si sta assottigliando: perchè le protezioni stanno sparendo per tutti.
I primi con stipendi che non crescono, oppure cassintegrati e “solidarizzati” — è la storia di Katia, impiegata di Alitalia Cai, oggi in cassa in deroga al 40% con uno stipendio di 500 euro al mese, quando arriva — oppure messi nei più bizzarri part time: come Francesco, che per 18 mesi ha lavorato in un’azienda nel settore delle rinnovabili con part time al 30% per 400 euro al mese.
I secondi precipitati dai contratti a progetto al lavoro occasionale o a partita Iva, oppure a pigione.
“Dopo anni di contratti di collaborazione”, racconta Chiara, traduttrice specializzata due bimbe di 3 e 5 anni, “oggi lavoro con diritto d’autore: guadagno poco, e i soldi arrivano sessanta giorni dopo”.
“Lavoravo in una rivista specializzata di architettura”, racconta Luigi: “base di 300 euro più un tot per ogni abbonamento chiuso, un incubo”.
Così, molti sono costretti a tornare al lavoro nero, magari a fare lavori di pulizia o babysitteraggio. “Sono laureata in scienze sociali”, spiega Marta, “ma oggi l’unico reddito certo è fare la family helper, per 500 euro al mese”.
Anche Margherita, 44 anni, dipendente part-time di una farmacia, si è messa a fare le pulizie. “Non voglio essere messa in regola, altrimenti tolte tasse e contributi cosa resta per me e mia figlia?”
All’impoverimento materiale si sta aggiungendo, ancora più doloroso, quello affettivo.
Così, mentre è sempre più difficile fare figli, quasi tutti raccontano di giovani amici e parenti volati via: “Non è giusto”, commenta Sabrina, “che la mia famiglia sia sventrata per colpa del lavoro che non c’è”.
“Il Quinto Stato”, l’hanno battezzato Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, autori dell’omonimo libro e del blog “La furia dei cervelli”.
“Avvocati, medici, insegnanti, lavoratori dell’intrattenimento e dell’arte: tutti si sono proletarizzati”, spiega Ciccarelli.
“Tornare indietro non si può, ma servirebbero riforme radicali: salario minimo, reddito minimo, riforma delle tutele, riforma radicale dell’Inps, riforma del diritto del lavoro. Di certo non se ne esce con il Job Act. Semmai, ci vorrebbe la rivoluzione”.
Elisabetta Ambrosi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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