Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile INTERVISTA AL CORRISPONDENTE DEL “SUDDEUTSCHE ZEITUNG”
“Meno male che Renzi aveva promesso una politica nuova. A me questa sembra una storia vecchia”. C’è tutta la severità di chi non è abituato ad avere a che fare con certi problemi nelle parole di Andrea Bachstein, corrispondente del quotidiano tedesco Sà¼ddeutsche Zeitung da Roma.
È in Italia da quattro anni, ma ancora non riesce a capire “come sia possibile che un politico inquisito non si dimetta subito”.
Un ministro e quattro nuovi sottosegretari sono indagati. Che effetto fa su uno straniero una situazione simile?
Mi stupisco ancora. Da noi certe cose sono inconcepibili. Le faccio un esempio recente: il ministro dell’Agricoltura, ed ex ministro dell’Interno , Hans-Peter Friedrich si è appena dimesso. È accusato di avere violato il segreto d’ufficio fornendo informazioni su un’indagine al partito avversario, l’Spd. Era il periodo della Grosse Koalition e l’ha fatto per impedire che al politico inquisito fosse assegnato un incarico. Eppure, quando è emerso che aveva violato la legge si è dimesso immediatamente. Certi errori non si possono fare, altrimenti ne soffre tutto il governo.
Ti sei fatta un’idea del perchè in Italia non funzioni così?
La cultura qui è molto diversa. Il caso più clamoroso è quello di Silvio Berlusconi: nonostante tutto — i processi e gli scandali — lui è rimasto sempre, sempre, sempre (lo ripete tre volte, ndr) attaccato al suo ruolo. Non so come spiegarlo ai miei connazionali, da noi i cittadini sono più severi con i politici. Non serve nemmeno un processo, basta un comportamento a rischio per perdere la fiducia.
Qui il ministro ai Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha detto che essere inquisiti non è una ragione sufficiente per venire esclusi dal governo.
Invece certe cose vanno chiarite prima di ricevere un incarico. Chi non è completamente a posto va escluso. Al contrario qui è pieno di politici sotto processo. Magari non sono tutti colpevoli, ma non è questo punto. Vanno esclusi comunque.
Se lo aspettava dal rottamatore?
No, questo è un brutto incidente per Matteo Renzi. Non doveva succedere. Ha promesso che avrebbe guidato un governo nuovo, composto da uomini e valori diversi da quelli della vecchia politica. Non mi sembra sia così. Ho sentito ministri dire “io non mi dimetto perchè so fare bene il mio lavoro”. Sarà anche vero, ma un’indagine rimane comunque un’indagine.
Cosa si fa in Germania in questi casi?
Si salta un giro: prima ti fai processare, poi fai il ministro. Certo, va detto che i tempi della giustizia in Italia non aiutano. In Germania sono molto più rapidi e questo è un enorme vantaggio per i cittadini, che hanno diritto di sapere in fretta se votano una persona onesta o no.
Quali sono gli effetti del malcostume sul rapporto tra eletti ed elettori?
Qui ho trovato tanta gente che ha perso ogni fiducia e ora è arrabbiata. In pochi credono ancora che la politica possa cambiare. In realtà un miglioramento, rispetto a qualche anno fa, credo ci sia stato, ma poi basta uno scandalo come quello dei rimborsi nelle Regioni per rovinare tutto. Che personale mediocre, per non dire di peggio .
E infatti tre sottosegretari (Umberto Del Basso De Caro, Francesca Barracciu e Vito de Filippo) sono indagati per vicende di peculato mentre ricoprivano incarichi in Regione.
Questa è una cosa orribile. Chi è coinvolto in questi scandali per principio non dovrebbe avere la possibilità di fare politica. Qui invece fanno perfino il salto dalla Regione al governo. Il Movimento 5 Stelle ha provato a risolvere il problema candidando solo persone senza esperienza politica, ma questo crea un problema di competenze. Per migliorare le cose basterebbe così poco, basterebbe un po’ di prudenza.
Alessio Schiesari
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile INTERVISTA AL CORRISPONDENTE DI “LIBERATION”
Non è solo l’Inghilterra, dove i ministri si ritirano perchè la colf non è in regola, a sottolineare
l’anomalia italiana.
In Francia, racconta il corrispondente da Roma di Libèration, Eric Jozsef, c’è una legge non scritta: “Risale all’inizio degli anni ’90, da quando sono emersi vari scandali, tra cui quello dell’ex deputato Bernard Tapie. È una regola introdotta dai socialisti e mantenuta poi da quasi tutti i governi, anche di destra: quando un ministro o un sottosegretario viene raggiunto da un avviso di garanzia, semplicemente, si deve dimettere.
Il ministro Boschi invoca a gran voce la presunzione d’innocenza.
Non sono pochi i politici che hanno lasciato e sono stati poi scagionati. In Italia poi il problema è ancora più pronunciato, perchè i tempi della giustizia sono molto lunghi. Ma ammettiamo che Renzi – invece di adottare la regola più normale, cioè di mandare a casa queste persone – scelga una linea politica più garantista, analizzando i singoli casi. A quel punto deve affrontare un nodo politico.
Quale?
Perchè il sottosegretario Antonio Gentile se ne va e gli inquisiti del Pd no? Il Nuovo centro destra dovrebbe trarne le conseguenze. E poi c’è un aspetto anche più delicato: non era Renzi a insistere, quando il premier era Letta, sul fatto che chiunque ha un problema con la giustizia o adotta comportamenti non opportuni deve mollare la poltrona?
È sorpreso?
L’aspetto inquietante è che queste persone, nel momento della nomina, erano già inquisite. L’intransigente linea francese colpisce quei politici che vengono raggiunti da avvisi di garanzia dopo aver assunto l’incarico, non prima. In questo caso li hanno scelti deliberatamente, pur sapendo che sono sotto inchiesta. Lo trovo perlomeno curioso.
Per i renziani Francesca Barracciu non era candidabile in Sardegna perchè accusata di peculato aggravato, ma nessuno ha obiettato quando è sbarcata ai Beni Culturali. Qual è la logica?
Il fatto è che questo governo, così come il suo premier, è afflitto da un grave problema di coerenza politica. In un Paese come l’Italia, tra i più corrotti in Europa, ci si aspettava un esecutivo ineccepibile. Soprattutto considerando che Renzi pretende di presentarsi come un grande rinnovatore.
“A noi il compito di ridare credibilità alla politica”, cinguettava.
Infatti quello che sta lanciando non è un bel messaggio. D’altronde aveva già smentito se stesso annunciando il voto nel 2015. Ora parla del 2018. Giurava anche che non avrebbe pugnalato Letta e l’ha fatto lo stesso.
La professoressa Carlassare ha fatto notare che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, avrebbe potuto impedire la nomina di sottosegretari sotto inchiesta. Invece il veto è caduto solo sul pm antimafia Nicola Gratteri.
Gratteri avrebbe rappresentato un messaggio molto forte, che avrebbe fatto credere a un vero impegno per il rinnovamento. E poi che bisogno c’era di nominare chi ha problemi giudiziari? Possibile che non ci fosse nessun candidato in quota Pd senza macchia e senza ombre?
E perchè, secondo lei, Renzi si è piegato?
Per motivi interni al partito, per accontentare varie correnti e per rispettare gli equilibri territoriali. Per le pressioni. Renzi ha cercato di soddisfare un po’ tutti: non penso, per esempio, che volesse nominare Gentile, ma ha dovuto farlo. Proprio come è accaduto a Letta, costretto a virare su sottosegretari imbarazzanti. Insomma, è la solita, vecchia politica. Sempre quella.
Beatrice Borromeo
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile CAMPANELLA: “IO HO SEMPRE RESTITUITO TUTTO, GRILLO CONTROLLI PIUTTOSTO QUALCHE AMICO SUO, MAGARI SCOPRE CHE HA ASSUNTO IL CONVIVENTE”
«Ah, quanta cattiveria che si respira… Nessuno stupore, non poteva che finire così…». La senatrice Laura Bignami si avvia rassegnata verso la sala assemblee del Movimento.
Poche ore prima Beppe Grillo, prendendo a sassate il totem regolamentare, l’ha buttata fuori assieme ad altri quattro colleghi.
Un’epurazione pianificata e fortissimamente sollecitata dal quartier generale della Casaleggio associati.
Sul terreno restano soprattutto rapporti umani distrutti. E una scia di veleno lunga così. «Con le espulsioni – sorride Riccardo Fraccaro – il M5S si libera dalle tossine».
Ormai si procede con quattro o cinque purghe alla volta.
È il leader a fotosegnalare sul blog Maurizio Romani, Maria Mussini, Alessandra Bencini, Monica Casaletto e Bignami.
Nel post Grillo ricorda le dimissioni, «gesto politico in aperto conflitto e contrasto con quanto richiesto dal territorio, stabilito dall’assemblea dei parlamentari, confermato dai fondatori e ratificato dagli iscritti ».
La colpa, insomma, si riassume nella strenua opposizione alla cacciata di alcuni colleghi.
Troppo, per chi ha in mano l’infallibile arma del blog.
Il clima è di totale, assoluta incomunicabilità . Al bancone della buvette Vito Crimi quasi appoggia le spalle a quelle della Bencini. Si sfiorano e però si ignorano. Scoccano le 17, i cinque si avviano in assemblea.
Camminano quasi per mano, uno al fianco dell’altro, come per darsi coraggio.
Dentro, poi, si battono per ore. Ne sortisce effetto una mediazione fuori tempo massimo – «se cambiamo insieme il regolamento del gruppo, ritirate le dimissioni? » – di un super falco come Laura Bottici.
Una che definisce i giornalisti «avvoltoi» e ha già attaccato i dissidenti evocando il concetto di sabotaggio.
Nessuno, comunque, cambia opinione. Urla e lacrime rendono la porta della sala riunioni quasi un orpello.
«Una dinamica del genere è distruttiva della nostra azione – grida Mussini – Qui c’è chi vuole la guerra, ci sono dei caduti. Voi pensate: “ci siamo liberati di quattro che rompevano i coglioni e ora ne facciamo fuori altri cinque”. Ma dal giorno delle espulsioni non c’è stata alcuna riflessione, anzi è partito il treno, è ricominciato lo stesso meccanismo ».
Anche un ortodosso come Alberto Airola si sfoga, amaro: «Scusate, questa situazione mi ha molto provato. Non c’è dialogo da parte di nessuno. Nessuno ».
Bencini trattiene a stento le lacrime, sembra quasi chiedere aiuto ai cronisti: «Tutti a casa? Sono io che voglio tornare a casa mia».
Fumano tutti. Una cronista becca Andrea Cioffi sulla soglia del bagno con una sigaretta in bocca. Il senatore desiste.
In assemblea c’è chi difende gli espulsi, anche se i 13 fuoriusciti hanno ridotto di molto la pattuglia delle colombe.
Nel gruppo – oggi a quota 41 senatori – volano soprattutto falchi. A sera, comunque, le dimissioni restano sul tavolo. «Nessun giochino – urla Romani – siete voi che mi buttate fuori. Non c’è scritto da nessuna parte che mi dimetto dal Movimento».
Si rivedranno lunedì. Solo allora si capirà se altri parlamentari preferiranno la via dell’esilio dal Movimento.
I nomi degli ultimi malpancisti – ancora indenni dall’epurazione – sono quelli che circolano da tempo: fra gli altri Michela Montevecchi, Ivana Simeoni, Cristina De Pietro e Giuseppe Vacciano.
«Io penso – è facile profeta Luis Orellana – che non è finita e altri usciranno».
Gli espulsi, intanto, si organizzano.
Entro martedì dovrebbero avviare ufficialmente l’iter per dar vita a un nuovo gruppo parlamentare. Li osserva Sel: «Insieme per una nuova maggioranza? Manca la premessa – risponde la capogruppo vendoliana Loredana De Petris – e cioè la volontà di Renzi. Noi comunque già ci raccordavano e ci raccorderemo con il nuovo gruppo. Poi tra tre mesi chissà … ».
Mentre il conflitto infiamma, il cofanetto dei veleni sembra destinato a schiudersi.
Sui soldi, ad esempio: «Ho sempre restituito tutto – assicura Francesco Campanella – ma tra i talebani si dovrebbero fare più controlli. C’è anche chi ha assunto il convivente ».
Gli espulsi Lorenzo Battista e Orellana, nel frattempo, ricevono una lettera di minacce con proiettili. E a complicare il quadro, si sparge la voce che alla radice del dissidio tra Grillo e Federico Pizzarotti ci sarebbe stata anche una mail inviata dal primo cittadino di Parma agli altri sindaci grillini per chiedere di prendere le distanze in blocco dalle espulsioni del Fondatore.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile “LA SMETTANO DI SCIMMIOTTARE LA STORIA, I SIMBOLI DA SOLI NON BASTANO”
“Fa riflettere il modo con cui i dirigenti di Fratelli d’Italia tentano di far risorgere Alleanza
Nazionale. Dopo aver furbescamente inserito il simbolo, seppur in formato bonsai, nel loro logo elettorale celebrano questo fine settimana il congresso nazionale a Fiuggi”.
Non le manda a dire Gianfranco Fini agli ex colleghi di An alla vigilia dell’Assise.
Il suo è un vero e proprio attacco, una tirata d’orecchie come non se ne sentivano da un po’. “Dico ai Fratelli d’Italia di smetterla di scimmiottare la storia. Per sopravvivere e superare il 4% alle europee serve loro qualcosa di assai più convincente che una scampagnata semiclandestina a Fiuggi. La storia di AN, di cui anch’essi fanno parte, non merita di ripetersi in farsa”.
“Mi sembrano bambini cresciuti, e viziati, che vogliono imitare i fratelli maggiori senza capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse. Rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra”, conclude Fini.
“Anche per questo – rileva Fini nella sua riflessione – non comprendo come un uomo come La Russa, che nel 1994 c’era e con un ruolo da protagonista, non abbia ricordato a Giorgia Meloni, che all’epoca aveva 17 anni, solo poche verità :
1) A Fiuggi la destra italiana trasformò radicalmente se stessa perchè “uscì dalla casa del padre con la certezza di non farvi mai più ritorno”.
Il documento congressuale è entrato nella storia politica per il suo contenuto, per i valori che faceva propri, l’identità che definiva per il nuovo partito, i programmi che presentava agli italiani. Ne parlarono, spesso con scetticismo, i commentatori di mezzo mondo perchè nessuno credeva fossimo capaci di tanto.
2) Tutto fu possibile perchè la stragrande maggioranza della classe dirigente dell’epoca (Rauti fu la sola eccezione) capì che il grande successo dei candidati missini nelle amministrative del 1993 imponeva di passare dalla protesta alla proposta, dalla nobile testimonianza ideale alla concreta assunzione di responsabilità , dalla opposizione al sistema alla elaborazione di una cultura di governo.
3) Tanti italiani, anche autorevoli, che mai avevamo fatto politica a destra si unirono a noi per far nascere Alleanza Nazionale. A Fiuggi la destra non cambiò nome, mutò identità e prospettive”.
“Per evidenti ragioni di buon gusto – prosegue Fini – non sta a me chiedere quanto fu importante la leadership dell’epoca. Certo furono determinanti il momento storico, la congiuntura politica. Onestà vuole che si ammetta che non tutto andò poi come avevamo sognato. Ne ho scritto in altra sede (il libro ‘Il ventennio’) e mi sono assunto, traendone le conseguenze, le mie responsabilità
I simboli da soli non bastano. Alla destra servono idee nuove e prospettive credibili in materia di integrazione europea, mercato del lavoro e politiche economiche, welfare, legalità e sicurezza, diritti civili.
Soprattutto serve, certamente non ultima per importanza, chiarezza sulle future alleanze.
Ancora e ad ogni costo con Berlusconi, perchè altrimenti non si entra in Parlamento, oppure il congresso di Fratelli d’Italia indicherà un’altra prospettiva?
E quale, punto di domanda.
Senza una risposta era meglio convocare l’assise altrove.
Perchè il confronto con il passato sarà inevitabilmente impietoso”, conclude.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile LA FAMIGLIA GUIDI LEGATA IN AFFARI DA VENTI ANNI A UN FINANZIERE AMICO E SPONSOR DI RENZI
Il ministro Federica Guidi ha conflitti d’interesse?
La domanda risuona dal giorno della sua nomina allo Sviluppo economico, ministero chiave anche in vista delle prossime nomine nelle partecipate di Stato (Eni, Enel, Terna, ecc…), ma ieri l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha sciolto il dubbio sostenendo che no, la Guidi non ha conflitti in essere visto che si è dimessa, subito dopo la sua nomina, da tutte le cariche aziendali e dagli incarichi ricoperti.
Poi, però, è arrivato l’Espresso e il refrain del conflitto è tornato a risuonare dalle parti di viale America.
Già , perchè la famiglia Guidi, sostiene il settimanale, sarebbe legata da almeno 20 anni con un finanziere amico intimo e sponsor del premier Matteo Renzi, Vincenzo Manes.
Questione di scambi azionari, operazioni immobiliari, alleanze industriali e anche di nomine pubbliche.
Manes (che il padre della ministra, Guidalberto, ha rivendicato come suo amico personale da una vita) è presidente e socio di controllo del gruppo Intek.
“Il rapporto tra il finanziere e la famiglia del ministro dello Sviluppo economico — si legge sull’Espresso — risale addirittura al ’94, quando il capo di Intek rilevò il 37,5 per cento dell’azienda bolognese dove Federica Guidi ha lavorato fino a pochi giorni fa alle dipendenze del padre Guidalberto. I Guidi si sono ricomprati quella quota nell’ottobre del 2011, ma restano legati a Manes”.
“A parte gli ottimi rapporti personali, la Ducati paga l’affitto al gruppo Intek, proprietario dell’immobile di Borgo Panigale dove si trovano fabbrica e uffici dell’azienda. Inoltre l’amico di Renzi è ancora creditore della famiglia per un milione”.
Con Renzi, Manes avrebbe un rapporto che si è poi consolidato dentro la Fondazione Open che fa sempre capo al premier, oltre a essere approdato, nel 2010, alla presidenza dell’Aeroporto di Firenze, dove è rimasto per i successivi tre anni, eletto in consiglio su indicazione della giunta Renzi”.
“I Guidi invece — conclude l’articolo subito trovato un nuovo alleato; uscita di scena Intek, nel capitale di Ducati è entrata a fine 2012 la finanziaria pubblica Simest sborsando 8 milioni per il 15 per cento del capitale. Solo un anno prima Manes si era accontentato di 3,8 milioni in cambio della sua quota del 37,5 per cento”.
Insomma, legami davvero intricati che la dicono lunga sul perchè la Guidi è arrivata sulla poltrona più alta del Mise.
Inoltre c’è la frequentazione di Arcore, che non è mai stata negata dal ministro, ha solo detto di “non essere stata a cena” a casa di Berlusconi la sera prima della nomina, mentre non è stata smentita la frase che avrebbe pronunciato il Cavaliere alla notizia dell’investitura ufficiale della Guidi: “Abbiamo un ministro!”.
Parole di giubilo dettate da semplice amicizia personale? Non proprio.
Nelle mani della Guidi, infatti, potrebbe restare una questione molto delicata, la Rai, che Renzi — a quanto si apprende — non vorrebbe mettere nelle mani del neo sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli.
La Guidi, insomma, si troverebbe a dover gestire, già a fine 2014/inizio 2015 la delicata, delicatissima partita del rinnovo della concessione tra tv pubblica e Stato, quella che garantisce l’introito principale alla Rai, ovvero il canone.
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile “DA FRANCESCO SOLO PAROLE, MAI UN TENTATIVO DI RICOMPOSIZIONE”… LA REPLICA: “NON SCIOLGO UN PARTITINO PER ENTRARE IN UN ALTRO PARTITINO, IL PROGETTO ERA UN ALTRO”… DUE PARODIE DI DESTRE AL SERVIZIO DI SILVIO
I militanti ci avevano sperato, ma ad oggi l’ipotesi di un unico partito di destra, che potesse
ripercorrere l’epopea di Alleanza Nazionale si fa sempre più remota.
Tra Giorgia Meloni, leader di Fdi-An, e Francesco Storace, animatore de La Destra, volano gli stracci.
L’ultima puntata di un rapporto controverso che, tuttavia, negli ultimi mesi aveva fatto segnare anche qualche tentativo di riavvicinamento, sta nelle parole – durissime – che l’ex ministro della Gioventù ha vergato in una lettera aperta a Storace: «Caro Francesco – scrive la Meloni – continui a scrivere della tua delusione per tutto quello che io e noi non avremmo fatto per dare una speranza alla destra italiana. Ma i fatti dicono un’altra cosa. Dicono che da una parte c’è stato chi ha avviato un percorso lungo, pieno di segnali e tentativi. Imperfetto magari, ma animato da uno sforzo continuo e progressivo per far nascere un nuovo soggetto politico fondato sullo spirito di Fiuggi di Alleanza Nazionale».
A Storace, la Meloni rimprovera di non aver «fatto mezzo passo in avanti per dimostrare che – al di là delle parole – tenevi davvero a ricomporre la destra».
«Oggi che vorresti ancora una volta scaricare la responsabilità su di noi, io non ci sto» continua la leader di An.
Che solo alla fine prova a tenere ancora una finestra aperta: «Hai detto che la tua Direzione Nazionale deciderà il da farsi questo venerdì (oggi, ndr). Se all’esito non fosse più di chiusura preconcetta ma prendesse atto del definitivo e importante percorso da noi compiuto non potremmo che esserne felici».
La direzione nazionale de La Destra – che anticipa di un giorno il congresso di Fdi-An che si terrà domani e domenica a Fiuggi, là dove vide la luce, 19 anni fa, Alleanza Nazionale – rappresenta quindi uno snodo cruciale.
Anche se al momento una ricomposizione appare impossibile.
«Ci sarà la mia relazione – spiega Storace – su quella che è la situazione attuale nel centrodestra, anche alla luce delle regole dell’Italicum. Non si parlerà solo di collocazione elettorale, perchè un partito è anche una comunità . Ma poi, inevitabilmente, ci chiederemo in quale contenitore continuare a far valere la nostra testimonianza».
Ma, pur riservandosi di non portare in direzione una posizione predefinita, l’ex governatore del Lazio non sembra propenso a unire la sua strada con quella di Fdi-An: «Un vero leader – attacca – cerca di accattivarsi gli alleati, non di insultarli. Io ero disponibile a fare un nuovo grande partito di destra, ma se devo sciogliere il mio partitino per entrare in un altro partitino non sono d’accordo».
Sullo sfondo, l’ombra di una possibile intesa con Forza Italia.
Ieri sera, infatti, Storace ha varcato i cancelli di Palazzo Grazioli per incontrare Berlusconi. Ignoti – ma ipotizzabili – i contenuti del colloquio.
(da “il Tempo“)
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile CHIESTO IL RINVIO A GIUDIZIO PER RIVA, IL GOVERNATORE PUGLIESE E ALTRI 51 INDAGATI
“Sono stato ricevuto dal senatore Kerry a Washington o da Schwarzenegger come leader di una posizione ambientalista… E poi vengo rappresentato come uno che ride dei tumori… Insomma, capisce bene che per me non è una grana giudiziaria, è essere spellato vivo, è essere mutilato della cosa più importante che ho accumulato nella mia vita, che è la reputazione… ”.
Si chiude con queste parole, il 23 dicembre scorso, l’interrogatorio di Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, accusato di concussione, dalla procura di Taranto, nell’inchiesta sull’Ilva.
Si chiude dopo sei ore e mezza di risposte che non convincono l’accusa: ieri la Procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio, per Vendola e altri 53 indagati (50 persone fisiche e 3 società ), confermando l’accusa di concussione.
Per decenni — commenta Vendola — a Taranto nessuno ha visto niente e troppi hanno taciuto. Io no. Per decenni gli inquinatori hanno comprato il silenzio e il consenso politico, sociale e dei media. Io no. Infatti non siamo accusati di corruzione. Siamo accusati di essere stati compiacenti, a titolo gratuito, nei confronti dell’Ilva. Accusati in un processo in cui tutti i dati del disastro ambientale sono il frutto del nostro lavoro”.
Ben 258 le parti lese dall’inquinamento dell’Ilva individuate dalla Procura. Rischiano di andare a processo il deputato di Sel Nicola Fratoianni, l’assessore regionale all’Ambiente Lorenzo Nicastro (Idv), accusati di favoreggiamento personale nei confronti di Vendola che, secondo l’accusa, avrebbe esercitato pressioni sul direttore dell’Arpa Giorgio Assennato per “ammorbidirlo”, indagato anch’egli di favoreggiamento nei confronti del presidente pugliese. Chiesto il rinvio a giudizio per un intero sistema politico: il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano (abuso d’ufficio), l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, l’ex assessore provinciale all’Ambiente Michele Conserva.
E poi il gruppo Riva: il ‘patron’ Emilio, il vice presidente del gruppo Riva Fire Fabio Riva, il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante E il responsabile delle relazioni pubbliche, Girolamo Archinà . .
Reati che variano dall’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale all’avvelenamento di acque e sostanze alimentari.
Il verbale di Vendola è zeppo di “non ricordo” e anche di un’accusa al Fatto Quotidiano che, in esclusiva, sul proprio sito web, pubblicò la telefonata in cui il Presidente, ridendo con Archinà , assicurava che non si sarebbe defilato.
“Hanno avuto bisogno di manipolarla un po’ — dice Vendola — di tagliarla e di rimontarla…”. Falso. Il fattoquotidiano.it   pubblicò sia la versione integrale della telefonata, sia quella montata, ma nessuna versione manipolata.
E sulla risata con Archinà — che aveva strappato il microfono a un giornalista che faceva domande – , Vendola commenta così: “Ho avuto la sensazione di averlo offeso, perchè ridevo di lui, del suo scatto felino, scatto da servitor zelante, questo era il motivo esclusivo della risata…”.
E su un testimone scovato in esclusiva dal Fatto , a un certo punto, verte l’interrogatorio a Vendola. L’argomento è cruciale per l’accusa: la riunione del 15 luglio 2010, dopo la quale, i Riva, in un’intercettazione commentano: “Tieni presente che già psicologicamente, ieri, è avvenuto questo: Assennato è stato fatto venire al terzo piano però è stato fatto aspettare fuori… come segnale forte…”.
“Io non ho memoria di Assennato — risponde Vendola — non era nel palazzo, non era nel mio campovisivo… non lo convocammo nel corso della riunione… non ricordo che nessuno l’abbia convocato con un sms…”.
Eppure il testimone rintracciato dal Fatto , interrogato dalla procura, conferma di aver incontrato Assennato in uno stato d’animo “rassegnato” proprio nei corridoi della Regione.
“E quando? — risponde Vendola — A che ora? Mi risulta che avesse un appuntamento con l’assessore Nicastro alle 10… è arrivato in anticipo a un appuntamento che aveva con Nicastro… non con me…”.
“Ricorda — continua il pm Piero Argentino — se qualcuno dei partecipanti lasciò la riunione per andare a parlare con Assennato?”. “No”.
Sono, troppi i “non ricordo” di Vendola, e tutti su episodi cruciali per l’accusa che gli viene mossa. Il suo è un interrogatorio costruito su flussi di coscienza: “Ma lei pensa che io potessi anche soltanto pensare di delegittimare Assennato? Ma Assennato per me è un eroe… è un prototipo umano…”.
E ancora: “Mi scrivono molti bambini… ho una discreta corrispondenza epistolare con i bambini… raccolgo le loro lettere e i loro disegni… pubblichiamo — se posso consegnarvelo — questo libro ‘Sognando nuvole banche’, con una piccola prefazione scritta da me, che consegnerò a Berlusconi quando chiederemo un intervento del Governo su Taranto e sull’Ilva…”.
Oppure: “Quest’indagine mette in discussione tutto quello che ho fatto nella mia vita… da quando ho preso coscienza delle problematiche ambientali… che ho fatto a Brindisi, a Taranto, tutte le volte che ho dormito davanti alla centrale di Montalto… La storia s’incaricherà di dire che mentre un Governo nazionale faceva un regalo ai Riva, forse in cambio della vicenda Alitalia, un governo regionale cercava disperatamente un gancio normativo per impedire che quel decreto, del governo Berlusconi, chiudesse i conti con il benzo(a)pirene nella città di Taranto…”.
E inoltre: “La prima domanda che ho fatto a Riva è stata: ‘Lei è credente?’, glielo chiedo perchè dovremo parlare a lungo di diritto alla vita’”.
La procura, però, vuole risposte sugli appuntamenti con Archinà , sugli incontri tra quest’ultimo e Assennato, tra i suoi funzionari e il direttore dell’Arpa o lo stesso Archinà .
Ma è una sequenza di “non ricordo”.
Ricorda invece di essere stato “prigioniero nell’ufficio di Gianni Letta”, in un tavolo tecnico a Palazzo Chigi.
Antonio Massari
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile L’EMENDAMENTO SULLA PARITA’ DI GENERE NON VA BENE A CHI VUOLE AVERE MANO LIBERA NELLA COMPOSIZIONE DELLE LISTE
Sarà interessante vedere il governo Renzi passare dalle parole ai fatti, ora che tutti sono a
bordo.
Ora che, pazienza per l’overbooking, si è trovato un posticino per tutti – incerti, ex nemici, ultimi arrivati e pecorelle smarrite nella stiva.
A decollo avvenuto il primo nodo al pettine, chi l’avrebbe detto, riguarda le donne.
Sempre lì s’inceppa il meccanismo della propaganda. Una piccola cosa: che volete che sia al cospetto della soglia di sbarramento, del modello strutturale di riferimento, del ruolo del Senato e dei vincoli costituzionali, per esempio.
Eppure, ogni volta daccapo, è lì che alzano le mani i professionisti di meccanica elettorale: quando davvero, ma davvero, bisogna garantire che uomini e donne abbiano la stessa possibilità sostanziale di essere eletti. Sostanziale oltrechè formale.
Dunque succede che, di fronte ad un emendamento sulla parità di genere firmato da parlamentari di molti gruppi e partiti politici, il relatore esprima parere negativo, il governo taccia un momento di troppo e l’agognata riforma, il cosiddetto Italicum, interrompa la sua marcia trionfale e vada in stallo per mezza giornata.
Allarme nel pannello di comando, pericolo di caduta, i calcoli di aula fanno temere il peggio, meglio riprendere quota e aspettare. Il voto slitta a lunedì.
Combinazione vuole, è proprio un caso ma si sa che il caso è un mistero trasparente e luminoso, che la tre giorni di sosta attraversi l’8 marzo.
Una festa, la Festa della Donna, che molti – persino molte donne – hanno ormai in uggia, la giudicano più o meno sottovoce stantia e retorica: a cosa serve un giorno all’anno, la vita è tutti i giorni, il merito prescinde dal sesso eccetera.
Benissimo, ammettiamo che.
Andiamo a vedere però le ragioni reali per cui una richiesta semplice e sensata come quella della parità fra uomini e donne nelle liste elettorali (cinquanta per cento di capolista, alternanza uno a uno e non a blocchi perchè è chiaro, e noto per esperienza, e reso manifesto dal buon senso che se in una circoscrizione elettorale un partito ha la forza di eleggere due parlamentari mettere una donna al terzo posto è un esercizio di stile, salvo sorprese) dunque vediamo perchè no.
La voce del Transatlantico è molto chiara, tutti sanno perchè: perchè chi fa le liste – i Denis Verdini, gli uomini neppure tanto ombra dei partiti – vogliono avere le mani libere.
Vogliono essere loro a decidere, ancora una volta, chi sarà eletto e chi no. Certo, con un margine di rischio perchè l’elettorato può essere imprevedibile. Ma con un margine minimo, diciamo.
Vogliono garantire chi deve essere garantito: i fedeli, i devoti, quelli che poi saranno grati e obbedienti. Anche le donne possono essere fedeli e non leali, certamente. Tutto attorno abbiamo fior di esempi. A maggior ragione quindi – anche nell’antica ottica della concessione dall’alto – non dovrebbero esserci problemi. Invece ci sono.
È una vecchia storia. Renzi ha fatto un governo 50 e 50 (ci sarebbero anche i sottosegretari, ma quelli sono meno vistosi dunque si contano meno) e ha abolito il ministero delle Pari Opportunità , che per un momento alla vigilia aveva pensato per Ivan Scalfarotto, gay e paladino dei diritti delle minoranze.
Poi Giovanardi in pubblico e Alfano in privato hanno avuto da ridire. È pur sempre un governo di larghe intese, questo, per quanto – rispetto al precedente – di più aggressive e meno miti pretese. Perciò il gruppo di parlamentari Pd, Ndc, Sel, Scelta civica e vari altri minori – le firmatarie dell’emendamento che ha provocato lo stallo, non sono fra loro Forza Italia e Cinque Stelle – non possono contare sul sostegno istituzionale di un ministro.
Ci fosse stata, per dire, Iosefa Idem, la volta scorsa si sarebbero rivolte a lei.
Ma la volta scorsa la legge elettorale non era all’ordine del giorno. La palla non si trova mai col piede. Ora che tutto marcia, manca il referente.
Laura Boldrini, presidente della Camera, ha ricevuto le deputate facendo presente che ben due articoli della Costituzione, il 3 (uguaglianza) e il 51 (pari opportunità ) sono dalla loro. I senatori del Pd hanno sottoscritto un appello. Sel chiede il voto palese, non si vede perchè sull’uguaglianza di genere ci debba essere libertà di coscienza da tutelare. Eppure non basta. È il governo che deve parlare. È Renzi che deve mettere dentro i fatti l’abilità che manifesta a parole.
Si dice spesso che la vera parità sarà raggiunta quando ci saranno nei posti di comando tante donne incapaci quanti uomini inetti solitamente ci sono. È una ben triste battuta.
È purtroppo già spesso vero che anche gli uomini ricoprono incarichi di prestigio in quanto “uomini di” – di corrente, di riferimento, di un leader – quanto accada alle donne che di rado, anche a questo giro di governo, possono essere identificate non solo in base ai loro meriti ma per essere piuttosto “donne di”. Indicate da. Volute da. In confidenza con.
Negli stessi giorni in cui si discute la legge elettorale si chiude a Roma un magnifico incontro di Women in diplomacy, convegno di giovani diplomatiche del Mediterraneo voluto da Emma Bonino, ottimo ministro degli Esteri non sponsorizzato da alcuna frazione di corrente per la conferma. Nei medesimi giorni in cui si osserva la pausa di riflessione, 8 marzo compreso, la Lego manda in produzione tre figurine che rappresentano una chimica, un’astrofisica e una paleontologa. Le affianca alle tradizionali signora col gattino, alla cuoca e alla giardiniera col grembiule.
Anche in questo caso c’è voluta una potente raccolta di firme, in azienda non gli era venuto in mente. Strano. Perchè le scienziate (anche quelle italiane, buongiorno Fabiola Gianotti) sono parecchie, cucinano anche e a volte hanno un gatto.
Magari a Renzi questa cosa della Lego interessa. Magari, domani sabato 8, pensando al pupazzetto dell’astrofisica (ne ha avuta una eccelsa Firenze, un saluto Margherita Hack) butta un occhio all’emendamento sulla parità .
Aspettando Godot, lunedì.
Concita De Gregorio
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Marzo 7th, 2014 Riccardo Fucile PALAZZO CHIGI MANDA UNA VELINA AI GIORNALI: “SAPEVAMO CHE I NUMERI NON ERANO GIUSTI”… POI IL RIPENSAMENTO: “NON C’È BISOGNO DI NUOVE MANOVRE”… IL NIPOTE NON REPLICA, SACCOMANNI SàŒ
“Sapevamo che i numeri non erano quelli che raccontava Letta, ma siamo gentiluomini e non abbiamo calcato la mano”. La velina dello staff di Matteo Renzi, mercoledì sera, è arrivata puntuale ai grandi quotidiani che l’hanno fedelmente riportata nelle edizioni di ieri.
In sostanza, il presidente del Consiglio — reagendo alla bocciatura della Commissione europea degli squilibri strutturali italiani — sostiene che Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni abbiano truccato il bilancio dello Stato.
Non certo un’informazione da affidare a un sms senza commento, questa è l’era Renzi: velocità , leggerezza, un piglio dilettantesco che riesce contemporaneamente a essere cinico e naà¯f.
C’è un problema: su queste materie non è lecito scherzare, buttare lì una frase e poi correre a parlar d’altro, a far cantare altri scolari.
Se i conti non sono a posto e — come ha spiegato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan al Sole 24 Ore — noi abbiamo intenzione di rispettare i parametri di bilancio, allora c’è bisogno di una manovra correttiva sul 2014.
Non sia mai, tanto Palazzo Chigi che il Tesoro hanno dovuto smentire questa eventualità , che semplicemente discende logicamente dalla frasetta consegnata dal premier alla stampa.
Nel pomeriggio, poi, Renzi — dopo aver partecipato a Bruxelles al vertice europeo sull’Ucraina — ha tagliato corto: “Non abbiamo rassicurazioni da dare. L’Italia sa perfettamente quello che deve fare, lo sa da sola e lo farà , consapevole che oggi la priorità per il nostro Paese sono crescita e lavoro”.
Chiarimenti? Niente da fare: “Scusate, devo andare: ho una cena col segretario di Stato americano Kerry”. E via di corsaverso palazzo Taverna a Roma.
E i “truccatori” di bilanci? Enrico Letta, che è in vacanza in Australia, è furioso, ma non ha detto una parola pubblica sull’argomento, e così si sono regolati anche i parlamentari a lui vicini.
La risposta è stata affidata all’ex ministro Fabrizio Saccomanni, il quale — per così dire — non ha gradito e ha inviato una email a molte redazioni per definire le parole di Renzi “commenti incomprensibili e immotivati”.
Quanto alla Commissione, ha scritto, “non ha fatto alcuna analisi ex-post della contabilità nazionale, bensì ha ribadito la divergenza tra le proprie stime e i nostri obiettivi per l’anno in corso”.
E pure sul debito, sarebbe bene che Bruxelles ricordasse “i versamenti ai fondi europei salva-Stati e l’operazione straordinaria di pagamento dei debiti delle Pa concordata con la stessa Commissione”.
Concludendo, in serata, via radio: “Escludo nel modo più assoluto che vi siano buchi” nei conti pubblici “o che vi sia bisogno di manovre correttive”.
Anche Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio del Pd e un tempo molto vicino all’ex premier, usa parole dure: “Frasi incredibili. Mi auguro che Renzi le smentisca”.
Chi ha ragione? Tanto Saccomanni che la Commissione, in realtà .
Il report sugli squilibri di Bruxelles è diventato una notizia per due soli motivi: l’imprudenza di Renzi nel commentare e la tendenza di un pezzo dell’opinione pubblica italiana a vedere le istituzioni europee come la maestrina che punisce l’allievo discolo.
Veniamo al merito.
Le previsioni della Commissione differiscono da quelle del governo Letta e questo era un fatto assodato già prima: in particolare Bruxelles fissa il deficit strutturale allo 0,6 per cento (anzichè allo 0,3), cioè oltre il limite di mezzo punto; il debito pubblico al 132,4 invece che al 129,4 per cento; la crescita allo 0,6 per cento e non all’uno previsto da Saccomanni.
La differenza, in realtà , è di metodo: in sostanza l’esecutivo precedente sosteneva che quelli erano gli obiettivi che sarebbero stati centrati al 31 dicembre 2014 grazie a quanto già fatto e a quello che si stava facendo.
Ad esempio, un miglioramento del disavanzo pubblico era affidato alla spending review di Carlo Cottarelli.
Esattamente quello che prevede di fare Renzi, che vuole tirarne fuori 5 miliardi, cioè solo 2 in più di quanto intendeva fare il suo predecessore, per il suo interventino sul cuneo fiscale.
Insomma, questa è la storia di un caos inutile, quello che si crea quando si tenta di governare un grande paese in 140 caratteri.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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