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PIZZAROTTI RADUNA A PARMA I NUOVI AMMINISTRATORI, ACCORRONO IN OLTRE TRECENTO

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

MOLTI SONO CONTRARI ALLA LINEA DI GRILLO SULLE ESPULSIONI

Mentre Grillo è a dar battaglia a Milano proclamando l’unità  del movimento, Pizzarotti è a Parma, in un agriturismo impegnato ad addestrare i candidati sindaci 5 stelle “tra un pezzo di torta fritta e l’altro”.
Gli aspiranti sindaci arrivati da tutta Italia sono affamati di consigli pratici e lezioni. Fuori, però, si lasciano andare anche a sfoghi e a dubbi , tanti, sulle espulsioni romane.
Al sindaco parmigiano fanno notare che il tour di Grillo non passerà  da Parma e che forse poteva venire oggi per siglare la pace, in fondo era stato invitato da Pizzarotti stesso “No, è impegnato in un’iniziativa sull’Expo ma gli ho detto che se di ritorno da Milano e andando a Genova vuole passare…”.
Un incontro, questo, che aveva creato disorientamento nella comunità  grillina perchè liquidato come apocrifo ossia, per usare le parole del guru genovese, “in nessun modo concordato con lo staff”.
Dopo quel tweet di Beppe Grillo si temeva che l’adunata facesse flop, e invece spiega un sorridente Pizzarotti, subito dopo sono arrivate contemporaneamente almeno trenta richieste. Un incontro inclusivo, insomma, secondo il promotore parmigiano, per dare la possibilità  a tutti di farsi un’idea di come si amministra e di come si fa un’opposizione efficace.
4091 sono i comuni che rinnoveranno i consigli, 415 erano le richieste arrivate per partecipare all’incontro di Parma, 320 i presenti oggi.
Tante facce giovani e nuove, entusiaste e nient’affatto timorose di mettere i puntini sulle i. “Io queste espulsioni non le ho mica capite ancora” dice un ventiduenne di vicino Pescara “Che colpo di testa espellere i parlamentari! Io ho votato no, il dissenso interno va veicolato. Ha presente Civati nel Pd?”.
Sono orgogliosi di essere qui, una gita fuori porta piena di speranza, per vedere da vicino chi sono quelli che ce l’hanno fatta.
E per le europee, avete capito come si sceglieranno i candidati? “No, sinceramente ancora no”.
Lei ha votato per le espulsioni? “Si. Ho votato per non espellerli però, perchè non ne ho capito i motivi”.
I dissidi rimangono a vagare nell’orbita della rete e lì si fermano, come fa capire un candidato consigliere calabrese che dice che non gli è mai passato per la testa di non venire a Parma dopo il post di Grillo: “Io ragiono con la mia testa!”. Le epurazioni? “Eh… Che devo dirle? Come in ogni partito si formano delle correnti alla fine”.
Ed ecco le truppe toscane che incedono con lentezza e diplomazia: “Le espulsioni? Un assestamento, siamo nati da poco dobbiamo ancora trovare la nostra strada”.
Ci sono anche semplici attivisti non candidati come un assessore di un comune del parmense eletto con una lista civica ma iscritto al meetup di Parma.
Liste vicine al movimento, “protogriline” le definisce lui. Quasi tutti, però, al di là  dell’entusiasmo, non hanno ancora ricevuto il via libera dallo staff.
Il termine ultimo per presentare le liste era il 28 febbraio ma per molti ancora niente. “Tempi tecnici” dicono a mezza bocca.
Però la curiosità  di vedere da vicino Federico Pizzarotti e sentire le sue dritte era tanta.
Così, muniti di pass arrivato via mail, sfilano, oltrepassano la cancellata e via “a scuola”.
C’è un attivista che arriva da un piccolissimo paesino del Nordest, ha accompagnato il suo amico che è candidato sindaco. Avete la lista certificata? “Ehm… ancora no” Perchè? Cosa vi manca? “Non abbiamo un numero sufficiente di consiglieri, noi siamo in 9 e ne servono 12”
E poi? Manca qualcos’altro? “Beh, i criteri sono sempre quelli… il certificato penale ecc. E poi, spunta, isolato, qualche falco. Occhiali da sole e andatura veloce. “Meglio pochi ma buoni” taglia corto un candidato di Bergamo.
Il movimento di Parma alla fine non ha scelto una sala civica per il meeting ma un agriturismo che guarda i campi al riparo dalla tangenziale.
Vengono da ogni angolo d’Italia i candidati, si sono svegliati prestissimo, zainetto, tracolla, e via: direzione Parma.
Anche se il bollino dello staff non c’è. Questi addestramenti sono necessari soprattutto per i comuni piccoli, spiega il sindaco parmigiano.
“Pensate che pure un candidato del Pd ha chiesto di partecipare ma ovvio: non era il caso”. Ma l’importante è condividere le esperienze e metterle in rete, come sottolinea il sindaco e come aveva controbattuto su twitter al Leader.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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LA PARTITA DEL CAVALIERE E DI ANGELINO

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

BERLUSCONI E ALFANO SEMBRANO I CAPPONI DI RENZI

Uno, per mantenere il primato del centrodestra, deve intanto occhieggiare al leader del centrosinistra.
L’altro, per costruire un nuovo centrodestra, deve intanto stare al governo con il leader del centrosinistra.
Berlusconi e Alfano sembrano i capponi di Renzi, che al momento ritiene di averli in pugno.
E mentre Berlusconi e Alfano sono intenti a beccarsi – «come accade troppo sovente tra compagni di sventura» – Renzi annuncia di voler conquistare il loro elettorato «alle prossime Politiche».
È da vedere se ci riuscirà , ma è chiaro che già  le Europee sono diventate per il Cavaliere e il suo ex delfino uno spartiacque, se è vero che il capo di Forza Italia arriva a sfidare la legge chiedendo di potersi candidare pur di ravvivare lo spirito d’appartenenza del proprio elettorato, se il fondatore del Nuovo centrodestra deve tentare di uscire dal cono d’ombra del premier per garantirsi un dividendo elettorale nelle urne e dare slancio al suo progetto.
Così si dividono nel loro stesso campo, che il segretario del Pd dice di voler invadere. E non c’è dubbio che la condizione in cui si trovano oggi ha origine nella decisione del Cavaliere di rompere con il governo Letta, di cui era di fatto il dominus, perchè ne dettava i tempi e l’agenda.
Nemmeno la sentenza di condanna sul caso Mediaset avrebbe scalfito il ruolo dell’ex premier, nemmeno l’onta della decadenza dal Senato, se avesse resistito.
Così lo consigliavano i familiari e gli amici più fedeli, e lui sembrava essersi convinto, tanto da aver preparato un «discorso alla nazione» dove aveva scritto di provare «un profondo senso di ingiustizia», e in cui però ribadiva di voler tenere «separato il mio personale destino giudiziario dal destino politico del governo», perchè «c’è qualcosa di più grande, ed è il bene del mio Paese».
Si era persuaso che sacrificandosi sarebbe stato santificato. Ed è per questo che in estate aveva anche predisposto un piano di riassetto del Pdl: «Facciamo due coordinatori», disse ad Alfano: «Uno lo scelgo io, e sarà  Toti. L’altro lo scegli tu, e sarà  Lupi».
Invece fu «il blackout» – come lo definì Confalonieri – che cambiò il verso della politica, segnò il divorzio dai «traditori» rimasti al governo con «i miei carnefici» e aprì la strada al sindaco di Firenze.
Il Cavaliere voleva che cadesse Letta, sebbene fosse stato Renzi – allora candidato alla segreteria del Pd – a spingere perchè il voto sulla decadenza di Berlusconi non si incrociasse con le primarie di partito.
Ed era stato Renzi a sostenere la campagna per impedire il voto segreto al Senato sulla decadenza di Berlusconi.
E fu sempre Renzi, il giorno dopo il voto, a cinguettare «game over Berlusconi». Lo stesso Renzi che da trionfatore avrebbe ricevuto Berlusconi nella sede del Pd al Nazareno.
Non è paradossale se oggi Berlusconi fa asse con Renzi sulle riforme, mentre Renzi fa asse con Alfano sul governo.
Più semplicemente si attiene alle regole della politica per restare in gioco, «per evitare – come ha sostenuto Verdini in una riunione di partito – di lasciare tutto campo al Nuovo centrodestra».
È vero, se Forza Italia decidesse di far saltare l’intesa sulla legge elettorale, a ruota salterebbe anche il governo. Ma il Cavaliere è conscio di trovarsi in una morsa: se rompesse sul riassetto istituzionale si attirerebbe gli strali del Paese, se proseguisse – rimanendo fuori dal governo – darebbe l’idea di aver abdicato.
Insomma, lo schema della «doppia maggioranza» pesa, specie a Forza Italia.
È una condizione alla lunga insostenibile, e Brunetta riconosce che «la nostra posizione è complessa».
C’è un solo modo per tentare di spezzare la tenaglia, e il capogruppo azzurro alla Camera ci arriva al termine di un lungo ragionamento in nome «delle riforme, dell’Europa e della pacificazione».
Finchè: «… Renzi non può pensare di giocare con i due forni o si farebbe male. Il premier deve aprire a una grande coalizione».
Dentro Forza Italia insomma c’è chi vorrebbe tornare dov’era quando c’era il Pdl e il Pd subiva i ritmi e le richieste del centrodestra, accettando di votare l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa. La politica come la storia non si fa con i se, ma di questo si discute nel partito e da molto tempo.
«Silvio, pensa cosa sarebbe stato se fossimo rimasti uniti e al governo…», ha detto un paio di settimane fa Romani al Cavaliere durante una cena ad Arcore.
E i commensali raccontano che Berlusconi abbia prestato «attenzione» al discorso del capogruppo forzista al Senato.
Ma Forza Italia non è più al governo e il Pdl si è diviso in due partiti impegnati in una guerra feroce, incapaci a far asse perchè divisi sulla legge elettorale, impossibilitati a far pace perchè divisi dalla competizione alle Europee.
E chissà  se e in che modo si ritroveranno dopo il voto, specie se Renzi continuerà  a tenerli in pugno.
L’impressione è che nel centrodestra sia maledettamente difficile ricomporre la frattura e che ogni iniziativa per riaggregarlo non avvenga con i tempi giusti.
Casini da un mese si è mosso per tentare l’impresa, la sua intervista al Foglio di due giorni fa – in cui sottolineava la necessità  di unire «i partiti che si richiamano al Ppe» – era impeccabile.
Peccato sia stata pubblicata con tre anni di ritardo rispetto a quando il Cavaliere nominò «Angelino» segretario del Pdl dandogli la missione di comporre la frattura con l’Udc. Ma allora il leader centrista disse no. E dopo Casini anche Monti rifiutò il ruolo di candidato premier dei «moderati».
A veder bene i capponi di Renzi non sono solo Berlusconi e Alfano…

Francesco Verderami

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RENZI DA HOLLANDE, MA I GIORNALI FRANCESI LO IGNORANO

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

“INSIEME PER CAMBIARE L’EUROPA”: MA I QUATTRO PRINCIPALI GIORNALI TRANSALPINI NON GLI DEDICANO UN RIGO

Giurano di unire le loro forze per cambiare l’Europa. L’asse Roma-Parigi si rinnova con la speranza che questa sia la volta buona, visto che il tema delle eccellenti relazioni tra Italia e Francia che possono scardinare la linea filotedesca di Bruxelles era stato già  sentito prima con Mario Monti e poi con Enrico Letta.
Ora Matteo Renzi e Franà§ois Hollande insistono: “Possiamo, dobbiamo, cambiare l’Europa insieme — dice il presidente del Consiglio italiano — è la prima sfida che dobbiamo affrontare nei prossimi mesi e nei prossimi anni”.
“Insieme, abbiamo ora la stessa volontà  di accelerare, in un momento in cui le istituzioni europee si rinnovano e si definiscono i grandi orientamenti dei prossimi cinque anni” ribadisce in una nota l’Eliseo dopo l’incontro tra i due.
La visita di Renzi a Parigi è la prima tappa di un tour europeo che il capo del governo proseguirà  lunedì 17 marzo a Berlino, dove sarà  ricevuto dalla cancelliera Angela Merkel.
In realtà , se in Italia l’incontro è visto quasi come un nuovo trionfo del patto italo-francese, oltre confine sostanzialmente se ne fregano: basta fare un giro sui principali giornali online. Le Monde, Le Figaro, Liberatiòn e Le Parisien non solo non hanno la notizia della visita di Renzi all’Eliseo in apertura, ma in nessun’altra parte dell’home page.
L’atteggiamento dei giornali francesi è probabilmente dettato anche dal fatto che Renzi anche da Parigi parla più ai suoi connazionali che non ai vertici dell’Ue.
Tanto che riesce a utilizzare il suo slogan della campagna delle primarie perfino all’Eliseo: “Non credo ci sia bisogno di convincere Hollande a cambiare verso. Credo che ci sia condivisione, senza bisogno che nessuno cambi idea, sul fatto che vincoli e limiti vanno rispettati ma compito della nuova Europa è ridurre lo spread non economico-finanziario, ma tra cittadini ed istituzioni europee”.
Il capo di Stato francese conferma: “Ho sempre trovato nell’Italia, con Monti prima e Letta poi, un partner per andare in direzione dell’Europa della crescita. Ora Matteo arriva in un momento essenziale per l’Europa, alla vigilia del rinnovo del Parlamento. Francia e Italia hanno più bisogno di far sentire la propria voce”.
In questo occorre mostrare ai cittadini europei che “l’Europa è un’opportunità  per la pace, per la democrazia”, ma anche “per la crescita e l’occupazione”, soprattutto dei giovani. Per questo le elezioni europee prossime diventano un passaggio cruciale: “Siamo convinti che alle prossime europee i partiti populisti avranno possibilità  di successo se non saremo consapevoli che l’Europa deve cambiare, lavorando insieme”. Renzi sottolinea che dobbiamo lavorare “dentro le grandi famiglie europee per riportare i cittadini a credere nell’Europa. Dobbiamo essere capaci di cambiare approccio delle istituzioni e formare una classe dirigente che veda l’Ue non come nostro nemico — e in Italia c’è qualcuno che lo pensa”. Passaggio cruciale — il voto di maggio — anche per loro: Renzi dovrà  verificare per la prima volta la performance del suo partito dopo la manovra di palazzo che ha estromesso Enrico Letta e ha incoronato un nuovo premier senza elezioni; Hollande è da mesi ai minimi storici di popolarità  per un presidente della Repubblica francese e il caso Gayet ha ulteriormente affondato i suoi sondaggi.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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INTERVISTA A FISICHELLA, IL FONDATORE DI AN: “LA DESTRA NON INSEGUA LA DEMAGOGIA”

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

“UNA DESTRA IN ITALIA E’ NECESSARIA, MA OCCORRE UN PROGETTO, NON BASTA METTERSI INSIEME SOLO IN VISTA DELLE ELEZIONI EUROPEE”… “AN RIUSCI’ AD ATTRARRE FORZE ESTERNE, NON VEDO TENTATIVI IN TAL SENSO”

Il fondatore di An, Fisichella: «Non credo alla democrazia dei tweet Noi riuscimmo ad attrarre la società  civile, ora tutto questo manca»
Premette subito: «La mia valutazione è che in Italia, anche in ragione della crisi economica che il Paese sta attraversando, una forza partitica di destra, capace di esprimere alcuni valori fondanti e di affrontare nuove sfide, è necessaria. C’è una esigenza di destra nel Paese».
E come è possibile recuperarla?
«Per ora vedo schegge che tentano di recuperare un’unità , qualche gruppo personale ancora in cerca di identità ».
Non sembra essere fiducioso…
«Getta un’ombra su questa operazione politica il fatto che avvenga alla vigilia delle elezioni europee. Si corre il rischio di dare la sensazione che sia un progetto solo per dare a qualcuno la possibilità  di correre. Personalmente immagino un percorso più a medio termine per avere successo».
Senatore, veniamo ai contenuti. Che cosa ne pensa di quelli esposti domenica scorsa a Fiuggi?
«Mi sembra di aver ascoltato qualche appello un po’ demagogico. Capisco la protesta contro l’euro e anche la necessità  di difendere il Paese. Ma non basta la protesta per avere una prospettiva seria. Quanto invece al tema del popolo sovrano, che ho sentito evocare, mi preme rilevare che se ci troviamo in un sistema rappresentativo, la sovranità  della Nazione. Detto questo, credo anche poco alla democrazia dei cinguettii e all’inconsistenza che spesso esprimono».
Si riferisce a twitter?
«Lasciamo perdere, parliamo di cose serie. A suo tempo è stato scelto un sistema politico di tipo parlamentare-assembleare che aveva già  fallito di fronte al fascismo. Questo è il sistema vigente e dentro questo dobbiamo muoverci. La destra ne deve tener conto, spiegando bene come vuole correggerlo. Per esempio, poichè è stato evocato il presidenzialismo si intende l’elezione popolare del Capo dello Stato, sono profondamente complesso».
Lei è il coniatore del nome “Alleanza nazionale”. Come vede la sua riedizione ad opera della Meloni?
«Mi permetta di fare un breve excursus storico. Il 19 settembre 1992, sul Tempo , esce un fondo a mia firma in cui si parla della necessità  di formare un’alleanza nazionale. Il 1 ottobre un successivo articolo, sempre a mia firma, viene specificato meglio il progetto e il titolo era ‘Sulle macerie della partitocrazia’. Spesso ho letto ricostruzioni secondo cui il progetto di Alleanza nazionale rinvia a Pinuccio Tatarella. Questo non mi pare plausibile. Il 27 aprile del 1993 sull ‘Unità  , a firma Letizia Paolozzi, viene pubblicata una mia intervista. Solo dopo questa intervista Tatarella mi telegrafò chiedendomi un appuntamento. Di là  ci siamo visti e abbiamo cominciato a discutere di quella che sarebbe poi diventata Alleanza nazionale».
Perchè questa puntualizzazione storica?
«Semplicemente per amore della verità . E anche per sottolineare come i comunisti, o magari i loro eredi, furono tra i primi a comprendere l’importanza di quella novità  politica».
Allora-oggi. Sono passati venti anni. Che analogie e quali differenze storiche trova tra quella An e Fratelli d’Italia?
«Torniamo alla storia. Dopo quell’incontro con Tatarella, il 22 gennaio 1994 si arrivò all’assemblea costituente di An. Il programma prevedeva alcune relazioni introduttive: nell’ordine, Fisichella per la politica interna, Armani per la politica economica, Rebecchini per la politica sociale, Ramponi per la politica tributaria, Selva per la politica estera. Voglio far notare che nessuno dei personaggi citati proveniva dall’esperienza del Movimento Sociale Italiano. L’atmosfera in cui nacque An era di apertura verso l’esterno, fu quella di mettere assieme esperienze diverse e che talvolta fino a quel momento non erano nemmeno impegnate in politica: provenivano dalla società  civile».
Vuole sostenere che FdI non è riuscita ad attrarre forze esterne?
«Mi pare poco finora rispetto a quella che fu Fiuggi nel 1995, il congresso fondativo di An».
Come giudica invece le frasi di Gianfranco Fini?
«Non le giudico. Penso che un uomo politico abbia tutto il diritto di cambiare idea e di seguire anche nuovi percorsi. Naturalmente anche di pagarne le conseguenze. Le ricordo che io lasciai Alleanza nazionale non approvando la riforma della devoluzione. E lo feci dopo che mi era stato assicurato, da Fini in persona, che mai e poi mai An avrebbe votato quella riforma, che peraltro aveva un sottofondo di secessionismo, come era stata proposta dalla Lega. Così non avvenne e andai via».

Fabrizio dell’Orefice
(da “il Tempo”)

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L’OFFICINA DELLA MELONI PERDE UNA RUOTA DI SCORTA: CIOCCHETTI ENTRA IN FORZA ITALIA

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

IL MOVIMENTO POLITICO DELL’EX UDC, “IDEE PIU’ POPOLARI”, PASSA CON BERLUSCONI: “NON CI INTERESSA RIFARE ALLEANZA NAZIONALE”

Luciano Ciocchetti e il suo movimento «Idee più popolari» passano con Forza Italia. Su Twitter scrive: «Noi in Fdi non ci siamo mai entrati. Abbiamo partecipato ad Officina per l’Italia, per fare un partito nuovo, ma si è fatto An».
Ora, continua in un altro tweet, «con tanti amministratori, quadri, grandi elettori, un nuovo viaggio insieme».
Luciano Ciocchetti, ex esponente dell’Udc, si era avvicinato al nuovo cantiere della destra fatto partire da Giorgia Meloni insieme a Gianni Alemanno.
Ma dopo qualche mese di «studio» ha preferito rinunciare perchè il progetto era troppo «targato» An.
Giovedì era intervenuto per commentare il nuovo piano di Matteo Renzi: «La manovra shock per la ripresa presenta alcune cose buone ed altre poco chiare. Alcuni dubbi rimangono sui tempi e sulle coperture da definire: come mai Letta non i aveva i soldi mentre adesso ci sono? E dove sono le proposte per affrontare il problema del lavoro in Italia? L’occupazione si crea aiutando le imprese che ad oggi non ce la fanno e continuano a fallire, come risulta dall’ultima rilevazione di Confesercenti secondo la quale in Italia 29 mila imprese in due mesi sono state costrette a chiudere i battenti».

(da “il Tempo”)

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INTERVISTA A MARCO TARCHI: “FARE AFFIDAMENTO SUI VECCHI SIMBOLI FINORA E’ STATO VANO”

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

“GIORGIA MELONI? HA GRINTA, MA CONTANO LE QUALITA'”

Giorgia Meloni? «Ha grinta, ma deve dimostrare le sue qualità ».
E i suoi “compagni di viaggio”? «Per ora è quel che passa il convento».
Marco Tarchi, politologo, docente presso la Facoltà  di Scienze politiche all’Università  di Firenze e, soprattutto, fine intellettuale di destra, analizza con lucidità  il progetto della «nuova destra» messa in campo da Fratelli d’Italia, contestualizzandolo nel quadro politico e sociale italiano.
Ne esce un giudizio non negativo, ma che non può tener conto della secolarizzazione dell’ideologia popolare e, tantomeno, dell’estrema frammentazione dei poli radicali.
Fratelli d’Italia, capitanato da Giorgia Meloni, ha ricevuto in eredità  il simbolo di Alleanza nazionale. È la ripartenza giusta per la nuova destra italiana?
«Può essere un elemento di richiamo per una parte dell’elettorato che a suo tempo aveva portato An fino al 15,5% dei voti, ma bisogna tenere a mente alcuni importanti dati. Primo: da allora sono passati 18 anni, e con il tempo il peso di Alleanza nazionale è andato diminuendo di un terzo. Secondo: la fusione nel Pdl ha causato un rimescolamento d’immagine e legato una parte dell’elettorato originario a Berlusconi. Terzo: la diaspora ha dato l’impressione di uno sgretolamento definitivo dell’ambiente “postfascista”. Quarto: sinora, far affidamento sul carattere calamitante di vecchi simboli si è dimostrato vano».
La figura di Giorgia Meloni sembra raccogliere attorno a sè consenso e aspettative positive unanimi. Alcuni osservatori però non sono convinti dai suoi “compagni di viaggio”. Che ne pensa?
«La Meloni ha dalla sua l’età , che in una fase di giovanilismo imperante — di cui Renzi è l’incarnazione per adesso suprema — conta, nonchè lo stile aggressivo, l’irruenza discorsiva. Ma rilanciare un partito che nella sua prima prova elettorale ha raccolto meno del 2% richiede altre qualità , che vanno dimostrate. Vedremo. Quanto ai “compagni di viaggio”, credo che per ora non si possa dire altro se non che questo è quel che passa il convento. Va aggiunto però che il futuro di Berlusconi avrà  un peso determinante sugli sviluppi futuri anche di questa formazione».
In una recente intervista all’Espresso, ha sottolineato come il M5S stia calamitando il consenso prima assegnato ai poli radicali. È Grillo il surrogato della “nuova destra”? Ma, soprattutto, Grillo è di destra o di sinistra?
«Grillo non è nè di destra nè di sinistra, e questa è la chiave del successo del suo discorso in larghe fasce della pubblica opinione. È un populista allo stato puro, post-ideologico, che offre al pubblico occasioni di sfogo, e talvolta proposte, adatte alla situazione di crisi in cui l’Italia da un pezzo è impantanata. Se il M5S recepirà  in pieno gli argomenti di quello che, piaccia o non piaccia, da tutti è visto come il suo leader, mieterà  consensi anche a destra».
Qual è il senso di essere “di destra” nel XXI secolo? O meglio, quali sono i “nemici da combattere”?
«Da decenni le categorie di sinistra, destra e centro sono incapaci di rappresentare le vere linee di conflitto che attraversano le società  contemporanee. In termini politologici classici, ci si potrebbe richiamare alla coppia oppositiva conservatorismo contro progressismo. Ma ormai spesso distinguere idee di destra e di sinistra è diventato quasi impossibile”.
Il tema caldo oggi è l’Europa. Giorgio Almirante la descrisse in maniera lungimirante con una delle sue frasi più celebri. Il significato di “Europa unita” è incompatibile con il valore di sovranità  nazionale?
«In astratto, certamente no. Niente impedisce di ipotizzare un’Europa capace di recuperare il valore fondante e unificante delle tradizioni culturali che hanno portato a pensarla per millenni come un continente non solo in senso geografico, e quindi votata a un’autentica indipendenza. Ma se per Europa si intende l’attuale Unione Europea, il discorso cambia drasticamente. Perchè l’Ue non esprime alcuna indipendenza reale, legata mani e piedi com’è al partner transatlantico”.
Uscire dall’Euro. Questa la proposta principale che arriva dal congresso di Fiuggi. Una “follia” o l’ultima chance?
«Temo, per ora, solo una formula demagogica. Che non si accompagna a riflessioni convincenti sullo scenario che deriverebbe da questa mossa. L’ipotesi non va demonizzata, ma se si limita ad essere agitata a mo’ di feticcio propagandistico avrà  corto respiro. Chi, come Marine Le Pen, ha fatto dell’uscita dell’euro uno dei suoi cavalli di battaglia, fin qui ha incontrato più scetticismo che condivisione ».

(da “il Tempo”)

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FINI IN CAMPO: “PRONTO A RIFARE LA DESTRA”

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

“SENZA GUIDARE UN PARTITO E SENZA ENTRARE IN PARLAMENTO, MA ANCHE SENZA TORNARE INDIETRO”

A volte ritornano. Soprattutto in politica.
Stavolta tocca a Gianfranco Fini.
Sì, l’ex presidente della Camera, che nel 2011 ha tentato di far cadere il governo Berlusconi e ha fondato un nuovo partito, Futuro e Libertà , potrebbe rientrare presto in campo.
Ovviamente per costruire (pure lui) la nuova destra. Non più quell’area centrista che soltanto poco tempo fa aveva vagheggiato con Monti e Casini.
Dopo aver criticato l’operazione di Fratelli d’Italia, che ha recuperato il simbolo di An, e aver definito Ignazio La Russa e Giorgia Meloni «bambini viziati che scimmiottano la storia», Gianfranco Fini si è materializzato ieri con un tweet eloquente: «Sono pronto a raccogliere la sfida per costruire una nuova #destra».
Un proclama, che a molti sarà  sembrata una minaccia, su cui Fini, ospite del programma tv «L’aria che tira» su La7, si è dilungato, abbozzando addirittura un programma: «Che oggi la destra sia in una condizione, ahimè, di diaspora è un dato di fatto – ha detto – Io ho le mie responsabilità  e chi avrà  la bontà  di leggere il libro che ho scritto se ne accorgerà . Ma ripeto il concetto: non si mettono assieme i cocci. Non si può far finta di tornare indietro».
Insomma, no alle operazioni «nostalgia». Bisogna guardare avanti, ripete Gianfranco, anche nel libro «Il Ventennio», dove rivendica le sue scelte.
Ora spiega: «Io invito tutti coloro che mi dicono: “Rifacciamo la destra” a dire: “Io ci sto, io sono pronto. Da domani. Senza tornare in Parlamento, io ci sono stato trent’anni. Senza guidare un partito, si fa politica anche scrivendo un libro”».
Ma insiste: «Vogliamo capire che cosa è la destra? Perchè altrimenti continuiamo con questa logica del gioco degli specchi per cui continua l’anatema nei confronti degli altri».
Insomma, nota Fini, «sta cambiando tutto. Qualcuno può dire che Renzi è un comunista e che se vince c’è il pericolo della libertà ?».
L’ex presidente della Camera precisa anche che non accetterà  mai l’epiteto di traditore.
Proprio per questo aggiunge: «Mi considero politicamente e culturalmente un uomo di destra».
Ed ecco il «programma»: «La mia idea di destra non prevede l’uscita dall’euro, la mia idea di destra non prevede di discriminare lo straniero soltanto perchè ha una pelle diversa».
Infine avverte: «Lasciate stare Fiuggi. Se volete rifare qualcosa di destra avete il diritto di farlo ma a condizione di chiarire che cosa si intende per politiche di destra».

Alberto Di Majo
(da “il Tempo“)

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EVASIONE, MR BAYERN PIANGE: ALL’ESTERO SI VA IN GALERA, IN ITALIA I DETENUTI PER REATI FISCALI SONO SOLO 156 (0,4%), IN GERMANIA 8.600.

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

IN ITALIA I DETENUTI PER REATI FISCALI SONO SOLO 156 (0,4%), IN GERMANIA 8.600

Condannato in primo grado a 3 anni e 6 mesi di carcere per evasione fiscale, rinuncia a presentare appello, si dimette dal suo prestigioso incarico e va in carcere. Visto dall’Italia sembra una cronaca da Marte. Invece sono cose che accadono, nei paesi civili.
Questa volta è accaduto in Germania. Il protagonista è Uli Hoeness, 62 anni, ex calciatore e poi dirigente, fino a ieri presidente del Bayern Monaco. Si è dimesso e senza cercare sotterfugi nè scappatoie ha ammesso le sue colpe: “L’evasione fiscale è stato l’errore della mia vita. Accetto le conseguenze di questo errore”, ha detto in lacrime. Non si parla di noccioline, ma di un’evasione da 27,2 milioni di euro. “Dopo essermi consultato con la mia famiglia, ho deciso di accettare la sentenza della Corte di Monaco. Ho chiesto ai miei avvocati di non presentare appello, in linea con la mia idea di decenza, comportamento e responsabilità  personale” ha dichiarato Hoeness all’agenzia tedesca Dpa.
“Decenza, comportamento e responsabilità  personale”: queste tre parole andrebbero stampate a lettere cubitali e appese nelle aule di tutte le scuole di ogni ordine e grado d’Italia.
Non c’è bisogno di ricordare che da noi un condannato per evasione fiscale, non più di un mese fa, è stato ricevuto al Quirinale per trattare la formazione del nuovo governo. Ma questo sarebbe nulla, se non fosse che questi comportamenti “senza decenza” hanno contagiato tutta la vita politica (e privata) italica. Da noi la sequenza è: negare sempre, dimettersi mai, appellarsi sempre. E cercare di posticipare al massimo il momento del giudizio definitivo, possibilmente per agguantare una prescrizione. Sarà  un caso se in Germania i detenuti per reati fiscali sono 8.601 (dati del 2013) e da noi sono solo 156?
È una prassi che si lega anche al concetto di condono. Che sia edilizio o fiscale, alla base c’è sempre la stessa idea: si premia il furbo e si punisce l’onesto. Il furbo la passa liscia.
Sembrano comportamenti e prassi ineluttabili, finchè non viene un Uli Hoeness a ricordarci che tutto il mondo è paese (si evade ovunque), ma altrove chi sbaglia paga e i reati finanziari e fiscali sono presi molto sul serio.
Secondo un recente studio dell’Università  di Losanna, in Italia solo lo 0,4 % dei detenuti sono in carcere per reati connessi a questioni economiche e fiscali. La media europea è del 4,1 %. In Germania, i galeotti condannati per reati legati alla violenza (aggressioni, percosse e rapine) sono meno di quelli in carcere per reati fiscali.
Quindi sono i numeri a confermare quanto già  sappiamo: da noi l’evasione è considerata un reato meno grave di un furto o di una rapina e non è di fatto perseguita. Sempre la stessa ricerca di Losanna dice che i “colletti bianchi” (evasori fiscali e condannati per reati economici, truffe e bancarotte) incarcerati in Italia sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, dei norvegesi e degli inglesi, un quindicesimo degli spagnoli e addirittura un ventiduesimo dei turchi. In Italia è più facile finire dentro per aver rubato una mela che per evasione o bancarotta. I potenti e la casta si salvano, quasi sempre.
In Germania per il reato di evasione fiscale è prevista una pena fino a 5 anni, elevata fino a 10 per i casi molto gravi.
Negli States è previsto il carcere fino a 5 anni e pene fino a 3 anni per false dichiarazioni sui rimborsi.
Nelle metropolitane londinesi in questi giorni di dichiarazione dei redditi sono apparsi manifesti dal tono intimidatorio e inquietante, con un grande occhio e una lente d’ingrandimento: “Sappi che ti stiamo cercando”.
L’evasore è perseguito e, nonostante non esista la Guardia di finanza, non si scappa al Revenue & Customs di Sua Maestà , l’Ufficio delle Entrate.
Pena massima fino a 7 anni. L’anno scorso fece scalpore la misura choc di pubblicare sui giornali le foto degli evasori.
Pubblicarne uno per educarne cento. E hanno anche istituito una linea dove denunciare (in modo totalmente anonimo) il vicino di casa che non paga le tasse.
Intanto da noi, tra chi parlava di “stato di polizia tributaria” e chi dice che “evadere è una questione di sopravvivenza”, tutti hanno sempre strizzato l’occhio all’evasore fiscale.
Il solito paese che premia i furbi e sfotte gli onesti.

Caterina Soffici
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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SCUSI, RENZI: E GLI EVASORI?

Marzo 15th, 2014 Riccardo Fucile

PRIMA DI SBATTERE I PUGNI IN EUROPA, RENZI TROVI IL MODO DI SBATTERE IN GALERA QUALCHE MIGLIAIO DI GRANDI EVASORI FISCALI

Se vuole evitare che il suo secondo incontro a tu per tu (il primo da premier) con Angela Merkel diventi la solita passerella inutile e provinciale di un politico italiano in gita premio, Matteo Renzi dovrebbe chiedere alla Cancelliera qualche dettaglio sul caso di Uli Hoeness: l’ex campione del mondo di calcio e presidente del Bayern Monaco che si è appena dimesso da ogni incarico dopo la condanna in primo grado a 3 anni e mezzo di carcere per una frode fiscale da 27,2 milioni.
Condanna che ha deciso di non appellare (“in linea con la mia idea di decenza, comportamento e responsabilità  personale”), ammettendo in lacrime la sua colpa, evitando di intasare la Giustizia con ricorsi pretestuosi e preparandosi ad andare in galera, dove dalla prossima settimana sconterà  la pena per intero (lì si usa così).
Confrontando il caso Hoeness con il caso Berlusconi — condannato sette mesi fa per lo stesso reato in tre i gradi di giudizio a 4 anni, di cui 3 indultati, ancora a piede libero, anzi padre ricostituente e prossimo candidato alle elezioni europee — il premier potrebbe trarre utili spunti per le riforme del fisco e della giustizia, da lui annunciate per maggio e giugno (del 2014, pare).
Se Hoeness fosse italiano, griderebbe al complotto ordito dagli avversari del Borussia e del Leverkusen, invocherebbe la presunzione d’innocenza fino alla Cassazione, si imbullonerebbe alla poltrona, ricorrerebbe in appello in attesa della sicura prescrizione e/o condono, che poi gabellerebbe per assoluzione, e si butterebbe in politica.
Invece è tedesco e va in galera, anche perchè condono, indulto, amnistia, concordato e scudo fiscale sono termini intraducibili nella sua lingua.
Così come la parola prescrizione (almeno nella demenziale versione italiana, che non parte quando viene scoperto il delitto, ma quando viene commesso, e continua a galoppare per tutto il processo, anche dopo due condanne).
Chissà  se è un caso che la Germania sia la locomotiva d’Europa e l’Italia il fanalino di coda.
Due mesi fa, come ha rivelato Gian Antonio Stella sul Corriere , è uscito il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit penal, curato da due docenti dell’Università  di Losanna, sulle carceri d’Europa e dintorni.
I dati del 2011 dicono che nelle carceri italiane risiedono solo 156 detenuti per crimini economici e fiscali: un decimo della media europea (0,4 contro 4,1%) e un cinquantacinquesimo della Germania, che ne ha 8.601, più dei reclusi per rapina e per percosse, quasi quanti quelli per traffico o spaccio di droga.
Nessun paese ne ha meno di noi, anche se noi abbiamo il record europeo dell’evasione, anzi proprio per questo.
“I colletti bianchi incarcerati in Italia — scrive Stella — sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi”.
Ci umiliano persino paradisi fiscali come Montecarlo e Liechtenstein, rispettivamente col 23 e il 38,6% di detenuti per delitti finanziari.
In Italia, com’è noto, un evasore fiscale non riesce a varcare il portone di un penitenziario neppure se insiste: evadere paga, infatti evadono circa 10 milioni di contribuenti su 40.
Renzi è a caccia di coperture per le sue mirabolanti promesse.
E ha appena ottenuto dalle Camere la Delega fiscale, praticamente una delega in bianco al governo.
Per riempirla di cose utili, a cominciare dalle manette (vere) agli evasori, chieda alla Merkel come si fa.
E magari si faccia raccontare di Klaus Zumwinkel, il top manager che aveva portato le Poste tedesche al successo mondiale: accusato di evasione aggravata, fu prelevato in manette all’alba di un mattino del 2008 da decine di agenti speciali della tributaria che avevano cinto d’assedio il suo villone a Colonia.
Se lo spread fra Bund e Bot è calato, quello fra giustizia tedesca e impunità  italiota rimane scandalosamente invariato.
Prima di “sbattere i pugni in Europa”, ammesso che lo faccia davvero, Renzi trovi il modo di sbattere in galera qualche migliaio di evasori.
Poi ne riparliamo.

Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)

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