Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
A PARIGI VINCE LA SINISTRA, MA I SOCIALISTI PERDONO MOLTE ROCCAFORTI…LA DELUSIONE DI MARINE LE PEN CHE PERDE AD AVIGNONE E A PERPIGNAC
Lo tsunami della destra Ump si abbatte sulla maggioranza di Francois Hollande.
La gauche è al tappeto due anni dopo il ritorno all’Eliseo e alla vigilia di elezioni europee che si annunciano proibitive per il governo.
La destra chiede un immediato cambiamento di rotta, e già domani ci sarà il rimpasto di governo con il ritorno annunciato di Segolene Royal.
La netta vittoria di Anne Hidalgo, da stasera la prima sindaco donna di Parigi, ai danni dell’agguerrita avversaria Ump Nathalie Kosciusko-Morizet, le conferme a Strasburgo, Lille (con Martine Aubry, e Digione) non cancellano la sconfitta di dimensioni storiche del Partito socialista e dei suoi alleati.
La gauche – in un’elezione segnata da un astensionismo record che sfiora il 40% – subisce una vera e propria disfatta e deve abbandonare storici bastioni come Roubaix, Angers, La Roche-sur-Yon, Nevers, Quimper, Bastia, addirittura Limoges, che aveva un sindaco di sinistra da oltre un secolo, dal 1912.
Il Front National era stato il vincente del primo turno domenica scorsa, il suo grande risultato regge – con la conquista di almeno dieci municipi – ma il volto di Marine Le Pen negli studi delle tv denunciava un po’ di delusione: il Front non ha sfondato ad Avignone, dove il mondo della cultura si era sollevato all’ipotesi di una vittoria del Fronte; non ce l’ha fatta nemmeno a Forbach, in Mosella, dove era in corsa il mediatico vicepresidente Florian Philippot, nè a Perpignan, nel sud, dove sperava di vincere Louis Aliot, vicepresidente e compagno della Le Pen.
Il vero vincitore delle amministrative è dunque l’Ump, l’opposizione di destra che sembrava allo sbando, fra un presidente senza carisma come Jean-Francois Cope’, un eterno avversario agguerrito come l’ex premier Francois Fillon e l’incombente ma ormai difficile ridiscesa in campo di Nicolas Sarkozy.
L’Ump strappa decine e decine di città alla sinistra, ridisegna la cartina dei municipi del Paese e, proprio con Copè, rivendica di essere da stasera «il primo partito di Francia, come numero di voti e come numero di candidati eletti».
L’effetto di questa «onda blu» – che sommerge la Francia colorata di rosa – è che Hollande deve «assolutamente cambiare politica», ha aggiunto Copè: «Deve cambiare sul piano fiscale, sulla lotta alla disoccupazione e alla precarietà , la riforma penale e quella dei ritmi scolastici».
Praticamente tutto, chiede l’Ump, che adesso sta alla finestra e osserva quello che succede: «Se non ci fosse un rimpasto dopo questo schiaffo – ha osservato Alain Juppè, Ump, rieletto già al primo turno sindaco di Bordeaux – sarebbe un fantastico contro-segnale».
Non un socialista ha avuto difficoltà ad ammettere la batosta elettorale, nessuno mette in dubbio che si tratti di una bocciatura della politica finora portata avanti da Francois Hollande.
Il quale, come ha anticipato il suo ministro Benoit Hamon, domani annuncerà l’atteso rimpasto di governo.
Sarà una nottata in trincea per il primo ministro Jean-Marc Ayrault, che non ne vuole sapere di lasciare la carica, tantomeno al nemico giurato Manuel Valls, che si profila come suo probabile successore.
Valls, sostengono Ayrault, i Verdi e la sinistra Ps, non ha seguito nel partito, ne rappresenta l’ala destra e liberal, il contrario della svolta a sinistra che viene auspicata.
In ogni caso, la linea l’ha dettata Segolene Royal, apparsa stasera in forma smagliante e pronta al rientro al governo, come da diverse fonti anticipato.
L’ex compagna e madre dei quattro figli di Francois Hollande, personaggio di grande personalità che era mal sopportato dall’ex premiere dame Valerie Trierweiler, sarebbe destinata a un posto di primo piano nel governo.
Le ipotesi che la danno prossima premier sono, al momento, fantapolitica.
(da “La Stampa“)
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
TUTTO SI DECIDE L’8 APRILE CON L’APPROVAZIONE DEL DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA E IL DECRETO CON I TAGLI DELLA SPENDING REVIEW
Il modo lo troverà : Matteo Renzi ha promesso che il 27 di maggio 10 milioni di italiani avranno
80 euro in più in busta paga e così sarà , si è esposto troppo.
Magari i beneficiari non saranno proprio 10 milioni, forse gli euro saranno qualcosa in meno di 80 (dipende anche dall’effetto del fisco), probabilmente le coperture di questo regalo elettorale in vista delle Europee saranno precarie, ma Renzi lo far�
Nella sede del governo ombra, cioè il ministero del Tesoro, hanno capito che il premier è inamovibile e stanno lavorando per avere i numeri giusti. Ma non è facile.
Il giorno decisivo è l’8 aprile: ci sarà un Consiglio dei ministri che all’ordine del giorno avrà i due punti cruciali, il Documento di economia e finanza che fissa il quadro di bilancio in cui deve avvenire l’operazione 80 euro, e un decreto legge attuerà i primi tagli della spending review, per trovare le coperture.
Ma è meno semplice di come suona
Il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan ha messo al lavoro i supertecnici del ministero, da giorni alle prese con i modelli econometrici che devono produrre il risultato desiderato: numeri compatibili sia con le promesse del premier che con le richieste della Commissione europea.
Venerdì sera, intervistato da Enrico Mentana su La7, il premier Matteo Renzi ha anticipato che la crescita del Pil 2014 sarà rivista al ribasso dall’1 per cento stimato da Enrico Letta al 0,8-0,9 (comunque ottimistico visto che le principali previsioni indipendenti parlano di 0,6).
Il deficit, stimato al 2,5 per cento del Pil, non arriverà mai e poi mai al 3 per cento, hanno giurato i tecnici del Tesoro agli sherpa della Commissione che stanno seguendo i lavori preparatori del Def.
Certo, un po’ di spesa in deficit ci sarà , ma al massimo fino a 2,7-2,8 per cento.
E nella sua intervista a Repubblica di mercoledì, Padoan ha ribadito che l’Italia rispetterà anche la regola del debito, quella che prevede una riduzione progressiva in modo da essere in regola con i parametri del Fiscal compact dal 2016.
Tradotto: bisogna fare un aggiustamento strutturale da 0,5 punti di Pil cui corrispondono tagli duraturi per 4-5 miliardi.
Vi siete persi? Normale.
È un gioco di abilità o di illusionismo: come si fa a tenere sotto controllo il deficit, però alzandolo un po’, rivedere al ribasso la crescita, ma anche alzarla per effetto delle riforme annunciate e ridurre il debito però anche aumentarlo per pagare gli arretrati della pubblica amministrazione?
A Bruxelles sono molto curiosi di scoprirlo.
Nelle parole di Renzi c’è un indizio: con il taglio del cuneo fiscale “spero che alla fine la crescita arrivi arrivi all’1 per cento e lo si superi”.
Stando a quanto trapela da via XX Settembre funzionerà così: il Def avrà non due ma tre tabelle.
Le prime sono standard: una indica i numeri a legislazione vigente (cioè come andrebbero i conti senza interventi), la seconda è il quadro programmatico, include gli effetti delle cosiddette misure “legislate”, cioè approvate in una qualche forma e tra queste ci saranno i tagli della spending review, gli scostamenti del deficit, il risparmio dovuto agli interessi più bassi sul debito pubblico, l’impatto del Jobs Act e così via. Comparirà poi una terza tabella, quella dell’ottimismo, senza un valore formale ma con un contenuto politico: lì Renzi e Padoan fisseranno i loro obiettivi e indicheranno quale sarà l’impatto delle misure su cui stanno lavorando e non ancora tradotte in provvedimenti di legge (come il bonus da 80 euro).
I numeri della terza tabella saranno ovviamente migliori di quelli delle altre due: la crescita, come anticipato da Renzi, sarà indicata almeno all’1-1,1 forse perfino di più. E così i conti torneranno
Un’arditezza che si fonda sulla forza politica che il premier sente di avere: non guardate i numeri come sono, ma crede a come possono cambiare.
Percentuali a parte, ci sono da trovare i soldi veri: il bonus da 80 euro a 10 milioni di italiani costa circa 10 miliardi all’anno, visto che nel 2014 partirà da maggio ne bastano poco più di 6.
Se la soglia di stipendio mensile che permette di accedere scendesse da 1.500 a 1.300 euro — come si dice in questi giorni — il conto si ridurrebbe ancora.
E per partire subito si può anche usare qualche copertura una tantum, rimandando quelle vere, strutturali, alla legge di stabilità in autunno.
Basta gonfiare un po’ l’impatto sulla crescita e anche il deficit non avrà problemi. Anzi, con un Pil a +1,2 o superiore anche i requisiti imposti dalla regola del debito sarebbero più blandi e la correzione da fare più bassa.
Chissà se a Bruxelles la Commissione europea approverà questa creatività contabile.
Stefano Feltri
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
“VENDESI AL MIGLIOR OFFERENTE” SAREBBE IL SOTTOTITOLO GIUSTO: DOPO BOSSI, LA MORATTI E SILVIO ORA GLI ESERCENTI SI BUTTANO A SINISTRA (SI FA PER DIRE)
«Forza Renzi». E d’incanto, passeggiando ieri a Milano, l’incubo più incubo di bersaniani, dalemiani e varie altre fresche tribù della sinistra era diventato realtà : la mutazione antropologica compiuta, la devastazione finale, il leaderismo becero fatto e finito.
Insomma: dal Pd a «Forza Renzi».
Lo striscione se ne stava lì, sfrontato in mezzo a corso Buenos Aires, davanti a Porta Venezia, accanto al negozio di Hilfiger e alla pubblicità , giallognola e rossa, di un sexy shop (poi bisognerà riflettere sulla simbologia di queste vicinanze).
«Forza Renzi». La scritta rossa, una firma in verde, «Gli amici di Milano», la faccia di Renzi sulla sinistra, e sulla destra un gruppo di ragazzi – alla minoranza del Pd dovranno certamente sembrare dei giovani berlusconiani, forse peronisti – che esultano.
Inaudito.
Nei giorni in cui l’unica scelta assennata sarebbe mettere il nome di Renzi nel simbolo alle europee - accanto al logo Pd? in grande? in piccolo? o addirittura, blasfemia, solo il nome Renzi? – l’improvvisa epifania dello striscione milanese colpiva molti.
«Sarà l’inizio di una campagna personalizzata?», domandava per esempio Gad Lerner.
No, nessuna campagna personalizzata, nè nel Pd, nè nei comitati renziani milanesi nessuno ha lanciato una campagna, e neanche in «Milano metropoli», l’associazione che si costituirà come il referente di tutti i comitati renziani.
Lo striscione è opera dei commercianti di quel tratto di Buenos Aires.
E qui si apre un interessante capitolo: lo stesso gruppo di persone in passato ha già partorito, almeno altre tre volte, trovate analoghe, e sempre per la destra, mai per un uomo del centrosinistra.
Fecero uno striscione per il Senatùr (tutto verde, è gente pragmatica), «W Bossi re del nord!!»; acclamarono la Moratti sindaca del berlusco-leghismo, «Buon Natale per Letizia»; soprattutto organizzarono una rumorosa iniziativa per chi? Ovviamente per lui, il Silvio: nel 2009 gli fecero lo stesso omaggio durante una manifestazione per rilanciare il suo governo, già abbastanza moribondo.
Paolo Uguccione, uno di questi commercianti, spiega il senso: «Oggi Renzi è il meglio sul mercato. peccato sia del Pd, un partito litigioso».
E ora ripetiamo il mantra: è una bestemmia, uno scandalo, basta col leaderismo e meglio perdere coi voti di sinistra che vincere coi voti dei commercianti.
Jacopo Iacoboni
(da “la Stampa”)
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
DUEMILA MILIARDI DI DEBITO, 50 MILIARDI DI INTERESSI DA PAGARE OGNI ANNO… CON IL PAREGGIO DI BILANCIO DAL 2015 DOVREMO TAGLIARE OGNI ANNO 40 MILIARDI, ALTRO CHE PROMESSE ELETTORALI
L’economia, si sa, si nutre di matematica. Però per spiegare perchè sia dannoso spendere più di
quello che si guadagna (si produce), non c’è bisogno nemmeno di un minimo di aritmetica essenziale: basta il buon senso.
Prendiamo la storia di questo dannato tre per cento che Matteo Renzi definisce anacronistico, che fa litigare Italia e Germania e che fissa un tetto al disavanzo pubblico: non più del tre per cento, appunto, del prodotto interno lordo, il Pil.
Ora, l’Italia produce ogni anno ricchezza (il Pil) per 1500 miliardi di euro; ma sconta un debito colossale, 2000 miliardi o giù di lì, cui si aggiungono ovviamente gli interessi da pagare, 50 miliardi l’anno immaginando un tasso del 2,5.
Quindi più si contengono in qualche modo deficit e debito e meglio è.
Se quest’anno, per esempio, il debito complessivo dovesse aumentare di altri 45 miliardi — per via di un ulteriore disavanzo di tre punti di Pil — sarebbe necessario che la ricchezza nazionale, come la busta paga di chi s’indebita, crescesse più o meno della stessa percentuale.
Altrimenti sarebbe impossibile fermare la spirale e tenere in ordine i rapporti deficit-pil e debito-pil così come vogliono gli accordi firmati a Bruxelles (fiscal compact) cui siamo stati chiamati proprio per impedire che quel debito aumenti a dismisura.
E però anche gli osservatori più ottimisti dicono che l’Italia crescerà a fatica, sì e no dell’1 per cento, e dunque debito si aggiungerà a debito.
Si potrebbero allora tagliare le spese, eliminare sprechi, proprio come si fa in una famiglia nei guai; e però non c’è Bondi o Cottarelli che tenga, e a ogni proposta di abbattere la scure qui o là , ecco calde resistenze, mandarini indignati, corporazioni in lacrime.
Allora si potrebbe vendere un po’ di patrimonio pubblico, e ogni volta infatti si annunciano piani faraonici di dismissione, a cominciare dalle sempiterne caserme; ma da quando ne parlò Monti sono passati due anni e mezzo e non se n’è fatto nulla, nonostante e Letta e Renzi abbiano stancamente ripetuto il ritornello.
Forse si potrebbe essere più tosti contro l’evasione fiscale, ma queste due parole — ci avete fatto caso? — nel vocabolario di Renzi non compaiono mai. Altri ancora spiegano che c’è talmente tanta liquidità in giro che riusciremo sempre a piazzare i titoli del debito; e in parte è vero, ma chi compra non vuole solo guadagnare, vuole anche essere sicuro dell’investimento, e un Paese che passa in un mese da 200 a 500 di spread e viceversa non è il massimo della stabilità .
La questione è antica, ce la trasciniamo da almeno vent’anni, ma diventerà stringente e ineludibile dall’anno prossimo visto che non solo ci siamo impegnati al pareggio di bilancio, ma addirittura lo abbiamo scritto nella Costituzione.
Insomma, dal 2015 dovremo via via ridurre il debito fino a portarlo al 60 per cento del pil (oggi è oltre il 130), e più o meno azzerare il disavanzo.
Traduzione: una quarantina di miliardi da tagliare ogni anno per il primo obiettivo e quasi altrettanti per il secondo. Ottanta miliardi. Aiuto.
Per carità , le deroghe sono sempre possibili, specie per un Paese come il nostro sempre vissuto di eccezioni, ma almeno bisogna dimostrare di aver voglia di fare e di cambiare.
Eppure quella riforma della Costituzione è stata votata dai due terzi del Parlamento (per evitare il referendum dei cittadini), e cioè con il sì di Pd, Pdl e pure della Lega; gli stessi partiti che però non riescono a comportarsi di conseguenza, anzi.
Perchè tra gli impegni e la realtà c’è di mezzo la politica. Come Angela Merkel sa bene.
Ora, Renzi è troppo attento per non sapere che cosa lo aspetti l’anno prossimo e che cosa significhi annunciare bonus di dieci miliardi per dieci milioni (di italiani), investimenti per la scuola, taglio dell’Irap e rimborso dei debiti della pubblica amministrazione senza indicare altrettanti tagli certi.
Allora, perchè lo fa?
Probabilmente pesa su di lui la sindrome dei cento giorni (o la va o la spacca), e forse ancora di più la vigilia di una delicata campagna elettorale nella quale già cantano a squarciagola le sirene del populismo, delle lamentele contro l’Europa, della battaglia contro la moneta unica.
Va bene, d’accordo, si facciano pure promesse e poi si voti, ma subito dopo, per piacere, si torni alla realtà .
Bruno Manfellotto
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
“LA PASCALE? A NOI NON FREGA NIENTE”
Lo scorso 26 gennaio il re incontrastato della scena era lui.
Alla stazione marittima di Napoli, in una sala convegni strapiena, il suo ritorno alla politica dopo le vicende giudiziarie era stato salutato da centinaia di supporters in festa.
Baci, strette di mano, intervento dal palco e poi conferenza stampa per rispondere alle domande dei giornalisti.
Oggi, invece, nella sala molto più piccola ma altrettanto gremita del lussuoso Hotel Romeo, Nicola Cosentino ha scelto di restare quasi in disparte.
Entrato di corsa nell’albergo per assistere alla presentazione del simbolo di Forza Campania, il nuovo gruppo regionale di sette consiglieri in rotta con il presidente Caldoro e rigorosamente cosentiniani, l’ex sottosegretario all’Economia ha deciso di lasciare la scena agli onorevoli a lui fedeli.
“Sono venuto solo per sentire”, si lascia scappare entrando nella sala prima di commentare il nuovo simbolo che compare sugli schermi a led: “A me piace, non vedo somiglianze col simbolo di Forza Italia”.
Se non fosse seduto in prima fila, quella riservata ai giornalisti, quasi non ci si accorgerebbe che c’è.
Anche perchè dei sei consiglieri presenti (Luciana Scalzi, segretaria di Denis Verdini e consigliera regionale campana non c’è) lo nominano solo Ianniciello e la Ruggiero, che gli riconoscono un ruolo guida nella formazione del nuovo gruppo.
Fino ai loro (ultimi) interventi, si era solo parlato di politica regionale e del dissenso dei sette nei confronti della scelte dell’amministrazione Caldoro, dalla quale di fatto dicono di sentirsi del tutto esclusi.
“Ma restiamo comunque in Forza Italia, dove vogliamo portare la meritocrazia e il dialogo che ci sono stati negati”.
Nessun riferimento diretto alla Pascale, che nelle scorse settimane aveva parlato di un Cosentino imbarazzante per il partito in Campania, nè a Domenico De Siano, il nuovo coordinatore regionale scelto, pare, proprio dalla nuova compagna di Berlusconi e del tutto sgradito alla base cosentiniana del partito.
Sembrano quasi argomento tabù, e si capisce pure perchè.
Appena si chiede ai consiglieri di parlare di loro sbottano: “A noi non frega niente della Pascale, e neppure di De Siano”, urla Pasquale Giacobbe, “noi vogliamo nei territori la politica con la p maiuscola. E Nicola Cosentino ci darà una mano su questo!”.
E dei giudizi della Pascale su Cosentino? “Non ci interessa neppure dei giudizi degli altri, quello è un argomento sicuramente trattato frettolosamente o male da qualche giornalista”.
Insomma, la pista da battere è quella dei dissidi con l’amministrazione Caldoro, a prescindere da Cosentino.
Eppure, qualche giorno fa, il senatore Vincenzo D’Anna — uno dei cinque cosentiniani di Palazzo Madama — aveva dato tutt’altra interpretazione dei fatti: “La candidatura di Nicola Cosentino alle prossime elezioni europee sarebbe stata l’occasione per recuperare la ferita che ha portato alla nascita di Forza Campania. Nicola avrebbe sfondato il muro delle 150mila preferenze”.
E quando lo si fa notare a Cosentino, lui finalmente interviene dalla platea: “Ma chi ha mai detto che voglio candidarmi alle europee?”.
Non l’ha sentito D’Anna? “Ma la conferenza stampa la sta facendo con me o con loro?”.
E’ di nuovo Giacobbe, allora, a prendere la parola: “Cosentino ha già chiarito in tante interviste che lui non è candidato alle elezioni europee, l’ha detto non una volta, ma cento volte, e vuole serenamente approfondire e andare avanti nel processo con grande serenità , però nessuno gli può impedire di fare politica”.
E i centocinquantamila voti di cui parlava D’Anna a chi andranno alle europee? “Andranno a Forza Italia o rimarranno bagaglio di questo gruppo di consiglieri regionali i quali andranno fino in fondo se non ci sarà la condivisione in politica”. Come dire: se i nomi in lista non li si sceglie insieme, Forza Italia quei voti può pure scordarseli.
Stesso discorso per le prossime amministrative: “Nel caso in cui nei comuni al voto non ci sia un nome condiviso, ci saranno lista e candidati autonomi con la sigla Forza Campania”.
Insomma, se di strappo con Forza Italia non si può (ancora) parlare, di ultimatum sì.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
DAL CAPPELLO A CILINDRO ESCE LA CAMPAGNA DI ADOZIONE DI ANIMALI ABBANDONATI… MA QUANDO ERA AL GOVERNO CHE HA FATTO PER ELIMINARE IL RANDAGISMO?
Un “papà e una mamma” per migliaia di cani e gatti abbandonati in giro per l’Italia. 
A due mesi dalle Europee Silvio Berlusconi tira fuori dal cilindro la carta “animalista” per provare ad allargare il bacino degli elettori e conquistare la simpatia dei “10 milioni” di italiani che hanno in famiglia un cagnolino o un gattino.
Il Cavaliere annuncia la sua strategia parlando ad un club Forza Silvio di Roma e spiega di aver tratto ispirazione addirittura da un brano di Madre Teresa di Calcutta, “scoperto questa notte”.
“Se impariamo ad amare gli animali “come meritano, saremo molto vicini a Dio”, è la lezione di Madre Teresa, che Berlusconi prontamente cerca di trasformare in un “jolly” elettorale.
La macchina dei club Forza Silvio, è l’esortazione del Cavaliere, deve mettersi in moto anche per trovare dei “genitori adottivi” ai “150mila cani” abbandonati nei canili.
Canili che, tra l’altro, “costano alla collettività 260 milioni all’anno”, sottolinea il leader di FI.
In questo modo, è l’idea dell’ex premier, i tanti amanti degli animali “non potranno che guardarci con una rinnovata simpatia e anche questo aiuterà il popolo dei moderati a diventare forza e maggioranza politica”.
E Berlusconi corona la sua mossa postando, su Facebook, il brano di Madre Teresa con una foto del cane di casa, Dudù, ad una convention di Forza Italia.
L’idea, però, non sembra entusiasmare gli animalisti, a cominciare dall’Associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente (Aidaa) che, mettendo in guardia da strumentalizzazioni elettorali, rileva come quello dei cani abbandonati – al quale vanno aggiunti i “750.000 randagi” – sia un problema che merita “misure concrete”.
A meno che Berlusconi “non venga da noi a fare il dog sitter”, osserva con ironia l’associazione, che per ben due volte si è offerta di ospitare proprio il Cavaliere nel caso in cui, il 10 aprile, venga affidato ai servizi sociali.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
GRASSO: “NON SI POSSONO MODIFICARE LE ISTITUZIONI A COLPI DI FIDUCIA, RENZI RISCHIA DI NON AVERE I NUMERI”… RENZI: “LA MUSICA DEVE CAMBIARE ANCHE PER I POLITICI”…SALVO CHE PER I VENDITORI DI PENTOLE COME LUI
“Il Senato resti eletto dai cittadini”. “Vuoi mantenere lo status quo”. “Non sono un parruccone”. “I politici facciano sacrifici”. “Italicum e riforma del Senato insieme sono un rischio per la democrazia”.
Chi ha scommesso su Berlusconi ha perso: a girare le spalle a Matteo Renzi al tavolo delle riforme è il presidente del Senato Piero Grasso.
Lo scontro è aperto, nel merito e nel metodo.
Nel merito: “Almeno una quota di senatori deve essere eletta” dice la seconda carica dello Stato.
Nel metodo: “Si dice: aspettiamo contributi. Ma ne ho parlato con il ministro Boschi e non ho avuto nessun ritorno”.
Grasso arriva dove sono arrivati solo i giuristi di Libertà e Giustizia: “Italicum e abolizione del Senato insieme porterebbero a un sistema senza contrappesi” e ciò rappresenterebbe “un rischio per la democrazia“.
Avviene tutto a ritmo serrato — intervista di Grasso, replica di Renzi, controreplica di Grasso — a meno di 24 ore dall’arrivo in consiglio dei ministri della bozza del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi.
Uno scambio sul quale la dirigenza del Pd rischia di finire fuori strada, e non solo sulle riforme: la vicesegretaria in pectore Debora Serracchiani arriva alla tentazione di rimettere “in riga” il presidente del Senato.
“Grasso — dice la Serracchiani — è un presidente di garanzia, ma credo anche che, essendo stato eletto nel Pd, debba accettarne le indicazioni”.
Risuonano tonalità berlusconiane del passato (criticate da sinistra) e infatti il primo a opporsi è un deputato del Pd, Giuseppe Fioroni: “Il Pd rispetta le istituzioni e le cariche istituzionali, non le occupa nè le pressa, nè le indirizza. Per questo non siamo la destra”.
La mossa di Grasso
L’alt di Piero Grasso (“Il Senato non va abolito, resti eletto dai cittadini”) è significativo non solo perchè arriva dalla seconda carica dello Stato, ma perchè evidentemente è il messaggio di chi sa di rappresentare un sentimento diffuso nell’assemblea di Palazzo Madama.
Lì, infatti, si comincerà a chiedere ai senatori di abolire se stessi. E quindi il presidente del Consiglio e le sue proposte di riforme istituzionali sembrano poter scivolare in un vicolo cieco: da una parte Grasso (e una parte del Pd) che vuole almeno una quota di un centinaio di rappresentanti eletti direttamente; dall’altra l’alleato delle riforme, Forza Italia, furibondo perchè è stato invertito l’ordine dei lavori al Senato (doveva arrivare prima l’Italicum e invece è andato in coda).
Su tutto, infine, i numeri che sostengono Renzi al Senato: se tutti i partiti dovessero far pesare il proprio pacchetto di voti, il testo del disegno di legge di Renzi potrebbe essere logorato a dir poco.
E una prova di forza sarebbe un azzardo per l’esecutivo.
Lo stesso Grasso cerca di comunicare con il capo del governo: “Io voglio aiutare il presidente Renzi per non farlo trovare davanti a ostacoli. I numeri a palazzo Madama rischiano di non esserci, basta ascoltare le prese di posizione di Forza Italia”.
Renzi: “Rispetto Grasso, ma è ora di cambiare pagina”
Eppure il presidente del Consiglio non sembra spaventato: “C’è massimo rispetto nei confronti del presidente Grasso — dice al Tg2 – ma abbiamo preso un impegno nei confronti dei cittadini che hanno diritto al cambiamento. E’ ora di cambiare pagina. Capisco le resistenze di tutti, ma la musica deve cambiare. I politici devono capire che se per anni hanno chiesto di fare sacrifici alle famiglie ora i sacrifici li devono fare loro. Il vero modo per difendere il Senatonon è una battaglia conservatrice, ma difendere le riforme che stiamo portando avanti”. Se le riforme falliscono “me ne vado — aveva detto l’altro giorno nell’intervista a Enrico Mentana – Rischio l’osso del collo”. Dipende però quali riforme usciranno.
La replica: “Avevo già espresso le mie perplessità . Ma dalla Boschi silenzio”
E infatti Grasso sembra avere buon gioco nella controreplica: ”Non è una compagna conservatrice — spiega intervistato a In mezz’ora, su Rai3 — Io sono il primo rottamatore del Senato, il primo che vuole eliminare questo tipo di Senato”.
Ma il Senato proposto nella bozza di riforma del governo è “una contraddizione in termini“.
E non ci sta a passare dal conservatore che resiste ai riformatori: “Assolutamente non sono un parruccone nè un conservatore — afferma il presidente del Senato — Io sono un riformista, ma le riforme devono essere fatte in un quadro istituzionale, nè sono il portavoce dei senatori”.
Con il presidente della Repubblica “siamo vicini”, precisa, ma della riforma del Senato “non ne ho parlato. Parlo solo a nome di me stesso, non porto opinioni di altri”.
“Se dobbiamo fare una riforma costituzionale — dichiara — bisogna ponderarla e ottenere anche l’apporto dell’opposizione. Non si può cambiare la Costituzione a colpi di fiducia come si è fatto per le Province”.
Eppure Grasso, come già ricostruito dall’Unità , aveva già parlato con il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. Ma dall’altra parte niente, il silenzio.
“Avevo parlato con il ministro di queste mie perplessità — racconta il presidente del Senato — Non ho difficoltà a confermarlo. Ho prospettato quelle che sono le mie idee. Si dice è una bozza e ‘accettiamo dei contributi’ ma vedo che questo non è avvenuto. Non ho avuto nessun ritorno”.
Dopo l’intervista a Repubblica, insiste, “ho sentito tanti senatori che mi hanno detto ‘finalmente qualcuno che osa dire le cose’”.
Grasso: “Accelerare iter legislativo senza indebolire la democrazia”
E forse non è un caso che Grasso abbia lanciato il primo messaggio attraverso un’intervista a Repubblica e, con un retroscena, dall’Unità , entrambi giornali vicini alle posizioni del Pd.
Tuttavia le sue opinioni sono divenute note oggi al pubblico, ma sono conosciute da qualche tempo da Renzi e dal ministro per le Riforme Maria Elena Boschi.
Proprio a lei Grasso ha illustrato nei giorni scorsi la sua idea. E cioè: una quota di senatori deve continuare ad essere eletta direttamente dai cittadini e deve avere piene funzioni da “sentinelle” su alcune materie come il bilancio, le riforme costituzionali, i temi etici.
“Aldilà delle semplificazioni mediatiche — dice Grasso — nessuno parla di abolire il Senato, ma di superare il bicameralismo attuale. L’urgenza è prima istituzionale che economica: dobbiamo accelerare il processo legislativo, senza indebolire la democrazia”.
Et voilà : smontato il progetto di punta del presidente del Consiglio sulle riforme istituzionali. “Da fuori — spiega il presidente del Senato a Repubblica – mi vedono come l’ultimo imperatore, io mi sento l’ultimo dei mohicani”.
Afferma di non voler rinunciare alla parola Senato, ma lo vorrebbe “composto da rappresentanti delle autonomie e componenti eletti dai cittadini”, un Senato “composto da senatori eletti contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli. Per rendere più stretto il coordinamento tra il Senato così composto e le autonomie locali, prevederei la possibilità di partecipazione, senza diritto di voto, dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle aree metropolitane”.
Le differenze tra il progetto di Renzi e il piano di Grasso
Ma sotto il profilo tecnico quali sono le differenze con il progetto di Renzi pubblicato un paio di settimane fa sul sito del governo?
Il ddl pensato dal segretario del Pd e dalla sua responsabile delle riforme Boschi è puntellato su tre elementi principali: una sola Camera dà la fiducia, stop alle leggi che fanno la “navicella” (tra Camera e Senato), Senato con elezione di secondo grado (cioè indicati dai consigli regionali e non dagli elettori) con conseguente taglio di 315 indennità .
Nel piano di Grasso resta il fatto che il Senato non darà la fiducia, ci sarà un tempo di 60 giorni per approvare i disegni di legge del governo (al bando tagliole e ghigliottine, ma anche ostruzionismi vari), ma appunto una quota di un centinaio di senatori eletti direttamente.
Il perchè eccolo: “Ritengo che per una vera rappresentatività sia indispensabile che almeno una parte sia eletta dai cittadini, come espressione diretta del territorio e con una vera parità di genere. Una nomina esclusivamente di secondo grado comporterebbe una accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori”.
Gli equilibri del Senato
Ma non ci si può dimenticare quanto pesano su questo dibattito le forze in gioco. Perchè se all’interno del Pd tutto sembra essere filato liscio (in direzione nazionale è finita 93 a 12 per la relazione di Renzi), gli emendamenti democratici sono ancora lì e molti vanno nella direzione di Grasso.
Rispunta, per esempio, Giuseppe Lauricella, già autore delle “performance” con l’Italicum: suo l’emendamento poi approvato per far valere la nuova legge elettorale solo per la Camera e non per il Senato.
Lauricella propone — come Grasso — una quota di eletti con un sistema proporzionale e una quota di rappresentanti delle professioni.
Un’impostazione non lontana da quella degli altri partiti di maggioranza, Nuovo Centrodestra e Scelta Civica, per esempio.
Dall’altra parte c’è Forza Italia – il “grande alleato” — che lascia partire sbuffi come il Vesuvio. I berlusconiani hanno la luna girata perchè Renzi ha anticipato la discussione sulla riforma del Senato mettendo a data da destinarsi il dibattito sulla riforma elettorale.
In più sono d’accordo sull’elezione diretta di una parte dei senatori e soprattutto sostengono la tesi del “premierato forte”. Tutti all’arrembaggio, dunque.
Cosa rimarrà . Difficile da capire, ma quello di Grasso appare un avvertimento: “Non penso che si possa riformare la Costituzione con un maxi-emendamento e senza alcun contributo delle opposizioni”.
Monti: “L’urgenza non si trasformi in precipitazione”
Dopo l’appello di Libertà e giustizia perchè “Renzi non stavolga la costituzione e non delegittimi il Parlamento” si moltiplicano le voci che raccomandano prudenza. L’urgenza non si trasformi in “precipitazione e scarsa ponderazione. Questo sarebbe pericoloso, soprattutto nelle riforme costituzionali — scrive l’ex presidente del Consiglio e senatore a vita Mario Monti in una lettera inviata al Corriere della sera – Vedo questo rischio, grave, nel provvedimento per il superamento del bicameralismo paritario e per la riforma del Senato, che sarà domani sul tavolo del Consiglio dei ministri”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
CONTESTA LA RIFORMA DI RENZI: “RESTI UN’ASSEMBLEA DI ELETTI: NON DIA LA FIDUCIA, MA SI OCCUPI DI LEGGI COSTITUZIONALI ED ETICHE”
«Certamente la gente pensa, a ragione, che quasi mille parlamentari siano troppi, che la politica
costi molto e produca poco, che sia venuto il momento di dare una sterzata. Ma avverto anche la forte preoccupazione di mantenere, su alcuni temi, la garanzia di scelte condivise. Con un sistema fortemente maggioritario, con un ampio premio di maggioranza e una sola Camera politica, il rischio è che possano saltare gli equilibri costituzionali e ridursi gli spazi di democrazia diretta».
E sarebbe ?
«Affidare a una sola Camera anche le scelte sui diritti e sui temi etici potrebbe portare a leggi intermittenti, che cambiano ad ogni legislatura, su scelte che toccano profondamente la vita dei cittadini e che hanno bisogno di essere esaminate anche in una camera di riflessione, come ritengo debba essere il Senato»
Quindi il suo Senato ideale come si chiama e com’è fatto ?
«Non rinuncerei mai a una parola italiana che viene usata in tutto il mondo. Lascerei il nome di Senato, e dovrebbe essere composto da rappresentanti delle autonomie e componenti eletti dai cittadini…»
Che fa, la stessa proposta del capogruppo di Forza Italia Romani? Ancora un Senato di eletti? Ma così crolla il progetto Renzi…
«Non è la stessa proposta, perchè io immagino un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli. Per rendere più stretto il coordinamento tra il Senato così composto e le autonomie locali, prevederei la possibilità di partecipazione, senza diritto di voto, dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle aree metropolitane »
Renzi vuole come senatori sindaci e governatori regionali, lei perchè è contrario?
«Perchè ritengo che per una vera rappresentatività sia indispensabile che almeno una parte sia eletta dai cittadini, come espressione diretta del territorio e con una vera parità di genere. Una nomina esclusivamente di secondo grado comporterebbe una accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori ».
Quindi un fifty-fifty?
«Non si tratta di percentuali, su quelle vedremo. Credo sia utile la presenza di rappresentanti delle Assemblee regionali, proprio per rafforzare la vocazione territoriale del Senato, estendendo la funzione legislativa regionale a livello nazionale. Ma sindaci e presidenti di Giunte regionali, che esercitano una funzione amministrativa sul territorio, a mio avviso non possono esercitare contemporaneamente una funzione legislativa nazionale, ma soltanto consultiva e di impulso»
Altro che Senato delle autonomie, il suo assomiglia a quello di adesso, solo con meno poteri e competenze.
«Niente affatto. Il Senato che immagino io, anche in parallelo con la riforma del Titolo V, è un luogo di decisione e di coordinamento degli interessi locali fra di loro e in una visione nazionale, e in questo senso dovrebbe sostituire la Conferenza Stato-Regioni».
E come la mette con i soldi? Questo suo Senato, sicuramente, avrà un costo maggiore rispetto a uno di sindaci e governatori perchè gli eletti dovranno necessariamente essere retribuiti. Quindi, con questo sistema, dove va a finire il risparmio previsto da Renzi?
«Possiamo ottenere risparmi maggiori diminuendo il numero complessivo dei parlamentari e riducendo le indennità , solo per iniziare. Poi mi faccia dire che non si può incidere sulla forma dello Stato solo con la calcolatrice in mano».
Questo suo Senato rispetto alla fiducia al governo che fa?
«Non dà la fiducia, non si occupa di leggi attuative del programma di governo, nè di leggi finanziarie e di bilancio. Il rapporto col governo su questi punti deve restare solo e soltanto alla Camera».
Di quali leggi dovrebbe occuparsi?
«Oltre a tutte le questioni di interesse territoriale, delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, di legge elettorale, ratifica dei trattati internazionali, di leggi che riguardano i diritti fondamentali della persona»
Solo questo?
«Io immagino che una Camera prettamente ed esclusivamente politica debba essere bilanciata da un Senato di garanzia, con funzioni ispettive, di inchiesta e di controllo, anche sull’attuazione delle leggi. Chiaramente il Senato dovrà partecipare, in materia determinante, ai processi decisionali dell’Unione Europea, sia in fase preventiva che attuativa. L’apporto di grandi personalità del mondo della cultura, della scienza, della ricerca, dell’impegno sociale non può che essere utile. In che modo e in che forma sarà da vedere».
Due questioni calde, la tagliola sulle leggi del governo che vanno a rilento e i poteri “di vita e di morte” del premier sui ministri. Progetto ammissibile e condivisibile?
«Un termine chiaro entro cui discutere le proposte del governo, in un sistema più snello, non può che accelerare e semplificare l’iter legislativo. La ritengo una buona proposta. La seconda ipotesi non mi sembra sia prioritaria in questo momento».
Praticabilità politica. Dopo il caos del voto sulle province, finito con la fiducia, che prevede per il voto su questa riforma?
«Se si vuole un’accelerazione e una maggioranza di due terzi non si deve procedere mostrando i muscoli, ma cercando proposte più possibili condivise e aperte alla riflessione parlamentare. I senatori non sono tacchini che temono il Natale, e sono pronti a contribuire al disegno di riforma del Senato».
Ne è davvero convinto o s’illude?
«Hanno compreso, credo, le aspettative dei cittadini: partecipazione democratica, efficienza delle istituzioni, diminuzione del numero di deputati e senatori, taglio radicale ai costi della politica. Diminuendo di un terzo il numero dei parlamentari tra Camera e Senato, e riducendo le indennità , si otterrebbe un risparmio ben superiore a quello che risulterebbe, bilancio alla mano, dalla sostituzione dei senatori con amministratori dei comuni, delle aree metropolitane e delle regioni»
Un prossimo voto di fiducia di questo Senato sul futuro Senato è ipotizzabile?
«Non penso che si possa riformare la Costituzione con un maxi-emendamento e senza alcun contributo delle opposizioni».
Il timing di Renzi prevede prima la riforma del Senato, poi quella elettorale, il famoso Italicum. Forza Italia dice già di no e vuole il contrario. Lei che tempistica prevede?
«Dal momento che la legge elettorale riguarda solo la Camera approviamo prima la riforma del Senato, per poi passare immediatamente all’Italicum».
Lei sta già riorganizzando gli uffici di questo Senato. Perchè? Per mantenere lo status quo o in vista della riforma?
«Sto lavorando per proporre al Consiglio di presidenza una riorganizzazione che risponda ad alcune esigenze attese da anni. Questo non ostacola le riforme, anzi le anticipa: razionalizzando le strutture, eliminando quelle non necessarie, valorizzando la prospettiva regionale ed europea del Senato, tagliando dal 30 al 50% le posizioni apicali e andando a ricoprire i posti restanti con nomine a costo zero, senza alcun aumento in busta paga per nessuno. Inoltre è già stato deliberato l’accorpamento di molti servizi con quelli corrispettivi della Camera, e si va verso l’unificazione dei ruoli del personale di Camera e Senato. Voglio che il nuovo Senato parta già nella sua piena efficienza».
Politica e mafia. La polemica sul 416-ter. La sua proposta, appena eletto, è agli atti. Adesso? È d’accordo sull’ipotesi del decreto legge cambiando il testo uscito dal Senato?
«Come ho detto, la mia proposta è agli atti. L’ho presentata il primo giorno, ho ancora il braccialetto bianco al polso e spero che si faccia presto e bene».
Liana Milella
(da “La Repubblica“)
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Marzo 30th, 2014 Riccardo Fucile
DAL 2009 AL 2011 IL SINDACO RISIEDEVA NELLO STORICO PALAZZO MALENCHINI…. PER LE FAMIGLIE DEI MARCHESI, PROPRIETARI DELL’APPARTAMENTO, LE “CORTESIE” DI COMUNE E PROVINCIA… E LA CORTE DEI CONTI CONTESTA A RENZI ALTRI DANNI ERARIALI
Se non fosse stato per la marchesa Cornaro, nominata assessore in Provincia nel 2004, Matteo Renzi non avrebbe trovato la sua prima casa fiorentina, in via Malenchini 1, dove da sindaco ha registrato la residenza dal 13 novembre 2009 al 13 marzo 2011, prima di trasferirsi nell’appartamento di via degli Alfani 8, pagato dall’amico Marco Carrai.
Fu la marchesa Giovanna Folonari Cornaro a presentare l’allora giovane ed esuberante presidente della Provincia alle famiglie nobili di Firenze tra cui il marchese Luigi Malenchini, proprietario dell’abitazione di 80 metri quadri poi affittata al sindaco.
Che il cognome sia uguale al nome della via non è un caso: il palazzo è uno dei più antichi di Firenze.
Costruito nel 1348, è incastrato a 300 metri da Palazzo Vecchio, gli Uffizi, Santa Maria alle Grazie, Ponte Vecchio. Insomma nel cuore della città .
Renzi paga al mese 900 euro d’affitto per una mansarda. Luigi è proprietario di tutti gli immobili e risiede nel palazzo di via Vincenzo Malenchini 1. Qui vive anche sua moglie, Livia Frescobaldi.
Mentre Luigi in quegli anni opera nel ramo agricolo, proprietario dell’azienda Agri Carignano e consigliere tra l’altro della Marchesi Ginori Lisci, Livia si dedica alla cultura, pur essendo azionista della Compagnia Frescobaldi Spa, azienda di famiglia che gestisce ben cinque tenute, in particolare nelle zone Chianti Rufina e Montalcino, e produce alcuni dei vini toscani più noti e diffusi al mondo, uno su tutti il Nipozzano.
Due mondi simmetrici dunque, quello di Renzi e quello della coppia Malenchini Frescobaldi. Che però inconsapevolmente si incontrano già nel 2008. Quando la Provincia di Firenze, guidata dall’attuale premier, organizza e finanzia il Genio Fiorentino.
Alle casse dell’ente l’iniziativa costa 881 mila euro, parte dei quali espressamente dedicati a organizzazioni di eventi e mostre finalizzate alla promozione e sviluppo dei vini toscani.
Con esattezza, 141 mila euro di eventi, nella manifestazione GeniDiVini: a farla da padrone (indiscusso) proprio il Castello di Nipozzano-Marchesi de’ Frescobaldi.
Una casualità ? Senz’altro. I dettagli delle fatture sono però nelle mani della Corte dei conti che sta indagando con l’ipotesi di danno erariale per 9 milioni di euro a carico della giunta guidata da Renzi.
Una casualità , senz’altro, perchè le cronache cittadine fanno risalire l’amicizia tra il premier e la coppia a inizio 2009, alla cena elettorale organizzata a sostegno dell’allora candidato sindaco da Ambrogio Folonari e signora, Giovanna Folonari Cornaro.
C’erano tutti i blasoni che contano, dai marchesi Mazzei ai Bini Smaghi.
Le famiglie patrizie iniziarono così, come mai prima, a mischiarsi con la politica cittadina.
Tanto che per sostenere Renzi, i nobili toscani negli ultimi anni hanno persino varcato i circoli Arci e le storiche case del Popolo.
Sponsorizzato da Giovanna Folonari che Renzi, con un colpo a sorpresa nel 2004 nominò assessore al Turismo e alla Cultura della Provincia da lui guidata. Lei è rimasta talmente entusiasta dell’esperienza da voler divulgare orgogliosamente il suo curriculum.
Dieci righe: nome, cognome, data di nascita, esperienza lavorativa da assessore e firma. Punto. Non stupisce che nel 2011 la Corte dei conti abbia poi condannato Renzi e altri per danno erariale nei confronti della Provincia di oltre 2 milioni di euro per aver assunto persone non qualificate. Tra cui proprio la nobildonna.
A cui Renzi prestò, gentilmente, l’avvocato di fiducia: Alberto Bianchi.
Nel 2010, intanto, a Livia Frescobaldi, moglie del proprietario di casa in cui abitava, il Comune guidato da Renzi affida la cura della mostra “Il Risorgimento della maiolica italiana”, patrocinata da Palazzo Vecchio e sostenuta , tra gli altri, dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze guidata dall’amico Marco Carrai.
L’anno successivo Livia Frescobaldi fa il suo ingresso, nominata sempre dal Comune, nel Gabinetto scientifico letterario Vieusseux.
A conferma che la nobiltà sostiene apertamente Renzi, c’è anche il contributo versato dalla Frescobaldi alla fondazione Big Bang per finanziare la campagna di Renzi per le primarie a segretario del Pd.
Un contributo simbolico, per carità , 250 euro.
Un po’ come quell’affitto da 900 euro per una mansarda immersa nel cuore di Firenze.
Davide Vecchi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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