Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile DAI 12,3 MILIONI DI ISCRITTI ARRIVA UN CONTRIBUTO DI CIRCA L’1% SU PENSIONE O STIPENDIO
Cgil, Cisl e Uil vantano insieme 12,3 milioni di iscritti e sono per definizione una potenza economica.
Ogni iscritto paga infatti una tessera e una quota mensile, trattenuta sullo stipendio o sulla pensione, all’incirca l’1%. Trattenuta a vita, salvo disdetta per iscritto.
Un lavoratore, insomma, si può stimare prudentemente che versi al sindacato in media circa 130 euro all’anno e un pensionato 60.
Considerando che i lavoratori iscritti alle tre confederazioni sono 6,3 milioni si tratta di circa 828 milioni, ai quali si sommano altri 360 milioni che arrivano da pensionati e altri iscritti (disoccupati, per esempio).
In tutto quasi un miliardo e duecento milioni l’anno che arrivano dai tesserati. Che rappresenta certamente la quota maggiore delle entrate del sindacato
Ma ci sono anche risorse che vengono da finanziamento pubblico, «diretto e indiretto», come scrisse Giuliano Amato nella relazione consegnata al governo Monti nel 2012, che lo aveva incaricato di far luce sul tema per vedere se era possibile tagliare qualcosa.
Amato si soffermò su tre voci: i distacchi sindacali nel pubblico impiego, cioè lavoratori che fanno i sindacalisti ma continuano a prendere lo stipendio dall’amministrazione pubblica; i fondi ai patronati, che assistono gratuitamente lavoratori e pensionati in particolare nelle pratiche previdenziali; i fondi ai Caf che si occupano invece di compilare e trasmettere le dichiarazioni dei redditi.
L’ex premier concluse che ci sono margini solo sui distacchi nel pubblico impiego, che causano assenze retribuite dal lavoro corrispondenti a 3.655 dipendenti l’anno (uno su 550) per un costo di 113,3 milioni di euro.
E guarda caso una delle 44 proposte di riforma della pubblica amministrazione lanciate dal governo Renzi prevede il dimezzamento dei distacchi.
Per il resto, Amato suggeriva di non tagliare, nè sui patronati nè sui Caf, perchè svolgono funzioni essenziali (riconosciute da sentenze della Corte costituzionale quelle dei patronati, che inoltre sono finanziati con i contributi versati dalle aziende all’Inps) sia perchè entrambi hanno già subito pesanti tagli dei contributi.
Ogni anno ai patronati vanno circa 430 milioni di euro. Una somma che si dividono una trentina di sigle, in base all’attività svolta.
Certo la parte del leone la fanno i patronati di Cgil, Cisl e Uil, ma ci sono anche gli istituti promossi dai sindacati minori e dalle associazioni delle imprese.
Ai Caf vanno invece circa 170 milioni. In questo caso le sigle sono addirittura 80.
Il 45% dell’attività viene svolto dai centri di Cgil, Cisl e Uil e degli altri sindacati, il resto dai Caf delle altre associazioni (datori di lavoro, professionisti, organizzazioni cattoliche)
Distacchi, fondi pubblici ai patronati e ai Caf, sono forme indirette di finanziamento, di cui non si trova traccia nei bilanci dei sindacati.
Caf e patronati hanno infatti bilanci separati. Ma anche restringendo il campo di osservazione ai sindacati non si troverà altro sui rispettivi siti che i bilanci delle confederazioni nazionali.
Non esiste insomma il bilancio consolidato, che tiene insieme tutte le strutture sindacali, di categoria (metalmeccanici, chimici, pubblico impiego, ecc.) e territoriali (regioni, province, ecc.).
E parliamo di Cgil, Cisl e Uil, perchè se passiamo ai sindacati minori talvolta non esistono nemmeno i bilanci o meglio sono segreti.
Basti pensare all’Ugl e forse non è un caso, vista l’inchiesta della magistratura che ha travolto il segretario Giovanni Centrella accusato di appropriazione indebita aggravata.
Del resto i sindacati sono associazioni di fatto e in quanto tali non hanno obblighi particolari. Ogni sigla si comporta come meglio crede.
Fino a poco tempo anche la Fiom-Cgil, che adesso con il segretario Maurizio Landini chiede trasparenza, teneva nascosto il proprio bilancio. Poi, dopo l’arrivo di Renzi e il pressing su «tutte le spese online», la svolta. Sul sito Landini ha fatto pubblicare non solo il bilancio ma anche le sue buste paga e le retribuzioni medie dei dipendenti della struttura nazionale.
Apprendiamo così che Landini guadagna 2.250 euro al mese.
Per i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil dobbiamo attenerci invece a dichiarazioni e notizie filtrate sui media negli ultimi anni: circa 3.500 euro al mese disse di ricevere l’ex segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, 4 mila euro quello della Uil, Luigi Angeletti, 4.500 Raffaele Bonanni.
Infine, Cgil, Cisl e Uil hanno una grande ricchezza patrimoniale: circa 3 mila immobili la Cgil, 5 mila la Cisl e un numero imprecisato la Uil.
Tutto grazie a una legge (la 902 del 1977) che attribuì loro gratuitamente il patrimonio dei disciolti sindacati fascisti.
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile TUTTE LE STRADE PORTANO A BEIRUT: PER EVITARE IL CARCERE DOPO LA CONDANNA PER MAFIA
È Beirut la terra promessa per chi, come gli ex parlamentari di Forza Italia Marcello Dell’Utri e Amedeo
Matacena, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Il primo, amico da una vita di Silvio Berlusconi, si trova nella capitale libanese da quasi un mese e il ministero della Giustizia ha già spedito le carte per chiederne l’estradizione.
Infatti sull’ex senatore siciliano pende un mandato d’arresto. Inoltre a breve la Cassazione dovrà esprimersi sulla condanna a 7 anni inflitta a Dell’Utri dalla corte d’Appello.
Anche Matacena, che è stato condannato in via definitiva per lo stesso reato a 5 anni di carcere, ha cercato di raggiungere Beirut, ma senza successo.
Infatti l’ex parlamentare, dopo essere fuggito dall’Italia ha girato alcuni Paesi fino ad arrivare negli Emirati Arabi Uniti dove era stato arrestato dalla polizia locale al suo arrivo all’aeroporto di Dubai su segnalazione delle autorità italiane.
Pochi giorni dopo, però, Matacena è tornato in libertà in quanto non è stata completata la procedura di estradizione in Italia.
La giurisdizione degli Emirati arabi, dove non esiste il reato di criminalità organizzata e con i quali l’Italia non ha accordi bilaterali, prevede che i cittadini stranieri in attesa di estradizione non possano essere privati della libertà oltre un certo limite di tempo.
Matacena non poteva però lasciare il Paese arabo in quanto privato del passaporto.
Per la giustizia italiana è rimasto un latitante. È in questa fase, secondo l’accusa, che sarebbe intervenuto Claudio Scajola – arrestato per procurata inosservanza di pena- che avrebbe cercato di aiutare Matacena a trasferirsi in Libano.
Nella sua ordinanza, il gip scrive che le investigazioni “vedono Scajola in pole position nell’impegno volto all’individuazione di uno Stato estero che evitasse per quanto possibile l’estradizione di Matacena o la rendesse quantomeno molto difficile e laboriosa. Tale Stato Scajola lo individuava nel Libano, impegnandosi con personaggi esteri di rango istituzionale per ottenere tale appoggio per tramite di importanti amicizie “. Come ad esempio Vincenzo Speziali, nipote e omonimo dell’ex senatore del Pdl.
Ma perchè proprio Beirut?
E qui torna in ballo il reato per cui sono stati condannati i due ex compagni di partito.
Difatti in Libano il concorso esterno in associazione mafiosa non sanno nemmeno cosa sia. Eccolo, dunque, l’inghippo. La contemplazione da parte dell’ordinamento giuridico libanese del tipo di reato in questione risulta determinante.
E su questo punto i tempi per il caso Dell’Utri potrebbero allungarsi. Per Matacena forse potevano.
“Stiamo parlando della capitale, giusto? Che inizia con la L, no, che inizia con la B”.
A dirlo è la moglie di Amedeo Matacena, Chiara Rizzo, in una delle tante telefonate intercettate con l’ex ministro Claudio Scajola.
Una telefonata che secondo gli investigatori testimonia come Scajola si sia impegnato per fare in modo che Matacena potesse proseguire la sua latitanza in Libano, ed in particolare nella capitale Beirut. La moglie di Matacena, infatti, si corregge con le iniziali dopo che Scajola le dice “Beh, il paese con…”.
Ma non c’è solo questo passaggio, scrive il gip nella sua ordinanza di custodia cautelare, a fare “comprendere che la città individuata da Scajola sia Beirut”.
In un’altra telefonata, infatti, l’ex ministro, sempre parlando con la Rizzo, le dice: “ti ricordi di Beirut? Prova a concentrarti perchè passa così… questi miei amici, quando sono andato a Beirut, poi sono venuti su… amici miei, l’ex presidente, hai presente?”.
Nella stessa telefonata Scajola poi prosegue: “ieri ho visto questo tizio e il discorso è venuto lì. Mi dice ‘noi siamo amici di la, poi ho capito perchè, perchè Beirut è una grande Montecarlo e Dubai è una grande Montecarlo, tanto per essere chiari. Io vado a Roma prima perchè domenica questo qui viene su, suo zio. Viene su lo zio e mi dice ‘stiamo a cena insieme’ e devo trovare… va beh, basta, hai capito più o meno… devo dirti delle cose e devo sapere delle cose, se tu lo desideri, in modo che io possa trasmettere giusto, punto.”
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile PERCHE’ HO SMESSO DI ANDARE ALLO STADIO
Smetto quando voglio, smetto quando voglio, smetto quando voglio.
E poi — colpo di scena — ho smesso.
E il motivo per cui ho smesso di andare allo stadio non è esattamente la presenza di giovani hegeliani tipo Genny a’ Carogna e consimili intellettuali organici. O non solo.
Piuttosto una somma di motivi intrecciati che riguardano me — innegabile — ma pure lo stadio.
E dunque. Ci andavo, da quando ero bambino, con mio padre, il che ammetterete fa di quel sedersi scomodo — freddo, caldo, vento, pioggia, tempesta — una bella èducation sentimentale. E se volete anche un po’ di romanticismo ragazzino, eccolo: un gol di Boninsegna contro il Foggia in rovesciata plastica che io — undicenne — cercai poi di imitare ogni giorno fino all’età della ragione, più o meno.
Ma poi. Ma poi mio padre si è spiaggiato davanti a Sky, gli anni passavano, e io ci andavo con gli amici.
Ma poi. Ma poi diventava un inferno. Lentamente. Inesorabilmente. Perchè per un’ora e mezza di partita ti partiva via un pomeriggio intero, perchè il parcheggio costava come una cena in pizzeria, perchè nella città moderna di Milano la metropolitana allo stadio non arriva e ti devi fare un paio di chilometri in una navetta stracolma; navetta che al ritorno, per un mistero doloroso che nessuno sa spiegare, non c’è.
E allora c’è una specie di ritirata di Russia di chilometri per raggiungere il metrò.
Poi, certo, c’entrano anche i Gerry a’ Carogna. Non solo loro.
Perchè arrivi e, pur dirigendoti pacifico verso il tuo posto di tecnici da bar e pensionati e cittadini normali rispettosi della legge, vieni perquisito e immancabilmente ti sequestrano l’accendino bic.
E allora nel tuo settore di stadio il grido che si sente non è più “Passala, cazzo!” o “Tira!”, ma “Chi mi fa accendere?”, nella speranza che qualche fumatore vicino di posto sia sfuggito alla perquisa.
E dopo esserti fatto sequestrare un accendino alla settimana (o una bottiglietta d’acqua), scopri che qualcuno ha fatto entrare bombe carta, mortai della prima guerra mondiale, razzi, fumogeni, testate nucleari.
E poi il fastidio, quasi fisico per un sincero democratico, di sentirsi per un’ora e mezza nelle orecchie qualche centinaio di pirla che urlano a quegli altri (l’altro centinaio di pirla che gli sta di fronte) che sono “ebrei”, oppure “zingari”, o “pezzi di merda” e naturalmente (cosa irritantissima) “Se veniamo di lì \ Se veniamo di lì \ Vi facciamo un culo così”.
Andiamo, chi passerebbe una domenica pomeriggio in una prima media di ragazzi difficili, disadattati, un po’ scemi e pure violenti?
Ricordo una partita in cui gli ultras presero di mira un giocatore nero, per cui lo scenario era: ultras contro mezz’ala di colore (buu, buu), e pubblico normale contro ultras (scemi, scemi). Della partita non ricordo nulla, ma ricordo bene che uscii dallo stadio con una domanda in mano: “Che cazzo ci faccio io qui?”
Ora, senza nulla togliere a Genny a’ Carogna e al suo quarto d’ora di notorietà , vorrei rassicurarlo: non è lui il problema.
Anzi, lui ne è la tragicomica, esilarante, lombrosiana caricatura.
Il problema è un po’ più complicato: è quanto tu, cittadino “normale” ti puoi sentire ancora normale in una situazione che di normale non ha niente, che è lontana mille miglia da quello che pensi, dici, fai e sei ogni giorno della tua vita quando sei fuori di lì.
Dunque, non riuscendo a lasciare a casa il cervello e cercando di portartelo pure allo stadio, la cosa diventava difficile, impraticabile.
E così, smetto quando voglio.
E ho smesso.
Alessandro Robecchi
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile E’ LA STESSA ITALIA CHE HA VOLUTO TASSARE DEL 2% LE RIMESSE DEGLI IMMIGRATI VERSO I LORO PAESI DI ORIGINE
Qualche giorno fa la Fondazione Leone Moressa ha reso noto che nel 2013 è stato registrato un calo del 20%
delle rimesse degli immigrati.
Ciò significa che in quei dodici mesi sono stati spediti nei paesi di origine 5,5 miliardi di euro, ovvero 1,3 miliardi di euro in meno rispetto agli anni precedenti.
Nel 2007, ad esempio, erano stati versati da ogni migrante quasi 800 euro in più, l’equivalente di circa duemila euro.
Nel dettaglio, il Paese che più ha risentito di questa diminuzione è stata la Cina che ha perso oltre 1,5 miliardi di euro (-59%) ma rimane comunque tra i principali destinatari insieme a Filippine, Messico e Bangladesh.
A livello regionale è il Lazio ad aver subito il calo più forte (-48%), seguito dalla Campania (-0,20%), dalla Sicilia (-0,33%) e dalla Lombardia (- 19%).
Secondo la Banca Mondiale i tassi di cambio giocano un ruolo cruciale nella determinazione dei flussi delle rimesse.
Un costo basso della valuta locale fa aumentare i trasferimenti di denaro e, viceversa, una forte moneta nazionale può far posticipare l’invio, in attesa di tassi favorevoli.
Le rimesse hanno in parte sostituito, o comunque sono andate ad affiancare, i contributi inviati da organismi internazionali e da altri stati verso i paesi più poveri.
Contribuiscono, dunque, alla crescita economica di paesi più arretrati e il loro impatto è più immediato rispetto a quello degli aiuti umanitari.
Esse, infatti, arrivano direttamente alle famiglie dei migranti che possono decidere autonomamente come investire quei capitali.
I paesi in via di sviluppo sono poi quelli in cui le rimesse giocano un ruolo cruciale dal momento che, almeno per quanto riguarda l’Italia, nell’arco di tempo 2008-2012 il fondo per la cooperazione internazionale era stato letteralmente svuotato. E non solo. Ad aggravare la situazione nel 2011 era stata introdotta una tassa del 2% su ogni rimessa inviata al paese d’origine.
Al tempo del governo Pdl-Lega, dunque, non solo si è investito poco nella cooperazione ma si è cercato anche di ostacolare l’invio di capitali in patria da parte dei risparmiatori migranti.
Viene quasi da pensare che quelle espressioni come «fora da i ball» e «aiutiamoli a casa loro», perdano di senso in assenza di gesti concreti, come appunto l’incremento del fondo per la cooperazione internazionale.
Con la nuova legge di stabilità quel contributo è stato aumentato ma bisognerà aspettare un po’ di tempo prima di vedere come saranno impiegati quei fondi.
A questo proposito l’Italia si è posizionata al 60° posto del rapporto annuale «Aid Transparency Index 2013» per quanto riguarda la trasparenza nella comunicazione e rendicontazione degli interventi
Insomma, pare che finora si sia fatto poco e male su questo fronte.
Una sottovalutazione ai cui effetti nei prossimi anni bisognerà trovare rimedio, ad esempio rispettando l’incremento del 10% delle risorse complessivamente stanziate per il 2013, corrispondente a 250 milioni di euro.
Valenia Brinis e Valentina Calderone
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile ‘LE CATENE DELLA SINISTRA'” IL NUOVO LIBRO DI CLAUDIO CERASA
Il matrimonio fra sinistra italiana e poteri forti pare ormai un luogo comune, ma non è sempre stato così.
Il colpo di fulmine (o il peccato originale) lo descrive Claudio Cerasa ne “Le catene della sinistra – Non solo Renzi. Lobby, interessi, azionisti occulti di un potere immobile”, un libro pubblicato da Rizzoli.
Cerasa guarda indietro nella storia del paese (un lavoro da giornalista, ma ormai quasi da storico) e sfoglia quelle che paiono le foto della cerimonia, così nitide che potrebbero essere state scattate oggi.
“Il primo momento storico da prendere in considerazione per osservare in modo nitido la progressiva sovrapposizione tra il pianeta dell’establishment e il mondo della sinistra — sovrapposizione che in parte riguarda non solo i vecchi leader del centrosinistra, i vari Massimo D’Alema, i vari Walter Veltroni, i vari Pier Luigi Bersani, ma anche […] lo stesso Matteo Renzi — risale al 1992. E più in generale agli anni di Tangentopoli”.
Alla fine di Mani Pulite, argomenta Cerasa, il panorama politico italiano era infatti perlopiù desertificato, e il “vecchio establishment” (guidato da Fiat, Eni e Mediobanca) si trovava a corto di cavalli su cui puntare, con la solitaria eccezione del sopravvissuto ex-Partito comunista, il Pds.
Inizia così quel flirt un po’ incestuoso coi cosiddetti poteri forti che l’autore imputa alla sinistra italiana, “soprattutto democristiana”.
“Nasce in quegli anni la classe dirigente ibrida, un po’ tecnica e un po’ progressista, che vede in Beniamino Andreatta (ex dirigente Eni, futuro ministro dell’Industria, padre dell’Ulivo, molto legato al mondo Fiat), in Romano Prodi (all’epoca presidente dell’Iri), in Giovanni Bazoli (all’epoca capo del Banco Ambrosiano), in Luigi Abete (all’epoca capo di Confindustria, oggi capo della Bnl) e in Giovanni Guzzetti (all’epoca uomo di collegamento tra il centrosinistra e il mondo delle fondazioni e delle casse di risparmio) i suoi veri, solidi e affidabili punti di riferimento”.
Ma la vera luna di miele, come da immaginario, si fa in crociera. Mentre la classe politica della Prima Repubblica sta affondando – una manetta dopo l’altra – al largo fra Civitavecchia e l’Argentario il 2 giugno 1992 salpa una nave, la Britannia.
Ed è proprio a bordo di questa nave che il matrimonio sinistra-poteri forti – così come lo racconta Cerasa – si consuma.
“Sulla fregata ci sono tutti: il direttore generale del ministero del Tesoro, Mario Draghi, il presidente di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi, il futuro ministro del Bilancio e allora dirigente dell’Eni, Beniamino Andreatta, il vicepresidente dell’Iri, Riccardo Gallo, il presidente del Banco Ambrosiano Veneto, Giovanni Bazoli, il presidente dell’Imi, Rainer Masera, il capo della Comit, Mario Arcari, il presidente dell’Ina, Lorenzo Pallesi, il direttore generale della Confindustria, Innocenzo Cipolletta, e naturalmente George Soros, uno dei più grandi finanzieri e speculatori del mondo”.
Il dono di nozze? Qui Cerasa procede cauto, con un’avvertenza: il tema solitamente attrae “i sostenitori della teoria del complotto”, cioè della presunta svendita dei “gioielli italiani” agli speculatori internazionali da parte dei politici italiani.
La particolarità fu che la stagione delle privatizzazioni [del governo di Giuliano Amato] avvenne a ridosso di un attacco speculativo che cambiò per sempre il rapporto tra le èlite italiane, la sinistra e il mondo dell’establishment: quello con cui George Soros, nel settembre del 1992, sferrò un clamoroso assalto alla lira costringendo l’allora capo di Bankitalia, e prossimo presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, a prosciugare le riserve auree della Banca d’Italia, a spendere 48 miliardi di dollari per difendere la lira, a svalutare la moneta del 30% e a non avere sufficienti armi a disposizione per evitare che i pacchetti azionari degli enti statali messi in vendita dal presidente Amato (con il decreto 333/1992 che trasformò in società per azioni aziende come Iri, Enel, Ina) finissero nelle mani degli speculatori a un prezzo molto basso.
Ma aldilà di “curiose coincidenze”, il dato di fatto che resta, secondo l’autore, è che fu proprio quello il momento in cui gli elettori italiani avrebbero avvertito una sensazione “precisa e mai del tutto chiarita”: cioè che “la sinistra e l’establishment sono due facce di una stessa medaglia: quella del potere”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile GRILLO PREVALE TRA GLI ELETTORI SOTTO I 44 ANNI CON IL 33%, IL PD TRA GLI OVER 65 CON IL 46%
Le indicazioni di voto per le elezioni europee del 25 maggio sono nette: Grillo ha conquistato i giovani. 
Nella fascia tra 18 e 44 anni il Movimento 5 Stelle è primo, con percentuali oscillanti tra il 32 e il 34%.
Il Partito democratico riesce a diventare la prima forza del Paese, superando i 5 Stelle di 10 punti, solo col contributo degli over 65, tra i quali è al 46%.
Il comportamento di voto delle diverse categorie di cittadini si differenzia in qualche caso profondamente.
È quindi importante capire chi rappresenta chi, in un momento come questo, in cui i riferimenti sociali e la strutturazione della rappresentanza si vanno profondamente trasformando.
Gli uomini e le donne
Qui le differenze non sono profondissime ma ci sono e vanno colte.
Gli uomini: la differenza principale è rappresentata dal voto per Grillo.
Benchè tra i maschi il Pd rimanga sempre il primo partito, la distanza dal Movimento 5 Stelle, di 10 punti sul totale degli elettori, qui si riduce di molto, a meno di tre punti.
Le donne: decisamente meno orientate al voto per il Movimento che qui slitta al terzo posto dopo Forza Italia.
Tra di loro infatti crescono i consensi per i due grandi partiti «tradizionali» (+ 3% il Pd, +1,7% Forza Italia).
Maggiori i consensi anche alla Lega e alla lista Tsipras, mentre cala il voto per le formazioni centriste (due punti in meno, speculari al voto maschile).
Molto più sensibili le differenze per età .
Tra giovani e giovanissimi M5S è il primo partito: 33% tra i 18 e i 24 anni, 34% dai 25 ai 34, 32% dai 35 ai 44.
Soffrono fortemente in queste fasce i partiti «tradizionali» e in particolare il Pd: in difficoltà tra i giovanissimi, al suo punto più basso tra i 25 e i 34 anni.
E sempre in queste fasce, in particolare tra le più giovani, aumenta il consenso per la Lega e, in maniera ancora più netta, per la sinistra di Tsipras.
Non è un fenomeno nuovo. Spesso il voto giovanile ha avuto caratteristiche etichettate come «antisistema» e anche in questa tornata sembra confermarsi questo orientamento.
Le cose cambiano, anche bruscamente, dai 45 anni in su.
Qui Pd e Forza Italia riprendono fiato e il partito di Renzi diventa stabilmente il primo, con un consenso crescente al crescere dell’età .
Ma è dai 65 anni un su che il panorama diventa radicalmente diverso.
Il M5S si riduce ai minimi termini (8%), mentre esplode il Pd (46%) e Forza Italia ha il suo risultato migliore (23%).
Tengono, con qualche miglioramento, le formazioni centriste e la Lega, penalizzate le altre.
Pd e Ncd fanno breccia tra i laureati
Il livello di scolarizzazione è un’altra variabile influente nell’orientare il voto.
Tra i laureati Forza Italia è al lumicino (9%) e anche Grillo arretra di quasi 4 punti, mentre migliorano il Pd e ancora più sensibilmente le forze centriste, in particolare la coalizione che fa perno su Ncd.
Ma anche le altre forze minori incrementano le proprie posizioni e c’è una vera e propria esplosione della lista Tsipras che quasi triplica i propri consensi avvicinandosi al 9%.
È quindi un voto molto più «disperso», un voto più critico e meno concentrato sulle forze maggiori.
Ma è all’estremo della scala che troviamo un vero ribaltamento: tra chi ha la licenza elementare o non ha titoli, il Pd esplode al 46%, Grillo scende ai livelli più bassi, Forza Italia ha i consensi più alti. Il frastagliarsi del voto dei laureati qui scompare.
Il centro convince imprenditori, dirigenti e professionisti
Molto più complessa l’analisi per condizione professionale.
I ceti elevati (imprenditori, dirigenti, professionisti e quadri direttivi) sono molto attenti al centro, le cui formazioni crescono con Scelta europea che quasi raddoppia, e alla destra con una buona performance di Fratelli d’Italia.
Molto basso il consenso a Forza Italia, contrazioni per il Pd, poco sopra la media Grillo.
I lavoratori autonomi sembrano aver definitivamente abbandonato il «forzaleghismo» a favore del Movimento 5 Stelle. o hanno fatto nel 2013, lo confermano oggi. I ceti medi (impiegati insegnanti) sono in parte tornati all’ovile.
Avevano penalizzato il Pd el 2013, anche in questo caso a favore i Grillo, oggi il fenomeno sembra rientrare.
Gli operai: qui Grillo a il suo consenso massimo. Il peso della crisi spinge ad un voto di protesta.
Le casalinghe
Infine le casalinghe: erano uno ei punti di Forza Italia, oggi non è più così.
Al contrario si trova uno dei unti più alti del consenso per il Pd: l’effetto Renzi, in un segmento in cui la personalizzazione assume un’elevata importanza.
L’uso dei mezzi di informazione a ua volta influenza i comportamenti: hi usa la Tv come mezzo esclusivo o revalente di informazione guarda i più a Forza Italia e alla Lega, i lettori i quotidiani danno il massimo dei consensi al Pd e guardano con favore d Ncd e Tsipras mentre penalizzano fortemente Grillo, gli internettiani naturalmente massimizzano i consensi per Grillo, che qui raggiunge il 47%.
Infine il voto cattolico.
Anche qui ci sono differenze apprezzabili e non scontate.
Ad esempio il Pd ha i consensi più elevati tra chi si reca a messa tutte le settimane, ma il suo punto più basso tra chi non frequenta le funzioni religiose.
Altre correlazioni sembrano più scontate: la destra e il centrodestra sono più votati dai cattolici assidui, che penalizzano fortemente Grillo; la sinistra e il M5S massimizzano i loro consensi tra chi non frequenta le funzioni religiose.
Come si vede oggi la rappresentanza è sempre più articolata e sempre meno definita dagli schemi sociali classici.
Assieme alla riforma delle istituzioni di governo diventa necessaria una ridefinizione delle strutture e delle forme di organizzazione del consenso e di rappresentazione dei bisogni.
Nando Pagnoncelli
(da “il Corriere della Sera“)
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile LE RIUNIONI SI TENEVANO NEGLI UFFICI DI UNA ONLUS…IL RUOLO DI GRILLO E GREGANTI
Un caveau in Svizzera per custodire le mazzette, una onlus come ufficio operazioni costantemente “bonificata” per evitare di essere intercettati, funzioni pubbliche “vendute” e “impegnate” anche per il futuro, e l’ultima una bustarella consegnata e “fotografata” dagli inquirenti il 24 aprile scorso.
Sono solo alcuni dei tasselli che portano alla ricostruzione di un mosaico che sembra rimasto lì da 22 anni.
Con nuovi protagonisti che delinquono e vecchi che sembrano non aver mai smesso. L’operazione, che ha portato a una nuova bufera sugli appalti Expo, non solo vede come protagonista il direttore della pianificazione acquisti di Expo, Angelo Paris, ma protagonisti in negativo del passato l’ex segretario regionale della Dc lombarda e parlamentare di Forza Italia (pluricondannato) Gianstefano Frigerio, lo storico esponente del Pci Primo Greganti (il “compagno G”) e l’imprenditore Enrico Maltauro.
È proprio quest’ultimo che viene immortalato dagli investigatori e per cui il gip scrive che “il citato imprenditore assume un ruolo attualmente fondamentale in seno all’organizzazione in quanto consustanziale alle stesse turbative… “.
C’è poi il pubblico ufficiale Paris che “mette a completa e totale disposizione del sodalizio di appartenenza non solo la pubblica funzione da lui nell’attualità svolta, cioè quella di Direttore Generale di EXPO s.p.a., ma si impegna con l’associazione e nell’associazione a subomare anche le ulteriori e future pubbliche funzioni che eserciterà , in particolare anche presso la IL s.p.a., in vista del perseguimento dei fini delittuosi del sodalizio alla quale attuazione sono collegati gli avanzamenti di carriera agognati dal pubblico ufficiale ed a lui promessi in seno al sodalizio quale remunerazione per l’attività illecita svolta”.
Gli altri a essere stati raggiunti da un ordine di custodia cautelare in carcere sono stati l’intermediario genovese Sergio Catozzo (ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano) e l’ex senatore del Pdl Luigi Grillo, già coinvolto in numerose inchieste (la più nota quella sulla Banca Popolare di Lodi, alla fine della quale è stato assolto in appello).
Ai domiciliari, infine, Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche. 
Per tutti scrive il gip “sono stati accertati i gravi indizi di colpevolezza … anche in ragione delle personalità degli indagati evidenziate dalle suddette modalità di esecuzione delle fattispecie in oggetto, poste in essere con ‘professionalità ‘ e ‘gestione imprenditoriale’ dei diversi ‘settori’ nei quali operano corrotti e corruttori in funzione delle turbative. Rilevano quindi le notevoli capacità e proclività a delinquere degli indagati”.
Con “le persistenti, riprovevoli ed attuali ‘strumentalizzazioni’ delle pubbliche funzioni poste in essere mediante ‘riunioni’ eseguite non solo presso la più volte citata Onlus ma addirittura in luoghi pubblici o aperti al pubblico”.
Il giudice sottolinea anche “la condotta di” Grillo “addirittura tenuta anche antecedentemente alla cessazione nel marzo 2013 delle sue funzioni di Parlamentare-Senarore delle Repubblica italiana”.
Il magistrato di Frigerio e Greganti ricorda anche il curriculum. Per il primo “in particolare, è stato condannato con due sentenze passate in giudicato oltre che per ricettazione anche per una corruzione, per due concussioni e per cinque fattispecie in materia di violazione delle norme sul finanziamento ai partiti politici. Il detto indagato ha altresì agito, commettendo i reati per i quali sono innanzi accertati i gravi indizi di colpevolezza, nonostante l’intervenuto affidamento in prova per i reati contro la pubblica amministrazione di cui alle condanne innanzi indicate e nonostante la conseguente riabilitazione concessa, con riferimento a tutti i reati, dal Tribunale di Sorveglianza di Milano con ordinanza del 17 aprile 2008″.
Greganti “invece, è stato condannato con tre sentenze passate in giudicato per dieci fattispecie in materia tributaria e per due fattispecie in materia di violazione delle norme sul finanziamento ai partiti politici. Il detto indagato ha inoltre agito, commettendo i reati per i quali sono accertati i gravi indizi di colpevolezza, nonostante aver beneficiato per ben due volte della sospensione condizionale della pena”.
Grillo e Greganti avevano “la istituzionale’ funzione di coordinare, coltivare e sfruttare i rispettivi collegamenti e contatti nel mondo politico per strumentalizzarli ai fini del sodalizio”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile DALLE INTERCETTAZIONI E DAI PEDINAMENTI EMERGE UN RUOLO PRIMARIO DELL’EX MINISTRO… FILMATI ANCHE I SUOI COLLOQUI CON I CONTATTI LIBANESI E CON SPEZIALI, MARITO DI UNA NIPOTE DI GEMAYEL
“Deve andare nella capitale…. a L….”. “L?”. “No, L è il Paese deve andare a B, scusa hai ragione tu…”.
Nelle telefonate tra Claudio Scajola, l’ex ministro arrestato oggi dalla Dia di Reggio Calabria, e Chiara Rizzo, la compagna di Amedeo Matacena,
“B” è Beirut ed “L” sta per Libano.
Era nella città descritta come “una grande Montecarlo dove si sta bene” che doveva arrivare l’ex parlamentare di Forza Italia, condannato in via definitiva a 5 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa.
Scajola, tramite alcune sue entrature a Beirut poteva fargli ottenere l’asilo politico che gli avrebbe garantito la libertà .
Nelle carte dell’indagine della Dda di Reggio Calabria ci sono decine di telefonate tra l’ex ministro e la Rizzo.
Chiamate che secondo la tesi del Pm Giuseppe Lombardo dimostrano come Scajola fosse impegnato a “mettere al sicuro” la latitanza di Matacena. Telefonate e non solo. Perchè gli uomini della Dia di Reggio Calabria, nei mesi in cui sono stati alle calcagna di Scajola, lo hanno intercettato, pedinato, seguito nei suoi spostamenti sia in Italia che all’estero, arrivando a filmarlo quando si incontrava con la compagna di Matacena e con il suo personale “contatto” con il governo libanese.
Le immagini raccontano le trasferte a Milano, gli incontri nei ristoranti e nei bar, i viaggi fino a Montecarlo, ma ci sono soprattutto gli incontri chiave con Vincenzo Speziali.
Imprenditore calabrese molto noto e con conoscenze potenti, Speziali è nipote dell’omonimo ex senatore del Pdl.
Un personaggio che si sa muovere su diversi territori, forte del suo matrimonio con Joumana Rizk, nipote di Amin Gemayel, ex presidente del governo libanese e già capo delle “Falangi”.
A lui si riferisce Scajola quando spiega a Chiara Rizzo che c’è di mezzo “l’ex presidente”, che bisogna tenere contatti con l’ambasciata e pianificare ogni cosa in maniera precisa.
Nelle telefonate lo chiamano il “programma”, un progetto che doveva essere condiviso con Matacena per capire se “a lui sta bene”.
Tra la fine di dicembre scorso e il febbraio successivo è un momento particolarmente complicato.
Matacena si trova a Dubai, inizialmente un paese ritenuto sicuro. Poi le cose si complicano perchè pur non essendoci estradizione, c’è il rischio che il latitante forzista possa essere espulso.
Un pericolo da evitare. Scajola, che conosce l’itera vicenda e che da mesi è in contatto diretto con la Rizzo, accelera quindi i tempi, mette pressione al suo interlocutore da una parte e a Matacena dall’altra.
Bisogna fare in fretta e bisogna fare bene.
Parla Scajola, parla al telefono con i suoi collaboratori e con diversi interlocutori.
Le prime telefonate sono prudenti, i discorsi sono criptici, poi sempre più chiari.
La questione gli sta a cuore ed è impegnato in prima persona.
Per gli esperti della Dia reggina, l’ex ministro sa bene chi sono i suoi interlocutori e questa volta nulla accade a sua insaputa.
Giuseppe Baldessarro
(da “La Repubblica”)
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Maggio 8th, 2014 Riccardo Fucile L’ANALISI DEL COSTITUZIONALISTA AINIS: SERVE UNO PSICHIATRA
Finalmente la politica ha deciso: il nuovo Senato verrà eletto all’Enalotto. 
È l’esito del voto schizofrenico con cui la commissione Affari costituzionali ha avviato la riforma.
Un voto al quadrato, dal quale sbucano fuori due Senati: uno eletto (secondo l’ordine del giorno Calderoli), l’altro no (secondo il testo del governo).
Ma se è per questo, d’ora in avanti ci concederemo pure il lusso di due Stati: uno centralista (quello di Renzi, che toglie competenze alle Regioni), l’altro federalista (quello di Calderoli, che invece le incrementa).
E il doppio Stato, col suo doppio Senato, timbrerà la doppia legge: una per mano dei soli deputati (così vuole il governo), l’altra con il voto d’ambedue le Camere (così vuole l’ordine del giorno).
Insomma, troppa grazia. Ma altresì troppa disgrazia, ad ascoltare gli improperi che rimbombano dai fronti contrapposti.
Con Berlusconi accusato di tradimento sia da Renzi sia da Calderoli; ma il delitto è inevitabile, se hai due mogli in casa.
D’altronde in questa pièce teatrale sono tutti bigami, nessuno escluso.
Anzi: c’è chi è diventato trigamo, crepi l’astinenza.
È il caso del Pd: una maggioranza (con Forza Italia) sulla legge elettorale, un’altra (con Alfano) sul governo, una terza (ma esiste?) sulle riforme costituzionali.
Il simbolo della nuova stagione è Mario Mauro: ha votato entrambi i testi.
L’uomo che vuole e disvuole. Subito infilzato dal medesimo anatema che già trafisse il dissenziente Chiti: cerca soltanto un po’ di visibilità . Da chi? Dagli elettori.
Se non altro, ora abbiamo compreso il nostro ruolo: quello dei guardoni.
Ma forse è meglio distogliere lo sguardo, tanto non è proprio un belvedere. Per i miopi, giganteggia invece l’argomento con cui la presidente Finocchiaro ha archiviato l’incidente: l’ordine del giorno Calderoli sarebbe al più un consiglio, una preghiera
Dal precetto alla prece.
Quanto al tormentone sull’elezione del Senato, si profila un compromesso: decideranno le singole Regioni, ciascuna a modo suo.
Avremo quindi pattuglie di senatori eletti, nominati, premiati, sorteggiati. Dal federalismo fiscale al separatismo elettorale.
Ci sarebbe da allarmarsi, se l’intenzione fosse seria. Tranquilli, non lo è. Si tratta semplicemente d’una finta, un’ammuina.
Fino alle europee, nessuno caverà un ragno dal buco.
E dopo? Se vince Grillo, perderà l’Italicum: per Berlusconi troppo rischioso il ballottaggio. Se vince quest’ultimo, il presidenzialismo tornerà di moda.
Peccato che ogni Costituzione rifiuti i vezzi del momento: se è una Carta a modo, non passa mai di moda. Non a caso quella degli Usa risale al 1787, quando nel Far West giravano gli Apache.
Ma intanto non resta che aspettare. E magari stilare un promemoria, per quando verrà il tempo delle decisioni.
Primo: nel testo del governo, non è tutto oro ciò che luccica. Però non è nemmeno una patacca. L’idea dei sindaci in Senato, per esempio: magari sono troppi, ma l’idea non è affatto malvagia. O i 21 senatori nominati dal capo dello Stato: suona bislacca la nomina (un partito del presidente, suvvia), non altrettanto i nominati.
Se Palazzo Madama svolgerà un ruolo di garanzia costituzionale, ben vengano esperienze e competenze. Basta trovare un altro criterio per selezionarle, non è così difficile.
Secondo: la legge sui partiti. E quella sulle lobby. E le primarie regolamentate. E il nodo della rappresentanza femminile. E la par condicio. E il conflitto d’interessi.
Fino all’altro ieri tutti questi temi sembravano impellenti, adesso sono caduti nell’oblio.
Sarà che la nostra attenzione è instabile e nevrotica, come quella d’un bambino. O forse sarà che i partiti, sotto sotto, non ne vogliono sapere. Ma la malattia del sistema politico italiano scava nel corpaccione dei partiti, e da lì contagia poi le istituzioni.
Se curi soltanto le seconde, ti limiti alla superficie del problema.
Come il malato che si rivolga al sarto, anzichè al medico condotto.
Però in questo caso serve uno specialista patentato.
Quale? Lo psichiatra.
Michele Ainis
(da “il Corriere della Sera“)
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