Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile IN NOVE ORE DI INTERROGATORIO SPIEGATO IL SISTEMA DELLE TANGENTI
La cupola degli appalti sull’Expo di Milano esiste. È quanto confermato da Enrico Maltauro,
l’imprenditore vicentino arrestato nei giorni scorsi, durante l’interrogatorio reso ai pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio e durato nove ore.
“C’era un sistema basato sulle tangenti – avrebbe detto l’interrogato – e io per poter lavorare mi adeguavo e pagavo”
Da quanto si è appreso, l’imprenditore ha risposto a tutte le domande chiarendo le vicende contestate nei tre capi di imputazione. Avrebbe descritto uno per uno i fatti contestati.
Nel suo interrogatorio l’imprenditore vicentino avrebbe confermato pienamente l’impianto accusatorio ed è stato ritenuto “utile per il consolidamento” dell’inchiesta.
Sarebbe di un milione e 200 mila euro l’ammontare delle tangenti che la “cupola” avrebbe chiesto all’imprenditore Maltauro in relazione ad appalti per l’Expo e per Sogin.
Maltauro ha detto ai pm che 600 mila euro li ha versati e poi aveva anche promesso di versare gli altri 600 mila euro richiesti.
È stato sentito in procura anche Sergio Cattozzo, l’ex esponente ligure dell’Udc ora agli arresti assieme a Maltauro, all’ex parlamentare dc Gianstefano Frigerio, all’ex funzionario Pci Primo Greganti, all’ex senatore Pdl Luigi Grillo e ad Angelo Paris, ormai ex manager di Expo 2015.
Secondo uno dei suo legali, Rodolfo Senes, Cattozzo “ha chiarito dando giustificazioni congruenti e fornendo le indicazioni che gli sono state richieste”. Cattozzo, come hanno ripetuto più volte Senes e il codifensore Michele Ciravegna, “ha risposto alle domande” e riferendosi ai post-it su cui, come ha ammesso lunedì scorso il politico, aveva annotato la contabilità dei soldi ‘incassati’ dall’imprenditore Maltauro, “ha chiarito – ha proseguito l’avvocato – il significato delle cifre”.
E come le ha spiegate quelle cifre?
“Non voglio entrare nel merito perchè ci sono indagini in corso”, è stata la replica del legale che ha però aggiunto che a breve il suo assistito proseguirà con un secondo interrogatorio in quanto “ci sono altre circostanze da affrontare. Insomma vuole chiarire l’intera vicenda”. Cattozzo ha avuto dunque un atteggiamento “collaborativo: ha risposto ad ogni domanda” e fra qualche giorno proseguirà .
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile I GRILLINI VOGLIONO VOTARE PRIMA DELLE EUROPEE, IL PD DOPO… CON IL VOTO SEGRETO I CINQUESTELLE POTREBBERO SALVARLO PER POI INCOLPARE IL PD… I DEMOCRAT TEMONO IL TRANELLO E PREFERISCONO FAR SLITTARE IL VOTO IN AULA DI DIECI GIORNI
Il voto della Camera sulla richiesta di arresto del deputato Pd Francantonio Genovese arriverà dopo le elezioni europee: il dato appare ormai una certezza dopo una giornata a Montecitorio di scaramucce tra i democrat e i Cinque Stelle e dopo le bordate di Beppe Grillo contro il parlamentare indagato per associazione a delinquere, peculato e truffa.
Il leader M5s accusa infatti il «soccorso rosso» del Pd e lo stesso Renzi di tramare contro la richiesta di arresto.
Segnali, per il Pd, che i Cinque Stelle intendono giocarsi la carta del voto sull’arresto del deputato siciliano in campagna elettorale.
E Renzi non intende cadere nel tranello. Il Pd conferma infatti di voler replicare il voto della Giunta delle Autorizzazioni che vide i dem compatti dare il loro assenso all’arresto del compagno di partito.
Lo fa con una nota del capogruppo Roberto Speranza spiegando che lo slittamento è da motivare solo con la precedenza degli interessi degli italiani «agli appetiti barbari di Grillo».
Insomma: le Camere ora lavorino per i cittadini, dopo il 25 si procederà su Genovese.
Il timore di fondo del Pd – vista la determinazione a votare sì all’arresto – è che con il voto segreto, sia parte dello stesso M5s a votare contro per addossare poi la colpa ai democrat.
Saldando i voti grillini agli inevitabili No che il Pd mette in conto anche dentro il suo schieramento.
Un ostacolo che potrebbe essere ovviato con il voto palese, su cui sia il Pd sia il M5s si dicono favorevoli.
Ma c’è FI che, in ossequio alla sua linea garantista, ha già annunciato di voler chiedere il voto segreto e siccome servono solo 30 voti per ottenerlo, il voto palese sarà escluso. Meglio rinviare, quindi.
«Non ci faremo fregare» si orecchia infatti in Transatlantico tra i deputati Pd a cui è stato sufficiente vedere come si è mosso il M5s sul decreto lavoro, arrivato al voto finale.
«Hanno deciso di non fare ostruzionismo su un decreto che hanno sempre osteggiato» dicono i democrat.
Esattamente il contrario di quanto imputa invece il M5s che accusa a sua volta Sel di fare da «stampella» al Pd, facendo ostruzionismo su un decreto che, dicono, non hanno mai ostacolato in Commissione.
Fatto sta che il decreto oggi non è stato votato: slitta a domani.
Poi, dopo la votazione, si terrà una riunione della capigruppo sul calendario dei lavori: la previsione è che vengano inseriti, prima del voto su Genovese altri decreti come quello sulla casa oppure quello sugli ospedali psichiatrici che tuttavia non sarebbero a rischio di decadenza immediata.
Il decreto Casa è stato approvato oggi al Senato ed è in calendario già per questa sera in commissione alla Camera e scadrebbe il 27 maggio.
Considerato che i deputati hanno già chiesto e ottenuto di non fare sedute nella settimana prima del voto europeo il decreto va dunque approvato entro la settimana. Lo slittamento sarebbe a questo punto assicurato.
Ma il rischio di una reazione M5s sarebbe a quel punto scontato.
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile IL SERVIZIO CIVILE PER GARANTIRE ASSISTENZA IN REALTA’ GIA ESISTE DAL 2006, RENZI NON INVENTA UN BEL NULLA
Una “difesa della Patria”: una leva di giovani per un Servizio civile universale fino a un massimo di 100
mila giovani l’anno tra i 18 e i 29 anni”.
Come spesso accade con Matteo Renzi, anche in questo caso, la forza dell’annuncio precede i fatti e in parte li oscura.
L’ultima proposta del presidente del Consiglio, infatti, si rivolge al mondo del volontariato e a quello della disoccupazione giovanile, prospettando un impegno civile ammantato di orgoglio nazionale.
La proposta è rivolta “ai giovani che lo richiedono”, quindi è volontaria, punta a offrire “una esperienza significativa” che non duri troppo, 8 mesi prorogabili di 4, è aperta agli stranieri e prevede anche dei “benefit”: “crediti formativi universitari, tirocini universitari e professionali, riconoscimento delle competenze acquisite” .
Non si parla di denaro ma il Servizio civile attualmente è remunerato con circa 400 euro mensili
“Strano perchè il Servizio civile in Italia esiste già ” ricorda Giulio Marcon, deputato di Sel ma già docente di Terzo settore e politiche sociali e autore di studi sull’argomento.
“La legge risale al 2001, ma è nel 2006 che il servizio diventa esclusivamente volontario per effetto della soppressione della leva obbligatoria e la gestione viene trasferita a Regioni e Province. Da quell’anno, in effetti, si verifica il boom di iscrizioni con oltre 40 mila giovani che, però, dopo il 2008, con i tagli di Berlusconi e Tremonti, si riducono fino ai circa 15-16 mila all’anno. Prodi stanziò 300 milioni, aggiunge Marcon, ma poi sono stati portati a 70. Perchè, invece di fare annunci, Renzi non aumenta quella cifra?”.
L’idea della “difesa della Patria”, in realtà , è contenuta in un documento chiamato Linee guida per una Riforma del Terzo settore che costituisce la sostanza del progetto. Renzi l’aveva promesso a Lucca, lo scorso aprile, al Centro nazionale per il volontariato presieduto dal deputato Pd Edoardo Patriarca, vera autorità del settore. Così come ne fa parte il sottosegretario al Lavoro, con deleghe alle politiche sociali e al Terzo settore, Luigi Bobba, a lungo presidente delle Acli che parla di un “Civil act”: “Il futuro welfare — chiarisce — non potrà essere quasi esclusivamente pubblico nè vogliamo una deriva di tipo privatistico. L’idea è di dar vita a un welfare di tipo partecipativo”.
“Un giovane su tre impegnato nel servizio civile — rincara Giuseppe Guerini, portavoce dell’Alleanza delle Cooperative Sociali — trova lavoro”.
A tutti costoro, Renzi assicura che il Terzo settore è in realtà “il primo”.
E quindi si farà una riforma con un Testo unico per costruire un intervento “complementare” a quello dello Stato in materia di diritti sociali, valorizzando “l’autonoma iniziativa dei cittadini” con “nuovi modelli di assistenza in cui l’azione pubblica possa essere affiancata dai soggetti operanti nel privato sociale”.
Per dirla con Renzi: “Pubblica amministrazione e Terzo settore sono le due gambe su cui fondare una nuova welfare society”.
E in cui si possa anche far profitto. Uno strumento individuato, già esistente, è il rafforzamento del “voucher universale” a disposizione delle famiglie e “speso” in strutture pubbliche o private. Proposta già avanzata dal centrodestra in versione ciellina, leggi Formigoni o Lupi
In questa chiave Renzi propone di rivedere il Libro I Titolo II del Codice civile, l’aggiornamento della legge sul Volontariato, la riesumazione dell’Authority del Terzo settore (abolita da Monti), la riforma del 5Xmille con il suo “potenziamento” ma soprattutto la sussidarietà , “verticale” — Stato-Regioni-Enti locali — e “orizzontale”: Enti locali-associazioni private.
Per questo si propone di “far decollare l’impresa sociale” anche “remunerando il capitale”. È questo lo schema in cui, ultimo tassello, si inserisce la proposta della “leva di giovani per la ‘difesa della Patria’”.
“Come spesso capita — conclude Marcon — ci sono cose positive e altre che costituiscono degli annunci. Il rischio principale, però, è che si utilizzi il Servizio civile per sostituire il welfare pubblico”.
Salvatore Cannavò
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile GRILLO PROVATO, GREGANTI FREDDO E DETERMINATO: ENTRAMBI CONTESTATO LE ACCUSE SULLE MAZZETTE EXPO
Luigi Grillo provato, stanco, in lacrime. Primo Greganti, invece, freddo e determinato. È la fotografia fornita dal senatore di Gal Lucio Barani, al termine di un incontro con due dei principali indagati nello scandalo Expo.
Il parlamentare si è recato domenica scorsa nel carcere di Opera dopo che la settimana scorsa aveva fatto visita anche a Claudio Scajola nel carcere romano di Regina Coeli.
E a quarantotto ore dal colloquio con Greganti e Grillo racconta cosa si è trovato di fronte.
Il più provato dalla vicenda è Grillo, sostiene Barani: «Ho 71 anni e se questa storia fosse capitata venti anni fa avrei reagito – ha spiegato l’ex parlamentare – Ora sono stanco, ho paura di non avere la forza per scagionare tutte le accuse».
Diversa, quasi opposta la reazione del “compagno G”: «È tutta una bolla di sapone, un caso mediatico e basta – ha confidato – Sono abituato a queste inchieste, non mi spaventano e passerà anche questa». Di più: «Questa storia si chiuderà il 26 maggio…».
Il faccia a faccia con i due detenuti – racconta l’agenzia Agi – si è svolto alle 11 di domenica mattina.
E non è stato un incontro semplice, giura Barani: «Il faccia a faccia più difficile è stato con Grillo. Non nascondo che non è stato l’unico a mettersi a piangere ». Lacrime, allora, per l’ex parlamentare berlusconiano. Recluso in una piccola cella, nel centro medico del carcere, prende dei farmaci a causa della pressione alta.
«Qui mi trattano bene – ha assicurato – ma non si mangia un granchè». Ha con sè frutta, una bottiglia di acqua minerale, gli atti del processo e un libro su Medjugorie – con l’immagine della Madonna – , che gli è stato donato dalla figlia.
Proprio quella figlia che, da giorni, staziona davanti al penitenziario. «Diglielo tu di tornare a casa – è stato l’invito di Grillo consegnato a Barani – è inutile che stia qui. Dille che sono orgoglioso di avere una figlia come lei e che non si pentirà di avere un padre come me. Riprenderò il mio onore che è stato infangato».
Contesta le accuse, Grillo: «Ho avuto la visita dell’imprenditore Meltauro nella mia vigna. Ha comprato 40 bottiglie di vino e poi il 28 dicembre mi ha telefonato. Per questo motivo l’ho ringraziato. Tutto qui, c’è anche la fattura che lo dimostra. Io – ha raccontato a Barani il detenuto – non ho fatto nulla, non ho ricevuto un euro, sono solo un privato cittadino, non posso certo influenzare gli appalti. E pensare che delle bottiglie di vino per Natale le hanno ricevute anche alcuni giudici.. ».
Poi la confidenza, amara: «Sono finito nel mirino per le mie frequentazioni e per aver partecipato a delle cene. È assurdo. Alcune di queste persone le conosco, ma mi hanno solo chiesto dei consigli».
E ancora: «Quando ero presidente della Commissione dei Lavori pubblici del Senato ho fatto fare le leggi sulla trasparenza per l’Expo, le infrastrutture si stanno realizzando anche grazie a me».
Nulla di irregolare, a sentirlo. E un ultimo interrogativo: «Se la procura non ha bloccato gli appalti vuol dire che è stato tutto regolare, no?».
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile LE CAPOLISTE ALLE EUROPEE SEMBRANO GREGARIE ALLO SBARAGLIO
Sul manifesto, la testolina di Alessandra Moretti, semplicemente “Alessandra” nell’agenda elettorale, è
incastonata tra sei stelle gialle, la settima si scorge appena, della bandiera blu dell’Unione.
Un fotomontaggio artigianale che trasfigura l’ex bersaniana nell’ennesima Madonna renziana, con una sorta di corona stellare.
“Alessandra”, capolista del Pd nel nord-est appare più dinamica sui benedetti social network.
Così su Twitter si apprende del suo cambio di scarpe, documentato da un’apposita foto, prima “di raggiungere i piccoli imprenditori del Triveneto”.
Dalle ballerine al tacco, o viceversa.
In un parcheggio, la deputata del Pd effettua il cambio poggiando la gamba destra sul portabagagli, aperto, di un’auto rosso fiammante.
Ora, provate a immaginare, la stessa scena riandando a cinque, dieci anni fa, senza scomodare gli austeri donnoni comunisti di una volta.
Magari con Livia Turco o Anna Finocchiaro o Rosy Bindi. Impensabile.
Il nuovo corso femminile del Pd di Matteo Renzi rende visibile il superfluo e talvolta il vuoto. Non sono critiche sessiste. La questione è più aggrovigliata, tra dilettantismo politico e semplificazione paraberlusconiana.
L’imperativo è civettare con gli elettori, nel senso di una frase di Stalin del 1937 contro le elezioni della democrazia borghese e capitalista: “Finchè dura la campagna elettorale i deputati civettano con gli elettori, strisciano davanti ad essi, giurano loro fedeltà , promettono mari e monti”.
Una critica ancora attuale, se si vuole.
Sclete a sorpresa dal premier durante una notte in cui le liste del Pd sono state stracciate, non senza alti lai e minacce di vendetta, Alessandra Moretti nel nord-est, Alessia Mosca nel nord-ovest, Simona Bonafè al centro, Pina Picierno al sud sono le quattro capoliste per le Europee che la cattiveria di Beppe Grillo ha retrocesso a “veline” di Renzi (su altro piano, c’è Caterina Chinnici nelle isole).
Mancano poco più di due settimane al voto del 25 maggio e cosa si ricorda di loro? Eppure si muovono tanto, tra programmi televisivi e manifestazioni sul territorio, cosa usa dire.
L’altra sera, la Bonafè era su La7. Tra le quattro è che quella che scimmiotta di più il dante causa “Matteo”.
Dalla “portata storica” delle riforme, come nessuno mai in questo Paese, nemmeno con il centrosinistra di Fanfani, tanto per fare un esempio, ai fatidici 80 euro in busta paga.
A sentire la Bonafè e l’ennesimo tintinnio virtuale degli 80 euro persino il calmo Pigi Battista del Corsera ha perso la pazienza: “E basta con questa storia”.
La Bonafè è stata promossa alla Camera direttamente dal comune di Scandicci, dov’era assessore, e adesso guida una lista per Strasburgo.
Un’ascensione da vertigini più che una scalata, dove però “un momento per il biliardino si trova sempre”. Segue l’immagine, ovviamente su Twitter: la Bonafè, Lorenzo Guerini e Andrea Marcucci che giocano a biliardino. “Wow!”, fonzianamente esclamando.
Sul manifesto, la Bonafè da Scandicci ha le mani in tasca come il Renzi della fiducia in Parlamento.
L’imitazione del Capo è un’ossessione, come quando tutti i dalemiani andavano in tv e ripetevano lentamente, con enfasi, il noto intercalare del Generale Massimo: “Diciamo…”.
Gli slogan della Bonafè e della Moretti hanno una similitudine da salumeria di lusso: “Il cibo è made in Italy”, “La bellezza è made in Italy”, “L’innovazione è made in Italy”, “L’ambiente è made in Italy”.
La più verace e sanguigna è Pina Picierno, annoverata in una corrente dal nome impronunciabile: i franceschiniani.
Una gaffe della Picierno ha tenuto banco per giorni. Quella che con gli ottanta euro sbandierati dal Pd si fa la spesa per due settimane. Anche lo slogan della giovane Picierno, di origini casertane, punta sull’estetica: “È il sud, bellezza”.
L’ec bersaniana (Moretti), la renziana (Bonafè), la franceschiniana (Picierno).
E la lettiana, infine, nel senso di Enrico.
La più defilata di tutte: la bionda Alessia Mosca, capolista nel nord-ovest, che si autodenuncia come “secchiona”.
Altra parola chiave nelle biografie politiche delle quattro è “passione”.
La Mosca, su Twitter, si fa ritrarre addirittura con l’odiato Renzi in un comizio. Loro, tutti i big senza distinzione alcuna si stanno prodigando molto per le quattro capoliste. Ancora la Mosca: “Un grazie gigante a Bersani per la generosità mostrata anche in queste ore al Chilometro Rosso di Stezzano”.
Tutto è propaganda, tutto è pubblico. In cerca di voti, le quattro hanno bisogno del Leader Matteo, degli altri colonnelli e dei signori delle preferenze.
Dovrebbero trainare le liste, le donne, ma in realtà sembra il contrario.
Alla fine a sovrastarle tutte, in questa campagna elettorale dominata dalle facce di Grillo e Renzi, è la solita Maria Elena Boschi, l’autentica Madonna renziana che si ricorda per i colori accesi. Il completo blu elettrico al giuramento da ministra o l’abito lungo rosso al Maggio Fiorentino.
La voce boschiana, oltre agli spot elettorali baresi e alle interviste in rosa sull’amore, ha la suprema funzione di annunciare la decisione del governo di mettere la fiducia.
Uno speaker impeccabile. In un partito diventato personale, non è affatto poco.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile CONSIDERATO UN “PERICOLO” CHE SI DEDICAVA SOLO ALLE SUE GIRLS
«Tutto quello che avevo da dire sta scritto nel mio libro». Così l’ex segretario al Tesoro americano Timothy Geithner commenta la sua rivelazione di un complotto per far cadere il premier italiano Silvio Berlusconi, attraverso la portavoce.
Dunque Geithner non rivela chi fossero gli «european officials» che lo avevano avvicinato, per proporgli di bloccare ogni assistenza del Fondo Monetario Internazionale all’Italia, fino a quando il presidente del Consiglio non avesse lasciato il potere.
Nello stesso tempo, però, non fa marcia indietro e non smentisce la trama raccontata nel suo libro «Stress Test».
La parola «officials» si traduce in funzionari, o anche membri di istituzioni e governi.
Quindi è probabile che si tratti dei suoi omologhi, ossia i ministri delle finanze di Germania, Francia, Gran Bretagna, e altri paesi europei.
Nello stesso tempo anche l’allora direttore dell’Fmi, la francese Lagarde, potrebbe essere definita «european official», così come i vertici di Bruxelles o della Bce.
Non si può escludere poi che un ministro americano come Geithner, all’apice della crisi economica del 2011, avesse contatti diretti con gli stessi leader dei governi.
Nel suo libro l’ex segretario dice che prese sul serio la proposta del complotto, al punto di parlarne col presidente Obama, ma decise che gli Usa non volevano partecipare: «Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani».
All’epoca Geithner era impegnato soprattutto a convincere gli europei, a partire dalla cancelliera tedesca Merkel, che dovevano aprire i portafogli per costruire un «firewall», un muro di protezione, in grado salvare dal fallimento tanto le banche, quanto i governi in difficoltà .
I leader europei, in testa Berlino e Parigi, gli rispondevano che non era possibile mobilitare questi aiuti, specie all’Italia, fino a quando aveva un governo irresponsabile che non garantiva di fare le riforme promesse per riportare la stabilità . Washington però non voleva avere parte in una congiura per eliminare l’ostacolo Berlusconi, che eventualmente dovevano sbrigarsi gli europei stessi.
Di sicuro, però, gli Usa non consideravano più il premier italiano un interlocutore credibile.
Già il 30 giugno del 2009, quando imperversava il primo scandalo a sfondo sessuale sulle ragazze invitate nella villa in Sardegna, l’allora vice ambasciatrice a Roma Elizabeth Dibble aveva inviato al dipartimento di Stato un rapporto su Silvio con un titolo che non lasciava dubbi sulla bassa stima: «Girls, Girls, Girls», ragazze, ragazze, ragazze.
Questa sembrava l’unica attività che interessava a Berlusconi, al punto che dietro le quinte alcuni funzionari della Casa Bianca lo definivano «radioattivo».
Il presidente Obama, in altre parole, non voleva e non poteva neanche farsi vedere assieme a lui: le accuse di rapporti sessuali con minorenni lo rendevano infrequentabile, e qualunque foto con Berlusconi sarebbe stata usata contro Barack nella campagna presidenziale del 2012. Washington, del resto, aveva un’alternativa affidabile a cui rivolgersi, per gestire il rapporto con l’Italia: il presidente della Repubblica Napolitano.
Con lui il rapporto era ottimo, e veniva considerato l’ancora di salvataggio istituzionale del Paese.
I canali si erano riaperti quando era diventato premier Monti, secondo Geithner «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e infatti era stato ricevuto alla Casa Bianca nel febbraio 2012.
La sua caduta e sconfitta elettorale, nonostante l’aiuto del guru di Obama David Axelrod, aveva sorpreso e deluso gli americani, che però hanno trovato in Letta e ora in Renzi interlocutori positivi.
Paolo Mastrolilli
(da “la Stampa“)
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile AGLI INSULTI E ALLE OFFESE LA GIOVANE COMMESSA DI ORIGINI GHANESI CANDIDATA A PORCIA REAGISCE CON LO SLOGAN “IL NERO SNELLISCE”
‘Il razzismo? Si combatte con l’ironia’ La risposta di Barbara Ababio, candidata sindaco in una roccaforte leghista Barbara Ababio
L’offesa più gentile è “non ho pregiudizi per il colore della sua pelle ma per le idee che certa gente ha”. Ma sul profilo Facebook (e su altre bacheche virtuali) di Barbara Alabio, nata a Palermo 23 anni fa da genitori ghanesi, commessa in un centro commerciale, mediatrice culturale e candidata sindaco di Sel nella roccaforte leghista di Porcìa (Pordenone), si trova di molto peggio: chi scrive “dalla faccia è tutto un programma”, chi la invita a prendere un barcone e tornarsene a casa e chi ha postato la foto di una scimmia.
Da quando si è ritagliata un ruolo pubblico, Ababio è bersagliata dal razzismo più becero, come a suo tempo l’ex ministro dell’Integrazione Cècile Kyenge (le due donne sono spesso accomunate negli epiteti xenofobi) o il calciatore del Milan Mario Balotelli.
All’Espresso racconta: “Appena mi sono candidata sono cominciati a piovermi addosso insulti di ogni genere. Ho scoperto che in questa terra il razzismo è sottile: non puoi oltrepassare una certa linea. Insomma, commessa sì, sindaco no”.
Qualche mese fa, spiega, quando si è rivolta a un agente immobiliare per affittare un’abitazione si è vista sbattere la porta in faccia, “perchè la gente non vuole affittare la casa a extracomunitari”, e a poco è servito spiegare che lei è italiana a tutti gli effetti e il Ghana, patria dei suoi genitori, lo ha visto solo in fotografia.
Ora che è in piena campagna elettorale, le accade di essere insultata anche per strada. “Ma quello che più mi colpisce è la diffidenza che sento nei miei confronti. Addirittura c’è chi è arrivato a definire la mia candidatura come una provocazione. Perchè non si pensa la stessa cosa di altri candidati che sono bianchi, maschi e italiani?”.
Barbara Ababio vive da dieci anni a Porcia. Dal circolo in cui è impegnata come interprete e mediatrice culturale è nata l’idea di presentare una lista multietnica, in un comune guidato da due legislature da un sindaco leghista: su 24 candidati, 15 sono “nuovi italiani”.
Vengono dal Burkina Faso e Togo, dall’Algeria e dalla Tunisia, dalla Turchia, dal Bangladesh e dalla Repubblica Dominicana, tutte “persone nate qui, che a volte non hanno alcun legame con la terra d’origine e che hanno voglia di fare politica dove sono nati e vivono”.
Il 25 maggio dovrà vedersela con una destra divisa – Forza Italia da una parte, Lega e Fratelli d’Italia dall’altra — ma anche con il Pd che “non ha voluto le primarie” e con il Movimento 5 Stelle: in tutto sono sette gli aspiranti sindaci che si sfideranno al primo turno.
Agli attacchi razzisti ha deciso di replicare “usando questo bellissimo colore che porto addosso, il nero, come un punto di forza”.
Lo ha fatto con ironia e intelligenza, con slogan quali “Il nero snellisce”, sottotitolo “i costi della politica per i cittadini”, “Nero su bianco” per promettere maggiore trasparenza, “Lista nera” per condannare le discriminazioni, o “Fuori i neri”, dove per nero si intende il lavoro sommerso, il precariato e le delocalizzazioni (con riferimento al caso della non lontana Electrolux).
Angelo Mastrandrea
(da “L’Espresso“)
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile L’ARROGANZA DI CHI A FIRENZE SI SENTE PADRONE: PRIMA FANNO APPROVARE UN REGOLAMENTO CHE VIETA LE PIAZZE STORICHE ALLE MANIFESTAZIONI, POI LO MODIFICANO PERMETTENDO DI VOLANTINARE, ALLA FINE CI FANNO UN COMIZIO SOLO LORO
Lo Stato — anzi il Comune, anzi lo Stato e il Comune — sono io: ecco il perfetto riassunto dell’ennesimo atto
di arroganza con cui Matteo Renzi ha deciso di chiudere la campagna elettorale tenendo un comizio tra le statue di Piazza della Signoria: chiamando a fargli da testimonial gratuiti e inconsapevoli — attraverso le loro statue in originale e in copia — Michelangelo e Giambologna, Cellini e Bandinelli, Ammannati e Donatello.
L’accordo per la disciplina della propaganda elettorale siglato il 28 aprile scorso tra tutti i rappresentanti delle liste impegnate nella tornata elettorale prevedeva che fossero “escluse dalle manifestazioni elettorali, su indirizzo della Giunta, per motivi ambientali e turistici, le seguenti piazze: Signoria, Uffizi, Duomo, San Giovanni”. Poi, il 9 maggio, i rappresentanti delle liste sono stati riconvocati per firmare un’integrazione che prevedeva, tra l’altro, la possibilità di utilizzare proprio Piazza della Signoria, nell’ultima settimana di campagna, dalle 17 alle 23.
Con una buona dose di ingenuità (per non dir di peggio) tutti hanno firmato: raccontando tuttavia, che si era parlato di volantinaggio, e non certo di un comizio del presidente del Consiglio.
Ma ormai era fatta, e il sindaco de facto Dario Nardella ha prontamente concesso al candidato Dario Nardella e al suo padrino politico l’uso di Piazza della Signoria, e dunque dell’immagine di Palazzo Vecchio: simbolicamente autoinvestendosi come sindaco naturale.
Già , perchè il punto non è certo che una piazza storica non si possa usare per un comizio: per quello sono nate.
Il punto è che il simbolo del potere cittadino, l’oggetto stesso della contesa elettorale — Palazzo Vecchio, sede del comune e dell’ufficio del sindaco — non può essere usato per dare un indebito vantaggio a chi già lo occupa.
È il motivo per cui la legge sulla par condicio stabilisce che, tra la convocazione dei comizi elettorali e il voto, le amministrazioni pubbliche possano comunicare solo quando è indispensabile, e comunque in modi impersonali: per impedire “il consolidarsi di un maggior vantaggio elettorale a favore dei soggetti politici uscenti, derivante dalla maggior visibilità di cui questi dispongono rispetto agli altri candidati”.
Ecco, il fatto che Renzi e Nardella usino i simboli del potere comunale come se fossero loro, viola esattamente lo spirito di questa norma.
A dimostrare che le cose stanno proprio così è un’altra incredibile iniziativa.
Nardella ha convocato per il 17 alle 15.15 (e dunque in una fascia oraria inibita all’uso elettorale anche dopo la deroga) l’“Abbraccio più grande del mondo”, scrivendo ai fiorentini: “abbracciamo tutti insieme Palazzo Vecchio per entrare nel Guinness dei Primati”.
Lasciamo perdere la qualità intellettuale della manifestazione: il punto è che Nardella ha inondato le email dei fiorentini con un invito firmato non da vicesindaco, ma da candidato, con una lettera che contiene tutti simboli delle liste che lo sostengono e un esplicito invito al voto.
Il messaggio è chiarissimo: regole o no, Firenze ha già un padrone.
Tomaso Montanari
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 14th, 2014 Riccardo Fucile UN MANAGER COLLEGATO AL GIRO DI MATACENA E’ INQUISITO PER RICETTAZIONE ALLO IOR
C’è un personaggio che fa da tramite tra l’indagine calabrese su Claudio Scajola e altri, e lo Ior, la banca vaticana.
Si tratta di Giovanni Morzenti, perquisito nei giorni scorsi dalla procura di Reggio Calabria e negli anni scorsi al centro di un processo per corruzione insieme a un ufficiale della Guardia di Finanza.
Morzenti è stato condannato a 6 anni in secondo grado, poi la Cassazione ha rinviato il processo alla Corte d’appello di Torino.
Però è anche l’uomo indagato per ricettazione dalla procura di Roma insieme al monsignor Bonicelli, ex arcivescovo di Siena.
Il periodo su cui indagano i pm romani è lo stesso di interesse dei colleghi calabresi, tanto che dalla capitale hanno disposto ulteriori approfondimenti. Qualora ci fossero contatti con personaggi presenti nell’inchiesta di Scajola, le carte saranno inviate a Reggio, dove si scoprono nuovi dettagli.
I pm stanno cercando di capire dove si trovi l’hotel chiamato al telefono da Scajola e dalla moglie di Matacena, Chiara Rizzo, “K”, per non far capire il luogo di incontro. Come pure cercano di chiarire l’appunto segnato dall’ex ministro su una lettera, trovata durante le perquisizioni, dell’ex presidente libanese Gemayel che riguardava il trasferimento in Libano di Amedeo Matacena.
Alla fine della lettera ci sarebbe un appunto scritto a mano dall’ex ministro.
Qui avrebbe espresso due concetti: che il reato di concorso esterno non è punito e che Matacena si trovava lì per motivi umanitari.
Anche questo sarà oggetto di contestazione nell’interrogatorio di Scajola fissato per venerdì prossimo.
Ieri invece è stata interrogata dal gip la madre di Amedeo Matacena, Raffaella De Carolis, finita ai domiciliari. La donna ha detto di non sapere nulla nè delle attività delle società del figlio nè della nomina di nuovi amministratori.
Sulla latitanza del figlio ha detto di averlo più volte spinto a rientrare in Italia. Durante la giornata di ieri è stato sentito anche Antonio Chillemi, commercialista finito ai domiciliari.
Al gip ha spiegato che i suoi “Rapporti con i Matacena risalgono al 1968 quando lavoravo in una società del padre di Amedeo come commercialista. Poi sono andato in pensione ma quando è morto il papa di Amedeo, ho dato una mano.”
Intanto nell’inchiesta di Reggio sarebbero stati iscritti altri nomi nel registro degli indagati, notizia che a fine serata viene smentita dalla Dia.
A fare chiarezza sulla gestione delle scorte da parte di Scajola invece sarà in Viminale che ha inviato ieri un’ispettore a Imperia.
Interviene sul caso anche il Copasir, che cercherà di capire i rapporti tenuti da Scajola ad alti livelli come pure gli atti segreti che avrebbe potuto avere tra le mani quando era a capo del Comitato per la sicurezza nel 2006.
Lucio Musolino e Valeria Pacell
(da “il Fatto Quotidiano“)
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