Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
DA BARI: “BERLUSCONI HA PAGATO TARANTINI PERCHE’ MENTISSE”…DA MILANO: “NON MERITA NESSUNA ATTENUANTE GENERICA”
Grandina su Arcore: la giornata giudiziaria dell’ex premier, Silvio Berlusconi, si chiude con il sostituto
procuratore generale di Milano, Piero de Petris, che chiede per il presidente di Forza Italia, la conferma della sentenza di primo grado nel processo di appello sul caso Ruby, cioè sette anni di reclusione per concussione e prostituzione minorile.
Ma la severità del procuratore, che sostiene che non c’è “ragione alcuna” per concedere all’ex premier le attenuanti generiche, sia “per i fatti di reato contestati, sia per il complessivo comportamento tenuto dall’imputato”, sia per il precedente penale della condanna per il caso Mediaset, non è l’unico colpo per l’ex presidente del Consiglio.
Il secondo arriva dalla Procura di Bari, che ha chiesto il rinvio a giudizio per Berlusconi, accusato di induzione a mentire.
Secondo gli inquirenti, tramite del faccendiere napoletano Valter Lavitola, Berlusconi avrebbe pagato l’imprenditore Gianpaolo Tarantini perchè mentisse sulle escort portate nelle sue residenze estive tra il 2008 e il 2009.
L’udienza preliminare del processo a Berlusconi per le escort di Tarantini inizierà il prossimo 14 novembre dinanzi al gup del Tribunale di Bari Rosanna Depalo.
Inchiesta escort.
La Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio, dopo la chiusura delle indagini del settembre scorso e un supplemento di indagine, per Silvio Berlusconi e Valter Lavitola.
Sull’ex premier pesa l’accusa di aver indotto Giampaolo Tarantini a dire il falso nell’inchiesta escort. Il procuratore aggiunto Pasquale Drago, che ha condotto l’inchiesta, sostiene nell’accusa che Berlusconi, tramite l’ex direttore dell’Avanti Lavitola, avrebbe istigato l’imprenditore Tarantini a mentire ai pm che indagavano sul giro di prostituzione.
Nell’ambito dell’inchiesta Tarantini disse che Berlusconi non sapeva che le ragazze che lui portava alle feste dell’ex premier fossero pagate.
L’inchiesta sulle escort pugliesi era partita nel 2009. Nel corso degli accertamenti disposti dalla magistratura barese, Lavitola e Berlusconi sono stati interrogati (a maggio 2012 il primo, a maggio 2013 l’ex premier) e dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari è stato sentito, su richiesta dei difensori, anche l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso.
Stando agli atti dell’inchiesta, basati soprattutto su intercettazioni telefoniche, Tarantini avrebbe tentato di entrare in affari con la Protezione civile utilizzando proprio le conoscenze dell’ex premier.
Ruby gate.
“Che Karima el Marough svolgesse attività di prostituzione era una realtà “.
Il Pg Piero De Petris non ha dubbi e, nel corso della sua requisitoria ha detto: “È pacifico che la ragazza si è fermata a dormire alcune notti a casa del presidente del Consiglio. Che faceva questa ragazza? La prostituta”, ha proseguito il Pg.
Ruby era comunque minorenne e per questo “degna di tutela”.
La ragazza era certamente “dotata di notevole scaltrezza se non di intelligenza e determinata a trarre il massimo” da questa situazione.
De Petris è anche convinto che le pressioni effettuate da Silvio Berlusconi sugli uomini della questura di milano nella notte tra il 27 e 28 maggio 2010 per ottenere il rilascio di Ruby dimostrano come l’allora presidente del Consiglio fosse consapevole della minore età della giovane marocchina.
“È stata una bellissima difesa di una sentenza indifendibile. Il pg è convinto della responsabilità del presidente Berlusconi, ha sostenuto il suo punto di vista e ha concluso in modo coerente”, ha commentato il professor Franco Coppi, che insieme all’avvocato Filippo Dinacci difende Silvio Berlusconi.
Coppi ha affermato, alla luce della requisitoria di oggi, che “gli argomenti della difesa ci sono ancora tutti e molto validi”.
Il legale ha inoltre aggiunto di puntare a un esito favorevole del processo che si sta celebrando davanti alla II Corte d’Appello di Milano e che venerdì prossimo potrebbe concludersi con la sentenza.
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
DI FRONTE ALLE CORBELLERIE DELL’EX SINDACO DI PIACENZA, IL MINISTRO PRECISA: “SERVE UNA RIFLESSIONE SERIA CHE COINVOLGA TUTTO IL MONDO DELLA SCUOLA”
“Le 36 ore a settimana per gli insegnanti? Non sono una priorità , per ora”.
Così il ministro Stefania Giannini stronca tutte le polemiche sulle anticipazioni e le indiscrezioni circolate nei giorni scorsi a proposito di un piano per riformare la scuola.
Di fronte alle pressioni dei sindacati, che da giorni protestano attraverso comunicati stampa, il ministro è lapidario: «Le 36 ore non sono all’ordine del giorno. Le priorità sono altre».
E, smentendo la data del 15 luglio come momento ultimo per presentare le riforme scolastiche in discussione, delinea il programma di azione: «Abbiamo in mente di fare un decreto d’urgenza per i provvedimenti che rappresentano una priorità »: e cioè la semplificazione del reclutamento universitario; la quota ’96, ovvero quei 4000 docenti rimasti incastrati senza poter andare in pensione, «così risolvo un problema e lascio spazio a 4 mila giovani»; e il miglioramento dell’offerta formativa.
La legge delega
Per le altre misure allo studio, ovvero il potenziamento dell’Invalsi, la formazione degli insegnanti, la valutazione e la premialità per la didattica, «c’è bisogno di una riflessione più seria»: quindi, questi temi troveranno spazio in un altro provvedimento, probabilmente un disegno di legge delega, che dovrebbe prendere vita in autunno, dopo un confronto serio con sindacati e parti coinvolte.
L’unico passaggio che ha una data sicura è la messa in funzione del regolamento per il processo di autovalutazione delle scuole: partirà a settembre, e sarà uno dei tre elementi chiave per «valutare i punti di forza e di debolezza del sistema», insieme ai dati dei test Invalsi e al sistema di ispezione-valutazione esterna delle scuole, che invece dovrà essere elaborato successivamente.
Valentina Santarpia
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
PRIMA VOTAVANO PIU’ BERSANI CHE PD SOLO IL 20% DEGLI ELETTORI DEMOCRAT
Che quel 40,8% ottenuto dal Pd, alle recenti Europee, sia da ricondurre alla rivoluzione renziana è un
fatto persino scontato.
Ma è possibile quantificare la frazione di voti portata in dote dal premier-segretario al proprio partito?
L’interrogativo era circolato al momento della presentazione dei simboli, quando era stata ventilata la possibilità di sfruttare il brand personale sulla scheda elettorale.
Il nome del leader, alla fine, non è stato inserito nel simbolo Pd.
Se ne riparlerà quasi sicuramente alle prossime Politiche, ma è indubbio che il traino dell’uomo arrivato da Firenze abbia contato – e non poco – nel voto europeo.
Consentendo al Pd di rompere gli argini del passato: conquistando segmenti di elettorato in precedenza ostili (su tutti, degli imprenditori), uscendo dal recinto della zona rossa (le regioni dell’Italia centrale dove i partiti di sinistra hanno sempre fatto il pieno).
Da qualche anno, i sondaggi Demos rilevano alcuni indicatori di personalizzazione della scelta elettorale.
La loro evoluzione nel tempo segnala un evidente cambio di stagione.
Un anno e mezzo fa, alla vigilia delle Politiche, solo un terzo degli elettori democratici indicava Renzi come proprio leader preferito.
I mesi successivi sono caratterizzati da una crescita continua del consenso.
Il dato sale al 49% già all’indomani della non-vittoria del 24-25 febbraio 2013.
E arriva presto a superare la maggioranza assoluta: 56%, al momento dell’ingresso a Palazzo Chigi; 62%, prima delle Europee; 70% in seguito all’exploit del 25 maggio.
Si tratta di un evidente segnale di personalizzazione delle preferenze interne, ma che dice poco circa l’effettiva capacità di attrarre un voto personale.
Lo stesso Bersani, da candiato-premier, concentrava su di sè i due terzi delle preferenze democratiche.
Più interessante, in questo senso, è un altro indicatore che cerca di isolare la frazione di voto leader-oriented, chiedendo direttamente agli intervistati di auto-definirsi come elettori “del partito” oppure “del leader”.
A definirsi “bersaniani” prima ancora che “elettori del Pd” erano circa il 20% degli elettori democratici, tra il 2012 e il 2013: un dato inferiore alla media dei principali partiti, poco sotto il 30%.
Con l’avvento di Renzi alla segreteria, la componente orientata al leader raddoppia: sono il 41% coloro che “votano Renzi” piuttosto che sulla base dell’appartenenza al partito.
Con l’effetto di trascinare verso l’alto la media generale (33%).
È l’ennesimo muro a cadere: l’ennesimo tabù – forse il principale – mandato in soffitta dalla cavalcata del leader-rottamatore.
Anche a sinistra, no leader no party.
Fabio Bordignon
(da “La Repubblica“)
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
LO STUDIO DELLA “COMMISSION DE VENISE”: OVUNQUE E’ TUTELATA LA LIBERTA’ DI OPINIONE, MA ECCO COME FUNZIONA NEGLI ALTRI PAESI
Ai senatori fa comodo e il governo vuole garantirgliela, ma la reintroduzione dell’immunità per i membri del futuro Senato sta causando spaccature nella maggioranza e ostacoli sulla via delle riforme.
Secondo il Consiglio d’Europa, l’Italia è tra i paesi storicamente più garantisti: il grado di protezione prevista da Roma è per alcuni aspetti paragonabile a quello di Albania, Bielorussia, Georgia e Russia.
Lo dice un recente rapporto della Commission de Venise, organo consultivo sulle questioni costituzionali del Consiglio con sede a Strasburgo.
“Dallo studio emerge come il grado di protezione previsto per i parlamentari italiani è uguale a quello di paesi in cui la democrazia è meno evoluta“, traduce Lorenzo Cuocolo, professore di diritto comparato all’università Bocconi di Milano.
I GIURISTI: “ITALIA COME ALBANIA, RUSSIA E UCRAINA
Giusto tre mesi prima che l’emendamento 6.1000 firmato dai relatori Finocchiaro e Calderoli reintroducesse a sorpresa l’immunità per i futuri senatori, non prevista dal ddl 1429 del governo, il Consiglio d’Europa emetteva un giudizio netto sul tema, a firma della Commission europèenne pour la dèmocratie par le Droit, meglio nota come Commission de Venise.
Il 21 marzo l’organo consultivo del Consiglio sulle questioni costituzionali ha pubblicato il Rapport sul l’ètendue et la levèe des immunitès Parlementaires, in cui fa un esame comparato dell’immunità nei paesi del continente: la Commissione ricorda che “in Italia l’articolo 68 della costituzione è stato modificato nel 1993 (con l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, ndr): è ormai possibile lanciare un’azione penale contro un parlamentare senza l’autorizzazione preventiva del Parlamento”, ma al punto 109 sentenzia: “I paesi in cui i parlamentari (…) sono al riparo dalle perquisizioni nelle loro abitazioni e nei loro uffici sono l’Albania, l’Austria, la Bielorussia, la Georgia, la Russia, l’Italia (articolo 68 — comma 2, ndr) e l’Ucraina”.
IL COSTITUZIONALISTA: “SE LA DEMOCRAZIA E’ FORTE, LO SCUDO NON SERVE”
Punto 184 del report: “L’immunità parlamentare non è necessaria in una democrazia moderna. Se il sistema politico funziona, i parlamentari sono adeguatamente protetti da altri meccanismi”. Molte le controindicazioni: “L’inviolabilità (…) si presta a molteplici deviazioni che possono indebolire la democrazia, erodere lo stato di diritto e ostacolare la giustizia”, afferma la Commissione all’articolo 199.
Tradotto: “Il Consiglio esorta gli Stati a restringere la tutela alla sola manifestazione del pensiero — spiega ancora Cuocolo — c’è un rapporto direttamente proporzionale tra la restrizione delle immunità per i parlamentari e la maturità di una democrazia”.
Un esempio virtuoso: al punto 156, “la Commissione osserva che la tradizione del Bundestag tedesco consistente nel revocare l’immunità all’intera assemblea all’inizio della legislatura è un buon esempio“.
GERMANIA, L’IMMUNITA’ C’E’ MA VIENE AUTOMATICAMENTE REVOCATA
La Costituzione tedesca, articolo 46 commi 2 e 3, garantisce immunità da arresto e indagini ai suoi deputati per reati comuni salvo autorizzazione del Bundestag.
Ma una prassi consolidata fa sì che la guarentigia venga automaticamente revocata ad ogni inizio di legislatura (ad eccezione di fatti diffamatori di carattere politico).
Se poi la magistratura chiede di indagare, non trova ostacoli nell’assemblea.
“L’immunità per i reati comuni non viene mai invocata dal deputato, nè concessa dal Bundestag — spiega Michael Braun, corrispondente dall’Italia per la Taz — Die Tageszeitung — una volta che dai magistrati arriva la richiesta di autorizzazione a procedere, la Commissione immunità si riunisce immediatamente, nella maggior parte dei casi entro 24 ore, e concede l’autorizzazione. Non ricordo un solo caso in cui il via libera non sia stata concesso negli ultimi decenni. E nessun partito si sognerebbe mai di gridare alla persecuzione”.
Quasi mai, poi, si arriva al giudizio della commissione: “In genere i deputati si dimettono prima, i primi a chiederlo sono i partiti”.
Per i membri del Senato, invece, non è prevista alcuna immunità , anche se i suoi componenti sono tutelati dalle guarentigie previste dai lander di provenienza.
REGNO UNITO E PAESI BASSI, NESSUNA TUTELA CONTRO L’ARRESTO
Ai parlamentari di sua Maestà è garantita l’insindacabilità delle opinioni (articolo 9 del Bill of Rights del 1689), ma in ambito penale sono trattati allo stesso modo degli altri cittadini: se commettono reati comuni, i deputati possono essere perseguiti, rinviati a giudizio e arrestati.
La cronaca degli ultimi anni è densa di casi, esemplificativo lo scandalo rimborsi che dal 2009 ha scosso a più riprese la politica inglese.
Nel 2010 quattro parlamentari, 3 laburisti (Jim Devine, David Chaytor ed Elliot Morley) e un conservatore(Lord Hanningfield), accusati di furto nell’ambito dell’inchiesta sulle spese gonfiate, obiettarono che la loro condotta doveva essere fatta rientrare sotto la “la libertà di parola e di discussione o le attività del Parlamento” garantite dal Bill of Rights, il che gli avrebbe consentito di essere giudicati dai colleghi del Parlamento e non in un normale tribunale.
Ma prima la Southwark Crown Court, poi la Corte d’Appello (composta da composta da 3 dei più alti magistrati britannici) hanno detto no.
Anche l’Olanda prevede per i per i propri parlamentari l’insindacabilità (articolo 71 della Costituzione), ma non l’inviolabilità : l’uguaglianza con i cittadini in caso di reati comuni è addirittura sancita da una legge risalente al 1884.
IMMUNITA’ IN TUTTI GLI STATI, MA LE GARANZIE DIMINUISCONO
Tutte le democrazie europee prevedono forme di insindacabilità per le opinioni (prevista dal comma 1 dell’articolo 68 della Costituzione italiana) e forme di immunità dai reati penali (commi 2 e 3), ma molti di loro hanno progressivamente ridotto le garanzie per i loro parlamentari. Qualche esempio: in Svezia esiste l’autorizzazione a procedere, ma i deputati possono essere perseguiti e arrestati in caso di flagranza (come in Italia) e confessione e se il reato prevede dai 2 anni di carcere in su; in Portogallo rischiano il carcere se la pena prevista è superiore ai 3 anni; in Austria l’immunità cade se il reato non ha palesemente alcun rapporto con l’attività politica del deputato; il Finlandia lo scudo viene revocato se il reato prevede almeno 6 mesi di reclusione. In Irlanda e Norvegia, poi, l’inviolabilità parlamentare mira soltanto ad impedire che il deputato sia arrestato durante una sessione e quando si reca in parlamento o ne ritorna.
L’EUROPA INDICA UNA STRADA, L’ITALIA NON LA SEGUE
Nel suo report la Commission de Venise sottolinea che mentre “l’istituto dell’irresponsabilità è in generale solidamente fondato e non necessita di riforme nella maggior parte dei pesi presi in esame”, “l’inviolabilità parlamentare e i suoi meccanismi dovrebbero essere oggetto di un riesame e di una rivalutazione critica”.
E l’Italia cosa fa? Va in direzione contraria: con un emendamento reintroduce l’immunità per i futuri senatori (che non era prevista dal governo) nel testo di riforma dell’assemblea di Palazzo Madama e sceglie la strada della conservazione.
Marco Pasciuti
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
I GUADAGNI DEI PARLAMENTARI SFIORANO I 20.000 EURO LORDI AL MESE: 5.000 SONO STIPENDIO, ALTRI 7.000 NETTI SONO RIMBORSI E NON VANNO DICHIARATI
L’ultima volta ci ha provato, giusto un anno fa, Stefano D’Ambruoso, deputato questore della Camera del
gruppo di Scelta Civica.
È andato in Ufficio di presidenza e ha proposto una via per ridurre il costo dei parlamentari: via le indennità accessorie e i servizi agli eletti (ufficio, segreteria, telefono) li paga direttamente l’istituzione.
Risposta: vedremo.
L’allora suo collega di partito, Ferdinando Adornato, fu l’unico a dire pubblicamente no: “Per selezionare un personale politico di qualità occorre essere consapevoli che il talento ha un prezzo di mercato”.
Ancor peggio andò alla commissione che Mario Monti incaricò a dicembre 2011 di risolvere la questione-stipendi: siano livellati sulla media Ue.
Cinque mesi dopo Enrico Giovannini, all’epoca presidente dell’Istat, gettò la spugna: non si può fare, troppe variabili.
A tagliare le pensioni e rinviare sine die quella di chi è ancora al lavoro, invece, erano bastate poche ore e qualche lacrima. Risultato: siamo ancora lì.
A parte qualche taglietto, i soldi che entrano nelle tasche dei parlamentari sono sempre gli stessi e per la maggior parte sfuggono — legalmente — al fisco.
È stato Giancarlo Galan, nella sua intervista al Fatto Quotidiano, a ricordarlo involontariamente: “La Finanza dice che vivo al di sopra delle mie possibilità ? Non hanno calcolato la parte non imponibile dei miei stipendi di deputato, che è più cospicua dell’imponibile”.
Vero: sono oltre 400mila euro a legislatura, un tesoretto.
Una vita tranquilla e 12 mila euro netti
Ci spiega il sito del Senato: “In tutti gli ordinamenti ispirati alla concezione democratica dello Stato è garantito ai parlamentari un trattamento economico adeguato ad assicurarne l’indipendenza”.
È un modo di metterla. L’altro è raccontare come funziona il sistema attraverso la settimana perfetta (e i relativi guadagni) di un eventuale parlamentare scansafatiche (si tratta di un’astrazione, ovviamente, visto che tutti i nostri parlamentari lavorano continuamente, rimettendoci spesso del proprio).
In sostanza — per ottenere il jackpot da 12 mila euro netti circa (le cifre precise sono nella tabella a centro pagina) — gli basta partecipare al 30% delle votazioni giornaliere e farsi vedere, ma poco, nella commissione di cui fa parte.
È lunedì mattina. L’eletto si sveglia nel suo letto, nella sua regione, lontano dalla Capitale.
Spegne la sveglia e si riaddormenta: “Tanto oggi pomeriggio c’è solo una discussione generale, non si vota”.
Martedì mattina arriva a Roma, passa nel suo appartamento, va a pranzo con un amico e verso le 15 entra in Parlamento: si fa vedere, un attimo, in commissione, poi va in Aula e vota un po’, giusto quel che serve.
Nel frattempo telefona, chiacchiera con gli amici di ogni colore e grado, forse occhieggia galante a qualche funzionaria di bell’aspetto (ma su questo non potremmo scommettere).
Mercoledì passa più o meno alla stessa maniera e pure giovedì, ma quando arriva la sera l’indolente eletto sfodera uno scatto felino, mentre il trolley rumoreggia al suo fianco.
Venerdì non si vota e lui corre in aeroporto: ha un convegno a Siracusa sul “Sud come risorsa”.
Sabato sera riesce infine a tornare a casa, così la domenica può curare il rapporto con la famiglia se non quello col collegio.
È di nuovo lunedì e, giustamente, l’eletto si riposa: “Tanto oggi non si vota”.
Questa settimana vale quasi 4 mila euro netti, 12 mila al mese, la maggior parte dei quali — ricorda Galan — esentasse.
Oltre 400 mila euro che il Fisco non vede
Ricapitolando. A Montecitorio, netti e senza dover presentare fatture e scontrini, un deputato (che non abbia un altro lavoro, altrimenti le cifre si abbassano un po’) incassa circa 11.770 euro al mese, cioè oltre 140.000 euro l’anno.
A questi soldi, peraltro, vanno aggiunti 1.200 euro l’anno di spese telefoniche certificate e 1.850 euro circa al mese per il cosiddetto “esercizio di mandato” (anche queste devono però essere certificate e comprendono cose come lo stipendio di un collaboratore, l’organizzazione di un convegno, eccetera).
Fanno altri 23.400 euro ogni dodici mesi.
In tutto, insomma, parliamo di oltre 163 mila euro. Il costo lordo, cioè comprensivo di trattenute, per la Camera sfiora i 230 mila euro l’anno.
Per i 630 deputati totali significa circa 145 milioni l’anno di soli stipendi e rimborsi (a bilancio per il 2013, però, ci sono 154,3 milioni, perchè in questa voce vanno calcolati anche i contributi a carico del “datore di lavoro” Montecitorio).
La busta paga dei senatori è più o meno simile, anche se leggermente più ricca, forse per via del fatto che gli inquilini di Palazzo Madama sono più onusti d’anni e d’esperienza: incassano — netti e senza neanche una fattura — 12.250 euro mensili, vale a dire 147 mila euro l’anno.
Se ci aggiungiamo però gli altri 2.090 euro al mese a cui gli eletti a Palazzo Madama hanno diritto dietro certificazione quadrimestrale, il conto sale a 172 mila euro annui che garantiscono, com’è noto, l’indipendenza del senatore.
Il lordo, ovviamente, anche in questo caso è maggiore: 236.500 euro l’anno circa.
Nel bilancio 2013 di palazzo Madama il costo totale è di oltre 80 milioni per 320 senatori.
Ultimo capitolo. Se consideriamo il solo netto dei rimborsi automatici — cioè quelli pagati dalle rispettive Camere senza nemmeno la presentazione di un contratto/scontrino/biglietto — i deputati vedono arrivare in banca all’ingrosso 6.779 euro al mese e i senatori 7.240 euro.
L’anno fa, rispettivamente, 81.588 e 86.880 euro; in una legislatura 407.940 e 434.400 euro.
Tutto esentasse. Il talento, d’altronde, “ha un suo prezzo di mercato”.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
RESTANO LE INCOGNITE SULLA TENUTA DELL’ASSE TRA MAGGIORANZA E FORZA ITALIA
È un messaggio bifronte, quello arrivato ieri dal Senato: di responsabilità e di confusione. L’accordo in extremis in commissione sulla riforma di Palazzo Madama apre la strada alla sua approvazione.
Ma non cancella del tutto le incognite sulla tenuta dell’asse tra maggioranza e Forza Italia: se non altro per quanto è successo tra la mattina e il pomeriggio.
Ha rischiato di scricchiolare l’intera impalcatura con la quale Matteo Renzi ha puntellato finora la sua ascesa.
Il rilancio in conferenza-stampa contro la burocrazia è figlio delle tensioni nelle ore precedenti.
Si riprende lunedì al Senato, dopo mediazioni affannose. Ma la situazione non è pacificata.
Rimangono spinte centrifughe trasversali, e non solo. Sono rispuntate le resistenze del Nuovo centrodestra e della Lega sull’elezione dei senatori a livello regionale. Al punto da far dire all’esponente del M5S, Luigi Di Maio: «L’asse Pd-FI si sta sfasciando».
Probabilmente, però, è una speranza. La durezza con la quale Renzi evoca la prospettiva di un voto anticipato è fatta per piegare le ultime riserve.
E Denis Verdini, anello di congiunzione tra Silvio Berlusconi e il premier, ieri ha ribadito che i patti vanno rispettati; e che i senatori per il «no» alla fine saranno meno di 22.
Nella riunione di tutti i parlamentari di FI, fissata per martedì, l’ex premier dovrebbe ottenere dunque il «sì» dei gruppi da offrire a Palazzo Chigi.
Non si possono escludere altri ritardi e colpi di coda.
Ieri la commissione Affari costituzionali ha «vistato» il testo finale dopo le limature di Anna Finocchiaro e di Roberto Calderoli.
Ma la proposta del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, subirà in aula nuovi tentativi di sabotaggio da un fronte trasversale che non vuole un «Senato Frankenstein», nella metafora di M5S.
Al di là di ogni polemica tra «conservatori» e «riformisti», il problema sono gli obiettivi del premier.
Il timore degli avversari è che stiano arrivando segnali a ripetizione su una manovra correttiva in autunno; e che Renzi la voglia evitare.
La freddezza delle istituzioni europee di fronte alle richieste di flessibilità sulla spesa pubblica avanzate dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, promette male.
E l’invito a fare «riforme strutturali», spedito ieri dal presidente della Bce, Mario Draghi, ai Paesi dell’Eurozona, conferma che si è ancora immersi nella crisi.
La preoccupazione è che il ridimensionamento del Senato e, dopo l’estate, la modifica del sistema elettorale, non portino alla stabilizzazione della legislatura ma alle urne.
Con un processo un po’ strumentale alle intenzioni di Renzi, la tesi di chi lo osteggia è che sarebbe un modo per rinviare la manovra al 2015; per poi farla, forte di un mandato politico pieno.
Ma questo ragionamento ha l’unico effetto di frenare la strategia della velocità che Renzi persegue con tenacia; e di alimentare i dubbi sulle sue reali capacità di governo.
Nel numero di oggi, il settimanale britannico The Economist si chiede se il premier riuscirà davvero a salvare l’economia italiana.
E addita il rischio che venga percepito come un «Berlusconi della sinistra».
Palazzo Chigi tenta l’ultima accelerazione con il placet di Giorgio Napolitano, che aspetta di vedere nei prossimi giorni un Senato trasformato: la prima riforma realizzata dopo anni di appelli inascoltati del capo dello Stato.
Massimo Franco
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
IL RISCHIO CHE IMPLODA FORZA ITALIA E LA CONVINZIONE DI SILVIO: “SARA’ RENZI A SPENDERSI PER NON FARMI ANDARE IN GALERA”
Cosa c’entra una ragazza marocchina con il processo costituente in corso al Senato? ![](https://scontent-a-cdg.xx.fbcdn.net/hphotos-xap1/t1.0-9/10277733_10202976104296182_2445256285758271505_n.jpg)
Molto, moltissimo se si chiama Ruby El Mahroug.
Perchè è proprio al giudizio d’appello in corso a Milano nei confronti di Silvio Berlusconi che tutti – i frondisti Pd in primis – rivolgevano ieri gli occhi per capire che fine farà la riforma Renzi. Il 18 luglio i magistrati si chiuderanno infatti in camera di consiglio per decidere se confermare la condanna a sette anni.
E nelle stesse ore, a Palazzo Madama, i senatori saranno impegnati nei voti finali sul disegno di legge Delrio-Boschi: tra renziani e ribelli è già partita una gara che intreccia questa scadenza fatidica.
«Il nostro obiettivo – confida sottovoce in Transatlantico il dem Paolo Corsini a Pino Pisicchio – è tirarla per le lunghe fino al 18 luglio. Poi cosa accadrà in caso di condanna di Berlusconi? Forza Italia salterà in aria e tutto potrà essere rimesso in discussione».
Il premier è il primo a essere consapevole di questo rischio.
Si spiega così l’insistenza con la quale il ministro Boschi ha spinto ieri fino all’ultimo affinchè il testo fosse incardinato in aula il prima possibile, senza ulteriori rinvii.
Proprio un ragionamento sulla giustizia del resto è quello che ha tenuto banco ieri mattina a palazzo Grazioli tra Berlusconi, Verdini, e Ghedini.
Un vertice che è servito a ribadire una convinzione che nel leader forzista si è fatta certezza. Quella relativa alla grazia.
«L’unica speranza per avere la grazia – spiega un forzista vicino al cerchio magico – è restare seduti al tavolo delle riforme. Dopo aver riscritto il Senato e il Titolo V passeremo alla giustizia. A quel punto sarà Renzi stesso a spendersi per non farmi andare in galera ».
Il nuovo corso garantista del Pd sta facendo ben sperare Berlusconi. Sulla soglia degli ottant’anni, con un premier non ostile a Palazzo Chigi e la riforma della giustizia scritta a quattro mani con il Pd, anche la condizione posta nel 2013 da Napolitano – il temuto passo indietro dalla politica – diventerebbe meno oneroso.
Ma sono discorsi che gli uomini più vicini al leader accettano malvolentieri di fare, quasi che il solo parlarne potesse compromettere l’operazione.
Intanto c’è da portare a casa il risultato sulle riforme. Un obiettivo per niente scontato.
Come si è visto ieri mattina, quando in commissione l’accordo faticosamente raggiunto è sembrato sfumare per un’alzata di sopracciglio di Roberto Calderoli.
Il fatto è che il relatore leghista si era accorto di un dettaglio non secondario nascosto in un emendamento concordato nel triangolo Pd-Governo-ForzaItalia.
L’emendamento su cui Paolo Romani, il ministro Boschi e Anna Finocchiaro avevano trovato l’intesa soddisfaceva pienamente gli «azzurri» e i democratici, ma poteva rivelarsi una minaccia per tutti gli altri.
Il meccanismo prevedeva che in ogni consiglio regionale i senatori fossero nominati da ciascun gruppo «proporzionalmente» alla loro consistenza.
Visto che ogni regione manderà a Roma solo pochi senatori, è chiaro che Pd, Fi e M5s si sarebbero accaparrati tutti i posti disponibili.
Calderoli, tornato a Roma dopo un ricovero in ospedale, appena ha capito l’inghippo ha fatto saltare tutto ritirando la sua firma e portandosi dietro anche Ncd e Sel.
Da qui l’estenuante mediazione durata tutto il pomeriggio tra Finocchiaro, Boschi, Calderoli e i capigruppo di maggioranza. Fino alla vittoria finale del fronte dei piccoli.
«Qualcuno oggi ha dovuto calare le braghe », ghignava soddisfatto Calderoli a fine giornata.
Ma dietro il braccio di ferro sull’emendamento si è iniziato a giocare il primo tempo di un’altra partita, ancora più importante. Quella della nuova legge elettorale.
Raccontano infatti che sia stato proprio l’Italicum il convitato di pietra al tavolo delle riforme. Lega e Ncd sono tornati alla carica sulle soglie di sbarramento troppo elevate: sia quelle interne alla coalizione sia quella per i partiti che si presentano da soli.
Tutto si tiene. Vista la fronda interna al Pd e a Forza Italia, Renzi ha bisogno dei voti di Alfano e di Salvini per far passare l’abolizione del Senato elettivo.
In cambio i piccoli gli hanno chiesto di modificare l’Italicum.
A complicare ulteriormente il cammino della riforma ci si mette la discussione interna a Forza Italia, dove ieri è finalmente venuto allo scoperto il fronte ribelle con una richiesta, firmata da 22 senatori e rivolta al presidente Grasso, di rimandare di un giorno la discussione in aula della riforma Renzi.
Numeri consistenti, che hanno costretto Denis Verdini a intervenire nell’assemblea dei senatori per ribadire la volontà del capo.
Con toni perentori: «I patti si rispettano dalla A alla Zeta. Chi è contrario sappia che mette in discussione una decisione presa da Berlusconi ».
Ad affrontare a muso duro Verdini ci si è messa Cinzia Bonfrisco.
«Verdini dice che Berlusconi vuole questa riforma. Ma io lo voglio sentir dire da lui in assemblea, poi mi regolerò». Insomma, la situazione interna resta tesa. E lo ha dimostrato anche il pranzo con gli eurodeputati a Palazzo Grazioli, occasione colta da Raffaele Fitto per ribadire al leader tutte le perplessità sulla «fretta da Gran Premio di Formula 1» con cui il premier vuole archiviare la pratica Senato.
Da domani al 18 luglio ogni giorno sarà sudato.
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
NEL DOSSIER DEPOSITATO DELLA DIA EMERGE LA RAGNATELA DI RELAZIONI CON LA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
“Gaetano, sei circondato da vermi ma io ti ho sempre difeso”. L’ex sindaco di Ventimglia sarà pure stato circondato da invertebrati, ma u ministru di sicuro riusciva a circondarsi di una serie impressionante di persone che, in maniera più o meno diretta, hanno avuto a che fare con la criminalità organizzata.
Lo si può leggere in un dossier della Direzione Investigativa Antimafia.
Un voluminoso dossier depositato dalla procura di Reggio Calabria il 4 luglio per chiedere un nuovo arresto, questa volta con l’accusa di concorso esterno alla mafia, per Claudio Scajola.
Il politico imperiese, oggi ai domiciliari, è accusato di aver tentato di aiutare nella sua latitanza Amedeo Matacena, ex parlamentare del Pdl condannato per concorso esterno alla ‘ndrangheta.
Per sostenere il ruolo di Scajola all’interno dell’associazione mafiosa (questa accusa non è stata accolta dal gip che lo ha fatto arrestare per favoreggiamento) gli investigatori reggini – aiutati dai colleghi della Dia di Genova – inquadrano la vicenda del politico imperiese in vari scenari: le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel ponente ligure, certificate di recente anche dalla visita della Commissione Antimafia; i rapporti diretti di Scajola con appartenenti alle cosche o politici coinvolti nelle inchieste Maglio e La Svolta; il business dell’eolico; la presenza di aziende infiltrate nei lavori dei porti di Imperia, San Lorenzo e Sanremo, e infine un excursus delle vecchie inchieste su intrecci politica criminalità anche a Genova.
Il 27 luglio del 2013 Claudio Scajola è ancora un politico che ha forti ambizioni e speranze, tanto da credere che Silvio Berlusconi lo candiderà alle elezioni europee.
E così può anche permettersi di rincuorare un vecchio discepolo caduto in disgrazia, l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino per il quale la procura in quei giorni aveva appena chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa.
La Dia di Reggio cita delle intercettazioni provenienti da una delle molte inchieste sull’ex ministro della procura di Imperia.
Ecco il passaggio: “Scullino chiama Claudio che gli dice di tenersi pronto per la prossima avventura di Settembre… Scullino dice che sta impostando la sua difesa, Claudio si lamenta con Scullino che è circondato da vermi ( i politici del Pdl che hanno scaricato Scajola ei suoi, ndr) e che lui (Claudio) l’ha sempre difeso… Scullino vuol parlare con Claudio e si mettono d’accordo per domani mattina”
La Dia cita anche le intercettazioni dell’inchiesta “La Svolta” in cui il presunto boss Peppino Marcianò racconta di aver avuto più volte ospite Scajola nel suo ristorante.
Un lungo capitolo è dedicato anche al business dell’energia eolica e in particolare alla società Fera dell’imprenditore Cesare Fera.
Una serie di rapporti che iniziano quando Scajola è ancora ministro delle Sviluppo Economico e Fera attraverso Amedeo Matacena e l’ex parlamentare Pdl Alberto Acierno, cerca un contatto, probabilmente per avere notizie su finanziamenti.
La Fera verrà poi coinvolta in indagini dell’Antimafia siciliana sempre sulla realizzazione di parchi eolici in cui “emerge chiaramente la consapevolezza del rapporto diretto con Cosa Nostra da parte della Fera”, scrivono gli inquirenti.
Da sottolineare come nel 2009 fu Maria Teresa Verda, moglie di Scajola, a fare da madrina all’inaugurazione di un parco eolico a Pontinvrea.
La Fera ha costruito nel ponente diversi parchi eolici grazie anche alle scelte operate dalla Regione guidata da Claudio Burlando – sempre presente alle inaugurazioni – , nonostante da anni Christian Abbondanza (il dossier della Dia lo cita come fonte in lunghi passaggi) della Casa della Legalità denunciasse le relazioni pericolose di Fera in Sicilia.
Solo l’opposizione dell’assessorato all’Ambiente della Regione impedì, nel 2011, l’apertura di un centro di ricerca eolico sulle alture di Bergeggi che si trascinava dietro notevoli volumetrie di residenziale.
Un altro capitolo del dossier dell’antimafia calabrese è dedicato alla presenza di imprese legate alle cosche di Torino (Ilario D’Agostino e le aziende di un imprenditore ritenuto contiguo, Brunino Pace) nella realizzazione del porto di Imperia ma anche in quello di San Lorenzo e Sanremo.
Il collegamento è rappresentato da Francesco Bellavista Caltagirone – oggi imputato nel processo per truffa del porto di Imperia – che mette in contatto il Pace anche con Beatrice Cozzi Parodi, all’epoca sua compagna nella vita e socia nelle operazioni portuali.
In chiusura il dossier cita anche le risultanze di vecchie indagini e in particolare di quella dei carabinieri di Genova denominata Liguria 2-000 (finì con un’archiviazione) in relazione alle elezioni regionali di quell’anno.
I carabinieri annotano una cena elettorale al Makò in cui imprenditori come Luigi e Gino Mamone, con frequentazioni di personaggi ritenuti vicini alle cosche, e soggetti di spessore ancora maggiore come i fratelli di Antonio Rampino (fino alla sua morte considerato il referente delle cosche a Genova) partecipano per sostenere il candidato Sandro Biasotti.
Vengono segnalati rapporti di questo gruppo anche con un candidato del Ccd dell’epoca, Giacomo Bertone, e un’altra cena cui parteciparono Mauro Sanguineti, ex deputato Psi e Pasquale Ottonello, all’epoca Forza Italia, poi assessore nella giunta di Marta Vincenzi e quindi di nuovo con il Pdl.
(da “La Repubblica“)
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Luglio 11th, 2014 Riccardo Fucile
PER RENZI IL SOTTOSEGRETARIO ERA “INDIFENDIBILE”: INFATTI E’ RIMASTO AL SUO POSTO
Dunque il pm Forteleoni e il giudice Ponte-corvo, candidati al Csm per la corrente di Magistratura
Indipendente e sponsorizzati dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, sono stati puntualmente eletti con una barcata di voti.
In un paese normale, alla notizia che un membro del governo fa campagna elettorale per il Csm, il premier l’avrebbe licenziato in tronco.
E nessun magistrato, a tutela dell’organo di autogoverno (non del governo), avrebbe votato per i due favoriti del sottosegretario.
Invece Ferri rimane imperterrito al suo posto e i suoi protegè entrano trionfalmente a Palazzo dei Marescialli: Forteleoni con 1571 preferenze (il più votato fra i pm) e Pontecorvo con 616.
È il nuovo modello di divisione dei poteri, che anticipa la riforma della Costituzione.
Ora, a prescindere dalle qualità certamente eccelse dei due interessati, bisognerà detrarre 2 unità alla quota di due terzi riservata ai membri togati, cioè ai rappresentanti della magistratura.
E, se non ascriverle al terzo riservato ai laici (eletti dal Parlamento cioè dai partiti), almeno collocarle a metà strada.
Una quota inedita: quella dei membri laicati o togaici. Quanto ai due membri di diritto, il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce e il Pg Gianfranco Ciani, hanno rispettivamente 73 e 72 anni, e sono sotto schiaffo del governo che improvvisamente vuole prepensionare le toghe a 70 anni.
Poi ci sono i 10 laici, che saranno espressione della maggioranza più bulgara della storia repubblicana: renziani pi-dini, renziani centristi, renziani forzisti, renziani leghisti e renziani ex-Sel (salvo forse un 5Stelle).
Più che un organo di autogoverno, quello di Palazzo dei Marescialli diventa così un organo di governo.
E dire che solo tre giorni fa, tramite gli appositi trombettieri a mezzo stampa, Renzi aveva definito “indifendibile” Ferri: talmente indifendibile che se l’è tenuto ben stretto al governo.
E dire che solo una settimana fa Renzi aveva annunciato la supercazzola della riforma della giustizia con un attacco alzo zero alle correnti della magistratura e ai presunti conflitti d’interessi nel Csm: “Chi nomina non giudica e chi giudica non nomina”.
E ora non muove un dito contro un magistrato sottosegretario che fa eleggere chi nomina e giudica.
Non solo: Ferri continua imperterrito a fare il leader-ombra di MI da sottosegretario, e proprio da quel ministero della Giustizia che è titolare dell’azione disciplinare sui magistrati: cioè di quell’azione che dovrebbe colpire proprio lui per la sua condotta indifendibile.
Ma Ferri non si può toccare: Berlusconi non vuole.
Diventò sottosegretario 14 mesi fa nel governo Letta, in quota Pdl. Il suo grande sponsor era ed è Denis Verdini, originario come lui della Lunigiana.
Infatti a novembre, quando Forza Italia ritirò ministri e sottosegretari, Ferri restò al suo posto spacciandosi per “tecnico”.
E quando Renzi rottamò Letta, rimase imbullonato alla poltrona: prova vivente, in tandem con la ministra Guidi, che le larghe intese sono vive e lottano insieme a loro, e che B. sta all’opposizione solo per finta.
Che il nome di Ferri (mai indagato) uscisse dalle intercettazioni di ben tre scandali — Calciopoli, P3 e Agcom-Annozero — non è certo un handicap, anzi.
E il fatto che abbia due fratelli condannati — Jacopo, consigliere FI in Toscana, per tentata truffa; e Filippo, ex poliziotto ora capo della sicurezza del Milan, per falso aggravato nella mattanza alla Diaz di Genova — fa curriculum.
Resta da capire che ne pensa il presidente della Repubblica e del Csm Giorgio Napolitano, così prodigo di moniti e sdegni quando si diedero alla politica altri tipi di magistrati, come Ingroia e De Magistris.
Appena Renzi gli propose come Guardasigilli Nicola Gratteri, pm valoroso e lontano dalle correnti, Sua Altezza inorridì e lo depennò in base a una non meglio precisata “regola non scritta” che vieterebbe ai magistrati di fare i ministri della Giustizia.
Ma non, evidentemente, i sottosegretari. Non è fantastico?
Chi calpesta ogni giorno le regole scritte (Costituzione compresa) diventa inflessibile su quelle non scritte.
Tanto nessuno le conosce, tranne lui.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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