Destra di Popolo.net

LA FARSA DEI BRACCIALETTI ELETTRONICI: PER USARLI BISOGNEREBBE PRIMA COMPRARLI

Luglio 14th, 2014 Riccardo Fucile

DOVEVANO SERVIRE PER CONTROLLARE CHI E’ AI DOMICILIARI: SONO FINITI DA TEMPO MENTRE I DETENUTI ESCONO LO STESSO DAL CARCERE

Prima il decreto sul femminicidio, la scorsa estate, li ha introdotti come strumento di controllo per gli stalker.
Lo svuota carceri dello scorso inverno, li ha fatti diventare praticamente obbligatori per chi va agli arresti domiciliari.
Infine è arrivato il decreto legge entrato in vigore lo scorso 28 giugno che prevede sempre gli arresti domiciliari, invece della custodia in carcere, per indagati o imputati se la condanna prevista non supera i tre anni.
In sole tre mosse, in meno di un anno, la politica ha trasformato i braccialetti elettronici in uno strumento chiave.
Ha fatto di questi apparecchi, applicati alle caviglie dei detenuti a domicilio, una risposta al cronico sovraffollamento delle carceri.
Solo un particolare è stato trascurato: bisognava comprarli.
Già , perchè mentre i governi di Letta e Renzi creavano le condizioni perchè la domanda di braccialetti elettronici esplodesse, la macchina amministrativa ha viaggiato in direzione ostinata e contraria.
Nonostante i ripetuti allarmi lanciati al ministero dell’Interno da Telecom, cui una convenzione ha assegnato la fornitura degli apparecchi, la dotazione di 2.000 “pezzi” non è stata ampliata.
Il risultato risplende nella circolare che lo scorso 19 giugno l’ufficio del capo della polizia Pansa ha inviato ai vertici del Dap: «Ad oggi», scriveva Pansa, «si è arrivati a circa 1.600 dispositivi attivi con una saturazione del plafond di 2.000 unità  prevista entro il corrente mese di giugno».
E poi un’altra cattiva notizia: per i nuovi braccialetti bisognerà  attendere fino ad aprile del 2015, visto che è necessario predisporre un capitolato per una gara europea.
Ci ha pensato però il governo a trasformare un grosso problema in un rischio emergenza.
Solo dieci giorni dopo l’allarme di Pansa, infatti, è entrato in vigore il decreto 92.
In base alla norma ogni nuovo arrestato, ma anche chi è già  detenuto in attesa di giudizio o con una sentenza non ancora definitiva, deve essere inviato agli arresti domiciliari se il giudice competente prevede per lui una pena non superiore ai tre anni. Un provvedimento che, nell’interpretazione che stanno dando alcuni magistrati, ha effetto anche per chi è già  in carcere con una condanna non definitiva superiore al limite di tre anni, ma deve scontare una pena residua inferiore.
Nelle prossime settimane, spiegano gli addetti ai lavori, usciranno insomma di prigione per andare a casa non solo i piccoli pusher, ma anche rapinatori, spacciatori o altri condannati di elevata pericolosità  sociale, che non potranno però essere dotati del braccialetto elettronico come previsto dalla legge.
A chi la responsabilità ?
La Telecom, che nel 2004 a firmato un contratto con il Viminale per la fornitura, l’installazione e il monitaraggio dei 2.000 apparecchi, avrebbe informato mensilmente il ministero dell’Interno sul rischio di un esaurimento delle scorte.
Dal dicastero di Alfano, per ora, l’unica risposta operativa è stato scaricare la patata bollente sugli uffici giudiziari, con la circolare del 27 giugno scorso indirizzata dal capo di gabinetto del ministro Giovanni Melillo a Procure e Tribunali della penisola. «In attesa che il ministero dell’Interno giunga ad una nuova convenzione che ampli la disponibilità  di braccialetti elettronici», si legge nell’invito rivolto a giudici, «si prega di accertare preventivamente la disponibilità  da parte della polizia giudiziaria dei mezzi elettronici suddetti».
Accertare la disponibilità  di strumenti ormai dichiaratamente esauriti e che non saranno incrementati prima di un anno: un’interessante acrobazia.
«Il braccialetto oggi sta dando risultati positivi», ci ha spiegato il gip di Roma Stefano Aprile, «in tre giorni viene applicato al detenuto, porta dei risparmi economici importanti».
Eppure quando fu introdotto, nel 2001, nessuna circolare si preoccupò di dettare agli uffici giudiziari come utilizzarlo.
Per un decennio il braccialetto è rimasto un oggetto misterioso, poi due anni fa proprio il gip Aprile impose alla questura di Roma di utilizzare sistematicamente gli apparecchi disponibili visto che il sistema risultava regolarmente attivato. In pochi mesi il braccialetto elettronico ha preso piede anche in altre procure e tribunali d’Italia.
Fino all’epilogo odierno. Anni di polemiche contro i costi di uno strumento percepito come “inutile”, e ora che il braccialetto diventa essenziale l’Italia se ne trova sprovvista.
Chapeau.

Martino Villosio
(da “il Tempo”)

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CIVATI E VENDOLA ALLEATI PER CONDIZIONARE RENZI: A LIVORNO NASCE “POSSIBILE”

Luglio 14th, 2014 Riccardo Fucile

ASSOCIAZIONE “PER BATTAGLIE COMUNI” E UNA “SINISTRA RINNOVATA”

«Non ho fatto tutta questa strada per diventare un piccolo Fioroni» afferma dal palco Pippo Civati.
Come dire, che l’associazione “Possibile” lanciata ieri a Livorno dal parlamentare democratico non ha nessuna intenzione di diventare una corrente del Pd. L’aspirazione è molto più grande e mira ad unire tutto quel mondo della sinistra per tornare a parlare di lavoro, diritti civili, economia e riforme costituzionali.
Tornare a farsi sentire è, appunto, possibile.
Se ne discute con il pensiero su quanto sta succedendo a Gaza. E che ci sia bisogno di spingere di più sull’acceleratore ne sono convinti lo stesso Pippo Civati, Nichi Vendola e Gianni Cuperlo.
“Possibile” è stato il filo conduttore del Politicamp di Villa Corridi. «Questa associazione non è una corrente del Pd per avere assessorati, ma è nata per fare battaglia politica » spiega Civati, che pensa ad un grande contenitore di «battaglie politiche comuni ».
Nessuna fuoriuscita dal Pd, nessuna fuga dentro Sel, ma solo la voglia di pungolare e condizionare le scelte della maggioranza del Pd e del governo Renzi sui temi più caldi.
Si partirà  a settembre con le prime proposte di legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione delle droghe leggere, le unioni civili e il reddito minimo garantito.
Fuori e dentro il teatro The Cage, nello spazio all’aperto davanti al palco degli interventi, ieri erano in quasi duemila le persone giunte a Livorno da tutta Italia per seguire la giornata conclusiva della tre giorni civatiana.
Di un’ ipotetica linea di collegamento fra Vendola e la sinistra del Pd ha parlato il leader di Sel annunciando una «possibile nascita di esperienze comuni a sinistra partendo dal semestre europeo, qui ci sono tanti insoddisfatti per l’andamento delle cose e per la leva del renzismo».
Tracciato l’asse, Vendola, ipotizza una sorta di Leopolda rossa con l’anima della sinistra del Pd.
«La sfida è non chiudersi in un unico orto» dice Gianni Cuperlo, promotore di Sinistradem, sottolineando la necessità  di superare una volta per sempre la logica della contrapposizione interna al Pd.
«Renzi oggi è pienamente legittimato, qui non si tratta di cercare rivincite madi consolidare quel 40%. Le anime della sinistra sono da sempre bravissime a dividersi, la sfida oggi è provare a unirle» spiega Cuperlo.
Quindi «non è in agenda nessuna fuoriuscita dal Pd: semmai c’è da cercare di dare al Pd un ancoraggio a sinistra » ribadisce l’esponente di punta della minoranza democratica.
Lo sfidante di Renzi alle primarie per la segreteria del Pd riafferma «sarebbe sbagliato andarcene ». Anzi.
«Dobbiamo sentirci parte dell’equipaggio in nome della voglia di cercare l’unità  per una sinistra rinnovata» precisa Cuperlo. Con un’idea chiara: «-alziamo lo sguardo, il tempo della divisioni è alle spalle, lavoriamo per l’unità » dice lanciando la proposta di un evento in autunno «partendo da obiettivi comuni».
Seduto sul palco c’è Vendola che lo ascolta, subito dopo tocca a lui parlare e la prima cosa che fa è raccogliere l’assist di Cuperlo.
«Non vi dico: rompete o uscite. Non faccio shopping» precisa il leader di Sel, «dico che c’è una sinistra che non fa battere il cuore perchè non offre speranza. Quella speranza che viene offerta a buon mercato da Renzi, che ha due ingredienti: Renzi non è stato associato all’austerity; si è costruita l’idea che l’aggressione grillina potesse conquistare il primato nel Paese».
Apre a «Pippo e Gianni», dice di voler fare «cose insieme a voi» e che servono «reti di sinistra».
Per Vendola «c’è uno spazio per fare cose insieme partendo da un’agenda di lotte. Con il diritto di disturbare il manovratore italiano e anche europeo in questo semestre di presidenza italiana». Insomma il dado è tratto.
E tutto potrebbe diventare più facile se, come consiglia Civati a Renzi, scorrendo la rubrica del cellulare «prima di Verdini c’è Vendola. Può parlare anche con lui, secondo me vengono fuori cose buone per il Paese».

Osvaldo Sabato

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MOGHERINI RISCHIA LO STOP: “E’ TROPPA AMICA DELLA RUSSIA”

Luglio 14th, 2014 Riccardo Fucile

POLACCHI E BALTICI SI OPPONGONO ALLA SUA NOMINA IN EUROPA

Le gocce che hanno fatto traboccare il vaso, dicono qui, sono state due: la visita di Federica Mogherini al Cremlino, anche a nome della presidenza italiana della Ue, dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov; e le dichiarazioni esultanti filtrate subito dopo dalle fonti governative di Mosca: «Il gasdotto South Stream si farà ».
In due anni, passando dal fondo del Mar Nero a Vienna, con il pieno appoggio politico del governo italiano e con quello tecnico dell’Eni.
Anche se l’Ue aveva, ha, bloccato in Bulgaria il capolavoro di Vladimir Putin, considerato uno stratagemma per affamare l’Ucraina e per controllare metà  dell’Europa.
Anche se l’Ue aveva, ha, discusso sanzioni contro gli interessi economici oltre che diplomatici di Mosca.
Il gruppo «ribelle»
Ieri, improvvisamente, con la presidenza italiana della Ue che sembrava lanciare segnali diversi, il vaso è dunque traboccato: secondo il Financial Times , un gruppo di nazioni dell’Est Europa ha concordato di opporsi alla candidatura di Federica Mogherini, attuale ministro degli esteri italiano, al posto di «mister Pesc» o Alto rappresentante agli affari esteri di tutta la Ue.
Il gruppo ha una sua consistenza, anche diplomatica: è guidato dalla Polonia, molto vicina agli Usa di Barack Obama e avviata ormai a diventare una potenza economica, e composto dai Paesi baltici, cioè Lituania, Estonia e Lettonia.
Tutti ex sudditi dell’Urss, oltre che protagonisti di rivolte indipendentiste contro Mosca, e due fra loro – Estonia e Lettonia – popolati da forti minoranze russe che hanno dato segni di inquietudine sulla scia dei loro «compatrioti» in Crimea o in Ucraina Orientale.
In ognuno di questi Paesi, il ricordo dell’Urss e oggi la presenza della Russia che sgomita non suscitano generalmente grandi entusiasmi.
Mentre l’Ue, e più ancora la Nato, sono viste come scudo protettivo, politico, economico e militare.
Ecco perchè l’appoggio offerto a Putin sul tema South Stream dal nostro ministro Mogherini, e dal primo ministro Matteo Renzi, nel quadro della presidenza italiana della Ue, ha suscitato preoccupazione e malumore.
Nè è piaciuto l’annuncio di quel vertice autunnale, a Milano, dove Putin dovrebbe ovviamente comparire come interlocutore protagonista: nei giorni in cui l’Ucraina formalmente alleata dell’Ue, e messa a dieta del gas russo, comincerà  ad affrontare i freddi dell’inverno. L’alternativa? Kristalina Georgieva
Ci sono altri ragionamenti in ballo. Mogherini neo-ministro degli Esteri europeo – ecco la riflessione lasciata filtrare l’altro ieri da qualche fonte polacca ai Bruxelles – dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i 28 Paesi, compresi quelli baltici più a contatto con l’orso russo, e la Polonia: e un appoggio così aperto a un’opera geostrategica per il Cremlino farebbe temere proprio per la difesa di questi interessi.
Un ultimo argomento, infine, gioca il suo ruolo al tavolo della nuova Commissione: i Paesi dell’Est ritengono di essere finora sotto-rappresentati.
Ecco perchè potrebbe vincere una candidatura di compromesso, quella della bulgara Kristalina Georgieva.
Non conforta gli scontenti la sbiadita esperienza vissuta con lady Catherine Ashton, precedente «ministro degli esteri» della Ue, o la zoppicante mediazione svolta durante la crisi ucraina. Vecchi timori e recenti suscettibilità  convergono in questo groviglio diplomatico.
Per non parlare degli interessi economici: South Stream, opera Gazprom, nasce con la collaborazione dell’italiana Eni, della francese Edf, e della tedesca Wintershall. È atteso naturalmente da molti Paesi, come arteria di energia.
Ma secondo Bruxelles, il suo obiettivo precipuo potrebbe anche essere quello di minare l’indipendenza e la sicurezza energetica della Ue, e di isolare l’Ucraina.
Anche da tutto questo, ora, dipenderà  il ruolo dell’Italia nella nuova Commissione Europea. ] Un veto da Est contro Mogherini

Luigi Offeddu

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INTERVISTA AD ALFANO: “PATTO CON RENZI MA VIA L’ART.18”

Luglio 14th, 2014 Riccardo Fucile

“MA L’ITALICUM DEVE ESSERE CAMBIATO”…. “DIALOGO CON FORZA ITALIA? VEDIAMO COME SI COMPORTANO SULLA LEGGE ELETTORALE”

Un «patto per i mille giorni». Ecco quello che Angelino Alfano propone a Renzi. Un’agenda da condividere tra alleati, basata su tre pilastri: «uno shock fiscale» per ridurre le tasse, «una frustata antiburocratica » e «l’abolizione dell’articolo 18» per consentire alle imprese di far ripartire le assunzioni.
Mille giorni «pieni di cose buone per l’Italia, per poi tornare ciascuno sulla propria strada».
Destra contro sinistra, «come si fa in tutta Europa ». Mentre su nuovo Senato e Titolo V per Alfano «l’impianto può reggere alla prova dell’aula », sull’Italicum ci sarà  da discutere molto.
Anzi, proprio sulla legge elettorale Ncd misurerà  la buona fede di Forza Italia e di Berlusconi, «ora che è fallito il loro tentativo di soffocarci nella culla »
Ministro Alfano, Renzi ha già  lanciato i suoi “1000 giorni” senza nemmeno farvi una telefonata. Siete figli di un dio minore?
«Questa è la rappresentazione giornalistica, anche perchè i mille giorni erano già  tutti nel patto che ha dato vita alla nascita di questo governo. In realtà  siamo stati protagonisti nell’individuazione di queste scelte. C’è la nostra firma sulla riduzione delle tasse, sul superamento della legge Fornero, sulla riforma della P.A. e sulla giustizia. Anzi, proprio il piano giustizia sembra ricalcato su quello che proposi io quando ero Guardasigilli. Solo chi è in malafede non si accorge degli importanti contenuti di centrodestra che siamo riusciti a imporre e del fortissimo imprinting riformatore del governo».
Ora chiedete al premier l’apertura di un tavolo di trattativa?
«Non proponiamo cabine di regie o tavoli di trattativa, non siamo ragazzi-vintage. Mettiamo in chiaro i nostri obiettivi».
Con una battuta si potrebbe dire: siete riusciti talmente bene a ibridare il governo che forse è diventata inutile la vostra presenza. Basta Renzi…
«Senza di noi non ci sarebbe mai stato questo governo. Siamo decisivi per il sostegno parlamentare e saremo incisivi sui provvedimenti necessari a rilanciare il paese. Se non ci fosse l’Ncd Renzi dovrebbe fare i conti con una sinistra interna che raddoppierebbe la sua forza contrattuale. L’ancoraggio moderato assicurato da un partito come il nostro è garanzia di politiche che difendano gli imprenditori, gli artigiani, i commercianti, le partite Iva e le famiglie».
Mille giorni dice Renzi. Per fare cosa?
«La priorità  resta l’uscita dalla crisi. Occorre passare a un fisco “family oriented”: per questo, dopo l’estate, la discussione sulla legge di stabilità  deve concentrarsi sul sostegno alle famiglie con i figli».
Bello, ma i soldi? Non ci sono nemmeno le coperture per rendere stabile il bonus da 80 euro. Come farete?
«Ci sono ancora margini per tagliare la spesa pubblica e reinvestire i risparmi nel sostegno alla famiglia».
E nell’agenda dei mille giorni cosa volete mettere?
«Quello che chiediamo a Renzi è uno shock fiscale, una frustata antiburocratica e una svolta vera sull’articolo 18».
Lo sa che resta un terreno minato. Già  il governo Monti l’ha depotenziato molto, voi cosa proponete?
«Dobbiamo superarlo del tutto. L’articolo 18 è un gioco di specchi: si teme la libertà  di licenziare quando invece ci si dovrebbe concentrare sulla libertà  di assumere. La nostra ricetta per la ripresa è meno fisco e meno regole per le imprese. Se riusciremo a farcela tra mille giorni potremo lasciarci e ognuno andrà  per la propria strada: la nostra prospettiva resta la costruzione di un’area alternativa alla sinistra come accade in tutta Europa ».
Per costruire quest’area chiuderete Ncd e Udc?
«Per ricostruire il campo moderato faremo ciò che serve. È chiaro che la prima fase del progetto coinvolge quelli del cerchio più interno, ovvero le forze che stanno all’interno del Ppe, all’interno del governo e all’interno del processo di riforma. Poi sarà  il tempo e i comportamenti di ciascuno a sciogliere alcuni nodi».
E con la Lega come la mettiamo? Salvini continua a bombardare il governo sull’immigrazione. Pensa di ricucire anche con il Carroccio?
«Tra noi e Salvini c’è una grande differenza. Noi vogliamo contrastare l’immigrazione clandestina, salvare la vita a chi fugge dalle persecuzioni e ottenere che l’Europa prenda in mano la vicenda. Salvini ha tutto l’interesse a non risolvere il problema per poterci lucrare sopra. Del resto lui sta costruendo una destra estrema, lepenista, anti-euro e razzista. Esattamente quella che il Ppe considera avversaria».
Giovanni Toti vi propone un patto di consultazione permanente. Accettate?
«Prima ci vorrebbe una moratoria degli insulti da parte dei giornali. Esiste un citofono che collega piazza San Lorenzo in Lucina con via Negri a Milano e con Segrate?».
Intende dire che prima devono cessare gli attacchi di Giornale e di Panorama?
«Esatto, ma non basta. Per noi un elemento determinante sarà  la posizione di Forza Italia sulla legge elettorale».
Chiedete l’abbandono dell’Italicum?
«Quella legge nasce in un periodo politicamente molto diverso, quando noi eravamo appena nati e c’era ancora il governo Letta. Fu chiaro il tentativo di Forza Italia di soffocarci in culla attraverso la legge elettorale. Spero che ora Forza Italia prenda atto che il tentato omicidio è fallito e si rassegni alla nostra presenza in campo e nel governo ».
Quindi devono cambiare le soglie di sbarramento?
«Sì, ma non solo. Noi porremo in maniera fortissima la questione delle preferenze. A questo punto sono essenziali».
E la riforma costituzionale?
«Se ci saranno dei dettagli da correggere siamo ancora in tempo, ma il compromesso raggiunto lo riteniamo già  valido. Può reggere la prova dell’aula anche così com’è».

Francesco Bei
(da “La Repubblica“)

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INTERVISTA AL GIURISTA VILLONE: “RIFORMA DEL SENATO? UNA BESTEMMIA ALLA COSTITUZIONE”

Luglio 14th, 2014 Riccardo Fucile

“RIDICOLO GIUSTIFICARLO COME UN RISPARMIO: LE SPESE REALI SONO GLI IMMOBILI, I SERVIZI E IL PERSONALE”

Non sarà  un Belpaese l’Italia controriformata dallo stravolgimento costituzionale. “Guai a valutare separatamente la legge elettorale e la riforma del Senato. Si azzera il Senato e pure la Camera, che attraverso l’Italicum garantisce al leader eletto un obbediente parco buoi. Il parlamento non conta più, e nemmeno l’esecutivo. Conta il leader, già  si vede con il governo Renzi dove i ministri sono la sua squadra personale. Il disegno è proprio questo: un governo personale”, spiega Massimo Villone, ordinario di diritto Costituzionale all’Università  Federico II di Napoli, ex senatore prima del Pds e poi dei Ds
Professore, i cittadini non capiscono perchè per sanare una situazione causata da una legge elettorale dichiarata incostituzionale se ne predisponga un’altra fortemente sospettata degli stessi limiti.
L’incostituzionalità  dell’Italicum è evidente. Le censure che la corte rivolge al Porcellum su liste bloccate e premio di maggioranza valgono tal quale per il nuovo sistema. L’Italicum risponde esattamente al disegno politico e agli interessi dei due attori, Renzi e Berlusconi, che trovano la risposta a quello che, secondo loro, è il problema della competizione politica oggi. Non so se questa analisi resiste, considerando che Forza Italia non è più la seconda forza. È un sistema pensato per i due maggiori partiti: gli altri possono anche morire.
Dopo la sentenza della Corte sul Porcellum era chiaro che bisognava fare la legge elettorale, ma sarebbe stato molto più rispettoso verso i cittadini lasciar fare le riforme costituzionali a un parlamento di eletti e non di nominati.
È arroganza politica e mancanza di cultura costituzionale. Questo Parlamento manca di legittimazione sostanziale, anche se non di legittimità  formale. E la maggioranza che vuole le riforme — costruita sulle norme incostituzionali la legge fondamentale in base alla quale è priva di legittimazione. Per un costituzionalista è una bestemmia contro la Carta.
Il suo collega Alessandro Pace al Fatto di ieri ha dichiarato: “Una siffatta concentrazione di poteri, in capo a un solo organo e a una sola coalizione (per non dire in capo a un solo partito e al suo leader) è impensabile in una democrazia liberale. Lo affermò esplicitamente lo stesso presidente Napolitano nel discorso per il 60° anniversario della Costituzione, allorchè prese le distanze dal semipresidenzialismo francese”.
Credo che Napolitano sia genuinamente preoccupato della salute delle istituzioni, ma non si può dire “riforme comunque” . “Quali riforme” è pregiudiziale. Qui si mette in campo una cosa che non ha riscontri, nemmeno nel modello francese, che conserva la possibilità  d’identità  politiche diverse tra Parlamento e presidente. Nel modello che si prefigura per noi il leader è eletto sostanzialmente in modo diretto, comanda la sua maggioranza, si fa le liste, cioè porta alle Camere chi vuole. Un sistema più riduttivo degli spazi di democrazia rispetto al semipresidenzialismo e al presidenzialismo. Un’assemblea elettiva con una maggioranza prefabbricata e blindata è un vuoto simulacro di democrazia.
Renzi dice: il Senato non elettivo fa risparmiare. Non era meglio ridurre il numero complessivo dei parlamentari?
Certo. Ma era più difficile perchè si disturbava la Camera, i cui numeri sopperiscono alle fragilità  della maggioranza in Senato. Le indennità  dei senatori — cui si aggiungono comunque i costi di permanenza a Roma — sono alla fine spiccioli. Basta leggere i bilanci del Senato per vedere che i costi veri — e questi rimangono — sono la gestione e manutenzione degli immobili, i servizi, il personale. È una boiata pazzesca.
Il premier dice anche che il sistema del bicameralismo, con la navetta tra una Camera e l’altra, fa perdere tempo.
Guardate le statistiche sul sito del Senato. La quasi totalità  della produzione legislativa fa capo al governo, con decreti delegati o legge. Al voto finale per la conversione di un decreto legge si arriva in ciascuna camera in un tempo medio di 14 giorni
L’immunità  è una garanzia prevista dai padri della patria, dicono.
La garanzia originaria è stata importante per la sinistra. Un tempo, deputati e senatori si mettevano a capo delle manifestazioni perchè avevano la copertura parlamentare. Poi, la garanzia è uscita dall’orbita dell’agire politico ed è entrata nei meccanismi corruttivi. Oggi, è sensato mantenere (sia per i deputati che per i senatori di seconda scelta non eletti) solo l’insindacabilità  delle opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni, e forse l’autorizzazione per l’arresto, che può incidere sugli equilibri politici dell’assemblea.
Cosa succederà ?
La prima lettura della legge costituzionale si svolge esattamente come una legge ordinaria, con maggioranza non qualificata. Dopo l’eventuale navetta, la prima deliberazione si chiude con l’approvazione di un identico testo. Nella seconda si può solo dire sì o no. Non ci sono emendamenti, questioni pregiudiziali, sospensive: prendere o lasciare. Dunque, si decide tutto qui e ora.

Silvia Truzzi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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DER SPIEGEL: “LA MERKEL POTREBBE DIMETTERSI PRIMA DELLA SCADENZA DEL 2017”

Luglio 14th, 2014 Riccardo Fucile

“PER IL SUO FUTURO SOGNA DI RICOPRIRE IN RUOLO INTERNAZIONALE”… IL SUCCESSORE SAREBBE IL MINISTRO DELLA DIFESA URSULA VON DER LEYEN

Fino a quando rimarrà  al suo posto? Angela Merkel ricopre la carica di cancelliera ormai da nove anni.
Solo Helmut Kohl e Konrad Adenauer hanno collezionato più anni di lei nello stesso ruolo.
Finora la cancelliera non ha mai incontrato avversari in grado di impensierirla, nè nelle vesti dei candidati socialdemocratici che nel tempo l’hanno sfidata, nè tantomeno all’interno del proprio partito, l’Unione Cristiano-Democratica (Cdu). Eppure, voci interne al suo staff, non eslcudono che la cancelliera possa compiere un passo indietro prima della fine del mandato, che scade nel 2017.
Il primato di cui Angela Merkel gode nell’elettorato tedesco è solido.
Alle ultime elezioni per il Bundestag nel settembre scorso ottenne un risultato superiore al quaranta per cento, frutto in gran parte del proprio carisma personale. L’altro contendente alla carica di cancelliere, il socialdemocratico Peer Steinbrà¼ck, finì staccato di quasi venti punti.
Al momento non sembra che esistano alternative politiche al “merkellismo”, una miscela ben combinata di conservatorismo, stato sociale e agguerrita competitività  al di fuori dei confini nazionali.
Perlomeno, fino a quando non dovesse concretizzarsi l’ipotesi di una coalizione rosso ­rosso ­verde. Finora, però, il principale partito d’opposizione, la Spd, è ingabbiato nel ruolo di principale alleato di Angela Merkel e pare per nulla intenzionato a tessere i rapporti a sinistra con la Linke.
La cancelliera può dormire sonni tranquilli. Eppure, Angela Merkel, all’apice della potenza, starebbe già  pianificando la sua uscita di scena.
Secondo le indiscrezioni del settimanale tedesco Der Spiegel, la cancelliera vorrebbe evitare di concludere la sua carriera con una sconfitta elettorale.
Nel giro dei suoi collaboratori più stretti si vocifera che la Merkel sarà  la prima cancelliera nella storia tedesca del dopoguerra a dimettersi volontariamente prima della scadenza naturale del proprio mandato.
“L’ipotesi la stuzzica molto”, ammette un collega di partito, nonchè esponente della compagine di governo.
E, a riprova del fatto che non si tratterebbe di sole voci, lo Spiegel aggiunge che la cancelliera starebbe già  lavorando personalmente alla propria successione.
Sarebbe noto anche il nome della candidata prescelta, l’attuale ministra della Difesa Ursula von der Leyen, data in pole position.
Sembra sia stata la stessa Merkel ad averla voluta nel ruolo di guida di quel ministero, da molti commentatori politici considerato un trampolino di lancio alla ben più ambiziosa carica di futura cancelliera.
Il futuro di Angela Merkel potrebbe però riservare delle sorprese.
L’idea delle dimissioni non significherebbe necessariamente l’abbandono definitivo della carriera politica, anzi.
Lo Spiegel parla di ambizioni in campo internazionale. Non è la prima volta che trapelano indiscrezioni sulle ambizioni di Angela Merkel di andare a occupare in futuro il ruolo di presidente del Consiglio dell’Unione Europeo o, nientemeno, quello di segretario generale dell’Onu.
Entrambi gli incarichi si libererebbero tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Qualcuno già  si sbilancia, l’europarlamentare della Cdu Elmar Brok, per esempio. “A Bruxelles in tanti si augurano che Angela Merkel possa in futuro mettere, come presidente del Consiglio, la sua esperienza e la sua capacità  al servizio dell’Europa. Potrebbe contare su un vasto consenso”.

Tonino Bucci

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DIETRO IL SUCCESSO DEL CALCIO TEDESCO: TRASPARENZA NEI CLUB E VIVAI OBBLIGATORI

Luglio 14th, 2014 Riccardo Fucile

SQUADRE IN MANO AI TIFOSI CHE DEVONO MANTENERE LA QUOTA DI MAGGIORANZA DELLA SOCIETA’, FATTURATI DA RECORD GRAZIE A MARKETING E MERCHANDISING E OBBLIGO DI INVESTIRE SUI GIOVANI TALENTI

La vittoria dei mondiali da parte della Germania è un successo che non è frutto d’improvvisazione, ma nasce da lontano.
Da una solidità  economica che solo i club tedeschi hanno in tutta Europa, pur restando saldamente in mano ai tifosi, che in Germania si sono rivelati i migliori presidenti possibili per le loro squadre.
Il resto l’ha fatto una Federazione capace e innovatrice: che nel 2000 capì che il vecchio calcio tedesco era finito, e che per rinascere bisognava investire massicciamente sui vivai.
E ora, a distanza di quattordici anni, raccoglie i frutti di quella semina, mostrando al mondo una nazionale giovane, bella e multietnica. Un modello a cui anche il calcio italiano potrebbe ispirarsi, dopo l’eliminazione dal Mondiale.
Club in mano ai tifosi
Mentre il calcio italiano ha a lungo prosperato solo grazie ai milioni dei presidenti paperoni, quello tedesco poggia su basi molto più solide.
Le squadre sono strettamente connesse al territorio e alla comunità  di riferimento, che ha parte attiva nel processo gestionale. La regola d’oro è quella del “50+1”: secondo quanto previsto dallo statuto federale, i tifosi devono mantenere la quota di maggioranza della società .
E questo accade in tutte le più importanti compagini tedesche, dal Bayern Monaco al Borussia Dortmund. Poi ci sono eccezioni in un senso e nell’altro: nel 2011 è stato stabilito che sponsor con un coinvolgimento di oltre 20 anni in un club possano assumerne la proprietà , se con il consenso dei soci.
E infatti Wolfsburg e Leverkusen appartengono interamente alla Wolkswagen e alla Bayer.
Ma ci sono anche società  strutturate come polisportive, al 100 per cento di proprietà  dei supporter (lo Schalke 04 e lo Stoccarda, ad esempio). Di base, comunque, la presenza dei tifosi nei consigli direttivi permette di verificare la correttezza delle scelte finanziarie, evitando abusi e garantendo la virtuosità  economica e sportiva del club.
Fatturati da record
I risultati di una sana amministrazione si vedono subito in sede di bilancio. Nella Bundesliga 12 club su 18 hanno chiuso in attivo l’ultima stagione, e il giro d’affari complessivo del campionato è in crescita da otto anni di fila.
I due “case history”, differenti fra loro ma di egual successo, sono quelli di Borussia e Bayern.
Il Dortmund nel 2006 era ad un passo dal fallimento: con una radicale ristrutturazione, in sette anni è riuscito a rimettersi in piedi e arrivare a una finale di Champions, chiudendo l’ultimo esercizio con un profitto di 61 milioni di euro.
Il Bayern Monaco, invece, è in attivo da 20 anni di fila, e vanta un fatturato record di quasi 400 milioni l’anno.
Merito non solo dei diritti tv (unica fonte di introiti del calcio in Italia), ma anche di marketing e merchandising spregiudicati, e ricavi da stadio da capogiro.
A queste cifre, i bavaresi (e in generale tutti i club tedeschi), possono permettersi di allestire squadre sempre più competitive. E di investire forte sui vivai.
La linea verde
Tutto inizia nel 2001, dopo l’eliminazione dall’Europeo di Belgio e Olanda di qualche mese prima.
Il progetto della DFL, la lega calcio tedesca, è a lunga gittata e pone le basi dal reclutamento.
È così che dodici anni fa viene introdotto l’obbligo per tutte le società  di Bundesliga e Bundesliga 2 (la nostra serie B) di avere una squadra in ogni categoria giovanile a partire dagli under 12.
Il mancato rispetto di questo vincolo comporterebbe la revoca della licenza di partecipazione al campionato.
E per favorire la crescita dei giovani talenti tedeschi, ogni formazione dall’under 16 in su deve avere in rosa almeno 12 giocatori candidabili a una maglia della nazionale di categoria.
Ne è scaturita una corsa a chi investe meglio che nel 2013 ha portato i club a spendere 80 milioni di euro nei settori giovanili (+3,3 per cento rispetto al 2011/12), facendo lievitare a 820 milioni il totale dei fondi destinati alle accademie del calcio dal 2001. E per accorciare il gap tra le società  — che per ovvie ragioni non possono avere la stessa forza economica — la Federcalcio tedesca ha creato un fondo comune per aiutare i club con meno risorse, che hanno sfruttato l’occasione per sfornare talenti e rivenderli alle big ingrossando il conto in banca.
Risultato: oltre la metà  dei giocatori della Bundesliga sono tedeschi e spesso cresciuti in piccole realtà  come Wolfsburg, Friburgo e Rostock.
E’ così che sono maturati cinque punti fermi del ct Loew come Neuer, Schurrle, Hummels, Gotze e il grande assente in Brasile, Reus.
Da Schweinsteiger a Boateng, il multiculturalismo
La Germania ha saputo mescolare e attingere al serbatoio di multiculturalismo endemico nella società .
Così a Bastian Schweinsteiger sono stati affiancati talenti di origini lontane. Come il turco Mesut à–zil, classe ’88 e perno del centrocampo accanto a Sami Khedira, padre tunisino.
Stesso discorso per Jerome Boateng, papà  ghanese e mamma tedesca, e per il 22enne difensore doriano Shkodran Mustafi, origini albanesi ma cresciuto ad Amburgo.
Ci sono anche due polacchi: il nuovo miglior cannoniere nella storia dei Mondiali, Miroslav Klose, e Lukasz Podolski, nato a Gliwice ma trasferitosi a due anni in Renania Settentrionale.
Quattro di loro sono stati schierati da Loew fin dal primo minuto contro il Brasile, in un undici la cui età  media era di appena 26 anni.
Il meglio deve ancora venire.

Andrea Tundo e Lorenzo Vendemiale
(da “il Fatto Quotidiano”)

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