Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
NELLA RICERCA DELL’INCIDENTE MOLTI INTRAVEDONO LO SPETTRO DELLA FINE ANTICIPATA DELLA LEGISLATURA… E IN FORZA ITALIA AUMENTANO I DISSIDENTI
Uno spettro si aggira nel Senato, nel giorno più teso. Lo spettro della crisi di governo. È questo il non detto che in molti vedono dietro la forzatura di Renzi.
Una vecchia volpe come Roberto Calderoli, in Aula, arriva quasi ad esplicitarlo: “Perchè tutta questa fretta, perchè non si è aspettato lunedì in modo da offrire al governo il modo di dare risposte?”.
Racconta un capogruppo che ha partecipato alla riunione in cui si è scelto di optare per il contingentamento dei tempi che il ministro Boschi sembrava che l’incidente lo cercasse, lo volesse.
Non “ha aperto a nulla” mettendo a rischio con la forzatura sui tempi anche un decreto in scadenza.
Anche Nichi Vendola è furibondo, perchè, appena sceso dal Quirinale, pensava che ci fossero i margini per un accordo politico, su referendum e immunità . Il due punti simbolici che aveva messo sul tavolo.
È di fronte al “no” su tutta la linea che pure Sel, nel corso della riunione dei dissidenti al Senato, rilancia: “O Senato elettivo o abolizione”.
Dichiarazione che equivale a dire ogni ipotesi di negoziato è saltato.
È lo spettro della crisi, la “ricerca di un incidente” che mette i due esecutori del patto del Nazareno di fronte all’insofferenza dei gruppi.
Dopo che parla Paolo Romani, escono tutti i pugliesi e i campani – e forse qualcun altro se mancano all’appello più di una ventina di senatori – inferociti per l’intervento troppo filorenziano del capogruppo di Forza Italia.
Un azzurro di rango dice: “Verdini da giorni spiega che Renzi ha le dimissioni in tasca per votare prima della manovra. Cerca solo un incidente”.
È per questo che Berlusconi asseconda la manovra del premier.
Perchè il suicidio del Senato è vita per la legislatura: “Non si andrà a votare — spiega ai suoi — e a ottobre il governo sarà in difficoltà sull’economia perchè non ha un euro”.
Per questo non si scompone di fronte a un contingentamento dei tempi che — è la battuta che circola a palazzo Madama tra gli azzurri — “se lo avessimo fatto noi, ci saremmo trovati la sinistra in piazza”.
Perchè è vero che non si tratta di una tagliola, meccanismo in base al quale si mette una data entro la quale approvare un provvedimento.
E tutto ciò che entro quella data non è discusso, cade. Questo meccanismo non è utilizzabile per le riforme costituzionali. Ma anche l’articolo 55 comma 5, il cosiddetto contingentamento, è pur sempre una limitazione del dibattito.
Non è detto che entro l’8 agosto si riesca ad approvare tutto. Basta che si chieda un voto “spacchettato” su un emendamento che i tempi slittano.
È certo che però, a questo punto, possa passare entro agosto.
E per Berlusconi far passare liscia la prima lettura equivale a non dare a Renzi l’alibi, l’incidente per rompere tenendo in piedi quel patto del Nazareno che considera ancora conveniente.
Anche su quella legge elettorale attorno alla quale si addensano grandi sospetti.
L’ex ministro Mario Mauro lo dice senza tanti giri di parole: “Gettiamo la maschera! A questo punto è chiaro che il vero ostacolo alla riforma del Senato è l’Italicum. I tentativi di inserire in Costituzione alcuni passaggi della legge elettorale, manifestano chiaramente quali sono le vere preoccupazioni del Partito democratico e di Forza Italia”.
Proprio attorno alla legge elettorale, Berlusconi ha chiesto di vederci chiaro, dopo la sollecitazione del Quirinale a cambiare la legge elettorale.
Potrebbe accettare l’innalzamento della soglia per accedere al ballottaggio al 40 per cento. Si potrebbero toccare un minimo del soglie per i coalizzati, ma su preferenze e soglie per i non coalizzati “non si tratta”.
Partita lunga, anch’essa sottotraccia.
Che si riaprirà scampato il pericolo della fine anticipata della legislatura.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
PER LA PRIMA VOLTA DICE CHE “E’ MOLTO DIFFICILE ARRIVARE AL +0,8% DI CRESCITA NEL DEF”… IL PAGAMENTO DEI DEBITI SLITTA AL 21 SETTEMBRE
Alla fine, anche il premier è stato costretto ad alzare le mani. “Sarà molto difficile” arrivare al +0,8% di crescita stimato nel Def.
Quella che il presidente del Consiglio Matteo Renzi affida a Corriere.it è la prima ammissione, diretta, che le previsioni stilate poco più di tre mesi fa nel documento di Economia e Finanza vanno riviste.
Facendo crollare, di fatto, l’intera impalcatura messa a punto dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
“Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone”, ha spiegato il premier. “La nostra priorità è il lavoro. Ma le statistiche, credo, inizieranno a migliorare solo dal 2015”.
Una sottolineatura, quella del presidente del Consiglio che arriva dopo che oggi il Fondo Monetario ha tagliato le stime di crescita per il nostro Paese dallo 0,6% previsto allo 0,3%, e dopo che ieri Confindustria aveva prospettato per il 2014 una crescita pressochè piatta.
E nonostante le minimizzazioni, un impatto rilevante dal pil più debole delle aspettative potrebbe arrivare comunque.
La mancata crescita secondo le previsioni allontanerà il nostro Paese dagli obiettivi di riduzione di debito e deficit concordati con l’Europa.
Che, in caso di scostamenti rilevanti, potrebbe valutare di chiedere al governo un intervento di correzione dei conti.
In altre parole, una manovra.
E anche sul fronte del pagamento dei debiti della pubblica amminstrazione con le imprese il premier fa una mezza marcia indietro.
“Entro il 21 settembre dovremmo riuscire a pagare tutti i debiti della pubblica amministrazione” ha detto, aggiungendo che la somma totale sarà “molto meno” di 60 miliardi.
Eppure era stato lo stesso ministro Pier Carlo Padoan, a fine maggio, ad utilizzare questa come cifra di riferimento.
Somma, peraltro, sensibilmente più bassa dalla stima della Banca d’Italia che aveva valutato – attraverso un’indagine campionaria – in 91 miliardi di euro i debiti accumulati fino al 31 dicembre 2012, calati poi a 75 l’anno successivo.
Renzi è quindi tornato anche sui 43 miliardi di euro per le infrastrutture “sbloccati da settembre” annunciati ieri. Risorse, ha spiegato il premier “che non violano nessun vincolo europeo perchè sono già conteggiati”.
A che fondi faccia riferimento il presidente del Consiglio non è però chiarissimo.
Quel che è certo è che il punto di partenza dovrebbero essere le segnalazioni inviate dai sindaci sui cantieri rimasti fermi e che secondo le amministrazioni dovrebbero ripartire in fretta con l’imminente decreto “sblocca-Italia”, che il governo dovrebbe approvare alla fine del mese.
Sul salvadanaio da cui attingere queste risorse, il presidente del Consiglio non ha fornito dettagli ulteriori.
Spiegando in particolare se – come fanno sapere dal ministero delle Infrastrutture – si tratti soprattutto delle risorse complessivamente mobilitabili con lo sblocco di tutti i cantieri segnalati al governo o se Renzi faccia riferimento all’ipotesi di scorporare dal calcolo del deficit le spese per alcune infrastrutture, liberando così risorse fresche destinate alle opere. Ipotesi però che dovrebbe ricevere il via libera – tutt’altro che scontato -da parte dell’Europa.
(da “Huffingtopost”)
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
IL POLITOLOGO MARCHESI: “SI SOSTENGONO A VICENDA AVENDO RECIPROCI INTERESSI A FARLO”
Non solo in Italia, ma anche qui a Dallas (ovviamente solo tra quelli che seguono le cose italiane), molti sono incavolati sulla sentenza che nei giorni scorsi ha assolto Berlusconi. Ma è sbagliato.
Una sentenza non può essere un giudizio moralistico, può essere solo un giudizio giuridico, e sul quel piano gli avvocati-parlamentari di Berlusconi (dove occorreva) hanno fatto negli anni scorsi un buon lavoro (sia facendo nuove leggi che non disfacendo quelle che avrebbero dovuto essere riformate).
Infatti l’avv. Coppi, che difendeva Berlusconi nel processo “Ruby”, ha centrato in pieno il bersaglio dicendo che B. non aveva fatto alcuna pressione sul funzionario per far rilasciare la giovanetta affidandola a persona di fiducia dello stesso Berlusconi, quindi non c’è concussione.
Il fatto è che ovviamente non c’era alcun bisogno di fare pressioni.
In un mondo dove per fare carriera conta di più l’abilità nell’essere elogianti ed ossequienti piuttosto che quella di essere bravi nella propria professione, quando un “pezzo grosso” chiama, gli basta qualificarsi per vedere funzionari di ogni livello inchinarsi col mento fino a terra nella premura di dimostrare profonda devozione e perfetto servilismo. In Italia siamo tutti eredi di un sistema burocratico generazionale che nemmeno il fascismo è riuscito nel secolo scorso a smantellare.
Questo è esattamente quello che è successo nel caso Ruby-Berlusconi. Assolto il grande capo per non aver commesso il fatto adesso sarà il funzionario a dover giustificare il suo comportamento accomodante e servile.
Peggio per lui, conosceva il suo dovere, doveva stare con la schiena dritta.
Anche per il reato di induzione alla prostituzione di una minorenne, mancando ogni evidenza incontestabile che B. ha avuto rapporti sessuali con Ruby quando lei era ancora minorenne, la sentenza non poteva che essere quella che “il fatto non costituisce reato”.
Naturalmente un padre di famiglia (Berlusconi), che “casualmente” è anche presidente del Consiglio di un grande paese industrializzato, che spende tutto il suo tempo libero (e probabilmente anche qualcosa di più) per organizzare festini a luci rosse (conosciuti oggi in tutto il mondo con l’appellativo di “bunga bunga”), non è quello che comunemente viene definito un comportamento “irreprensibile”, e infatti la prima a ribellarsi è stata proprio Veronica, la moglie di Berlusconi, che ha gettato la spugna e ha chiesto il divorzio.
Sul piano giuridico quindi la sentenza del giudice appare del tutto normale.
E’ il popolo che deve giudicare il Berlusconi politico, ma non sul piano giuridico, bensì su quello della idoneità a svolgere la mansione (come farebbe qualunque capo del personale nell’affidare una posizione importante ad un dipendente dell’azienda).
Il popolo però nella grande maggioranza giudica in modo molto superficiale, e si schiera da una parte o dall’altra sono in funzione della propria simpatia verso il personaggio politico.
Purtroppo non è tifando pro o contro qualcuno che si difende la giustizia o si esalta la democrazia.
Una persona priva del senso e della rettitudine morale che compete alla posizione di primo ministro di un grande paese industrializzato non è adatta a ricoprire la posizione politica e istituzionale di primo ministro ancorchè non compia reati sul piano giuridico, e nemmeno qualora fosse un genio in campo imprenditoriale (benchè in tal caso sarebbe sul conflitto di interessi che avrebbero dovuto mettere la lente di ingrandimento, invece in Italia si e’ fatto il contrario, si è consentito a Berlusconi di farsi le sue leggi e prosperare).
Berlusconi ha conquistato il potere politico circa vent’anni fa grazie alle sue televisioni, ai suoi soldi, e alla sua abilità non solo di organizzare ma anche di mentire serenamente su ogni cosa che gli fa comodo, tuttavia il percorso politico di Berlusconi sembrava finito dopo le vicissitudini sia politiche che giudiziarie attraversate nel 2013, ma ancora una volta (dopo D’Alema e Veltroni) è arrivato in suo soccorso il suo principale avversario politico (Matteo Renzi stavolta) neo segretario del Partito Democratico.
Renzi ha avuto un fiuto ed una spregiudicatezza formidabile (che lui chiama pragmatismo) nel capire al volo che, avendo conquistato la segreteria del Partito Democratico (dicembre 2013), ed essendo il suo principale avversario politico (Berlusconi) in grande difficoltà dopo la sconfitta elettorale alle “amministrative” (aprile 2013) e la condanna giudiziaria per reati fiscali (settembre 2013), aveva a portata di mano sia la poltrona di primo ministro che (in automatico per 6 mesi grazie alle regole europee) quella di presidente del governo europeo (dal primo luglio 2014). Ha quindi sfruttato subito con perfetto cinismo la situazione incontrandosi con l’avversario politico di sempre, Berlusconi (gennaio 2014), e stringendo con lui il cosiddetto “patto del Nazareno” in un’alleanza estremamente anomala al fine di dar corso ad una fase di riforme utili più a loro due che al paese.
Infatti subito dopo Renzi manda a casa Letta e si insedia al suo posto (febbraio 2014), mentre Berlusconi, sia pure nella posizione di pregiudicato dopo la sentenza definitiva di condanna per reati fiscali, ha potuto tornare a guidare la sua vecchia Forza Italia, rapidamente rimessa in piedi dopo lo sfascio del Pdl seguito alla batosta elettorale dell’aprile 2013 e dopo che molti suoi notabili confluiti nel governo Letta lo hanno abbandonato (novembre 2013) per formare un nuovo partito denominato Nuovo CentroDestra (di Angelino Alfano, l’attuale Ministro degli Interni ).
Berlusconi e Renzi si sostengono quindi a vicenda avendo entrambi reciproci interessi a farlo e l’assoluzione di Berlusconi per i reati di prostituzione minorile e concussione incide poco o niente sulla situazione politica attuale.
Berlusconi aveva promesso di abbandonare la politica qualora non fosse riuscito a realizzare (molti anni fa) le sue riforme.
Renzi ha fatto cinque mesi fa la stessa promessa ma, potete scommeterci, non l’ha fatto Berlusconi e non lo farà Renzi.
E’ troppo chiedere a entrambi (e al loro codazzo di “nani e ballerine”) di mantenere la parola e passare la mano per avere elezioni che producano un Parlamento di persone capaci davvero di svolgere il loro mandato democratico di rappresentanti del popolo e non di camerieri dei capi-popolo profumatamente pagati da noi?
Roberto Marchesi
(Politologo, studioso di macroeconomia)
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
DA DOVE NASCE L’ASSE TRA I DUE CHE TIENE IN PIEDI IL PATTO DEL NAZARENO
Denis Verdini è un personaggio riservato, non vanta le sue amicizie. E non ha mai rivelato un’antica consuetudine da editore con un distributore di giornali di Rignano sull’Arno: Tiziano Renzi, il padre del premier.
È questa la vera storia — raccontata da “l’Espresso” nel numero in edicola domani – dell’inizio del rapporto tra Matteo Renzi e il potente senatore di Forza Italia, nato non da oggi e tutto fuori dalla politica.
Intrecciato anni fa quando non si parlava di leggi elettorali, ma di carta stampata: da editare, pubblicare e poi distribuire.
C’era una volta un editore, proprietario di fogli regionali e locali: Il Giornale della Toscana, Il Cittadino di Siena, Metropoli in Valdarno, nel Chianti e nella Piana fiorentina.
E c’era un distributore, che consegnava i giornali alle edicole.
La carta stampata diventa preziosa quando il figlio del distributore è diventato grande, ha lasciato le colline per muovere alla conquista della Nazione.
Verdini attraversa tutta la biografia di Renzi come un’ombra.
Basta ricordare un’altra pagina finora inedita: il 30 marzo 2005 fu proprio lui a presentare Renzi a Silvio Berlusconi.
Berlusconi era a Firenze per una grande manifestazione al Pala Mandela di Firenze organizzata dal capo della Croce Rossa Maurizio Scelli.
Dovrebbe essere una kermesse di giovani per Silvio ma è un flop colossale, i pullman non arrivano, gli spalti sono deserti.
Berlusconi resta cinque ore in attesa, infuriato con gli organizzatori, lo fanno accomodare in prefettura, la stessa sede della Provincia, c’è un solo lampo di luce in quella giornata da cancellare, quando arriva Verdini con un giovane spavaldo: «Silvio, c’è una persona che devi assolutamente conoscere…».
È il presidente della Provincia, il trentenne Matteo Renzi. «Non è dei nostri», sospira Denis, «ma è bravo».
E con B. è un colpo di fulmine.
Ancora: nel 2008 l’editore Verdini organizza una cena sontuosa in una villa fiorentina per festeggiare il decennale del Giornale della Toscana.
Ci sono i notabili azzurri della regione al gran completo, ma l’invitato d’onore è un altro, di nuovo Renzi, unico big del centrosinistra toscano presente al festeggiamento, ancora Renzi.
Più un amico che un avversario: la Provincia non risparmia la pubblicità sul quotidiano fiorentino, l’uomo di raccordo è il numero uno di Florence multimedia, la società di comunicazione creata da Renzi, Andrea Bacci.
Quando Renzi prende la parola in quella cena si fa silenzio, gli amici di Verdini conoscono bene il ragazzo, sanno che vuole candidarsi per sbaragliare la nomenclatura rossa nella corsa per il sindaco dell’anno successivo.
Il suo in quel momento sembra un discorsetto di circostanza, del tipo «siamo su sponde diverse, ma è giusto dialogare». Ma anticipa un refrain destinato a tornare attuale.
Oggi che Verdini è il suo principale alleato, il garante del Patto del Nazareno, con un esponente amico nel governo, collocato in una casella-chiave, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri.
Di Denis in Forza Italia, infatti, dicono: «Verdini è più renziano che berlusconiano».
Marco Damilano
(da “L’Espresso”)
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
NASCE DALLA SUA DENUNCIA AI CARABINIERI DI CUSANO MILANINO E DAL DEPOSITO DEI FILE AUDIO IL CASO EMILIO FEDE: “LE REGISTRAZIONI SONO AUTENTICHE, LO CONFERMERA’ IL TRIBUNALE”
L’appuntamento è per le 13 in un noto bar di Milano.
Gaetano Ferri è puntualissimo. Arriva a piedi. Occhiali da sole a goccia, camicia azzurra, jeans e scarpe da ginnastica.
Sotto il braccio la mazzetta dei giornali. Il caso Fede, le parole su Dell’Utri, i soldi della mafia e gli esordi da palazzinaro di Silvio Berlusconi.
Nasce tutto da lui, dalla sua denuncia ai carabinieri di Cusano Milanino e dal deposito dei file audio che immortalano le parole dell’ex direttore del Tg4.
Ferri si siede, ordina un caffè, sul braccio alcuni tatuaggi, ricordo dei suoi trascorsi nella Legione straniera.
È arrabbiato. Emilio Fede gli dà del galeotto e del truffatore. Sostiene, il giornalista, che quei file siano taroccati. Lui quelle parole non le ha mai dette.
Iniziamo da qua, allora. Da questi audio. Ferri va subito al sodo: “Non avevo alcun motivo di taroccarli, gli audio sono autentici e per dimostrarlo sono disposto ad andare in tribunale”.
E aggiunge: “Lui dice che quando ci siamo incontrati io ero appena uscito da un giro di droga, falso, e che il padre della mia compagna è un mafioso, invece è solo un ex ferroviere oggi pensionato che arriva da un paesino della Sila, per questo nei prossimi giorni firmerò una querela per diffamazione contro Fede”.
Il personal trainer di origini campane con residenza milanese spiega: “Avevo capito che voleva fare impicci e allora io mi sono tutelato”.
La logica è binaria: “Lui sapeva dei miei problemi con la giustizia e così voleva accollarmi le cose se i suoi piani non fossero andati in porto”.
Durante i loro incontri, l’ex direttore del Tg4 parla a ruota libera.
“Io — dice Ferri — non gli ho tirato fuori nulla, ha fatto tutto lui”.
Poi ci sono i soldi. “Quelli — prosegue il personal trainer — me li doveva per le lezioni di ginnastica, mica per altro, i file audio li ho fatti per tutela e non certo per ricattare qualcuno”.
I due si conoscono nel settembre 2011.
“In quel periodo — continua Ferri — su consiglio di un noto personaggio dello spettacolo, inviai un fax a Fede. Mi proponevo per un lavoro. Venti minuti dopo lui mi chiamò, mi chiese di vederci subito e per farlo voleva inviarmi il suo autista Lorenzo”.
La cosa nasce così. Di mezzo c’è la palestra, gli incontri, le cene.
“Fede mi fece mille promesse, mi disse che mi avrebbe presentato anche a Berlusconi. Alle varie cene cui partecipai, c’era sempre molta gente che andava a salutarlo, ricordo che una sera mi presentò il figlio del questore di Milano, mi raccontava particolari su gente della politica e dello spettacolo, un’altra volta arrivò la Pascale che voleva portarci ad Arcore, poi non se ne fece nulla”.
Passa il tempo e la cronaca giudiziaria racconta le cene eleganti di Arcore. Nell’inchiesta Fede ci cade con tutte le scarpe. Ancora poco tempo e la sua carriera al Tg4 finisce. Viene licenziato.
“Lui — dice Ferri — era arrabbiato anche con Berlusconi, perchè quando lo cacciarono, il Cavaliere non fece niente, insomma non intervenne”. Ecco allora il ragionamento. “Fede voleva fare qualcosa e mi disse: vedi, io so tante cose su Berlusconi e lo tengo per le palle”.
È la versione di Ferri. “Mi disse così mentre eravamo a cena, poi aggiunse che se lui teneva per le palle il Cavaliere, io tenevo per le palle lui”.
Questo sostiene Ferri. “Fede sapeva che mi aveva raccontato tante cose, ne era consapevole, per questo voleva tenermi buono, addirittura mi offrì il posto come capo della sicurezza per il suo nuovo movimento politico e mi promise che mi avrebbe fatto entrare nella scorta di Berlusconi”.
Che succede a questo punto? Ferri comprende il rischio. È convinto che da questa storia possa venir fuori il suo nome e i suoi precedenti. “Quando ho capito che voleva fare cose allucinanti ho tentato di avvertire Berlusconi, e ho inviato un fax ad Arcore chiedendo di incontrarlo”.
Il Cavaliere però, non risponde, ma dà mandato a un suo legale di sondare il terreno. “Mi chiamò un avvocato al quale raccontai parte della storia, ma fui preso con sufficienza”.
Ferri ha già in tasca le registrazioni. E dopo Arcore, prova con il direttore del Giornale. “Alessandro Sallusti lo conobbi in una palestra di Porta Venezia, me lo presentò Fede. Tempo dopo andai da lui nel suo ufficio e gli dissi che questo signore voleva fare le scarpe al Cavaliere”.
Ecco, allora, la risposta dell’altro direttore: “Il più grande sogno di Fede è prendere i soldi a Berlusconi” .
Insomma, in quel periodo, siamo tra il 2012 e il 2013, Fede convive quotidianamente con la sua rabbia. Quel licenziamento non gli va giù. Qualcuno deve pagarla.
Questo il ritratto che ne dà il personal trainer. “Lui cercava tutte quelle persone che potevano dargli elementi per ricattare Berlusconi, un giorno venni a sapere che stava tentando di agganciare l’ex cuoco di Arcore, cacciato perchè, ufficialmente avrebbe fatto la cresta sulla spesa, in realtà sapevo che lui aveva visto cose che non doveva vedere”.
Ferri butta il sasso. Però non spiega. Non va oltre. Solo si limita a dire: “Se io parlo…”.
Fa capire che in tasca ha ancora altri assi. Svela, invece, l’incontro con David, ex agente segreto del Mossad israeliano. “Era responsabile di un’agenzia investigativa. Fede me lo presentò durante un incontro al ristorante “il Boccino”, in quel frangente questo David gli diede alcune trascrizioni di intercettazioni fatte a un noto dirigente televisivo. E ricordo benissimo che disse a Emilio: mi raccomando dottore non le tiri fuori sennò succede un casino”.
A questo punto il gioco si fa pericoloso. “Alla fine gli ho detto, io vado da Berlusconi e ti rovino”.
Siamo nel dicembre 2013, proprio quando il personal trainer riceve i due sms di minaccia dal giornalista. Il primo si riferisce al proposito ventilato da Ferri di andare ad Arcore. Scrive Fede: “Se conferma che vi siete incontrati vengo a cercarti”.
Il resto è storia delle ultime ore.
Davide Milosa
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
LOGORREA E SOPRATTUTTO RISSE: ALTRO CHE QUELLO CHE AVVIENE OGGI
A un certo punto non è che non potevi più andare in bagno: è che dopo una certa quantità di ore in piedi a parlare neanche riuscivi più, a fare la pipì. La disidratazione ostruzionistica.
Lo racconta, per la filologia, l’uomo che ha tenuto il più lungo discorso nella storia dell’ostruzionismo parlamentare, Marco Boato: «Parlai una prima volta per sedici ore e una seconda volta per diciotto ore e venti minuti. Cominciai alle otto di sera e finii alle 14.20 del giorno successivo, e avevo ancora un paio d’ore d’autonomia».
Avvenne nel febbraio del 1981; il governo Cossiga aveva presentato una legge che permetteva alla polizia il fermo prolungato di un sospetto, anche senza prove.
I radicali scrissero da soli, in sedici, 7500 emendamenti. Che resta il record, poichè dei 7850 attuali alla riforma del Senato, Sel, che ne ha scritti più di tutti, è arrivata a 6200.
E onestamente quelli radicali erano più belli, e non c’erano boiate.
Li avevano buttati giù Gianfranco Spadaccia e Franco De Cataldo, per lo più, ma erano tracce, perchè bisognava parlare a braccio, cosa in cui Pannella, Bonino, Ciocciomessere, Faccio, Teodori (tutti fenomeni, e a volte personaggi di notevole spessore e eloquio) eccellevano. Intervenne persino Leonardo Sciascia; Franco Roccella era vecchio e si mise, per precauzione, il catetere. Vai a sapere.
Fu un’epica battaglia persa: le sole che valga la pena combattere.
Andreotti in una di quelle nottate d’ostruzionismo annotò su un bigliettino (che poi stracciò, ma ricompare nelle sue memorie) che Emma Bonino pareva «metà Giovanna D’Arco e metà vispa Teresa».
Tra l’altro, mentre Ingrao da presidente della Camera era assai tollerante, Jotti no: appena t’appoggiavi al banco ti richiamava feroce (era vietato, bisognava parlare in piedi).
Anche Almirante poteva parlare secoli, nel 1970 (contro la legge sulle Regioni) stette dieci ore in piedi; da allora ribattezzato «vescica di ferro».
Oggi tutto questo non è più possibile, perchè i regolamenti sono stati resi più severi: l’ostruzionismo ha di fatto due sole tecniche, presentare migliaia di emendamenti, o richiedere continuamente il numero legale in aula.
La durata degli interventi s’è comunque ridotta. Nondimeno, se ogni esame di emendamento durasse un’ora, come ieri, coi 7850 attuali, lavorando 15 ore al giorno, ci vorrebbero 523 giorni di fila, e senza ferie…
Insomma, ristretti i regolamenti s’è trovato altro modo. E meno male: è la democrazia, bellezza. E guardate, una volta era peggio, non meglio, di oggi.
Sempre Andreotti ricorda che in un’altra celebre battaglia in aula, fatta dai comunisti nel ’53 contro a legge truffa, altro che ostruzionismo: ci fu da avere paura.
In Senato «Giuseppe Paratore, resisteva anche al lancio delle tavolette. Io ero rimasto solo al banco del governo e mi infilai in testa un cestino dei rifiuti. Parevo un marziano. Spano fu fermato prima di far precipitare sulla testa di Paratore una poltrona; mi sibilò: “Dopo il voto avrete un nuovo piazzale Loreto”. Paratore si dimise».
Arrivò Meuccio Ruini, se la fece sotto dalla paura, letteralmente.
L’ostruzionismo non è uno scandalo, tanto meno è uno scandalo dell’Italia 2014, quella degli hashtag su twitter.
Oltretutto, i padri di quelli che ora sono al governo, ex comunisti, soprattutto, ma anche ex democristiani, non solo facevano filibustering: menavano.
Pajetta, scrisse Vittorio Orefice, «con tre balzi aerei piombò a tuffo sul groviglio di teste… come Tarzan»; e i dc non scherzavano, «c’era Tomba, parlamentare della Coldiretti, una specie di Carnera, che picchiava i comunisti come Bud Spencer»…
Sel e M5s sono ragazzi, al confronto.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
FISSATO IL TETTO DI 115 ORE, DI CUI 80 SERVONO PER LE VOTAZIONI, 8 SE LI PRENDE IL GOVERNO E SOLO 20 SONO LE ORE DA DIVIDERE PER TUTTI I GRUPPI E TUTTI I SENATORI… NEANCHE DUE ORE A GRUPPO
Il presidente Grasso ha poco fa reso noto che i tempi complessivi per discutere al Senato la riforma della Costituzione italiana ammonteranno a 115 ore.
Di questi 8 saranno riservati per la presidenza e i relatori, 80 per le votazioni e 20 ripartiti tra i gruppo.
Su un tema di tale rilevanza, non hanno deciso costituzionalisti con studi e comparazioni alle spalle, ma un distributore di giornali alle edicole che vive da un decennio grazie alla politica e divenuto sindaco di Firenze solo perchè nel Pd litigavano tra due candidati e scelsero lui come palliativo.
Un esperto nell’alloggiare gratis a casa di un amico che casualmente era in rapporti di affari con il Comune di Firenze, un condannato dalla Corte dei Conti per danno erariale.
Non ha imposto una riforma che dia lavoro a chi non l’ha più o non l’ha mai avuto: no, la sua priorità è la riforma del Senato, cui gli italani non frega una mazza.
Ma che a lui serve per sculettare borioso nei corridoi di Bruxelles a raccontare la balla che lui in Italia fa le riforme.
A costo di uccidere il confronto democratico tra le forze politiche, a costo di portare consiglieri regionali e sindaci inquisiti nominati dai partiti in Senato per garantire loro l’immunità .
E su un tema così rilevante come la nostra Costituzione, ecco quanto potranno parlare i singoli gruppi: al Pd spetteranno 4 ore e 24 minuti, a Fi 2 ore e 50, a M5s 2 ore e 15, a Ncd 2 ore, al Gruppo Misto (a cui appartengono Sel e gli ex M5s) 1 ora e 45, a Scelta civica e a Pi 1 ora e 13.
Inoltre 5 ore complessive saranno riservati a quanti parlano in dissenso dal proprio gruppo, anche in questo caso ripartiti in base alla consistenza dei gruppi: 1 ora al Pd, 40 minuti a Fi, 34 minuti a M5s, 30 minuti a Ncd, 26 al Gruppo Misto.
Questa è la democrazia di Renzi, della sua corte di miracolati e dei suoi complici della destra dei pataccari.
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
IGNOBILE DECISIONE DI CONTINGENTARE I TEMPI PER GARANTIRE AI RENZIANI DI POSARE LE CHIAPPE SUL BAGNASCIUGA AD AGOSTO: NEANCHE LE PALLE DI PASSARE LE NOTTI A DIFENDERE “BOCCAPERTA”
La maggioranza ha scelto l’opzione più drastica: contingentamento dei tempi del dibattito in aula, altrimenti detto “tagliola”, e voto sul ddl riforme entro l’8 agosto.
I partiti maggioritari rispondono così alle opposizioni, che erano disposte a ridurre gli emendamenti in cambio di garanzie su Senato elettivo, riequilibrio tra le due Camere e referendum.
A dimostrazione dell’aria di regime imposta agli italiani che al 70% sono contrari a questa formulazione della riforma del Senato.
E’ la conclusione di una giornata convulsa a Palazzo Madama, dedicata al disegno di legge Boschi di riforma costituzionale, la “madre di tutte le riforme” impantanata in aula tra oltre 7800 emendamenti, quasi tutti “di natura ostruzionistica” come sostenuto da Ncd, e la richiesta di voto segreto in 900 casi.
Aperta la seduta, verificato il numero legale, l’annuncio della votazione e subito – prima del voto – una sospensione di 20 minuti.
Dopo un paio di lentissimi voti su emendamenti (bocciati), il presidente del Senato Pietro Grasso, poco prima delle 11, su sollecitazione del capogruppo Pd Luigi Zanda, ha bloccato i lavori dell’aula e ha convocato la riunione dei capigruppo per cercare una soluzione.
Un confronto che si è svolto in un clima di tensione, con i senatori del M5S si sono piazzati davanti alla stanza che ospita la capigruppo “per fare pressione – come spiega l’ufficio stampa del Movimento – in modo che non approvino contingentamenti dei tempi o altri strumenti per zittire l’opposizione”.
Dopo più di due ore, la capigruppo è stata sospesa e aggiornata alle 14.30, poi alle 15.15.
Uscendo dalla riunione, la ducetta Maria Elena Boschi ha lanciato un aut aut a Movimento 5 stelle, Sel e anche ai cosiddetti ‘dissidenti’: “O si ritirano in maniera sostanziosa gli emendamenti oppure si va avanti senza mediazioni per approvare il ddl entro agosto, perchè così non si può discutere, è un ricatto”.
Tradotto: si farà ricorso alla tagliola, ossia al contingentamento dei tempi del dibattito in aula.
Le opposizioni, intanto, si sono coalizzate, facendo fronte comune anche con i ‘frondisti’ di Pd e Forza italia (come Felice Casson e Augusto Minzolini, presenti alla riunione).
E’ stata pianificata una strategia comune da proporre in capigruppo con la pretesa di avere garanzie su alcuni punti come il Senato elettivo, riequilibrio tra le due Camere e i referendum, prima di decidere se ridurre gli emendamenti al ddl Boschi sulle riforme costituzionali.
Quanto all’ipotesi di applicare la tagliola, Nichi Vendola ha risposto sdegnato: “E’ inimmaginabile. Spero che si tratti di uno scherzo, spero che non provino neanche a pensarla una cosa del genere, perchè veramente questo ha una puzza insopportabile”.
E invece tagliola sarà . Scelta che ha provocato l’ovvia insurrezione delle opposizioni: “E’ molto grave – ha commentato Loredana De Petris (Sel) – perchè si parla della modifica della Costituzione. Continueremo la nostra battaglia in aula”.
Il calendario che di fatto applica il contingentamento, fissando la data di chiusura del ddl all’8 agosto, è stato approvato in conferenza dei capigruppo a maggioranza e dovrà essere sottoposto al voto dell’aula.
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Luglio 24th, 2014 Riccardo Fucile
ECCO IL TWEET IN CUI SOSTENEVA CHE LE NUOVE TABELLE NON AVREBBERO AVUTO ALCUN IMPATTO SUL COSTO FINALE DEL PRODOTTO
Il 20 giugno scorso, appena un mese fa, il ministro Dario Franceschini ha detto una bugia a tutti gli italiani.
Come recita il tweet qui accanto, il titolare del dicastero dei Beni Culturali sosteneva che le nuove tabelle per il compenso sulla copia privata (una tassa che va alla Siae per ogni dispositivo con memoria venduto), non avrebbero avuto alcun impatto sul costo finale dei prodotti.
Un’affermazione assolutamente ridicola: se aumenti le tasse ai produttori, questi si rifaranno sui consumatori.
Si chiama libero mercato.
E la denuncia di quanto ridicola fosse quest’affermazione è stata immediata da parte di produttori, associazioni dei consumatori, giornali.
Insomma, era una balla e lo sapevano tutti.
Il ritocco verso l’alto dei prezzi di listino, infatti, è stato quasi immediato per tutta una serie di prodotti: primi fra tutti gli hard disk.
Quello che mancava però era una multinazionale con stuoli di fan che, in maniera plateale, aumentasse i prezzi dei suoi dispositivi per un importo esattamente uguale al costo della nuova tassa.
Questo è quello che ha fatto Apple, azienda produttrice di Mac, iPad e iPhone.Se vi affacciate allo store online, al momento di pagare vi trovate questa poco simpatica aggiunta.
Con una mossa molto politica insomma, Apple ricorda ai suoi clienti che esiste una “tassa sul copyright” (e già il chiamarla così è un atto politico) e che alla fine a pagarla non deve essere Apple ma i consumatori.
A questa decisione di Cupertino, Franceschini ha risposto nel modo peggiore possibile: un tweet lagnoso in cui si elenca quanto meno costino i dispositivi Apple in altri Paesi, prendendo come varabile solo il costo della “tassa”.
Quindi il ministro, chiaramente scottato per la plateale dimostrazione di Apple, cerca di uscirne dicendo quanto siano cattivi gli americani che fanno pagare solo i clienti italiani.
Ma in queste poche parole c’è tutto il fallimento politico di Franceschini, incapace di far rispettare il principio da lui stesso annunciato un mese prima che la copia privata dovesse essere solo a carico dei produttori.
Guai inoltre a buttare questo confronto sul piano di ministro buono contro multinazionale cattiva (o viceversa).
Perchè Apple non è certo santa e su tanti fronti (tasse ridicole pagate in Italia, condizioni di lavoro in Cina ecc) ha tante di quelle cose di cui parlare che ne sono stati scritti libri.
Non ha neppure alcuna rilevanza il fatto che i margini di vendita degli iPhone in Italia siano assia più alti che nel resto d’Europa: Apple è un privato, fa quello che le pare e risponde ai suoi azionisti.
Franceschini invece deve rispondere agli elettori.
E invece di ricordare quanto poco costi un iPhone in Francia, deve spiegare perchè ha detto una bugia solo qualche giorno fa.
Mauro Munafò
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