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LA UE BACCHETTA L’ITALIA: “NON AVETE UNA STRATEGIA, A RISCHIO 40 MILIARDI DI FONDI”

Agosto 13th, 2014 Riccardo Fucile

FONDI STRUTTURALI: NON SAPPIAMO NEANCHE SPENDERE QUELLO CHE CI SPETTA… NEL MIRINO RICERCA, INNOVAZIONE, AGENZA DIGITALE   E CULTURA

Indispendabile per sbloccare i singoli programmi, nazionali e regionali. Senza l’assenso di Bruxelles su questo particolare accordo si ferma tutto, non arrivano i soldi e non si inizia a spendere.
Una partita che vale per l’Italia 41 miliardi e mezzo in sette anni.
Cifra che raddoppia con il cofinanziamento nazionale. E che ora dunque si congela. Con lo svantaggio per l’Italia di partire male e in ritardo sui fondi strutturali, pure stavolta. Ma Bruxelles è categorica. Senza un piano e una strategia chiari ed efficaci, appunto, l’assenso non c’è.
Anche perchè — ed è questa la critica più forte — l’Italia ha gravi problemi di governance. La sua pubblica amministrazione non è efficiente e ben funzionante.
E quando il motore è inceppato, non si può sperare che la linfa europea contribuisca a rivitalizzare il paese. Anzi i fondi rischiano di imboccare di nuovo la via, biasimata, degli incentivi a pioggia.
Se non è una bocciatura, poco ci manca
CAPACITà€ ISTITUZIONALE
In 249 punti e 37 pagine, la Commissione europea analizza passaggio per passaggio tutto il piano italiano.
E chiede ancora una volta al governo, come aveva raccomandato già  in marzo, di rispondere sulla sua «capacità  amministrativa ». Se sia cioè migliorata e come, non tanto l’abilità  e l’organizzazione tecnica nel gestire i programmi operativi.
Quanto il quadro complessivo, la cornice in cui si muove questo fiume di denaro: la pubblica amministrazione.
Per Bruxelles l’Italia confonde tra «assistenza tecnica » e «capacità  istituzionale».
Se la prima si può ovviare con l’Agenzia per la coesione (istituita di recente e coordinata direttamente da Palazzo Chigi, sotto la supervisione del sottosegretario Graziano Delrio), per la seconda occorre «sostenere ampie e orizzontali riforme» della P.A. e «buone iniziative di governance».
Di più, «il ruolo delle diverse istituzioni deve essere chiarito, definendo chi fa cosa, quando e come ».
Punto fondamentale, visto che si tratta di una spesa ad alta incidenza territoriale. Laddove però centro e periferia (assai parcellizzata) faticano a coordinarsi.
Con i magri risultati di questi anni: soldi spesi tardi, male, in qualche caso persi in mille rivoli o restituiti al mittente
SPECIALIZZAZIONE INTELLIGENTE
L’altro buco nero italiano, che la Commissione torna a denunciare come fa da almeno tre anni, è quello delle “Strategie di specializzazione intelligente”. Una definizione burocratica per intendere, in buona sostanza, un piano su come far ripartire il Paese (anche con i soldi europei), ora necessario più che mai, visto il ritorno dell’Italia in recessione.
Non solo il governo “non ha adottato queste strategie”, ma risulta, agli occhi della Ue, deficitario praticamente in tutti gli ambiti che contano per il rilancio.
Agenda digitale: «Manca una vera strategia». Innovazione: «Calo significativo dei fondi», ma «ciò non deve comportare un calo delle risorse per la ricerca industriale nel settore privato». Aziende: «Identificazione ancora insufficiente degli interventi strutturali necessari per riguadagnare competitività ».
Anzi, sottolinea Bruxelles, «regimi di aiuto “generalisti” orizzontali andrebbero evitati». E sostituiti da «un sostegno mirato alle imprese legato allo sviluppo tecnologico ».
A questo proposito, la Commissione si chiede anche che fine abbia fatto il piano Giavazzi per sfoltire incentivi alle aziende
E quale effetto abbiano avuto i crediti d’imposta concessi dai vari governi.
Cultura: «Assenza di un progetto strategico e di cenni alle lezioni apprese dal periodo di programmazione 2007-2013».
E cioè il disastro Pompei (fondi ancora non spesi pari a 105 milioni, rimessi da poco in pista) e 15 milioni restituiti.
Addirittura, la Commissione ricorda che «il Fesr (uno dei fondi strutturali, ndr) non sostiene “eventi” culturali e turistici che sono considerati a basso valore aggiunto». Ma «solo interventi strutturali e che possono avere un impatto strutturale ».
Insomma, meno sagre e più patrimonio culturale da curare, restaurare, far fruttare. Infine, istruzione: «Le percentuali di risorse destinate all’abbandono scolastico per le regioni meno sviluppare (12%) e di partecipazione all’istruzione superiore (2%) sembrano basse rispetto alla portata dei problemi in queste aree».
PROGRAMMI A RISCHIO
Il governo Renzi dovrà  rispondere su questi e altri punti. Ma è chiaro che la tirata d’orecchie non fa piacere, specie in un momento non proprio brillante per l’Italia sul fronte dei risultati economici.
Se la Commissione da una parte dà  pur adito all’esecutivo di voler accentrare, per meglio fluidificare, la gestione dei fondi europei — anzi si dice «favorevole al rafforzamento degli interventi gestiti dalle amministrazioni centrali» — dall’altra parte «sospende le sue considerazioni in attesa di una valutazione approfondita degli obiettivi» su tre proposte: legalità , aree metropolitane e cultura.
In particolare, ritiene che l’attuazione del programma nazionale sulle Città  metropolitane «appare a rischio, in considerazione della architettura complessa e dei rischi di sovrapposizione con programmi regionali».
Insomma troppa confusione, tra piani nazionali per città  metropolitane che ancora non esistono e piani regionali per città  non metropolitane, spesso assai piccole (5 mila comuni italiani su 8 mila hanno meno di 5 mila abitanti).
La domanda di Bruxelles sembra essere: ma ce la fate?
CRONOPROGRAMMA
Tra l’altro, osserva ancora la Commissione, in molti casi non ci sono proprio le premesse per spendere.
Mancano o sono insufficienti le «condizioni ex ante». In particolare, considera «solo parzialmente soddisfatte», tra le altre, le condizionalità  in materia di «agenda digitale, gestione delle acque, trasporti, politiche del lavoro, abbandono scolastico, sistemi di controllo sugli aiuti di Stato».
Per questo chiede al governo italiano di «fornire un cronoprogramma plausibile per l’adozione dei vari provvedimenti».
E «si riserva di valutare l’effettivo soddisfacimento delle condizionalità  quando tutte le informazioni saranno disponibili». Altra bacchettata.
Infine un richiamo pure sul «gran numero» dei soggetti chiamati ad attuare questo Accordo di partenariato. Può anche andar bene, ma Bruxelles vorrebbe che fossero esplicitati «i criteri per la selezione dei partner ».
Anche qui troppa superficialità .
MEZZOGIORNO IN AFFANNO
È chiaro che una pagella siffatta fa male soprattutto alle regioni meridionali, destinatarie del 71,1% delle risorse messe a disposizione dall’Europa, come calcola il Servizio politiche territoriali della Uil.
Un Sud Italia che non sempre è stato messo in condizione, dalla politica locale e nazionale, di lavorare bene.
Ne parlerà  forse Renzi con gli amministratori delle città  che visiterà  a partire da domani.

Valentina Conte
(da “La Repubblica“)

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RENZI CE L’HA FATTA: NUOVO RECORD STORICO DEL DEBITO PUBBLICO A 2.168 MILIARDI

Agosto 13th, 2014 Riccardo Fucile

CRESCITA SENZA FINE, NEL PRIMO SEMESTRE 2014 E’ AUMENTATO DI 100 MILIARDI

Nuovo record storico per il debito pubblico italiano.
Non si arresta la crescita del debito delle amministrazioni pubbliche neanche a giugno: il dato, riportato dal Supplemento al Bollettino statistico della Banca d’Italia sulla finanza pubblica, raggiunge 2.168,4 miliardi di euro, circa 2 miliardi in più rispetto al mese precedente.
Nei primi sei mesi il debito pubblico è aumentato di 99,1 miliardi, riflettendo il fabbisogno della P.A. (36,2 mld) e l’aumento delle disponibilità  liquide del Tesoro (67,6 mld).
L’emissione di titoli sopra la pari, l’apprezzamento dell’euro e la rivalutazione dei BTPi hanno contenuto l’aumento per 4,8 miliardi.
Sempre Bankitalia rivela che le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari in giugno a 42,7 miliardi, in diminuzione del 7,7 per cento (3,5 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2013.
Nei primi sei mesi dell’anno le entrate sono diminuite dello 0,7 per cento (1,3 miliardi).
“Tenendo conto di una disomogeneità  nella contabilizzazione di alcuni incassi”, avverte però via Nazionale, “la riduzione delle entrate tributarie sarebbe stata più pronunciata”.

(da “Huffingtonpost”)

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MAMMA MIA, ARRIVA LA TROIKA, I SICARI DELL’ECONOMIA

Agosto 13th, 2014 Riccardo Fucile

ECCO COME LA TRIADE BCE-FMI-UE POTREBBE COMMISSARIARE L’ITALIA E COSA CI SAREBBE DA ASPETTARSI

C’è gente in Italia che si augura che arrivi.
La Troika, s’intende, ovvero la struttura mista Commissione Ue, Bce e Fondo monetario internazionale che, in cambio di prestiti, impone ai governi la sua ricetta politica.
Eugenio Scalfari l’ha persino scritto in una delle sue omelie domenicali.
Matteo Renzi, ogni volta che gli capita, dice che non succederà , eppure un certo umore circola in giro: le banche d’affari invitano a non comprare italiano, il Pil cala, Moody’s vede nero, Mario Draghi chiede “cessioni di sovranità ”.
Non siamo ancora all’estate 2011, quando la Troika s’affacciò per la prima volta da noi, ma anche allora le cose precipitarono assai in fretta: ad aprile lo spread era 122 punti, più basso di adesso, ad agosto 400, a novembre 552 e i rendimenti sui Btp decennali oltre il 7%.
Al tempo arrivò Mario Monti, stavolta il commissariamento sarebbe completo.
Tre signori stanno bussando alla porta: hanno un Memorandum in mano    
Non è che la Troika si presenti così e suoni al palazzo del governo: arriva su invito, a seguito di eventi che sono quasi sempre identici. Funziona così. Il paese X, per qualche motivo, comincia ad avere difficoltà  a finanziarsi sul mercato: gli investitori chiedono interessi troppo alti.
È qui, quando il paese X teme di non poter pagare stipendi e pensioni, che arriva la Troika proponendo un bel prestito e sostenendo che il problema è il debito pubblico.
Per avere i soldi, però, bisogna firmare un bel “Memorandum”, una lista assai nutrita di cose da fare. La ricetta è sempre la stessa per tutti i paesi: tagli di spesa pubblica, stipendi e pensioni; licenziamenti nel settore statale; aumenti di tasse; privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge (servizi pubblici in primis); riforme del mercato del lavoro (libertà  di licenziare).
Al termine della “cura” — aiutata da cospicue pressioni sull’opinione pubblica — il paziente è più malato di prima, il welfare e i beni pubblici un ricordo.
In sostanza, e per paradosso, l’arrivo della Troika europea coincide con la distruzione del modello sociale europeo.
Non solo: i debiti pubblici — causa di ogni male — aumentano in maniera esponenziale. Non c’è da sorprendersi: il fine non è comprimere il debito dello Stato, ma quello estero, bloccando le importazioni attraverso un taglio dei redditi disponibili.
È in questo modo che i creditori (spesso banche del Nord) rientrano dei soldi prestati negli anni di vacche grasse.
In principio fu la Grecia: un debutto, e neanche troppo felice    
Ad aprile 2010 il debito pubblico greco è ormai classificato “spazzatura” dalle agenzie di rating: la Germania aveva nel frattempo fatto sapere che i debiti dei singoli paesi dell’Eurozona non sono garantiti dalla Bce. È a quel punto che arriva la Troika con la sua borsa: promette un prestito da 110 miliardi, poi divenuti oltre 300 negli anni.
Piccola notazione: i soldi non sono gratis — e nemmeno prestati all’1% come la Bce fece coi mille miliardi dati alle banche — ma concessi al ragguardevole interesse del 5,5%.
In cambio la Troika ha preteso tagli strutturali per 30 miliardi di euro a regime.
Per capirci: il Pil greco ammonta a 180 miliardi, quindi è come se all’Italia chiedessero una manovra da 250 miliardi.
Atene procede a rilento, ma comunque ha già  licenziato 8.500 statali e altri 6.500 seguiranno entro quest’anno (alla fine saranno 30mila su 750mila totali).
La tv pubblica è stata chiusa dalla sera alla mattina, la rete degli ambulatori specialistici pure, scuola, università  e ospedali sono stati falcidiati.
L’ultimo Memorandum, questa primavera, ha imposto alla Grecia di vendersi pure le spiagge (110 per la precisione) e un piano di privatizzazioni capillari da qui al 2020.
La Troika, peraltro, non si occupa solo di spesa pubblica, ma di ogni aspetto della vita economica: pretende, per dire, che la Grecia cambi le leggi su come si pastorizza il latte (a vantaggio delle multinazionali).
I risultati, però, non sono brillanti: quest’anno se n’è accorto persino l’Europarlamento.
Il reddito disponibile delle famiglie dal 2009 è diminuito del 40%, gli stipendi del 34%, servizi e benefit sociali del 26%.
La disoccupazione era al 9% cinque anni fa e ora supera il 27%, il Pil s’è ridotto di un quarto. Pure i conti pubblici, ovviamente, non migliorano: il rapporto deficit-Pil nel 2013 era al 12,7%, il debito pubblico al 175% (dal 129% del 2009).
I bravi allievi Irlanda e Portogallo: liberi alfine, ma solo per finta  
Il secondo paese a essere curato dalla Troika è stato l’Irlanda, messa nei guai a fine 2010 dal fallimento del suo sistema bancario e costretta a chiedere un prestito di 78 miliardi di euro.
La struttura economica dell’Irlanda (un sistema basato sul esportazioni, tassazione irrisoria e poco welfare) sembrava fatta apposta per applicare i diktat dei Memorandum, eppure “l’allievo modello” non se la passa così bene come si vorrebbe far credere: dopo una sostanziosa sforbiciata dei salari e manovre per il 19% del Pil, il debito pubblico — che nel 2008 era solo al 44% del Pil — oggi sfora il 125%.
E ancora: la crescita degli ultimi due anni è stata solo dello 0,2% nonostante la spinta di un deficit che l’anno scorso s’è attestato al 7,6%.
Il valore degli immobili è il 57% in meno rispetto a cinque anni fa, il debito delle famiglie il 200% del reddito.
La disoccupazione nel 2013 è passata dal 14,5 al 12,6%, ma il calo è dovuto in larga parte all’emigrazione (lo stesso discorso vale per Spagna, Portogallo e Grecia).
Il Consiglio d’Europa, infine, ha denunciato che l’Irlanda non offre garanzie minime per malattia, disoccupazione, sopravvivenza, infortuni sul lavoro e benefici di invalidità .
Sarà  per questo che — a dicembre 2013 — quando Fmi, Bce e Ue hanno proposto all’Irlanda un nuovo prestito, il governo di Dublino ha risposto subito: “No, grazie”.
In realtà , i funzionari della Troika continueranno a fare ispezioni biennali fino al 2031.
Sei anni in meno di quel che tocca al Portogallo, uscito anche lui formalmente dall’ombrello della Troika nel dicembre scorso.
Il panorama è lo stesso degli esempi precedenti: dopo tre anni di “cura” 1,9 milioni di persone (il 18% circa della popolazione) vivono sotto la soglia di povertà  e i conti pubblici sono un disastro.
Una vicenda simbolica: il governo di Lisbona, per realizzare le richieste dei Memorandum, voleva vendersi 85 quadri di Joan Mirò all’asta (ma un giudice, per ora, ha bloccato tutto).
Va citato, infine, almeno il caso di Cipro, dove per la prima volta è stato applicato il principio, ora comunitario, che i fallimenti bancari li pagano anche i correntisti.
Esagera Bruno Amoroso, del centro studi Federico Caffè, quando li chiama “i sicari dell’economia”?

Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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THE MEN IN BLACK: IL TRIO SOTTO SCORTA CHE SPAVENTA MEZZA UE

Agosto 13th, 2014 Riccardo Fucile

SONO DUE TEDESCHI E UN DANESE… AD ATENE NON LI AMANO… IL GOVERNO GRECO: “È MEGLIO SE NEGOZIAMO A PARIGI”

Il soprannome “Men in black” gliel’ha appioppato Cristòbal Montoro, ministro delle Finanze di Mariano Rajoy in Spagna.
I tre, d’altronde, prediligono la grisaglia scura d’ordinanza tra i travet di alto livello che guidano le grandi istituzioni internazionali.
Ci si riferisce ai signori Troika, i tre dirigenti che formano il vertice della struttura messa insieme da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Commissione Ue per concedere prestiti ai paesi in difficoltà  e ridisegnarne la politica economica in senso fortemente liberista.
Certo, formalmente ne fanno parte anche i loro capi — Christine Lagarde, Mario Draghi, Josè Barroso e il responsabile degli Affari economici Jyrki Kaitanen — ma la Troika vera sono loro
Sono loro che sbarcano negli aeroporti coi loro vestiti neri, loro che parlano coi governi, loro che contrattano le condizioni per concedere i prestiti: loro sono Poul Thomsen, Klaus Masuch e Matthias Mors, un danese e due tedeschi, anche se non è l’inizio di una barzelletta, ma l’ennesima conferma di un’Unione a trazione “nordica”. Il danese è Thomsen, al Fmi dal 1982, specializzato nell’area ex sovietica, è stato il principale artefice delle complicate trattative con la Grecia per la prima tranche di aiuti: la stampa di Atene lo chiamava “Mr blue eyes”.
Masuch, invece, è l’incaricato della Bce: pallido, occhiali leggeri, lo stereotipo del funzionario.
Mors, invece, è l’inviato della Commissione, che poi è anche il creditore più importante tra i tre: esile, basso di statura, affilato, viene dalla direzione Affari economici e finanziari.
I greci, unici in Europa assieme a portoghesi e ciprioti, hanno imparato a conoscerli anche fisicamente in questi anni e, per così dire, non li amano.
I tre sono costretti a muoversi costantemente sotto scorta quando si recano nel paese per le loro periodiche ispezioni e la cosa — ovviamente e ironicamente — ha un costo per la casse pubbliche: è tanto vero che nelle scorse settimane il governo greco ha chiesto ai tre di non farsi più vedere ad Atene. “Veniamo noi, diteci dove”.
E così il 3 e 4 settembre prossimo l’incontro tra i rappresentanti dei creditori internazionali della Grecia e il governo di Antonis Samaras avverrà  a Parigi: aria più tranquilla, ristoranti migliori e poi in Francia è pieno di Men in black, la gente non ci fa più caso.
Non è chiaro, a questo punto, cosa sarà  della task force che la Troika ha installato ad Atene per controllare passo passo l’erogazione dei prestiti e l’uso dei fondi comunitari.
Si tratta di una quindicina di persone coordinate da un altro tedesco: Horst Reichenbach, alto dirigente della Commissione europea dopo essere stato per anni alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.
Reichenbach però è di stanza a Bruxelles, mentre la capo della task force ad Atene è una funzionaria europea di nazionalità  greca: Georgette Lalis, già  direttrice del catasto greco che all’albergo d’ordinanza per le truppe brussellesi ha preferito un appartamento in un quartiere residenziale.
I forzati dell’Hilton, in realtà , tecnicamente non fanno parte della task force della Lalis: sono circa trenta persone che lavorano alla delegazione dell’Unione europea in Grecia e fanno da segreteria in loco della Troika tenendo d’occhio l’adesione di governo e Parlamento greci ai diktat contenuti nei Memorandum d’intesa: la loro vita si divide tra l’albergo, presidiato dalla polizia, e le stanze dei ministeri dove negoziano voce per voce i provvedimenti elencati nei Memorandum firmati dal governo in cambio dei circa 300 miliardi di prestiti concessi dalla Troika in questi ultimi anni.
Il blocco monolitico di interessi che appare all’esterno non è però così compatto.
Ha raccontato l’ex ministro dell’Economia greco, George Papaconstatinou: “Quando arrivò la Troika mi trovai davanti tre prospettive diverse. Ai greci piace odiare il Fondo monetario, ma tra i tre è il soggetto più razionale e realistico”.
La Bce, invece, “è l’ortodossia, è il Papa: qualunque cosa succeda, ogni paese dell’Eurozona deve rispettare gli impegni presi”.
A volte, ha detto il politico socialista, i negoziati dovevano fermarsi perchè i tre “dovevano contrattare tra loro”.
Era il debutto: portoghesi e irlandesi assicurano che da quell’epoca il rapporto si è cementato.
Quello con gli europei, invece, stenta ancora a decollare.

Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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DEFLAZIONE, L’INCUBO DEGLI ECONOMISTI: I PREZZI SCENDONO E INCHIODANO L’ECONOMIA

Agosto 13th, 2014 Riccardo Fucile

PER LE FAMIGLIE CI SONO PIU’ SVANTAGGI   CHE VANTAGGI

Che cosa è la deflazione?  
È l’esatto contrario dell’inflazione. Anzichè salire, i prezzi scendono.
Si direbbe che è un fatto positivo per chi fa la spesa tutti i giorni. È così?  
Sulle prime la deflazione potrebbe sorprendere positivamente chi va al supermercato, in quanto mese dopo mese si trova a pagare di meno la spesa. Ma le conseguenze sono pesanti. Le aziende produttrici si ritrovano con ricavi e redditività  in calo. Il rischio è che reagiscano tagliando produzione e occupazione. Dunque i salari. Così anche se le famiglie pagano meno la spesa alla lunga si possono ritrovare con un reddito inferiore o addirittura senza più un reddito. Dunque ridurranno ulteriormente gli acquisti.
Cosa succede nei beni durevoli, quelli generalmente più costosi?  
Sono quelli che registrano l’impatto immediato negativo più forte. Dal momento che i prezzi continuano a scendere, non viene mai il giorno giusto per acquistare. In questo modo i consumi si bloccano: perchè comprare oggi se domani lo stesso prodotto costerà  di meno? Chiaro che l’effetto sui conti delle società  è ancora più veloce che nei beni di largo consumo, i ricavi scendono, il mercato si ingessa.
Che cosa capita a chi ha un debito?  
In termini reali l’indebitamento aumenta. Mettiamola così: se ho un debito che è pari a 100 e una carota vale 1, il mio debito equivale a 100 carote. Ma se la carota arriva a valere 0,5, allora il mio debito raddoppia: per pagarlo dovrò rinunciare a più carote del previsto.
Lo stesso accade al debito degli Stati?  
«Combattere la deflazione è più complicato per chi, come l’Italia, ha un debito pari al 130% del prodotto interno lordo», dice l’economista dell’Università  di Parma Francesco Daveri. Mentre il calo dei prezzi può portare a una prolungata stagnazione economica – come avvenuto in Giappone – una delle soluzioni è stimolare l’economia attraverso la mano pubblica, con politiche espansive della domanda.
È un rimedio efficace?  
Non del tutto, perchè «l’utilizzo di politiche fiscali espansive spesso non si traduce in maggiori consumi», avverte Daveri. Sovente, anzichè spendere tali soldi, le persone tendono a risparmiare, non sapendo fino a quando il fenomeno si protrarrà , con un ulteriore avvitamento dei consumi e, nel contempo, un considerevole aumento del debito pubblico.
Cosa ci si può aspettare su quest’ultimo versante?  
Secondo un’analisi condotta dal Telegraph, da settembre i prezzi sono scesi mediamente dell’1,5% in Europa e del 5,6% in Italia. Una tendenza che, secondo il quotidiano britannico, entro il 2018 potrebbe far innalzare gli indicatori di debito del 10% in Francia, del 15% in Italia e del 24% in Spagna.
Cosa succede invece per gli investimenti?
In un clima di deflazione le Borse beneficiano dei tassi in calo ma alla lunga subiscono la stagnazione dell’economia e la caduta dei profitti. Discorso diverso per le obbligazioni: gli investitori, in quanto creditori, possono godere di rendimenti reali più elevati oltre ad apprezzamenti in conto capitale con ulteriori cali dei tassi di interesse.
È vero che la Bce ha poche armi da opporre alla deflazione?  
Se può fare relativamente poco con la leva dei tassi, già  vicini allo zero, la Bce può ricorrere a politiche non convenzionali, sulla scia di quanto ha già  fatto l’americana Federal Reserve. Negli ultimi anni mediante l’acquisto di titoli di Stato (il cosiddetto «quantitative easing»), la Fed ha di fatto stampato moneta per aumentare la liquidità  circolante, agevolare le banche e stimolare la ripresa.

Francesco Spini
(da “La Stampa”)

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L’INCUBO DEI PREZZI A CRESCITA ZERO

Agosto 13th, 2014 Riccardo Fucile

TITO BOERI: IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA DEFLAZIONE

Il fatto che i prezzi diminuiscono in genere è una buona notizia per le famiglie. Perchè allora il calo dei prezzi dei beni ad alta frequenza d’acquisto certificato ieri dall’Istat dovrebbe preoccuparci?
Il rischio è quello che l’Italia cada in una trappola deflazionistica. È un rischio abbastanza paradossale per un paese che per decenni ha vissuto con un’inflazione a due cifre, ma tutt’altro che remoto. Per capire di cosa si tratta bisogna uscire dalla dimensione della singola famiglia o impresa e ragionare dal punto di vista dell’economia nel suo complesso. Se le famiglie si aspettano un forte calo dei prezzi in futuro, decideranno di rimandare piani d’acquisto in attesa di avere condizioni più favorevoli. Questo fa calare i consumi, dunque la domanda delle imprese, che potranno a loro volta reagire alla caduta dei ricavi contenendo i costi, a partire da quelli del lavoro. Significa salari più bassi e, soprattutto, licenziamenti.
A quel punto la buona notizia del calo dei prezzi, almeno per la famiglia di chi ha perso il lavoro, diventa una pessima notizia: i prezzi saranno pur più bassi, ma c’è un reddito in meno in casa cui attingere.
Per le imprese, soprattutto quelle che nascono o che devono crescere e che devono indebitarsi per investire, prezzi dei beni che calano vogliono dire che i debiti contratti oggi andranno ripagati domani a un prezzo più alto perchè quelle somme di denaro avranno un valore maggiore.
Se l’inflazione è una buona notizia per chi ha debiti, è vero anche il contrario: la deflazione è una pessima notizia per chi dovrà  in futuro restituire somme di denaro che valgono di più rispetto ai redditi che servono per saldare i debiti.
Anche se i tassi di interesse che si devono pagare sui prestiti sono molto bassi, quello che conta sono i tassi di interesse reali, quelli che si devono pagare al netto dell’inflazione.
E l’inflazione negativa li fa aumentare.
Come si capisce dagli esempi appena fatti, ciò che preoccupa del calo dei prezzi è nelle aspettative che ingenera in famiglie ed imprese.
Se il calo dovesse protrarsi a lungo, cambierà  i loro comportamenti. Aspettandosi prezzi in calo, queste finiranno, in modo del tutto razionale, per rimandare piani di investimento e acquisti di beni durevoli, trascinando così l’economia in una depressione.
Ci sono precedenti storici di fenomeni di questo tipo. Il più conosciuto è quello della Grande Depressione del ’29 in cui i prezzi scesero del 22 per cento in quattro anni, in parallelo con la perdita di quasi un quarto del reddito nazionale.
Poi c’è il caso del Giappone che, tra il 1990 e il 2012, ha visto i prezzi al consumo diminuire del 12 per cento, mentre l’economia era in stagnazione
Cosa si può fare per contrastare la deflazione?
Le sue cause sono principalmente legate a un eccesso di risparmio da parte di chi in passato si era indebitato eccessivamente.
Nel nostro caso sono le banche che, tagliando gli impieghi per rafforzarsi patrimonialmente, strangolano le imprese. Anche per questo è principalmente la politica monetaria, per intenderci quella oggi decisa a Francoforte, che può offrire le munizioni migliori per contrastare questo rischio.
Non basta azzerare i tassi controllati dalla Bce, perchè anche tassi di interesse pari a zero quando i prezzi sono in calo, significano tassi di interesse reali elevati.
Per questo la Bce ha addirittura introdotto dei tassi di interesse negativi per le banche che depositano somme presso la banca centrale oltre che tutta una serie di politiche non convenzionali per aumentare la quantità  di moneta in circolazione, mentre da tempo Mario Draghi ripete che la Bce auspica un’inflazione più alta, attorno al tasso obiettivo del 2 per cento. Ma tutto questo rischia di non bastare a far calare i tassi di interesse reali in paesi come l’Italia e a indurre le banche a erogare credito alle imprese a condizioni più vantaggiose.
Servirebbe invece che la Bce spingesse per una svalutazione dell’euro rispetto ai livelli attuali, magari arrivando a comprare titoli di Stato statunitensi o giapponesi.
Un euro deprezzato rispetto al dollaro o allo yen farebbe aumentare la domanda estera di beni prodotti da noi, facendo al contempo salire i prezzi dei beni importati.
Avremmo così al contempo più esportazioni e minor rischio di deflazione.
Servirebbe anche che all’Eurotower si cominciasse ad usare il bazooka comprando direttamente obbligazioni emesse da imprese, soprattutto negli otto paesi dell’area euro in cui il rischio di deflazione è più forte.
Sarebbe un modo per stimolare le imprese di questi paesi a investire, trovando fondi anche al di fuori del sistema bancario. L’esempio degli Stati Uniti, dove il cosiddetto quantitative easing è grandemente servito a ridurre la disoccupazione, è incoraggiante.
Come Draghi col il suo whatever it takes nel 2011 ha evitato il crollo dell’euro, oggi deve essere credibile nel suo impegno a contrastare la deflazione.
Ma non è solo la Bce che può servire per scongiurare il rischio di una trappola della deflazione in Italia. Servono molto le riforme strutturali, quelle fatte davvero e non solo annunciate. Prendersela a parole coi totem, come l’articolo 18, offre solo un segno di impotenza.
Ha fatto bene ieri Renzi a sottolineare che altri sono i problemi.
Farà  ancor meglio quando spiegherà  in che cosa consiste il suo Jobs Act e soprattutto quando lo tradurrà  in un Jobs Fact in tempi molto stretti.
Perchè le riforme, quelle vere, servono moltissimo. Spingono infatti i flussi di capitale, anzichè verso i titoli di Stato, verso gli impieghi produttivi, quelli che finanziano l’accumulazione di capitale fisico, la creazione di nuovi impianti, con investimenti reali fissi e partecipazioni azionarie nelle nostre imprese.
Per questo è una buona notizia, questa sì, il crescente interesse degli investitori stranieri e di quelli istituzionali nel nostro paese.
Ci potranno essere di grande aiuto nello scongiurare il rischio di deflazione.

Tito Boeri
(da “La Repubblica“)

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