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INTERVISTA A ZAGREBELSKY: “CON QUESTE RIFORME, LA POLITICA VA AL SERVIZIO DELLA FINANZA”

Agosto 22nd, 2014 Riccardo Fucile

“L’ECONOMIA FINANZIARIA COMANDA I GOVERNI, COMPRESO IL NOSTRO”

Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato.
Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto.
A marzo ha firmato l’appello di Libertà  e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”.
In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”.
A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative — pubblicato dal Fatto Quotidiano — alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla.
Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato “La Costituzione e il governo stile executive”, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo.
Ora accetta di riparlarne con Il Fatto.
A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi.
Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico?     Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’.
È un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”.
Abbiamo già  sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista. Le Costituzioni che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà  della cultura, senza la quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un punto importante. Una società  equilibrata non vive solo di politica ed economia, ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola, tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra cosa.
Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo.
Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perchè prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà . Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà , prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità  nazionale’, in realtà  vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza.
Non è poi una grande novità .
La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità . Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità : il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.
Per esempio?
Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità  di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sè, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.
Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze antifinanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perchè “l’Italia ha il pilotaautomatico”.
Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là . Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme
Quali puntini?
Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità  l”efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà  la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà  poi che cosa accadrà  circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia.
Unendo questi puntini che figura viene fuori?
È un bell’esercizio per i nostri lettori…     Intanto lo faccia lei per aiutarci.     L’ho già  detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanzia-rizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste — i costi della politica, la necessità  di snellire, semplificare, sveltire — che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità  che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.
Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi.
Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà  dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie.
Iniziamo dal nuovo Senato.
Quando Camera e Senato sono organi pressochè identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo — i costi della politica — per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato — molti di loro almeno — abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto ilpotere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault?
Ma sì, citiamolo.
Foucault parlava di ‘governa-mentalità ‘. Che non è la governabilità  decisionista di craxiana memoria. È molto di più: è appunto una mentalità  governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività  delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità . Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità : le necessità  sue e degli interessi per conto dei     quali opera. Il principio di legalità  anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti.
Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, nè tantomeno un     Parlamento forte che gli faccia le pulci.
Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perchè è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità  delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università  di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro…
Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.
Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta — come tutte le Costituenti — col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose…
Giusto dunque riformare     un’altra volta il Titolo V?
La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo ri-accentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà  la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà  buona cosa? E, se sì, per chi?
Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono     piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati.
Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perchè ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.
Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia.
Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm ecc. Vedremo se il governo li risolverà  con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà  in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.
Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.
Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perchè non l’ha firmato?
Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perchè mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perchè credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.
Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà  e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria.
Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là ‘ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.
Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anzichè renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.
Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già  stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.
Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum , Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano.
Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia.
In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.
Questa è una storia che si aprirà  successivamente, se sarà  necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà  i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà  possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già  avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.
Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude.
Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa… E rimango legato a principi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli.
Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione — quella del 1948 — ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’.
Quali?
La rappresentanza democratica, la centralità  del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità  intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.
Renzi & C. hanno già  annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.
Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio — ripeto — non è democrazia, ma autocrazia.
Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente.
Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli.
Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.
Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perchè accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governa-mentalità ‘ di cui dicevamo.
Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo     perchè pare che voglia dimettersi al più presto.
Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà , era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perchè). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità .
In un quadro, però, di immutabilità  del sistema di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già  c’era.

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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SUPERCAZZOLA ISLAMICA IN PARLAMENTO

Agosto 22nd, 2014 Riccardo Fucile

APPROSSIMAZIONI TRAGICOMICHE E FLORILEGIO DI STRAFALCIONI DI DEPUTATI E SENATORI SULLA CRISI MEDIORIENTALE

Mercoledì mattina le commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato hanno votato la risoluzione del governo che autorizza l’invio di materiale bellico ai Peshmerga, i guerriglieri curdi che stanno contrastando l’avanzata dei jihadisti nel nord dell’Iraq. L’obiettivo è sconfiggere l’Isis (anche chiamato Isil o Is e guidato dal califfo al Baghdadi), movimento terrorista sunnita formatosi in Siria. Isis combatte su due fronti: in Siria contro l’alawita Bashar al-Assad e in Iraq contro il governo a maggioranza sciita. Dal 2006 fino alla settimana scorsa il Paese è stato retto dal leader del partito Da’wa, Nuri al-Maliki. Secondo buona parte degli osservatori internazionali, la responsabilità  della rivolta sunnita è da ascriversi al suo modo di governare, che ha privilegiato la maggioranza sciita a discapito della minoranza sunnita (Saddam Hussein, al contrario, era un dittatore laico, ma di religione sunnita e durante il suo regime i seguaci di questa confessione ricoprivano i ruoli chiave all’interno dell’organizzazione statale e delle forze armate). L’incarico di formare il nuovo governo è stato affidato ad Haider al-Abadi, anch’egli sciita. Entrambi mercoledì hanno incontrato Renzi.
Abbiamo chiesto ai parlamentari delle due commissioni (più qualche esterno, che si è autoqualificato come “competente”) di spiegare ai lettori i rudimenti della situazione per la quale hanno votato: chi riceverà  le armi, quali armamenti verranno inviati, chi sono i terroristi dell’Isis, in quali zone si combatte, quali sono le minoranze a rischio.

Sergio Divina (Lega Nord) Jihadisti sui barconi
Senatore, chi sono i peshmerga che stiamo armando?
“È difficile capire, chi sta di qua, chi di là ”.
Certo, ma chi sono i peshmerga?
“Il pericolo è enorme. Ai jihadisti basta andare sulle coste libiche, saltare sul barcone e iniziare le azioni di disturbo”.
Ok, ma chi sono i peshmerga?
“Voi giornalisti avete l’obbligo di scavare oltre la superficie. Io mi fermo qui”.

Daniela Santanchè (Fi) Te lo do io, l’Isis
“L’Islam è violento, ho scritto due libri al riguardo. Bisogna studiare il Corano”.
Mi dica cos’è l’Isis.
“Fa paura quello che insegnano nelle scuole. Nel Corano c’è scritto che bisogna decapitare gli infedeli”.
D’accordo, ma cos’è, quest’Isis di cui parlano tutti?
“Il fondamentalismo dilaga. La politica correct (sic) sta facendo danni pazzeschi. È normale che ci sia un presidente della commissione Esteri come Di Battista?”.
Le chiedevo dell’Isis.
“Chieda a Di Battista”.
Abbiamo dato le armi ai peshmerga. Chi sono?
“Siamo tutti in pericolo, tutti. Loro vogliono uccidere. Mare Nostrum è una porcata. Le moschee in Italia sono califfati sotto la nostra giurisdizione”.

Giuseppe Fioroni (Pd) Il tautologico fantasioso
Perchè avete votato per armare i peshmerga?
“La posizione è quella assunta con la risoluzione del governo”
Ma chi sono questi peshmerga?
“Passiamo tramite il governo iracheno che si farà  carico di individuare gli interlocutori, al quale i curdi hanno dato la disponibilità ”.
Sarà . Ma i peshmerga? “Sono quelli sottoposti agli attacchi, al genocidio: il governo curdo”.

Michaela Biancofiore (Fi) ”Salviamo i copti iracheni ”
Qual è la minoranza cattolica più a rischio in Iraq?
“I copti sono originari di quell’area, quindi sono i più a rischio”(i copti in realtà  sono i cristiani egiziani. In Iraq ci sono i cattolici caldei, ndr).
Cos’è l’Isis?
È difficilmente identificabile. Oriana Fallaci l’aveva teorizzato anni fa: l’Eurabia. Noi siamo uno stato cuscinetto tra l’Europa del nord in cui non arrivano i clandestini e il Califfato”.

Nicola Stumpo (Pd) ”Il califfato? Sono sciiti”
“L’Isis? Meglio non definire niente con termini nuovi. È una nuova evoluzione dei fondamentalisti islamici”.
Ma sono sciiti o sunniti?
“Al di là  del fatto se siano sciiti o sunniti, il problema non è aiutare gli sciiti a far fronte ai sunniti o viceversa. Credo sciiti, ma non sono sicuro”.
Chi è il premier iracheno?
“Non lo ricordo. Prima c’era al-Maliki. A prescindere dal nome, speriamo sia la persona giusta.

Fabio Rampelli (FdI) ”Ma chi siete, Le Iene?”
“Che io sappia c’è un accordo col governo iracheno, che deciderà  a chi dare le armi”.
Le darà  ai peshmerga
“Non saprei”.
Cos’è l’Isis?
“Ma chi siete Le Iene? È una specie di neocaliffato, autoproclamato da una settantina di giorni”.
L’Isil è la stessa cosa?
“È simpatico, il Fatto Quotidiano, non è un interlocutore abituale”.
Chi è il premier iracheno?
“Al Maliki è quello appena… vediamo… no, è che c’hanno i nomi abbastanza simili. Dunque…” (passano un po’ di secondi, ndr)
Rampelli, non è che controlla sullo smartphone?
“No, no, sto parlando con lei. Aspetti. (ancora secondi) No, non me lo ricordo”.

Carlo Sibilia (M5s) ”L’avanzata minaccia i cagai“
Cos’è l’Isis?
“L’Isis non è una cosa semplice da spiegare. Nel 2007 cresce questa forza, l’Isis, che faceva gli spot su Al Jazeera. Gli Usa lo hanno finanziato e anche l’Italia, attraverso l’associazione Amici della Siria”.
Chi è il nuovo premier iracheno?
“Su questo non ci siamo soffermati: ci sono stati troppi avvicendamenti in questi anni”. (al-Maliki è stato premier ininterrottamente dal maggio 2006 all’11 agosto scorso, ndr).
Quali sono le minoranze a richio?
“Molte: gli yazidi, i cagai e altri”.
Chi sarebbero i cagai ?
“Soffermarsi sulle singole minoranze è riduttivo, lo faccia la destra o Scelta Civica.

Maurizio Gasparri (Fd’I) Isis? Oltre sciiti e sunniti
Chi sono i peshmerga?
“C’è una situazione poco chiara. Capisco cos’è insito nella domanda: si rischiano di armare gli stessi soggetti che poi usano le munizioni contro l’Occidente”.
Chi è il premier iracheno?
“Non conosco i vari personaggi della guerra. Dopo la caduta di Saddam non ci sono state leadership stabili” (al-Maliki è durato 8 anni, ndr)

Roberto Giachetti (Pd) ”No, il quiz no!”
“Un quiz, no ti prego! (Ride, ndr) Stroncami, non ne so un cazzo, sono assolutamente non in grado. Il premier iracheno? C’è quello nuovo, che deve arrivare e quell’altro che l’appoggia. Non so manco i nomi italiani. Già  con l’inglese non sono capace, figurati con gli iracheni…”

Antonio Razzi Strategia della confusione
“Serve dialogo, non armi: io parlo abruzzese, lei italiano, ma poi ci capiamo. L’Isis? Non so chi siano. Ogni tanto esce un gruppo nuovo e si dà  un nome, per confondere le idee”.

In questo quadro desolante, alcuni parlamentari hanno risposto in modo competente.
Su tutti: Edmondo Cirielli (FdI), Luis Orellana (ex M5s), Emanuele Fiano e Marina Sereni (Pd)

Tommaso Rodano e Alessio Schiesari
(da “il Fatto Quotidiano“)

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RIFUGIATI, MINISTRO BAVIERA ATTACCA L’ITALIA: “IGNORA LE PROCEDURE PER NON FARSI CARICO DEI RICHIEDENTI ASILO”

Agosto 22nd, 2014 Riccardo Fucile

“E’ RESPONSABILE IL PAESE DI PRIMO INGRESSO: NEL 2013 LA GERMANIA HA AVUTO 126.000 DOMANDE DI ASILO CONTRO LE 27.930 DELL’ITALIA MA NON SI LAMENTA OGNI GIORNO”

Duro attacco all’Italia del ministro dell’Interno bavarese, Joachim Hermann, che accusa Roma di ignorare le leggi sui rifugiati per non farsene carico.
“L’Italia in molti casi intenzionalmente non prende dati personali e impronte digitali dei rifugiati per permettere loro di chiedere asilo in un altro Paese”, ha detto Hermann all’agenzia tedesca Dpa.
Lo stesso ministro ha poi sottolineato come in Baviera ci sia stato un aumento record di richieste di asilo: solo ieri, ne sono arrivate 319.
L’esponente dell’Unione cristiano sociale (Csu) ha ricordato che lo scorso anno in Germania ci sono state 126mila domande di asilo, contro le 27.930 presentate in Italia. Sulla base di queste cifre, Hermann ha poi accusato il ministro degli Interni Angelino Alfano di lamentarsi per l’enorme flusso di migranti che l’Italia deve gestire, ignorando allo stesso tempo la politica europea sull’asilo.
“Quella politica stabilisce che il Paese di primo ingresso è responsabile per l’attuazione delle procedure per l’asilo”, ha sottolineato il ministro bavarese riferendosi al regolamento Dublino II, che determina lo Stato membro dell’Ue competente a esaminare una domanda di asilo o riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra.
Dunque, dal momento che l’Italia riceve finanziamenti da Bruxelles per affrontare il problema, “gli altri Paesi Ue possono esigere dall’Italia un’analoga solidarietà , in particolare sulla base del sistema di asilo deciso dall’Unione Europea”, ha rincarato Hermann.
“Tanto più – ha concluso – perchè la crisi in Medio Oriente e la violenza brutale dello Stato islamico probabilmente aggiungeranno una pressione migratoria sull’Europa”.

(da “La Repubblica“)

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IL TURISTA IMMOBILE

Agosto 22nd, 2014 Riccardo Fucile

E SE L’ABITUDINE FOSSE LA FELICITA?

Da quarantacinque anni il signor Marco da Pistoia e il signor Davide da Como trascorrono le vacanze in un albergo a tre stelle di Rimini, che ieri ha giustamente premiato la loro mancanza di inquietudine o di originalità .
I due mattacchioni frequentano lo stesso chilometro quadrato di Romagna fin dall’infanzia. Senza mai desiderarne altri.
Senza mai farselo venire a noia.
Può darsi che durante l’inverno conducano vite spericolate da cui trasgrediscono in estate con una resa totale all’abitudinarietà .
Ma è più probabile che la costanza delle loro predilezioni estive sia il riflesso di uno stato d’animo esistenziale.
Che il signor Marco e il signor Davide si alzino ogni giorno alla stessa ora e ogni giorno inzuppino nel caffelatte lo stesso numero di fette biscottate: possibilmente dispari.
Che si rechino senza fretta, ma anche senza angoscia al lavoro e, sbrigate le incombenze mattutine con piglio affidabile, si concedano una pausa pranzo sempre nello stesso bar, dove naturalmente ordineranno «il solito».
Che la sera rientrino a casa sempre alla stessa ora, si siedano a tavola con la famiglia in tempo per rispondere alle domande del quiz che precede il telegiornale e, dopo aver sfogliato qualche pagina di libro o videata di computer fantasticando su luoghi e personaggi che non hanno alcun desiderio di conoscere dal vivo, si rechino a letto non prima di essersi sorbiti una tisana non caldissima, però neanche troppo tiepida.
Ma se fosse questa la felicità ?
Guardo gli habituè dell’albergo riminese come dei missionari: con rispetto e ammirazione, ma senza avere la forza di imitarli.
E neppure la voglia.

Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)

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QUEI 40 ITALIANI TRA I MUJAHEDDIN

Agosto 22nd, 2014 Riccardo Fucile

COSI LA JIHAD ARRUOLA NEL MONDO

Sono almeno quaranta i jihadisti partiti dall’Italia verso i fronti siriano e iracheno.
È allarme rosso, secondo i servizi segreti. I mujaheddin italiani vengono monitorati nel timore che nel futuro, radicalizzati e addestrati di ritorno dal Medio Oriente, organizzino attività  ostili contro il nostro Paese.
In più, con il sì delle Camere alle armi ai curdi, l’Italia è nel mirino dei terroristi.
La probabilità  di un attentato è altissima, avvisa l’intelligence. S’è già  visto nel caso di Jarraya Khalil, di stanza a Zenica, arrestato a Bologna con l’accusa di guidare una cellula integralista islamica.
O del genovese convertito all’Islam Ibrahim Giuliano Delnovo, ucciso mentre combatteva ad Aleppo con la “Brigata dei Difensori e dei Migranti” diretta dal ceceno Abu Omar.
Per tutto questo le intelligence sono prese a studiare il ritratto del jihadista della porta accanto: l’europeo infervorato dalla guerra santa, dal delirio di un Califfato in cui frontiere e identità  nazionali d’incanto svaporino.
Ha il profilo di un maschio (ma le femmine sono il 16 per cento) fra i 16 e i 28 anni d’età , musulmano (però si arruolano anche cattolici) spesso convertito, mosso da un ardente idealismo o da un profondo malessere esistenziale.
In francese è il “Mal de vivre”, molto citato oggi da sociologi e servizi segreti persuasi che si tratti d’una epidemia, viste le formidabili schiere reclutate in Francia più che altrove in Occidente: almeno 700, indottrinati su Internet dai predicatori dell’Islam jihadista.
Giovani poco integrati, molti della seconda o terza generazione di immigrati, finiscono accalappiati dai sulfurei messaggi di emiri intenti a diffondere la “buona novella” del combattimento e della “morte santa”.
Sono almeno 400 in Gran Bretagna e in Turchia, più di 250 in Germania e Belgio, oltre un centinaio in Olanda e Danimarca, quasi la stessa cifra in America, e tutti quanti, sommati ai combattenti stranieri affluiti nel Vicino Oriente dai quattro capi del mondo (da 83 Paesi in totale) costituiscono qualcosa come un terzo dell’esercito jihadista addestrato alla violenza estrema.
Se si ascoltano le intelligence, questi numeri offrono soltanto uno scorcio parziale, destinati a moltiplicarsi in misura esponenziale.
Ad esempio: in aprile di quest’anno Gilles de Kerchove, coordinatore dell’antiterrorismo Ue, ha stimato che almeno 2000 combattenti si siano recati in Siria dai 28 Stati Ue: una cifra quadrupla rispetto ai 500 dell’anno precedente.
E ancora: i servizi americani calcolano ben oltre 7000 jihadisti in partenza, cifra che fa impallidire gli 800-1000 di appena un anno fa.
Capita così che emerga un gran numero di europei nei video più cruenti del nichilismo jihadista.
I “Baadiya Boys”, inglesi radicalizzati in Siria, sono stati ripresi a massacrare e stuprare Yazidi in fuga nel Nord Iraq.
Su Twitter un ventenne di Londra, Abdel-Majed Abdel Bary, ride della testa mozza che ha in mano: “Vado a zonzo col mio amico, o con quel che di lui rimane”.
Facebook e Twitter sono i grandi reclutatori di un pubblico “universale” – un solo filone è stato seguito in 75 lingue diverse, in primis l’inglese e l’olandese.
E a dividersi i neofiti stranieri sono tre epigoni di al Qaeda: Ahrar al-Sham, Jabhat al-Nusra, con l’Is (lo Stato islamico) a fare man bassa.
«Sei soddisfatto della tua vita?», sorride un americano con la figlioletta in braccio nei video di arruolamento dell’Is. «Qui troverai amore, fratellanza, giustizia, sharia». Immagini confezionate apposta a suggerire fratellanza, solidarietà , benessere, con un sottinteso senso di eroismo e d’avventura.
Per un “jihadologo” quotato come Aymenn Jawad al-Tamimi, l’attrativa dell’Is non risiede soltanto nella ricchezza finanziaria, la scaltrezza persuasiva, la potenza dell’arsenale.
«È il concetto del Califfato, la costruzione dello Stato, l’enfasi sulla jihad globale ad attirare reclute », dice al-Tamimi.
«I criteri d’ammissione dell’Is sono meno rigorosi rispetto ad altri gruppi. L’addestramento avviene dopo l’ammissione».
E la presenza costante dei figli al seguito? «Questi rappresentano la futura generazione di jihadisti, devono perpetuare l’esistenza del gruppo. Perciò vengono indottrinati anche i bambini siriani e iracheni ».
Gli stranieri sono tenuti in gran conto per l’efficacia nel proselitismo – fa già  letteratura l’olandese Yilmaz, animatore di una “posta jihadista” via Kik, Tumblr e ask. fm. Soprattutto, sono potenziali pedine del progetto terrorista internazionale: motivati e addestrati in Siria e in Iraq, rappresentano cellule attivabili di ritorno nei Paesi d’origine.
Sono i “returnees”, la minaccia globale. Come fermare l’Is? «I raid americani ne argineranno l’avanzata. Ma per sradicarli, servono forze a terra. Nessuno vuole impegnarle».
Questo fa dire ad al-Tamimi che «il declino dell’Is non è questione di mesi. Serviranno molti, molti anni».

Custodero e Van Burer
(da “La Repubblica“)

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I FIGLI D’EUROPA STREGATI DALL’ODIO

Agosto 22nd, 2014 Riccardo Fucile

LA QUINTA GENERAZIONE PANISLAMISTA CRESCIUTA IN OCCIDENTE

L’accento british del boia di Jim Foley materializza un incubo per governi e opinioni pubbliche occidentali: quello della guerra in casa.
Già  evocato da un video dell’IS, circolato nelle scorse settimane in Rete, che riprende immagini di città  americane. E nel quale la voce narrante fa sapere: «Siamo già  tra voi!». O meglio: «Siamo sempre stati qui!».
Un incubo che non riguarda solo gli Stati Uniti. Ci sono migliaia di giovani europei, musulmani di seconda generazione, cittadini o residenti di Paesi dell’Unione, nelle file dello Stato Islamico.
Non solo britannici, ma anche francesi, tedeschi, scandinavi, belgi.
Oltre che italiani: come ha rivelato la morte in combattimento in Siria del convertito Giuliano Delnevo. E tra Mosul e Raqqa vi sono decine di nuovi italiani.
Non poteva essere diversamente nel tempo della globalizzazione che trasforma le società  occidentali in società  multietniche e multiculturali.
Significativamente il gruppo che gestisce il «circuito penitenziario» degli ostaggi dello Stato Islamico, e al quale appartiene «John» il carnefice di Foley, sono chiamati dagli jihadisti locali i «Beatles».
Non certo perchè, oltre a salmodiare versetti coranici, cantano Lucy in the Sky with Diamonds. Gli «scarafaggi» britannici, così come i loro compagni d’avventura partiti dalle banliues parigine o dai quartieri etnici tedeschi, fanno parte della quinta generazione panislamista.
Seguita a quella, pionieristica, che ha praticato il jihad contro la potenza «atea» sovietica negli anni Ottanta; a quella che ha avuto il battesimo del fuoco in Bosnia a metà  degli anni Novanta; a quella riunita attorno a Al Qaeda nell’Afghanistan dei Taleban; a quella che ha combattuto in Iraq durate l’epopea sanguinaria di Zarkawi.
La novità  è proprio questa: la quinta ondata registra una massiccia presenza di mujiahidin nati o cresciuti in Occidente.
Alcuni dei quali giovanissimi e non solo maschi. Un dato che, purtroppo, non stupisce.
Con il suo dogmatismo, le sue risposte nette all’indeterminatezza della vita, il suo richiamo alla dimensione comunitaria, l’islam radicale offre straordinarie certezze e, sia pure distorte, risposte di senso.
Quelle che nel tempo della fine delle grandi ideologie, nessun altro sistema culturale è più in grado di offrire.
In discussione, per questi membri della generazione del rifiuto e del rancore, non vi è solo una politica che, a loro dire, criminalizza sempre e comunque l’islam, ma anche un sistema di valori.
Per questa generazione militante nessun passaporto può mettere in discussione la sola appartenenza riconosciuta: quella transnazionale alla comunità  di fede e ideologica declinata secondo i principi radicali.
Quella attuale è, però, una generazione, figlia del suo tempo.
Nell’era del frammento e dell’individualizzazione, anche la partecipazione al jihad segue cicli temporali definiti da fattori impolitici. Così per parte di quei giovani è «normale », dopo aver partecipato alle campagne di Iraq o Siria, tornare nel Paese nel quale hanno vissuto e riprendere una vita quotidiana scandita da altri imperativi, come il lavoro o la famiglia.
Per quelli che non sono stati catturati, o da eserciti ostili o da video che ne fissano per sempre il volto negli archivi d’intelligence, si presentano opzioni diverse.
Alcuni, come i ludici, che hanno praticato l’esperienza essenzialmente come dimensione esistenziale legata ai loro vent’anni, ritengono il kalashnikov un momento fondamentale ma superato della loro biografia.
Una realtà  più diffusa di quanto si pensi tra gli europei che hanno combattuto in Mesopotamia. Anche se l’aggravarsi di conflitti internazionali, o la percezione di una criminalizzazione collettiva dell’islam, spesso maturata nelle dinamiche locali, non esclude che possano tornare in azione.
Altri, invece, rimangono legati, più o meno organicamente, alla rete jihadista, che estende i suoi tentacoli nelle metropoli occidentali.
Sono gli jihadisti mascherati o « in sonno», non certo esposti nell’attivismo di quartiere. Hanno un alto profilo di rischio, sanno usare armi ed esplosivi, e possono colpire su input esterno o autonomamente.
Il timore, oggi, è che il conflitto siro-iracheno trasformi le città  occidentali in nuovo avamposto del fronte.
A conferma che la distinzione tra globale e locale è, in questi casi, sempre più effimera.

Renzo Guolo
(da “La Repubblica”)

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ARMIAMOLI E PARTITE: RENZI MISTER PESCH IN BARILE

Agosto 22nd, 2014 Riccardo Fucile

L’ITALIETTA ALLEATA CONTEMPORANEAMENTE DI DUE NEMICI CHE SI ODIANO

Ha fatto bene Renzi a visitare Baghdad, dove ha incontrato il governo di quel che resta dell’Iraq, e poi anche il campo profughi di Erbil, dove ha parlato con i capi dell’enclave autonoma curda.
Ha fatto male invece a non telefonare subito a Roma per bloccare le allegre ministre Mogherini & Pinotti che stavano incassando l’ok delle ignare commissioni Esteri e Difesa all’invio di armi ai curdi.
Ciò che il premier ha visto e sentito in Iraq era più che sufficiente per indurlo ad archiviare l’idea balzana di spedire una carrettata di vecchi kalashnikov, missili e razzi anticarro di fabbricazione sovietica sequestrati nel lontano 1994 alle milizie croate e da allora giacenti nei magazzini del nostro esercito.
Che si guardava bene dall’usarli, il che la dice lunga sulla loro efficienza.
Qui non si tratta di fare del pacifismo a buon mercato: anche le missioni di pace e i corridoi umanitari esistono grazie alla protezione armata.
Qui si tratta di domandarsi chi stiamo armando, con quali armi, con quali procedure e contro chi verranno usate non solo oggi, ma anche domani.
1) Chi stiamo armando? I guerriglieri curdi, che si oppongono alle milizie jihadiste sunnite del Califfato (Isis), anch’esse dotate di armi occidentali ereditate dagli arsenali di Saddam Hussein, e animate da spirito di vendetta dopo l’umiliazione subita dai sunniti con la sconfitta saddamita e la salita al potere di un regime sciita.
Dunque al momento i curdi che andiamo ad armare sono alleati degli sciiti, sostenuti dall’Iran, che fino a qualche anno fa erano la bestia nera dell’Occidente.
Chi ci garantisce che le nostre armi non passino dai curdi agli sciiti che fra qualche anno ci toccherà  disarmare quando decideremo di reiscriverli all’albo dei terroristi?     2) Con quali armi? Il capo di gabinetto del presidente della regione autonoma curda Fuad Hussein spiega al Corriere che ai suoi soldati occorrono “blindati anti-mina, armi anticarro nuovo modello, visori per la guerra notturna ed elicotteri da guerra”. Noi, per tutta risposta, inviamo i ferrivecchi di cui sopra: c’è da sperare che i curdi non ce li rimandino indietro con spedizione a carico del destinatario.
La Germania, che è la Germania, ha deciso di inviare caschi e giubbotti antiproiettile, che almeno servono a qualcosa. E la Svezia ha comunicato: “Non siamo una potenza in campo militare, mentre lo siamo in campo umanitario, quindi invieremo cibo, medicinali e soccorsi”.
Un discorso serio che avremmo dovuto fare anche noi: invece due mesi fa il governo ha tagliato i progetti umanitari all’Iraq e ora se la tira da superpotenza militare con i fondi di magazzino per soddisfare gli uzzoli interventisti della Pinotti, in corsa per il Quirinale, e della Mogherini, ansiosa di accreditarsi in Europa per l’inutile poltrona di Mister Pesc (lesso).
3) Con quali procedure? Il premier dimissionario iracheno al Maliki e quello incaricato al Abadi han chiesto a Renzi di non consegnare le armi ai curdi, ma al governo di Baghdad, mentre il presidente dell’enclave curda Barzani gli ha chiesto di spedirle direttamente a lui. Il perchè è semplice: il governo filosciita iracheno detesta cordialmente i curdi, che ricambiano con interessi, rivendicando la propria indipendenza e profittando della guerra al Califfo per farsi il proprio stato.
“Una soluzione di compromesso — dice Renzi al Corriere — potrebbe essere far arrivare le armi a Erbil, ma consegnarle a un inviato di Baghdad”.
La classica farsa all’italiana: per armare i curdi, diamo le armi a un inviato del governo che odia i curdi, e poi se la vedano loro.
Ma non si esclude un’altra furbata: io le armi le lascio qui, per non saper nè leggere nè scrivere, e il primo che passa se le prende.
Del resto — secondo le cronache, depurate dalla retorica sulla “storica visita” e sullo “scout Matteo”     — Renzi ha promesso ad al Maliki “il rispetto della sovranità  irachena”.
Impegno che fa a pugni con le armi alla regione curda che Baghdad non riconosce, anzi osteggia.
Finirà  come al solito, con l’Italietta alleata contemporaneamente di due nemici che si odiano.
Così ci guadagneremo la prestigiosa carica di Mister Pesc In Barile.

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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