Agosto 29th, 2014 Riccardo Fucile
INUTILE CERCARE CONSENSI AL DETTAGLIO SENZA UNA VISIONE DI INSIEME
Di nuovo importanti scelte annunciate sembravano decadere a «linee guida» per poi scomparire del tutto nel Consiglio dei ministri di oggi.
E allora è bene cercare un significato di insieme di ciò che ribolle dentro il governo di Matteo Renzi, tra promesse e retromarce, azzardi e smentite.
Dei contrasti non c’è da stupirsi, dato che per fare riforme vere occorre scontentare molti interessi; ma la confusione di idee è grande
La salutare intenzione di rompere tabù annosi si intreccia con ipotesi di stravecchie misure conformi a vecchi modelli politici.
Nessun «cambio di verso» ci sarebbe ad esempio nell’assumere senza concorso decine di migliaia di precari della scuola
Nelle bozze del provvedimento «Sblocca Italia» oggi all’esame compaiono insieme interessanti novità ed erogazioni di tipo clientelare.
Un modo diverso di governare non può certo emergere già bell’e formato. Il guaio è che il fronte tra vecchio e nuovo molto spesso non si capisce dove passi, e nemmeno tra chi. In parte si tratta ancora di inesperienza, da parte dei giovani oggi arrivati al potere con Renzi.
Ma più passa il tempo, più si parlerà di carente abilità nel progettare
Ad esempio l’importantissima questione delle partecipate degli enti locali è arrivata alla ribalta solo grazie all’impegno del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Si trova lì un nodo cruciale dei veri «costi della politica».
Ma occorre saper distinguere. Un gran numero di società in annosa perdita, o con scopi poco attinenti al settore pubblico, può essere chiusa senza complimenti
Invece i trasporti locali, da dove viene gran parte delle perdite, devono essere riformati costringendo gli amministratori a tagliare gli sprechi.
C’è una Autorità per i trasporti che ha cominciato a funzionare, esistono esempi in altri Paesi; una razionalizzazione su base regionale sarebbe utile seppur non sufficiente.
Occorre però che i ministri si facciano carico di elaborare proposte
Un altro esempio sono le privatizzazioni.
È salutare che si sia rivelata un bluff la privatizzazione delle Poste, azienda dove il confine tra le aree di servizio pubblico e quelle di mercato rimane alquanto oscuro.
È interessante che si discuta di ridurre la quota dello Stato in Eni ed Enel oltre limiti che finora venivano considerati invalicabili: ma si chiarisca anche a quale scopo.
L’Eni, di gran lunga la componente più valida dell’industria di Stato, negli anni ha funzionato come importante strumento per approvvigionarci di petrolio.
Oggi la sensazione — diffusa tra i Paesi amici ed alleati — che condizioni un po’ troppo la politica estera italiana è solo il riflesso politico della crescente difficoltà economica di fare scelte energetiche indipendenti su scala solo nazionale.
Prima di decidere che fare dell’Eni, occorre avere un’idea di quali scelte in materia di energia farà l’Europa nel suo insieme; Vladimir Putin ce ne impone l’urgenza.
Una ipotesi possibile è che invece di muoversi in ordine sparso le imprese di Stato esistenti in vari Paesi dell’Unione possano trovare strategie comuni, forse persino unirsi
Perchè i progetti ancora latitano? Il rischio sta nella via breve di un ritorno al primato della politica: ovvero che i nuovi arrivati al potere con Renzi si limitino a proporre la novità di se stessi, magari inventando nemici di comodo per sfruttare a proprio vantaggio l’insofferenza contro tutte le èlites. Non può funzionare.
Trovare consenso al dettaglio, con favori all’una o all’altra categoria (pensionandi o supplenti o altri ancora), è oggi disastrosamente dispendioso.
Solo mostrando una visione di insieme si può consolidare il consenso dei cittadini in quanto cittadini.
Stefano Lepri
(da “La Stampa”)
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Agosto 29th, 2014 Riccardo Fucile
SENZA UOMINI E SENZA SOLDI: SEI MESI DI RENZI HANNO SVUOTATO IL PARTITO
Un anno fa, di questi tempi, preparava la rentrèe dopo la pausa estiva alle feste dell’Unità di Forlì e di Reggio Emilia, nel cuore del popolo rosso, perchè il Pd era tutto da conquistare.
E sul tavolo da sindaco di Firenze si ammucchiavano le slide dell’agenzia Proforma sul buon governo della città , per dimostrare al mondo (e soprattutto all’inquilino di Palazzo Chigi Enrico Letta) che l’unica cosa a interessargli era la campagna per la rielezione a Palazzo Vecchio.
«Mi metto di lato», giurava con chi lo andava a trovare.
Il passo laterale di un anno fa, invece, ha portato alla crisi del governo Letta.
E oggi Matteo Renzi è alle prese con altri dossier: dagli asili nido e le isole pedonali al consiglio dei ministri del 29 agosto, la ripartenza del governo su giustizia, scuole, infrastrutture, il “segnale” richiesto al premier dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi nel vertice estivo di Città della Pieve, le riforme strutturali, da ora in poi meno battute su Twitter, meno cronoprogrammi irrealizzabili, si fa sul serio.
E poi il Consiglio europeo con all’ordine del giorno la nomina del ministro degli Esteri Federica Mogherini a vicepresidente della commissione Ue e alto rappresentante dell’Unione in politica estera, su cui Renzi ha speso tutto il capitale politico incassato con la vittoria alle europee di maggio.
Un nuovo cambio di marcia: il ritmo sfiancante dei primi cento giorni viene sostituito dall’andatura lenta del maratoneta. Mille giorni per trasformare l’Italia, ma intanto la fine dell’estate restituisce l’immagine di un premier sempre più solo al comando.
Nel governo, dove l’annunciata cabina di regia economica è per ora affidata all’autostima dei singoli che sono sicuri di farne parte, come il deputato Yoram Gutgeld che va in giro dicendo: «La legge di stabilità la scriverò io».
E nel partito, il Pd, che dopo sei mesi di doppio incarico renziano, premier e segretario, si ritrova con una inattesa valanga di voti che piomba su un partito svuotato di idee, uomini, partecipazione. E di risorse economiche.
Dal 22 febbraio, giorno in cui il governo Renzi ha giurato al Quirinale, la segreteria del Pd è dimezzata: in quattro (Maria Elena Boschi, Federica Mogherini, Marianna Madia, Luca Lotti) si sono trasferiti nei palazzi ministeriali.
Dopo vari tentativi, organigrammi compilati e poi bruciati, si è deciso di rimandare tutto a dopo l’estate.
E le sovrapposizioni tra partito e governo continuano: il responsabile economia di largo del Nazareno Filippo Taddei da mesi è dato in via di trasferimento nel gruppo di economisti di Palazzo Chigi. In attesa del trasloco è rimasto appeso il programma della festa nazionale del Pd a Bologna: con che ruolo collocare Taddei? Nulla di fatto.
I superstiti sono coordinati dal vice-segretario Lorenzo Guerini, di felpata scuola democristiana e grande capacità di ascolto, una camera di compensazione, lo sfogatoio di tutte le inquietudini che si agitano nel partito: litigi, ambizioni personali, angosce esistenziali, ansia di abbandono.
Non più incanalate nelle correnti e nelle famiglie tradizionali. Orfane dei leader di sempre, quasi scomparsi anche nel programma della festa nazionale del Pd a Bologna. Anna Finocchiaro? Non pervenuta. Gianni Cuperlo, l’ex sfidante di Renzi alle ultime primarie? Non c’è. Beppe Fioroni, Franco Marini? Nessun invito. Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani? Ci saranno, ma da comprimari.
E l’unico ad apparire da solo sul palco, a concludere la festa, inutile dire chi sarà . Succedeva così anche ai tempi dei segretari generali del Pci, in fondo.
«È tutto affidato a un’estrosa individualità : la sua», fotografa un renziano della primissima ora. I
l PdR è un paradosso: mai così ricco di voti (in percentuale, perchè in termini assoluti il primaro spetta al Pd di Veltroni nel 2008: altra epoca), mai così povero, e non per metafora.
Nel rendiconto del 2013 presentato due mesi fa dal tesoriere Francesco Bonifazi, avvocato fiorentino e deputato renziano, c’è una voragine di10,8 milioni di euro.
La fine del 2014 e il 2015 si annunciano di lacrime e sangue, con l’obiettivo di arrivare a un bilancio in pareggio, un’impresa che in scala minore ricalca la mission impossible del commissario governativo Carlo Cottarelli: taglio del quaranta per cento delle spese per servizi (373 mila euro se ne sono andati nell’ultimo anno soltanto per la gestione del sito web) e consulenze, nel 2013 hanno superato il milione di euro («un costo oggettivamente elevato», commenta in modo british Bonifazi).
Eliminare il mezzo milione di euro finito nell’organizzazione di assemblee nazionali tanto affollate quanto spesso politicamente inconcludenti, il milione per le spese della segreteria, il milione per le sedi nazionali di via Tomacelli e via del Tritone, oltretutto deserte.
La spending review di largo del Nazareno è imposta non solo da esigenze di risparmio, ma dalla fine dei rimborsi elettorali, il finanziamento pubblico che rimpinguava le casse dei partiti, già dimezzato quest’anno (per il Pd entreranno 12 milioni anzichè 24) e destinato a esaurirsi nel 2017.
Via libera ai finanziamenti alternativi, le sponsorizzazioni degli stand delle feste, la parola magica di ogni associazione privata, il fund raising.
Una mini-struttura era già stata messa in piedi un anno fa dalla segreteria Epifani, ma risulta inattiva.
Le cene di autofinanziamento vagheggiate da Renzi sono una goccia nel mare. E non fa ben sperare il bilancio della parallela fondazione Open (la ex Big Bang), costituita da Renzi a Firenze, che nell’anno di massima ascesa nazionale dell’ex sindaco ha raccolto poco più di un milione e ha chiuso in leggero passivo.
In compenso ha portato fortuna ai componenti del consiglio direttivo: una è diventato ministro (la Boschi), un altro si è trasferito a Palazzo Chigi con Renzi (il sottosegretario Lotti), il presidente Alberto Bianchi è stato nominato dal governo nel cda dell’Enel, il quarto nome è l’eminenza grigia del renzismo Marco Carrai.
Il modello del partito pesante di apparato è in via di estinzione come i dinosauri, per mancanza di cibo; la leggenda del partito leggero, agile, capace di funzionare grazie ai finanziamenti privati è tutta da scrivere, per ora.
La strada del due per mille è considerata da Bonifazi “aleatoria”.
Ma è un’emergenza che il PdR dovrà affrontare alla ripresa: in vista ci sono primarie, campagne elettorali regionali in autunno e in primavera, la necessità di consolidare e allargare il 41 per cento delle europee.
Per qualcuno, in realtà , questo è un obiettivo minimale, si dovrebbe fare molto di più: la cinghia di trasmissione, come si sarebbe detto un tempo, tra il leader, il governo e la società . «Condivido quello che dice Renzi: rivoluzionare i salotti, gli intellettuali, l’establishment. Ma per farlo serve un partito», spiega l’ex giovane turco Matteo Orfini, che nell’estate che si conclude ha festeggiato i quarant’anni e la nomina a presidente del Pd dopo aver contrastato per anni la scalata di Renzi alla leadership nazionale.
«Non possiamo pensare che faccia tutto da solo. Nel resto d’Italia, a livello locale, il Pd è ancora un partito respingente».
Poco ci manca per tornare a un antico schema, “a voi il governo, a noi il partito”, anche perchè intanto è diventato maledettamente difficile stabilire cosa si intende per “voi” e “noi” (prima erano gli ex dc e gli ex pci, ora chissà ).
Ma tanto basta per far preoccupare i protagonisti della rivoluzione renziana che si vedono accerchiati. «Eravamo come gli scozzesi di Braveheart, siamo finiti con gli inglesi che fingono di parlare come noi. Abbiamo vinto e ci siamo fatti colonizzare», sospirano.
Le primarie, benzina nel motore di Renzi quando c’era da dare l’assalto al quartier generale e considerate il dna del nuovo partito, non sono più un totem intoccabile: sono saltate in Piemonte con Sergio Chiamparino, non si faranno neppure in Toscana con la riconferma di Enrico Rossi per investitura diretta di Renzi in un’intervista televisiva. Anche in Emilia si cercava la candidatura di un discendente della Ditta post-Pci, fino allo strappo di Matteo Richetti, renziano pensante e autonomo, tra i pochissimi a dissentire nel voto sull’adesione del Pd al Pse.
E la dirigenza nazionale rischia di perdere un altro pezzo: la vice-segretaria del Pd Debora Serracchiani, appena nominata e già in regime di doppio incarico (è stata eletta solo un anno e mezzo fa presidente della regione Friuli-Venezia Giulia), potrebbe trasferirsi alla Farnesina al posto della neo-commissaria Ue Mogherini
Un triplo salto mortale, dalla regione al partito al governo, che spiega più di mille analisi l’essenza del partito renziano, specchio e laboratorio del metodo Renzi esportato nel governo.
Rapidità e improvvisazione, nessun gioco di squadra e ruoli interscambiabili tra Pd e ministeri perchè alla fine l’unico giocatore che conta è il Capitano.
Anche a costo di svuotare del tutto il più votato partito italiano.
Oppure di meditare, per l’autunno, una nuova riunione alla stazione Leopolda, per incontrare l’unico popolo che davvero Renzi porta nel cuore. Il suo.
Marco Damilano
(da “L’Espresso“)
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Agosto 29th, 2014 Riccardo Fucile
CAMBIA IN EXTREMIS IL TESTO DELLA RIFORMA, NCD FA AMMORBIDIRE LE NORME… I PROCEDIMENTI IN CORSO (COMPRESI QUELLI DI BERLUSCONI) NON SARANNO TOCCATI DALLA REGOLA CHE BLOCCA I TEMPI DOPO LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Comincia già a indebolirsi la riforma della giustizia.
Prima ancora di entrare oggi pomeriggio in consiglio dei ministri, Alfano e i suoi fanno la voce grossa con il Guardasigilli Orlando e ottengono quello che vanno chiedendo con insistenza ormai da giorni.
Subito la stretta sulle intercettazioni, anche se con una legge che delega al governo l’intera materia, ma con paletti fermi sulla pubblicazione e sull’uso stesso delle registrazioni. Non solo.
Via la norma sacrosanta che avrebbe consentito, per i reati di corruzione, di regolare le intercettazioni con gli stessi criteri utilizzati per la mafia.
Si allontana pure nel tempo, sempre per via di un’ulteriore delega al governo, anche la manovra sul processo penale.
Si ammorbidisce pure la già morbida prescrizione bloccata al primo grado e si rafforza il meccanismo del processo breve, che l’attuale ministro dell’Interno Angelino Alfano conosce assai bene essendone stato un teorico quando era il Guardasigilli di Berlusconi.
E non basta ancora. Ci sarà pure una norma transitoria che tutela gli imputati protagonisti dei processi in corso. I Berlusconi, i Galan, i Formigoni, per intenderci.
A loro non si applicherà nessuna prescrizione bloccata, che potrà valere solo se la sentenza di primo grado verrà emessa dopo l’entrata in vigore della legge.
Quindi una tutela importante anche per i tanti esponenti politici, pure del Nuovo centrodestra, finiti sotto inchiesta. Delega infine pure per il nuovo sistema per ricorrere in Appello e in Cassazione.
Ncd è raggiante. Lo dichiarano a gran voce i maggiorenti del partito, da Quagliariello a Lupi.
Dice il vice ministro della Giustizia Enrico Costa che nella riunione degli alfaniani ha tenuto la relazione tecnica introduttiva e per tutta la giornata ha tessuto la tela delle modifiche con il ministro Andrea Orlando: «Siamo molto soddisfatti, perchè siamo riusciti a ottenere quello che il Pdl, nel governo Monti, non aveva ottenuto. Pilastri della riforma della giustizia saranno la nuova responsabilità civile dei giudici e la nuova legge sulle intercettazioni. Al Pdl quelli del Pd avevano sbattuto la porta in faccia, a noi di Ncd hanno dato ascolto».
Lo stato maggiore degli alfaniani si riunisce alle 14, e alle 17 un soddisfatto
Lupi esce e dichiara che «andrà tutto». Quindi anche le intercettazioni.
Dietro di lui un sofferto Quagliariello spiega che «se cambia la prescrizione, serve la garanzia che il processo abbia tempi certi».
Poi il tam tam sulla responsabilità civile dei giudici, su cui però Ncd è costretta ad accettare la formula di Orlando. Per cui si continuerà a parlare di «negligenza» e non di «errore inescusabile».
Su questo il gruppo di Alfano non è riuscito a spuntarla. I mal di pancia sono stati fortissimi, a cominciare da quelli complessivi di Schifani su una riforma «troppo dalla parte dei magistrati », per finire a quelli sul falso in bilancio e sull’auto-riciclaggio di molti presenti, che avrebbero formule troppo spinte e che danneggiano gli imprenditori.
I tre ministri — Alfano, Lupi, Lorenzin — hanno voluto conoscere nei minimi dettagli la riforma.
La trattativa con il Pd sulle modifiche è stata serrata. I risultati, alla fine, considerati buoni. È un fatto che, per tutta la giornata di ieri, in via Arenula si è lavorato per modificare i punti indigesti, mentre nella riunione di Ncd si susseguivano i mugugni. Ecco, allora, che al ministero si lavora per riscrivere l’articolo sulle intercettazioni, il punto dove il braccio di ferro con il Pd è stato più forte.
Non solo sarà previsto che tutta la materia debba essere ispirata al criterio della massima riservatezza, ma torna in auge la famosa udienza stralcio, nella quale magistrati e avvocati decideranno cosa è rilevante e cosa no per le intercettazioni.
Sarà previsto il divieto di trascrivere gli ascolti dei terzi, che non potranno mai essere pubblicati.
Ma è sulla prescrizione e sul nuovo processo breve che Ncd è stata irremovibile.
Se entra in vigore il sistema che blocca l’orologio dell’azione penale al primo grado, Ncd impone nuovi tempi per appello e Cassazione.
Un sistema per fasce, due anni con la proroga di un ulteriore anno per l’Appello per i reati gravissimi, un tempo che scende a 18 mesi e una proroga di altri sei per i reati meno gravi, mentre per i delitti minori l’appello potrà durare sei mesi, con altri sei possibili.
A questo punto, a essere preoccupato, è il Pd, tant’è che la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti parla di riforma penale che «non può assolutamente essere nè ammorbidita nè rinviata».
Liana Milella
(da “La Repubblica”)
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Agosto 29th, 2014 Riccardo Fucile
RINVIATE LE MISURE SULL’ISTRUZIONE. NON CI SONO I SOLDI PER LE GRANDI OPERE
Fuori uno. Al Consiglio dei ministri di oggi non si discuterà della riforma della scuola, quella con cui — ha fatto sapere Matteo Renzi ai giornali amici — assumerà 100mila precari.
In realtà si trattava di linee guida che andavano poi trasformate in disegni di legge e decreti nei mesi successivi, ma si sa come va con la propaganda di questi tempi. In ogni caso la ministro Stefania Giannini gliele aveva fatte avere complete mercoledì sera, solo che il premier non ha avuto tempo di leggerle: sono due giorni che è, per così dire, bloccato sullo Sblocca Italia.
Anche ieri, per dire, il buon Matteo s’è dovuto sorbire nel pomeriggio una riunione di oltre tre ore con Graziano Delrio, Maurizio Lupi e Pier Carlo Padoan sul tema. Motivo: per il Tesoro non ci sono i soldi per garantire i progetti messi insieme da Renzi e dal ministro delle Infrastrutture.
Intanto i capitoli del decreto che — dice palazzo Chigi — innescherà 43 miliardi di investimenti privati sono già passati dai 15 delle bozze preliminari ai 10 annunciati ieri: su quelli, sostiene Lupi, “le coperture ci saranno”, mentre il ministro dell’Economia chiosa che “ci saranno là dove servono”.
Espressione già più ambigua.
Cominciamo coi soldi finti, cioè quelli semplicemente spostati da altri capitoli di spesa: ai nuovi cantieri dovrebbero andare 1,2 miliardi dal “Fondo Revoche” del ministero delle Infrastrutture e 2,5 miliardi da quello di “Sviluppo e coesione”.
Questo è quanto.
I soldi nuovi invece — nelle bozze dei giorni scorsi — erano spiccioli: 200 milioni nel 2014, 650 l’anno prossimo e 700 nel 2016.
Qui c’è il problema. L’estensione dell’ecobonus per le ristrutturazioni con riqualificazione energetica annunciato da Renzi o il pacchetto di incentivi per il “settore casa” costano parecchio di più: probabile che molte delle misure finiscano per slittare alla Legge di Stabilità .
Si vedrà , d’altronde le riunioni tecniche sono ancora in corso e continueranno fino all’ora del Consiglio dei ministri, che dovrebbe tenersi alle 18.
Anche per discutere delle difficoltà dello Sblocca Italia, comunque, ieri il premier è stato ricevuto al Quirinale: GiorgioNapolitano, secondo alcune fonti, ha invitato Renzi a non sparare troppo alto, a non mettere troppa carne al fuoco e altre sagge metafore per dire che è meglio far uscire da palazzo Chigi solo quello che si è poi sicuri di riuscire ad approvare.
Un invito ad una prudente fretta sull’economia — per dirla con quei ninnoli linguistici che fanno la gioia dei quirinalisti — e all’adelante ma con juicio sul fronte giustizia, che poi è quello in cui il governo rischia davvero di perdere l’abbrivio.
La vicenda è a questo punto: il ministro Andrea Orlando porta in Cdm un decreto sulla giustizia civile (su cui c’è l’accordo di tutti) e la bellezza di 8 disegni di legge per cambiare il processo penale.
Il casino, ovviamente, ci sarà su questi ultimi.
Il Nuovo Centrodestra vuole piantare le sue bandierine: no al ritorno del falso in bilancio, no al reato di autoriciclaggio, no al congelamento della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sì al bavaglio sulle intercettazioni.
Tutto il contrario di quello che ha in mente di fare il Guardasigilli.
Insomma, Renzi rischia di perdersi per strada un pezzo decisivo della maggioranza. L’uomo, però, è tignoso e ieri, prima dell’incontro al Colle, lasciava trapelare che sarebbe andato alla prova di forza: “In Cdm si voterà su tutto il pacchetto”.
Sulla giustizia, comunque, le riunioni continueranno anche stamattina: “Alla fine — prevede un ministro — c’è un unico compromesso possibile. Primo: si approva una legge delega generica sulle intercettazioni, che rinvia il problema all’autunno e oltre, ma fa contenti Alfano e gli Ncd, che piazzano la loro bandierina.
Secondo: si va al voto sulla prescrizione e la si approva con la contrarietà degli alfaniani.
Terzo: se proprio Ncd insiste, magari si rinviano falso in bilancio e auto-riciclaggio”. Il Big Bang arriverà a rate?
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 29th, 2014 Riccardo Fucile
FORSE LA PINOTTI DEVE ANCORA OLEARE GLI ARCHIBUGI… O COME DISSE OTTO VON BISMARK: “SAPETE PER CASO CON CHI STANNO OGGI GLI ITALIANI?”
Ricordate le armi ai curdi? La settimana scorsa gli annunci tonitruanti del governo e dei giornaloni al seguito ci avevano quasi convinti che fossero partite per il Kurdistan iracheno.
Le ministre Pinotti e Mogherini avevano interrotto le ferie di un centinaio di parlamentari, peraltro ignari dell’esistenza del Kurdistan, per deportarli nelle commissioni Difesa ed Esteri e comunicare al mondo che il Califfato aveva le ore contate: l’Italia, nota superpotenza militare, stava inviando ai nemici del califfo al-Baghdadi alcuni aerei cargo stracolmi di kalashnikov, razzi katiuscia e missili anticarro “perfettamente funzionanti” (parola della Pinotti, che li aveva personalmente oliati e collaudati al poligono di tiro di Arma di Taggia).
Si tratta, com’è noto, di vecchie ferraglie di fabbricazione sovietica (anni 70), sequestrate vent’anni fa dalla Procura di Torino a miliziani croati e destinate alla distruzione per ordine dei giudici, ovviamente disatteso dai nostri governi che le tennero ad arrugginire nei magazzini, senza che nessuno le usasse, nemmeno il nostro scalcinato esercito.
Lo stesso giorno Renzi si recava sul posto, prima a Baghdad poi a Erbil e, nella migliore tradizione italiana, prendeva impegni contraddittori per non scontentare nessuno: al premier iracheno prometteva di rispettare la sovranità nazionale del Paese, cioè di inviare le armi al governo legittimo (si fa per dire); poi rassicurava i capi curdi, ansiosi di riceverle nelle proprie mani.
Ieri abbiamo chiesto se il formidabile arsenale abbia poi preso il volo, e in quel caso per dove. Risposta: tutto fermo.
Non che le sorti della guerra ne risentano, anzi: finchè i curdi non le vedono, ci risparmiamo il rischio che ci rispediscano indietro le armi e ci dichiarino guerra per lo sfregio.
Ma la partita si fa avvincente, perchè qualunque decisione prendano le nostre Sturmtruppen sarà un disastro: se spediamo le armi ai curdi, il governo di Baghdad — teoricamente nostro alleato — s’incazza, mal sopportando l’indipendentismo di quel popolo; se le spediamo alle autorità irachene perchè le girino ai curdi, è difficile che queste lo facciano, per non favorire la disgregazione del Paese, così s’incazzano i curdi, teoricamente nostri alleati.
Par di vederli, i nostri strateghi, riuniti davanti al Monopoli per uscire dal vicolo stretto. Idea: mandiamo metà armi a Baghdad e metà al Kurdistan.
Anzi no, spediamo fucili, razzi e missili ai curdi e le munizioni agli iracheni.
Meglio ancora: paracadutiamo il tutto nel deserto, e il primo che arriva prende tutto, come al gioco del fazzoletto.
C’è poi l’eventualità che, ammesso e non concesso che le armai arrivino e funzionino, i curdi le cedano agli attuali alleati sciiti, che oggi sono amici nostri in funzione anti-Isis, ma domani potrebbero diventare nemici e costringerci a una nuova missione di pace, cioè di guerra, per levargli le nostre armi.
Anche in politica estera, insomma, la rottamazione tarda ad arrivare.
Nell’attesa ci si barcamena con i doppigiochi di sempre: quelli della solita Italietta che non è mai riuscita a terminare una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva iniziata.
Si parte con un alleato, poi si vede come butta e se marca male si passa al nemico per partecipare alla festa sul carro del vincitore.
Fu così nelle due guerre mondiali, ma anche nella Prima Repubblica: l’Italia stava con la Nato, ma anche con Mosca (Andreotti la Germania la preferiva divisa in due); con Israele, ma anche con i terroristi palestinesi che volevano annientarlo; con l’Inghilterra, ma anche con i generali argentini che occupavano le Falkland.
Quando Reagan bombardò Gheddafi per farla finita con i fondi libici all’internazionale del terrore, avvertì Craxi e Andreotti che corsero ad avvertire il colonnello per farlo scappare.
Poi venne Berlusconi, che stava con tutti e col contrario di tutti: con Bush, ma anche con Putin, ma anche con Gheddafi.
Che poi il governo B. contribuì a bombardare, ma solo un po’ (“non lo chiamo per non disturbarlo”), e a far massacrare da quegli stessi ribelli che ora sono nostri nemici. Passano le ere geologiche, ma resta inevasa una domanda di Otto von Bismarck: “Sapete per caso con chi stanno oggi gli italiani?”
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 29th, 2014 Riccardo Fucile
DAL GAVETTONE ALLE FARFALLE E AI GABBIANI
Non accenna a placarsi la moda del gavettone di beneficenza pro ricerca sulla Sla.
Dopo Matteo Renzi, ecco l’adesione di Giorgio Napolitano, che ha pregato la sarta del Quirinale di versargli un flacone di acquaragia smacchiante sulla giacca spiegando che avrebbe mandato qualcuno a ritirarla più tardi; quella di Lapo Elkann, che è andato appositamente ad Aspen per farsi versare addosso dal suo staff l’inimitabile bourbon on the rocks del barman Freddy Maimone; quella di Matteo Salvini, che ha rovesciato un secchio d’acqua gelata addosso a un immigrato appena scampato a un naufragio; e quella di Daniela Santanchè, che si è fatta un gavettone di bellezza al botulino diluito nel latte d’asina.
Unica controindicazione, le banconote si inzuppano e gli assegni stingono, costringendo l’associazione beneficiaria a un paziente lavoro di recupero delle somme devolute.
I donatori tradizionali, che desiderano finanziare la ricerca in forma anonima e senza apparire, sono disorientati: i loro denari sono ugualmente bene accetti?
Dilagano sul web, nel frattempo, nuove campagne virali.
CONTRO LA GUERRA
Cantanti, attori e vip di tutto il mondo sono rimasti stregati dall’iniziativa del deejay Goto Woops, che in segno di protesta contro tutte le guerre ha postato sulla sua pagina facebook la fotografia di una farfallina con la scritta: “lei non fa la guerra”.
Da Lady Gaga a Cristiano Ronaldo, da Shakira al protagonista di “Buzzy Way” Charlie Chu, dalla boyband “Potato Juice” all’intero cast del musical “Cows”, non c’è americano da copertina che non abbia aderito all’iniziativa postando una farfallina su facebook, o twittando “butterflyagainstwar”, o tatuandosela.
«Forse le guerre nel mondo non sono diminuite — ha detto deejay Goto chiamato a illustrare la sua iniziativa alle Nazioni Unite — ma in compenso non sono aumentate. Vi voglio bene».
È svenuto subito dopo, sopraffatto dall’emozione e dalla fatica intellettuale compiuta per stilare il suo discorso, che è poi stato diffuso sul web in forma ridotta per coinvolgere il maggior numero possibile di persone.
SAWDUST AGAINST CHOLESTERO
Segatura contro il colesterolo. La splendida attrice francese Marie Estelle Tablinsky non poteva prevedere il successo planetario del suo gesto: un selfie che la riprende mentre mangia segatura per protestare contro il drammatico aumento del colesterolo del mondo. Da allora celebrities e gente comune di ogni latitudine, contagiati dal gesto, mettono in rete un loro selfie mentre mangiano segatura.
«L’importante — spiega Marie Estelle nei numerosi post dedicati alla sua missione sanitaria — è che la segatura sia pulita; e poi non bere acqua subito dopo, perchè la segatura bagnata tende prima a gonfiarsi a dismisura, poi a formare dei veri e propri pallets che rischiano di occludere l’intestino o addirittura di prendere fuoco a contatto con i gas infiammabili tipici della digestione».
Da Lady Gaga a Cristiano Ronaldo, non c’è vip che non abbia aderito alla fortunata campagna contro il colesterolo.
La Tablinsky, non appena sarà dimessa dalla clinica per i disturbi alimentari dove è ricoverata, spera di essere ricevuta da Papa Francesco.
SAVE SEAGULL
Reso cieco da un occhio dall’attacco improvviso di uno stormo di gabbiani nel parcheggio di un centro commerciale, lo studente californiano Toby Lopez si è reso conto di quanto male deve essere stato fatto dall’uomo ai gabbiani per renderli così aggressivi. Con la fidanzatina ha dunque fondato Creeker, un nuovo social network che sta già soppiantando Twitter e prevede di gracidare in segno di solidarietà con i gabbiani.
Da Lady Gaga a Cristiano Ronaldo, sono ormai milioni in tutto il mondo i creekers.
I gabbiani sono miliardi, non corrono alcun pericolo di estinzione e rompono i coglioni mica male, ma Creeker, come tutti i fenomeni web di natura virale, non si ferma.
Aprirò oggi stesso il mio account su Creeker. Mandatemi i vostri creek.
Vi manderò i miei.
Michele Serra
(da “l’Espresso”)
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Agosto 29th, 2014 Riccardo Fucile
IL BRANCO E’ LA CONDIZIONE PIU’ SCONTATA E NOIOSA DELLA GIOVENTU’
In coma etilico a Gallipoli (pronto soccorso intasato), nudi per strada a Barcellona, fracassoni nelle varie piazzette, calette, muretti, baretti, le cronache estive segnalano una percentuale (non quantificabile) di ragazzi che non si divertono se non producono danni, agli altri o a se stessi.
È una storia antica, quella delle baldorie balneari, vecchia come le vacanze di massa, fatta di sbornie finite su una sdraio all’alba, di fustini di detersivo versati nelle fontane per bloccare l’Aurelia con un muro di schiuma, di scherzi grevi e scemi, di gazzarre di gruppo, di rumore e invadenza quanti ne bastano per sentirsi spiritosi.
Le mamme e le zie dicevano “non andare con quelli lì, sono dei balordi”, ci si andava lo stesso per provare il brivido, ci si capacitava in fretta che il branco è la condizione più prevedibile e noiosa della gioventù, se uno faceva un rutto tutti gli altri, sbellicandosi, ne facevano un altro.
Eventuali campagne di dissuasione dovrebbero comunicare ai giovanotti proprio questo: che sono dei conformisti, impiegatini della trasgressione.
Ubriacarsi a Gallipoli, denudarsi a Barcellona (e farsi un selfie ridendo), sbraitare a Rimini, vomitare a Lerici sono altrettanti punti fermi della sceneggiatura del prossimo Fantozzi.
Quelli davvero fighi, nessuno sa davvero dove sono e cosa fanno.
Michele Serra
(da “La Repubblica“)
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