Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
ACCUSATA DI ABUSO D’UFFICIO, TRUFFA E TURBATIVA D’ASTA: UNA PERSONA ADATTA ALLA CARICA
Nunzia De Girolamo vicepresidente della Giunta per le autorizzazioni a Montecitorio. ![](http://s4.postimg.org/yxu6cx73h/Nunzia_De_Girolamo_chiede_braccia_allagricoltura.jpg)
La deputata del Nuovo centrodestra è indagata per abuso d’ufficio, truffa e turbativa d’asta nell’ambito dell’inchiesta sulla Asl di Benevento.
La sua nomina è arrivata dopo che Antonio Leone, prima vicepresidente, è stato eletto nel Consiglio superiore della magistratura.
La decisione ha sollevato apolemiche visto il ruolo della giunta che è chiamata a giudicare su richieste di indagini, arresti e intercettazioni relative ai parlamentari.
La De Girolamo è attualmente sotto indagine nel secondo filone d’inchiesta scaturito dalle conversazioni registrate da Felice Pisapia, ex responsabile economico dell’Asl di Benevento. Autorizzerà il suo arresto nel prossimo futuro?
Controllori e controllati che diventano la stessa persona. Indagati che diventano vice presidenti della Giunta che autorizza a sua volta l’arresto di un deputato.
Chi difende la De Girolamo è il presidente della Giunta Ignazio La Russa: “Non ci sono stati e non ci sono nemmeno in prospettiva, elementi per un procedimento di competenza della Giunta per le autorizzazioni a carico dell’onorevole Nunzia De Girolamo. Anche laddove si dovessero manifestare situazioni di conflitto d’interesse, ne deriverebbe da parte dell’eventuale interessato il dovere di astensione dal voto”.
Forse a La Russa sfugge il senso dell’etica politica che dovrebbe indurre un parlamentare indagato a evitare di assumere un ruolo di tale genere.
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
GRILLO RESTA IL MEGAFONO, SI ALLENTA LA PRESA DI CASALEGGIO, FRENA LA SCALATA DI DI MAIO
Un termometro rotto, col mercurio che schizza da tutte le parti, senza che nessuno possa prevederne la direzione.
È così che molti parlamentari a 5 stelle vedono oggi il loro Movimento. Non si tratta più di 15 o 20 dissidenti. I malumori sono molto più estesi, toccano Camera e Senato, si ripercuotono in faide regionali agguerrite (Emilia Romagna e Calabria su tutte), fino a portare al licenziamento collettivo di 15 persone dello staff di Comunicazione al Parlamento europeo.
Grillo resta il megafono, fa appelli per il Circo Massimo, promette che sarà una festa grandissima.
Non si è mai occupato dell’organizzazione, però, ed è quella che comincia a mancare.
La guida di Casaleggio appare sempre più lontana. Il guru e il fondatore non hanno mantenuto l’impegno di andare a Roma una volta al mese per confrontarsi con i parlamentari.
Comunicano sempre di meno, stentano a star dietro ai problemi che sorgono giorno dopo giorno.
In mancanza di una linea — mentre ognuno porta avanti i suoi temi senza più coordinarsi con gli altri, nè tanto meno con Genova e Milano — più d’uno comincia a pensare che le cose debbano cambiare radicalmente. A partire dall’atteggiamento di chiusura totale con il governo e con il Pd.
Sulle preferenze nella legge elettorale, sulle riforme, sui nuovi ammortizzatori sociali e il reddito di cittadinanza, si fa strada la voglia di andare a vedere le carte.
Di aprire un confronto, di tornare allo spirito originario con cui i 5 stelle sono sbarcati in Parlamento.
Nessuno, per ora, ha voglia di uscire allo scoperto. E però, negli ultimi giorni, dopo l’uscita del sindaco di Parma Pizzarotti sulla «necessità di confrontarsi sulla leadership», il deputato siciliano Tommaso Currò non esitava a ricordare di aver già posto la questione due mesi fa: «Tutti qui hanno la memoria corta, ma è un problema di cui ho parlato senza che nessuno mi desse retta».
E Sebastiano Barbanti diceva chiaro: «Bisogna parlare di come organizzarci. Il movimento non è verticistico, io ci sono entrato per questo, ed è ora di confrontarsi su quello che vogliamo fare. È solo con la contrapposizione delle idee che si cresce».
Anche sulle leggi, secondo il deputato calabrese, «bisogna ricordarsi che siamo arrivati qui dicendo che avremmo votato le cose in cui crediamo, senza preoccuparci di chi le propone, senza metterci a cercare il pelo nell’uovo. Io seguo il motto: scegli prima che gli altri scelgano per te».
«Le leadership del Movimento sono ben chiare — dice invece Walter Rizzetto — non so se questa sia una naturale genesi, so solo che all’inizio di questo percorso così non era. Sta ad ognuno di noi accettarlo o meno».
E nonostante Alessio Villarosa ribatta secco che «i problemi non ci sono, i problemi si risolvono, e abbiamo tutti i margini per farlo», lo scontento e il malumore non hanno fatto che crescere negli ultimi giorni, dopo la pubblicazione della scaletta del Circo Massimo.
Parleranno in pochi, l’ultimo sarà Luigi Di Maio, che passerà la parola a Grillo.
Il suo tema è «il governo a 5 stelle», molti l’hanno vista come un’investitura ufficiale. «Sapevo di essere in un movimento, non so neanche cosa sia un’incoronazione, una brutta malattia che si prende stando troppo davanti ai riflettori della televisione?», chiedeva qualche giorno fa il senatore Molinari.
Di Maio è il vicepresidente della Camera, ha un seguito non indifferente anche nella base, ma — assicura un dissidente — «in Parlamento è isolato, i talebani si invidiano tra loro e non fanno squadra. La politica non si fa con i generali, si fa con i soldati».
A dimostrazione del termometro rotto, c’è poi la storia del Parlamento europeo.
Gli europarlamentari avevano assunto i 15 comunicatori mandati da Casaleggio con i fondi che Strasburgo mette loro a disposizione.
Poi però si erano rifiutati di devolvere 1000 euro al mese dal loro stipendio per il funzionamento del gruppo.
Ufficialmente, dicevano che stavano cercando il modo giusto di farlo senza violare le regole europee. In realtà , hanno continuato a chiedere a Casaleggio di potersi disfare di Claudio Messora e del suo staff.
Arrivato il via libera, si sono informati con gli uffici di Bruxelles e hanno deciso di sciogliere il gruppo condiviso, licenziando così tutti e 15 (qualcuno sarà riassorbito, assicurano dallo staff, ma non ci sono certezze).
«La comunicazione ha profuso ogni sforzo nel rispetto dei principi del Movimento — dice a Repubblica Claudio Messora — ha lavorato senza sosta, si è impegnata economicamente nella trasferta a Bruxelles. Prima che 15 persone vengano gettate in mezzo a una strada, meritiamo una motivazione. Ci dicano cosa abbiano sbagliato».
Annalisa Cuzzocrea
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
USARE L’ART.18 PER UMILIARE UN SINDACATO NON AIUTA I LAVORATORI, MA LI RAGGIRA
In una delle strade nevralgiche di Roma, via Nomentana, c’era un traffico superiore a quello abituale,
assolutamente già invivibile di suo.
Tre km scarsi, e tra semafori impazziti, vigili come l’arbitro Rocchi, corsie preferenziali intasate da chiunque, vialetti laterali impercorribili, si rimaneva imbottigliati per più di un’ora: spiegazione, i lavori stradali.
Giacchè era interrotto il percorso viario, mi sono immesso in quello mentale. Perchè a Roma i lavori di manutenzione si fanno di giorno, meglio se nelle ore di punta, con costi sociali enormi non facilmente misurabili ed effetti collaterali determinanti sulla psiche collettiva, e non invece di notte come nelle metropoli civili o decenti all’estero?
Dice: perchè di notte dovrebbero fare gli straordinari e il Comune non ha i soldi per pagarli, nè direttamente nè indirettamente.
E comunque magari c’è chi si rifiuterebbe di farlo.
Mi domando se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con l’art. 18, con la discussione sul Job’s act (o semplificato Jobs act senza genitivo sassone e in ogni caso stolidamente esterofilo: mercato del lavoro andava così male?), con il dato del Fmi che indica nell’Italia l’unico Paese in recessione tra le grandi economie, con i numeri degli italiani che espatriano alla ricerca di lavoro che doppiano quelli degli immigrati (94 mila nel 2013 in crescita esponenziale).
C’entra l’art. 18 per esempio con la possibilità di rotazione negli orari notturni senza straordinari per i lavoratori stradali?
Negli altri Paesi in cui lavorano per le strade di notte come sono messi da questo punto di vista?
Si metterebbero a rischio diritti acquisiti o sarebbe giusto ridiscuterne alla luce della “più grave crisi del dopoguerra”?
E nel concreto la discussione sul Job’s act (oddio…) tocca anche questo genere di problemi?
E che distanza c’è realmente tra via Nomentana e Palazzo Chigi?
Rubo all’effervescente sociologo De Masi alcuni dati.
Il numero complessivo degli occupati da noi è 22 milioni e 380 mila. I casi da art. 18 sono 40 mila. Ma — obietta De Masi — l’80% di essi arriva a un accordo extragiudiziale.
Dunque ne restano 8 mila. In 4.500 casi il lavoratore perde e in 3.500 vince.
Ma non sempre se vince ottiene il reintegro, calcolabile invece solo sui due terzi, quindi poco più che in 2.500 casi.
Ovviamente come già stradetto, scritto e ripetuto, il valore simbolico e rappresentativo di un modo di intendere il diritto al lavoro non si misura contrapponendo i dati esigui all’universo dei lavoratori.
Ma è sciuro che nel maneggiare la polemica politica strumentale sull’art. 18 non si possono tralasciare considerazioni di fondo: se davvero interessa far ripartire il Paese, è impensabile farlo escludendo da questa ripartenza l’unità sindacale, i datori di lavoro e l’esecutivo politico.
Basta voler indebolire uno di questi tre fattori ed è come estrarre maldestramente dal castello di bastoncini dello shanghai quello sbagliato.
Usare l’art.18 per costringere nel ridotto un sindacato che pur ne ha fatte di tutti i colori negli ultimi vent’anni non significa aiutare i lavoratori, ma soltanto raggirarli nell’imbuto tra teoria e pratica.
Così come imbastire polemiche lessicali sul termine “padroni/imprenditori” fa ridere per non piangere in tempi in cui è un sistemaPaese che va in rovina.
Che poi tutto ciò serva a un regolamento di conti interno al Pd, è la ciliegina su una torta andata a male e fanno sorridere i proclami di “lealtà ” in aula dopo le esperienze dell’ultima elezione per il Quirinale…
Se vogliamo continuare sulla falsariga di un derby che si trasferisce da JuveRoma all’art.18, prego, accomodatevi.
Ma intanto noi siamo in fila da una vita sulla Nomentana…
Oliviero Beha
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
L’ECONOMISTA DENUNCIA LA CRESCENTE DISEGUAGLIANZA TRA RICCHI E POVERI: “SIAMO TORNATI NELL’800”
La barba non ce l’ha e il soprannome di novello Marx affibbiatogli dall’Economist se lo è aggiudicato con il titolo del suo libro “Il capitale del XXI secolo” (Bompiani) e con il merito di aver riportato il dibattito economico sulle disparità tra ricchi e poveri.
Un divario che l’economista francese giudica incolmabile perchè chi è nato ricco o è diventato ricco, grazie a un matrimonio fortunato o a un superstipendio, difficilmente vedrà il proprio capitale ridursi.
Anzi diventerà sempre più ricco perchè il rendimento del capitale è superiore alla crescita dell’economia reale (Pil) e del reddito, con buona pace di chi vive di solo stipendio.
Per di più, in uno scenario come quello europeo, in cui l’economia non cresce, sarà facilissimo per chi vive di rendita mantenere la propria posizione di preminenza.
La via d’uscita suggerita da Thomas Piketty è la tassazione progressiva dei grandi patrimoni accompagnata da una politica almeno europea, se non mondiale, capace di smascherare chi vuole celare la propria ricchezza.
Come? Con una lotta senza quartieri ai paradisi fiscali e con norme severissime sull’evasione.
Per lei la crescita della ricchezza di pochi a danni di molti è inarrestabile perchè il capitale cresce sempre più in fretta dell’economia reale. “Non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio”. Come si potrebbe ridistribuire la ricchezza?
“Il problema è che le nostre economie occidentali non si muovono verso una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la ridistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Balzac in cui non importa quanto tu possa lavorare duro: la ricchezza non si accumula, si eredita. Il paradosso del matrimonio rappresenta una visione cinica della vita, ma per quanto uno studente possa investire sul suo futuro non potrà mai raggiungere la ricchezza di chi ha ereditato un patrimonio. E così se la sua ambizione è diventare ricco, farà meglio a sposare una ragazza senza qualità , nè bella nè intelligente, ma molto ricca. L’unica soluzione è quella di ripristinare la meritocrazia, altrimenti nei Paesi a crescita demografica vicina allo zero o negativa le eredità avranno un peso sempre maggiore”.
Una forma di ridistribuzione potrebbe essere il salario minimo: è davvero utile o è solo una battaglia d’immagine che rischia di livellare gli stipendi verso il basso?
“Il salario minimo serve davvero. È un ottimo strumento per avviare la ridistribuzione del reddito, ma da solo non basta. Resto convinto che servano soprattutto investimenti nella formazione dei lavoratori, altrimenti il provvedimento resterebbe lettera morta e si avrebbe un livellamento verso il basso. Di certo bisogna trovare nuove formule di negoziazione contrattuale. E anche il ruolo dei sindacati è destinato a cambiare.”
I rappresentanti dei lavoratori sono ancora importanti? In Italia sono spesso all’angolo.
“Io credo siano molto importanti, basterebbe guardare al ruolo che hanno in Germania con la cogestione e la presenza all’interno dei consigli di amministrazione delle aziende. Servono leggi che aumentino le responsabilità dei rappresentati dei lavoratori, in modo da renderli anche più consapevoli. In Francia è stata approvata una legge in questo senso, ma gli imprenditori si sono ribellati e così ai rappresentati dei lavoratori nei consigli di amministrazione spetta solo un posto ogni venti consiglieri: una legge così non serve a molto”
Dal salario minimo, al tetto di 240mila euro agli stipendi per i manager pubblici. Può servire?
“Certo, ma non solo nel settore pubblico. Un provvedimento del genere, però, ancora una volta, andrebbe coordinato a livello europeo. Oltre certo soglie alcuni stipendi non hanno proprio senso. E poi non si può valutare un manager solo sulla base dei risultati in Borsa e sull’utile. Andrebbe valutato anche per il numero di posti di lavoro che crea per esempio”.
Per Adriano Olivetti “nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo”. Lei ha mai pensato quale dovrebbe essere il giusto rapporto?
“No, ma penso che l’intervento migliore sarebbe sul livello di tassazione. Negli Stati Uniti, tra il 1930 e il 1980, il tasso marginale d’imposta sui redditi più elevati è stato in media all’82% con punte superiori al 90% e di certo non ha ucciso il capitalismo americano, anzi la crescita economica di quegli anni è stata molto più forte che dal 1980 a oggi. Quando è arrivato Ronald Reagan e il tasso marginale è passato dal 1980 al 1988 dal 70% al 27%”.
Il governo Renzi si gioca molto sulla riforma del lavoro: salario minimo, contratti a tempo indeterminato, ma anche revisione dell’articolo 18 e quindi licenziamenti più facili. Come giudica la proposta?
“Non conosco abbastanza bene le leggi italiane sul lavoro, ma è evidente che troppa rigidità non funziona, così come non funziona troppa flessibilità . Serve sempre il giusto equilibrio, ma non possiamo pensare che l’alto livello di disoccupazione in Europa – e in Italia – sia colpa delle regole: il problema è nelle politiche economiche. Senza investimenti non si crea fiducia e non si cresce. Di certo la stabilizzazione dei lavoratori aiuterebbe la ripresa dei consumi e gli investimenti delle imprese sulla formazione”.
Nella Legge di Stabilità italiana ci saranno due miliardi per la riduzione delle tasse sul lavoro e un miliardo per la scuola. Sarà inserita pure una quota aggiuntiva di 1,5 miliardi per estendere gli ammortizzatori sociali. E’ la strada giusta?
“Di certo è meglio dell’austerity. E’ un segnale importante, perchè si torna a spendere e la crescita si fa con gli investimenti, ma purtroppo la soluzione non può arrivare solo dall’Italia perchè questo non è un tema solo italiano. La crescita della Germania sta rallentando e l’Europa è ferma, c’è stata troppa austerity. Serve un cambio di regole a livello europeo: tutto è incentrato sui parametri di Maastricht che sono stati decisi a priori senza un voto del Parlamento. All’Eurozona serve fiducia e senza democrazia non ci può essere fiducia”.
Sta dicendo che i parametri di Maastricht su debito e deficit sono sbagliati?
“Sto dicendo che sono stati fissati in modo sbagliato, senza un intervento del Parlamento europeo. E poi sono convinto che l’Eurozona vada ripensata. Come possiamo avere una moneta unica e poi 18 deficit diversi, 18 debiti pubblici diversi? Come è possibile creare fiducia quando ci sono Paesi che pagano meno dell’1% di interessi sul loro debito pubblico e altri che ne pagano il 4 o 5%? A questi livelli di debito l’uno percento in più o in meno equivale a un punto in più o meno di Pil: stiamo parlando di più dell’intero budget destinato alle scuole e alle università francesi. Gli Stati devono capire che se vogliono creare fiducia non possono più fissare paletti in anticipo senza che ci un voto del Parlamento europeo”
Nel suo libro, lei chiede più trasparenza sui redditi e sulla ricchezza privata, in modo da mettere i governi in grado di contrastare la disuguaglianza tra ricchi e poveri. Come si potrebbe ottenerla in un’Europa i cui principali Stati hanno tutti un piccolo paradiso fiscale a disposizione?
“Ancora una volta la risposta è la stessa: serve un’azione coordinata di tutti i Paesi per ridurre questa patina di opacità . Eppure qualcosa sta cambiando. In Svizzera è caduto il segreto bancario e la Ue sta attuando una stretta sull’elusione fiscale. Mi spiace solo che per arrivare a questo punto si siano dovute aspettare le sanzioni degli Stati Uniti nei confronti delle banche svizzere, altrimenti, probabilmente non sarebbe successo nulla. Bisognerebbe istituire della sanzioni commerciali sia per i Paesi che per i soggetti che sfruttano queste falle nel sistema”.
Davvero solo una guerra potrebbe allentare la disuguaglianza tra ricchi e poveri?
“No, una guerra no, ma delle pesanti sanzioni commerciali sì”.
Per molti il suo libro è un manifesto politico. Ha ambizioni di questo tipo?
“No, assolutamente. La mia ambizione è studiare e scrivere. Ho il massimo rispetto per chi fa politica, ma non è il mio mestiere. Voglio cercare di far circolare le idee: credo che sia il miglior modo in cui posso aiutare la democrazia”.
Lei però è diventato il simbolo del movimento 99% e di Occupy…
“Non so se sono un simbolo, mi fa piacere però pensare di aver contribuito a creare coscienza e conoscenza. Il mio intento era quello di scrivere un libro accessibile a tutti, un libro democratico che raccontasse la verità “.
Giuliano Balestreri e Raffaele Ricciardi
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
IN UN SISTEMA A VOCAZIONE MAGGIORITARIA, UNA DESTRA CONSERVATRICE NEI VALORI E LIBERALE IN ECONOMIA DEVA SAPER ESSERE L’ANIMA CRITICA DI UN CENTRODESTRA DA RIFONDARE
Il mese scorso, esattamente il 25 settembre, le varie anime dell’area liberale si sono ritrovate sotto la
bandiera della libertà per chiedere la privatizzazione della RAI, l’abolizione del relativo canone e la fuoriuscita dei Partiti dalla TV di Stato. Un momento significativo di “unione” programmatica e di militanza. Giusto un passo. Uno dei tanti possibili…
Prendere le mosse proprio da quel momento per fare una riflessione più ampia è, non soltanto doveroso, ma addirittura necessario, almeno per quanto mi riguarda.
Nella cultura nel nostro Paese è facile scivolare nelle spinte ai cammini solitari o alle guerre contro i mulini a vento.
E’ facile rivendicare autonomia e indipendenza.
E’ facile immaginare di poter essere da soli il primo motore immobile di un cammino nuovo ed avvincente.
Sfide affascinanti, almeno dal punto di vista teorico, perchè il “dazio” si paga poi alla prammatica, a quella prammatica che resta, sempre e comunque, il “volano autentico” di qualsivoglia azione o strategia.
Il nostro Paese stà vivendo una delle fasi più drammatiche della sua storia. L’attuale classe politica si stà dimostrando sempre più incapace ed “alienata”; del tutto distante dalla gente, dai suoi bisogni e sempre più dichiaratamente non all’altezza del gravoso compito di fronteggiare una crisi sempre più profonda e sempre più pregnante.
Le stesse misure ipotizzate e/o adottate dal Governo, anche al netto di tutte le possibili speculazioni teoriche di specie, confermano la triste realtà .
Renzi “ne dice di tutti i colori”, un giorno si e quell’altro pure. Ogni ogni tanto è vero che “dice” anche cose che sembrerebbero di “destra” ma resta pur sempre un uomo di sinistra, con tutti i difetti che la cosa comporta.
Meritevole di attenzione, ad esempio, la volontà di abrogare il famigerato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Un pò meno — anzi decisamente “fuori fuoco” – l’idea di conservarlo per i licenziamenti disciplinari.
Anzi, proprio rispetto ai motivi disciplinari l’articolo 18 dovrebbe cedere il passo alla libera valutazione meritocratica del rapporto di lavoro, perchè il lavoro si dovrebbe sempre e solo acquisire e conservare per merito e non per altre ragioni.
Un rapporto di lavoro, insomma, sostanzia una chiara dimensione “fiduciaria” e se la fiducia viene meno nessun ordine di reintegro potrà mai restituirla alla storia della vicenda che ne è alla base.
Decisamente inaccettabile, invece, l’ipotesi del T.F.R. in busta paga dal 1° gennaio prossimo.
Una misura che produrrà solo effetti negletti essendo di palmare evidenza che, in base alla stessa, lo Stato incamererà più soldi, i lavoratori perderanno potere d’acquisto, soprattutto in prospettiva, mentre tante piccole imprese, già alle prese con sistematiche carenze di liquidità , rischieranno addirittura di chiudere.
Bastano queste pur brevi riflessioni per far emergere con chiarezza un dato necessario: quello di riaprire una fase di grande riflessioni e rimeditazione all’interno del centro-destra italiano; un’area dalla quale la stessa “area liberale” non potrà mai seriamente immaginare di poter prescindere per cedere alle lusinghe di un ipotetico e fuorviante quarto polo da contrapporre alla destra, alla sinistra ed ai grillini.
La tentazione di un polo autonomo è già stata consumata in passato ed è stata fallimentare. “Scelta Civica”, prima, e “Scelta Europea”, poi, hanno chiaramente dimostrato che non basta la fusione di tante piccole realtà per dare vita ad un progetto capace di infiammare gli animi e di raggiungere una percentuale degnamente rappresentativa della realtà di riferimento.
La verità è che l’area liberale ha un senso solo se si inserisce all’interno di uno schieramento chiaro nel quale declinare tutte quelle possibili battaglie sostanziali capaci di riportare l’attenzione della politica sulle giuste motivazioni di merito. Propugnare altre ipotesi operative è, non soltanto sterile, ma addirittura causa dell’ennesima, potenziale sconfitta.
Il fine, almeno per quanto mi riguarda, resta quello di una destra liberale, di una destra che sappia proporre contenuti e valori chiari e che cavalchi con rinnovata passione e convinzione il grande sogno della rivoluzione liberale quale viatico indefettibile per una società in continuo divenire.
Una destra “conservatrice” nei valori e “liberale” in economia.
Una destra capace di attingere anche alle esperienze culturali estere, ma pur sempre “lucida” e prammatica nell’analisi e nella praticabilità delle opzioni in ragione della nostra storia di popolo e Nazione.
Una destra capace di essere l’anima critica ed incendiaria di un centro-destra da rifondare, soprattutto nello spirito, nelle idee e nella stessa capacità di saper essere presente nei territori, empirici e “telematici”, perchè il sistema è, e resta, a vocazione maggioritaria: immaginare poli “terzi” e “quarti” è, non soltanto fuorviante, ma addirittura controproducente.
E’ vero che è “bello poter partecipare” ma oggi non basta più.
Per non “morire Renziani” occorre vincere.
Salvatore Castello
Right blu – la Destra liberale
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
DA ROMA A TRIESTE, DA TORINO A LECCE DOMANI CORTEI E MANIFESTAZIONI PER ROTTAMARE IL VECCHIO CHE AVANZA SOTTO MENTITE SPOGLIE
Espropriati: di diritti e di futuro non ci stanno: rivendicano centralità e coinvolgimento.
Per partecipare, in modo attivo, alle politiche che tracciano la strada sulla quale dovranno costruirsi il futuro.
Dieci ottobre, gli studenti italiani scendono in piazza: oltre sessanta cortei in altrettante città italiane.
Quello principale partirà da piazza della Repubblica, Roma, alle nove e trenta del mattino. Decine di sigle, unite da una medesima critica: quella che tiene insieme Jobs Act e riforma della Scuola. Due binari su cui viaggia, spedito, il treno della “precarietà permanente”.
E quella del 10 ottobre è una giornata di protesta tutt’altro che estemporanea. Anzi: preparata con cura sui territori, nelle scuole e negli atenei. Ricercando, soprattutto, il dialogo con le altre parti sociali che in questo autunno stanno dando vita, giorno dopo giorno, alle protesta contro il governo di Matteo Renzi: dagli operai della Fiom e della Cgil fino ai movimenti per il diritto all’abitare, passando per le tante anime della protesta sociale
Una preparazione scandita da azioni in molte città : come quella, di stamattina, all’esterno di Palazzo Chigi. O quella che li ha visti protagonisti al ministero dell’Economia.
“Ogni giorno sono stati fatti volantinaggi, flash mob, azioni di sensibilizzazione, incontri, assemblee pubbliche, tutto per creare un reale coinvolgimento degli studenti”, dice Alberto Irone della Rete degli Studenti Medi.
Un coinvolgimento che ha come obiettivo la proiezione delle istanze degli studenti in un orizzonte che vada oltre lo studio.
Da Link, uno dei sindacati studenteschi, dicono: “Usciti dall’università , venendo meno i luoghi collettivi in cui ritrovarsi e mettere insieme istanze e rivendicazioni, ci si è trovati troppo spesso soli a dover fare i conti con un mondo privo di qualsiasi tutela”.
Un mondo in cui “non esistono retribuzioni, nè strumenti di sostegno al reddito, nè diritti, nè strumenti minimi di democrazia; un mondo in cui il pubblico, inteso come garante dell’accessibilità e delle tutele, ha lasciato spazio enorme al privato”.
Sintetizza bene la piattaforma programmatica della giornata Gabriele Scuccimarra, dell’Unione degli Universitari.
L’obiettivo polemico è la nuova disciplina del lavoro: “Il governo Renzi ha promesso una riforma che
garantisse diritti a chi oggi non ne ha, ma in realtà il contenuto del Jobs Act, dai voucher alla mancanza di ammortizzatori universali, aumenterà la precarietà senza garantire nessuna tutela a chi entrerà nel mercato del lavoro. Una riforma portata avanti a colpi di fiducia e deleghe, senza ascoltare i giovani e rifiutando il confronto”.
Toni simili da Link, uno dei sindacati studenteschi: “Mentre Renzi promette invano di far ripartire il lavoro, il governo riduce nuovamente i fondi per il diritto allo studio e la quota di finanziamento pubblico degli atenei”.
Ma se Roma e il governo Renzi rappresentano il luogo e il simbolo della protesta, c’è da sottolineare come la giornata del 10 ottobre sia stata pensata come una sorta di mobilitazione totale.
Perchè, in relazione alle politiche della conoscenza, ogni territorio ha la propria “questione” specifica.
Ed ecco, allora, spiegate le cinque manifestazioni in Calabria, le quattro in Emilia Romagna, le sei in Puglia e le otto in Lombardia.
In un elenco che subisce aggiornamenti di ora in ora.
Edilizia scolastica, cittadinanza studentesca, borse di studio, mense universitarie: un catalogo degli orrori, la topografia del disagio di quei giovani italiani che non si rassegnano all’inazione, all’essere Neet, ma che cercano ancora la strada del sapere come accesso al mondo del lavoro.
E ad animare la giornata anche quei collettivi universitari che non si riconoscono in sigle specifiche. Le loro rivendicazioni: “Tutto gratis”: perchè la formazione deve essere un sistema eccellente, pubblico e gratuito. “Tutti liberi”: perchè gli studenti e le studentesse non vogliono che le loro scuole divengano come le “fabbriche di Marchionne”. “Tutti uguali”: perchè ogni scuola deve essere eccellente, indipendentemente dal fatto che sia in centro a Milano o a Ballarò a Palermo. Collettivi che lanciano una contro-consultazione rispetto a quella proposta dal governo. Per raccogliere le “vere istanze” di chi non vuole rassegnarsi ad essere un “precario in formazione”.
E non ci si ferma al 10 ottobre. Gli studenti annunciano la loro partecipazione alla giornata del 25 ottobre, a Roma, in concomitanza con la manifestazione nazionale della Cgil. Poi il 17 novembre per la giornata internazionale dello studente.
Ecco la lista dei principali cortei previsti:
Abruzzo
PESCARA — Piazza Salotto ore 9
Calabria
REGGIO CALABRIA — Piazza Italia ore 9.30
COSENZA — Piazza Loreto ore 9.00
LAMEZIA TERME — Piazza della Repubblica ore 9.00
CORIGLIANO CALABRO — Liceo Scientifico F.Bruno ore 8.30
GIRIFALCO — Piazza Italia ore 9
Campania
NAPOLI — Piazza Garibaldi ore 9
AVELLINO Piazza d’armi ore 9
SALERNO — Sit in Piazza Ferrovia ore 9.30 e assemblee davanti alle scuol
NOCERA (verso Salerno) — Stazione ore 9.0
CAVA DEI TIRRENI — Piazza Lentini ore 9.00
CASERTA — Stazione ore 9.30
Emilia Romagna
FERRARA — Piazza Dante ore 1
PIACENZA — Liceo Gioia ore 9
BOLOGNA — Piazza San Francesco ore 9.0
RIMINI — Parco d’Augusto ore 8.30
Friuli Venezia Giulia
TRIESTE — Piazza Goldoni ore 8.30
UDINE — Piazzale Cavedalis ore 8.00
Lazi
ROMA — Piazza Repubblica ore 9.3
LATINA — Piazza del Popolo ore 9.0
CIVITAVECCHIA (Verso Roma) -Stazione ore 7.58
TIVOLI — Mutua Tivoli ore 9.00
FORMIA — Piazza Mattei ore 9.0
Liguria
GENOVA — Piazza Caricamento ore 9.00
Lombardi
MILANO — Piazza Cairoli ore 9.3
SESTO SAN GIOVANNI (MI) (verso MILANO) — Piazza Rondò ore 8.30
VARESE (verso MILANO) — Stazione FS di Varese ore 7.45
MONZA — Arengario di Monza ore 8.30
VIMERCATE (MB) (Verso Monza) — Omnicomprensivo ore 7.45
LECCO — Stazione FS
MANTOVA (Network Studentesco) — Viale Risorgimento, stazione APAM ore 8.30
BERGAMO — Piazza Marconi, Stazione FS ore 9.00
COMO — Piazza Cavour ore 9.00
BRESCIA — Piazza Garibaldi ore 9.00
CREMONA — via Palestro ore 9.00
March
JESI — Porta Valle ore 8.3
Molise
ISERNIA- 9:30 da Mr Mago
CAMPOBASSO — 10:00 da Piazza San Francesc
Piemonte
TORINO — Piazza Arbarello ore 9.00
ARONA — Piazza Stazione ore 9.00
ALESSANDRIA — ore 8,30 piazza del Cavallo (c.so Crimea)
Puglia
FOGGIA- Piazza Italia ore 9.00
BARI- P.zza Umberto I ore 9,30
BRINDISI — Tribunale ore 9,00
TARANTO — Arsenale (via di Palma) ore 9.00 –
LECCE- Largo Stazione ore 9.00
BARLETTA — Via Dante Alighieri ore 8.00
Sardegna
CAGLIARI — Piazza Garibaldi ore 9.30
CARBONIA — Piazza Roma ore 9.30
NUORO (verso CAGLIARI) — Viale Sardegna (Stazione ARST) ore
Sicilia
CATANIA — Piazza Roma ore 9.00
SIRACUSA — Molo S. Antonio pre 9.00
VITTORIA — Stazione ore 9.00
MESSINA — Piazza Antonello ore 9
Toscana
FIRENZE — Piazza San Marco ore 9
BORGO SAN LORENZO (verso Firenze) — Stazione ore 8.32
PISA — Piazza Guerrazzi ore 8.30
SIENA — Piazza della Posta ore 9.20
Veneto
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PADOVA — Piazza delle Erbe ore 9
VENEZIA — Piazzale Roma ore 8.30
TREVISO — Piazzale Luca d’Aosta ore 8.30
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
“LA FUNZIONE DELL’ART. 18 E’ LA DETERRENZA, NON SI PUO’ CONCEDERE AL DATORE DI LAVORO LA FACOLTA” DI LICENZIARE USANDO UN MINIMO PRETESTO”
“Resta l’articolo 18 per il licenziamento discriminatorio? Di cause per il discriminatorio non ne ricordo
nessuna. Questa tipologia non ha mai tutelato nessuno”.
Il magistrato Roberto Riverso, giudice del lavoro al Tribunale di Ravenna, saggista e studioso qualificato del diritto del lavoro, non ha dubbi su quello che sta per accadere con la riforma dell’articolo 18.
Perchè mantenere la giusta causa solo per i licenziamenti discriminatori, come intende fare il governo, non è sufficiente a tutelare il diritto?
Perchè la vera funzione dell’articolo 18 è la deterrenza. L’azienda, cioè, non può, per giustificare un licenziamento, inventare un motivo presunto perchè sa che ci sarà un giudice che lo considererà nullo. Io non ricordo nessun caso di qualcuno che è riuscito a provare una discriminazione nei propri confronti.
Perchè per provarla servono due elementi: un motivo unico e determinato e l’onere della prova.
Per i lavoratori è difficilissimo motivarli entrambi. In Italia non è come nel mondo anglosassone. Negli Stati Uniti la tutela ha una estensione più ampia. Un datore di lavoro che licenzia un “nero” deve dimostrare lui di non aver agito per discriminazione. In Italia la legge non funziona così.
Quanto è ampia, invece, l’efficacia della tutela dai licenziamenti disciplinari?
Il problema è se si concede a un datore di lavoro di poter licenziare con un minimo pretesto. In questo caso viene a mancare la deterrenza e così il lavoro non è democratico.
Cosa intende per minimo pretesto?
Le faccio un esempio che mi è capitato. Un lavoratore iscritto alla Fiom, che si era presentato alle elezioni Rsu, ha preso delle vecchie scarpe antinfortunistiche bagnate e le ha consegnate a una lavoratrice che ne era sprovvista. È stato licenziato per furto e, ovviamente, reintegrato. Il fatto era evidentemente pretestuoso. Ma se si elimina quel tipo di tutela si apre la strada all’abuso.
La precisazione del governo che si qualificheranno le fattispecie del licenziamento disciplinare costituisce o meno una garanzia ?
Si tratta di un palliativo. Hanno fatto la stessa cosa con la riforma Fornero. In realtà hanno ‘spacchettato’ il disciplinare.
Cosa significa?
Con la riforma, attualmente in vigore, si sono stabilite tre tipologie: nel caso in cui il fatto non sussiste si da il reintegro. Stessa cosa avviene quando il fatto è compreso tra i casi regolati dai contratti collettivi nazionali. In tutte le altre ipotesi, invece, non c’è più il reintegro e il giudice può decidere per l’indennizzo. Probabilmente lo spacchetteranno ancora.
Qual è l’obiettivo?
Quello che si vuole ottenere è legittimare un ‘fatto lieve’. Licenziare, ad esempio, perchè si arriva in ritardo o, caso limite, perchè, magari, un lavoratore prende una scatoletta di tonno in un supermercato. Ma si può licenziare per una scatoletta di tonno? Se si può licenziare per un fatto lieve l’abuso è sempre dietro l’angolo.
Perchè difendere l’articolo 18?
Proprio perchè quell’articolo non consente alle imprese di fare quello che vogliono. Un dipendente vive un rapporto di lavoro subordinato e quindi è soggetto all’autorità . Ma se quell’autorità può fare quello che vuole si cade nell’abuso. E si viola la Costituzione.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
CON L’INCENTIVO DEL 20% IL GOVERNO FA CASSA CON LE TASSE E I PALAZZINARI SI SBARAZZANO DELL’INVENDUTO
Problema: come si fa a togliere dal groppone dei costruttori le migliaia di nuove abitazioni che hanno tirato su negli scorsi anni (dando vita a veri e propri quartieri fantasma) e che da oltre tre anni non riescono a vendere a causa della crisi immobiliare e della stretta sul credito ovvero il credit crunch?
Svolgimento: si inserisce nel decreto legge 133/2014 (il cosiddetto Sblocca Italia) un incentivo fiscale che sembra pensato solo per gli italiani che decidono di comprare casa per poi affittarla entro 6 mesi.
Ma che nei fatti, invece, dovrebbe riuscire a risolvere proprio il dramma di aver fatto costruire troppo, per poi non riuscire a far smaltire lo stock ai costruttori. Sui quali, è bene ricordarlo, resta in capo il pagamento delle tasse fino a quando non riescono a sbarazzarsi dell’invenduto.
È con l’attuazione dell’articolo 21 dello Sblocca Italia che il governo risolverà il problema.
La normativa in questione è molto chiara: si prevede una deduzione Irpef sull’acquisto di immobili, nuovi o ristrutturati, da imprese di costruzione o ristrutturazione, da cooperative edilizie o dalle ditte che hanno effettuato gli interventi edilizi da destinare all’affitto a canone concordato per almeno otto anni.
La norma riguarda gli acquisti effettuati dal primo gennaio 2014 al 31 gennaio 2017 e garantisce un bonus dall’imponibile pari al 20% del prezzo (in modo così da abbassare poi le tasse durante la compilazione della dichiarazione dei redditi) risultante dall’atto di compravendita oppure calcolato sull’ammontare complessivo delle spese di realizzazione con un tetto massimo di 300mila euro (per una deduzione massima, quindi, di 60.000 euro).
Un importo che, tuttavia, dovrà essere spalmato in quote uguali per un periodo di 8 anni (7.500 euro).
Ma è nelle condizioni molto circoscritte che sono state imposte per rientrare nell’agevolazione che si comincia a capire come mai la normativa, più che far tornare agli italiani la voglia del mattone nonostante le porte delle banche restino ancora abbastanza chiuse, rappresenti invece uno stimolo per l’edilizia.
Per poter ottenere il bonus, infatti, l’immobile che si deve acquistare non solo deve rientrate nella categoria catastale A (con esclusione di A8, A9 e A1 — ville e case storiche o signorili), ma deve anche avere una classe energetica A o B (quindi di nuova costruzione).
Quindi, dal bonus restano escluse la maggior parte delle case messe in vendita dai privati a causa della mancanza del requisito dell’attestazione energetica, visto che in Italia solo dal 2006 è stato introdotto l’obbligo dell’efficienza sul rendimento energetico dell’edilizia.
Una classe alta che hanno, invece, proprio tutti i nuovi appartamenti dei costruttori. Così come ha spiegato la Federazione degli agenti immobliari (Fiaip), secondo cui “sarebbe stato diverso se la misura fosse stata estesa all’immenso stock di invenduto”.
Eppure al mercato tanto servirebbe uno stimolo per invertire la tendenza.
I numeri sono da profondo rosso: secondo Bankitalia, tra il primo trimestre del 2008 e il secondo del 2014 l’attività nelle costruzioni ha cumulato una perdita del 30%, pari all’1,5% del Pil.
Mentre, dopo la ripresa registrata nei primi tre mesi del 2014, Crif ha certificato che nel secondo trimestre è stato segnato un nuovo calo delle compravendite del 3,6% rispetto allo stesso periodo del 2013.
Del resto acquistare casa è operazione assai complicata se le banche non hanno ancora ripreso a concedere mutui.
Limite certificato dal Crif, secondo cui nei primi 6 mesi del 2014 le uniche operazioni che si sono registrate per i prestiti per la casa sono quelle di surroga, cioè il passaggio del mutuo da un istituto a un altro che offre tassi più convenienti.
Tanto che i nuovi contratti sono raddoppiati in un anno, passando dal 10% del totale nel primo semestre 2013 all’attuale 20 per cento.
La voglia di mattone da parte degli italiani, però, continua ad esserci. E questo la politica lo sa bene.
Tanto che, grazie all’enorme numero di famiglie che vive nelle case di proprietà , lo Stato riesce sempre a garantirsi un tesoro: negli ultimi tre anni, si è arrivati a un prelievo Imu+Tasi stimato in circa 26 miliardi di euro, con la pressione fiscale cresciuta del 200% sulla casa, così come ha denunciato la stessa Associazione nazionale costruttori edili (Ance).
Numeri che portano a un’ulteriore riflessione: prevedendo l’incentivo fiscale a favore dei contribuenti che acquistano una casa da affittare a canone più basso di quello di mercato, la politica sta riuscendo anche nel tentativo di prendere due piccioni con una fava, spingendo le famiglie a investire sul mattone e, quindi, a generare nuovo gettito proveniente dalle tasse sulle case.
Va, infatti, sottolineato, che in questo caso gli acquirenti non potrebbero usufruire delle altre detrazioni previste per l’acquisto sulla prima casa, visto che l’immobile deve essere subito messo in affitto.
I neo proprietari si ritroveranno così a pagare aliquote più alte soprattutto con l’Imu e la Tasi.
E il mattone assomiglia sempre più a un bancomat.
Patrizia De Rubertis
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Ottobre 9th, 2014 Riccardo Fucile
FASSINA: “PIU’ SINTONIA CON PAPA FRANCESCO CHE CON RENZI”
“Io sono uscito dall’aula, non ho votato la fiducia. Quando mi hanno candidato, non c’era certo nel
programma l’idea di dividere i sindacati o di dare ragione a Sacconi nella sua crociata contro l’articolo 18. Ma il dato è quello che è: Renzi ha vinto, ha costretto a capitolare i suoi oppositori. Questo gruppo che era di 14 ‘oppositori’ si è diviso, con alcuni che poi hanno votato la fiducia. La cosa più significativa forse l’ha fatta Tocci, che si è dimesso”. Sono queste le parole di Corradino Mineo, senatore della minoranza Pd, ad Agorà , su Rai Tre.
“Secondo me adesso la minoranza Pd è molto più debole – afferma Mineo -. Io il maxiemendamento l’ho letto, e non prende neanche tutte le promesse fatte nella direzione del Pd. La nostra battaglia per il momento si è conclusa con una sconfitta. “Cercavo il modo migliore – aggiunge il senatore – di dire al mio premier che di forzatura in forzatura si lasciano troppi cadaveri per terra. E non credo che il buffetto dato dalla Merkel ieri al governo italiano cambierà l’atteggiamento della Ue. Con la delega in materia di articolo 18 Renzi potrà fare quello che vuole. Così il Parlamento non conta più”.
Casson, Ricchiuti e Mineo: sono questi i senatori che non hanno votato la fiducia sul jobs act.
“Il tema sarà affrontato nell’assemblea del gruppo Pd al Senato – afferma il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini -. Non partecipare a un voto di fiducia che è politicamente molto significativo mette in discussione i vincoli di relazione con la propria comunità politica”. Sono fuori? “No, ne discuterà il gruppo e la direzione serenamente e pacatamente”, aggiunge sempre il vicesegretario.
“C’è una sintonia di analisi con un arco di forze ampio che va oltre i confini dei partiti e dei sindacati. Trovo una corrispondenza molto forte con la dottrina sociale della Chiesa, da ultimo con l’Evangelii Gaudium di Francesco che insiste sulla dignità del lavoro”.
Lo dice Stefano Fassina intervistato dal quotidiano on line ‘IntelligoNews’.
Il deputato Democratico rileva allora che “la sintonia non la trovo con le parole di Renzi che recupera il linguaggio dei conservatori”.
A proposito di possibili dimissioni dopo quelle del senatore Walter Tocci, Fassina afferma: “Non lo so… Dipenderà molto dalla disponibilità del presidente del Consiglio ad ascoltare posizioni che non isolate e personali, ma condivise da pezzi significativi del nostro mondo e degli interessi economici e sociali che rappresentiamo e vogliamo continuare a rappresentare”.
(da “Huffingtonpost”)
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