Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile TRA “SE POTESSI DECIDERE IO, SENZA PARLAMENTO” E SALUTI A NONNETTA: VI RICORDA QUALCUNO?
Questo post ha bisogno di una fondamentale premessa, perchè già me li immagino, i feroci
commenti con accuse di grillismo o paragrillismo.
Ebbene, le mie idee politiche (strano ma vero: anche i giornalisti ne hanno) non sono così distanti da quelle di Matteo Renzi.
Eppure, nonostante ciò, quello a cui ho assistito questo pomeriggio in televisione mi ha lasciato esterrefatto.
Il presidente del Consiglio, campione mondiale di caccia al consenso e volto ultrapop della politica italiana, era ospite di Barbara D’Urso a Domenica Live, per una lunga (anche se infarcita di interruzioni pubblicitarie) intervista.
Una chiacchierata persino troppo informale, con Nostra Signora delle Faccette che ha sempre usato il “tu” con disinvoltura, di fronte a un Renzi compiaciuto, divertito, a suo agio sulla comodissima poltrona di Canale5.
Di Barbara D’Urso si è detto e scritto tanto, forse troppo. Di sicuro ha un indiscutibile successo, i suoi programmi vanno bene, il pubblico televisivo di massa la apprezza: e questi sono fatti incontrovertibili con cui dobbiamo fare i conti.
Sulla scarsissima qualità dei suoi programmi è persino inutile spendere anche una sola parola in più.
La “colpa”, infatti, non è sua.
Non bisogna compiere l’errore di prendersela esclusivamente con lei.
La responsabilità vera è di chi, politici in testa, fanno a gara per sedersi su quella poltrona, tra luci innaturali e faccette di circostanza, legittimando come interlocutore credibile una persona che in qualsiasi altro posto del mondo verrebbe considerata esclusivamente per quello che è: una conduttrice popolare che fa programmi discutibili per un pubblico numeroso ma altrettanto discutibile, che ricerca sul piccolo schermo l’evasione più vuota e priva di senso che si possa immaginare.
Anche oggi, dunque, la D’Urso ha fatto il suo sporco lavoro (“qualcuno deve pur farlo”, in fondo), e lo ha fatto egregiamente, dal suo punto di vista.
Decisamente meno comprensibile, invece, l’atteggiamento del presidente del Consiglio, che sull’altare della caccia al consenso (portata avanti con successo innegabile) ha sacrificato un altro pezzetto di credibilità politica e di serietà istituzionale.
L’intervista, giornalisticamente parlando, è stata imbarazzante.
“Ma Barbara D’Urso non è mica una giornalista”, risponderà qualche zelante lettore. Appunto, rispondo io. Proprio perchè non lo è, il premier di un paese in difficoltà che ha bisogno di spiegare ai cittadini le ricette contenute nell’ultima legge di stabilità , non sceglie un suo programma come vetrina credibile e adatta all’uso.
Ma forse sono io a essere un po’ troppo tradizionale dal punto di vista giornalistico. Forse sono solo io a sconvolgermi per un abuso del “tu” che fa male a chi ha a cuore la serietà di un mestiere alla ricerca dell’identità perduta.
Forse ha ragione Renzi, che ha potuto sgranare il rosario delle sue ricette miracolose senza un vero contraddittorio, interrotto ogni tanto solo da frasette insulse come “Matteo, la gente ha paura”, “Matteo, i figli non si fanno perchè non ci sono i soldi”, “Matteo, Oprah ti ha dedicato un tweet, domani dovrò farlo anche io?”, e da quintalate di pubblicità .
Eppure, nonostante l’imbarazzante quadro di insieme di questo caldo pomeriggio d’autunno, alcune cose qua e là sono degne di note, anche se più dal punto di vista comunicativo.
A un certo punto, infatti, Renzi ha così risposto alla D’Urso che lo incalzava sui tempi di realizzazione di alcune riforme importanti (diritti civili e ius soli, per esempio): “Se fossi da solo a decidere lo farei anche domani, ma c’è il Parlamento…”.
Vi ricorda qualcuno? A me sì, ma lasciamo perdere. Sarà una coincidenza.
Verso la fine, poi, il vero capolavoro: il compleanno della novantaquattrenne nonna Maria, disertato proprio per essere presente in studio a Domenica Live. Nonna Maria, Mamma Rosa.
Altre inquietanti somiglianze. Altre coincidenze, senza dubbio.
Il dato che mi preoccupa di questa pseudointervista è l’evidente clima da volemose bene, da blocco politicamente e culturalmente distinto che Matteo Renzi sta riuscendo a costruire in questo paese.
E anche sui social network, nuovi salotti buoni di parte dell’intelligencia progressista di questo paese, c’era chi si ergeva a difesa della scelta di Renzi di essere lì, ospite della D’Urso.
In parte erano gli stessi che criticavano ferocemente Berlusconi per lo stesso motivo, e questo è un dato molto indicativo sul clima a senso unico che si sta creando attorno alla figura di Matteo Renzi.
Il suo governo, come quello di chiunque altro, va giudicato sui fatti e senza pregiudizi di sorta, positivi o negativi che siano.
Ma permettetemi, in questo caldo tardo pomeriggio di ottobre, di essere un po’ preoccupato.
Perchè una delle frasi più nota del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa sarà anche troppo abusata, ma continua a essere perfetta per tutte le stagioni di questo paese: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”. Tancredi si era spiegato benissimo.
Forse siamo noi che non abbiamo capito.
Domenico Naso
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile GLI IDEALI TRADITI PER LA SCALATA AL POTERE
I tre giorni della rottamazione.
L’alba del renzismo, molto prima del patto del Nazareno e dell’articolo 18 da abbattere. Quando Civati era il primo alleato del leader in costruzione, Berlusconi pareva imprendibile come Beep Beep per Wile il Coyote e la Boschi si presentava come “avvocato esperto di diritto societario”.
Quattro anni e qualcosa fa, a Firenze fu “Prossima Fermata Italia”, la prima Leopolda. La madre delle convention renziane, che deve il nome all’omonima stazione: primo scalo ferroviario a Firenze, poi adibito a struttura per congressi di ogni sorta.
Da lì l’allora 35enne sindaco lanciò il guanto di sfida: “Noi non invochiamo posti, non rivendichiamo spazi: ce li prenderemo da soli”.
Pretendeva “primarie sempre e ovunque per scegliere i parlamentari” e sognava un Paese “che rende il lavoro meno incerto e il sussidio più certo”.
Voleva le unioni civili e la banda larga. Si proclamava antiberlusconiano a tutto tondo, e guai a chi lo accostava a B.
Dal 5 al 7 novembre 2010, raccontò le sue verità a quasi 7mila persone, accorse nel nome “della rottamazione dei dirigenti di lungo corso del Pd”.
Renzi voleva “mandare a casa Bersani, D’Alema e Veltroni senza distinzioni, perchè solo così possiamo sconfiggere Berlusconi”, come aveva scandito a Repubblica in agosto.
Molti avevano letto nell’intervista una variante dello sfogo morettiano a piazza Navona del 2002 (“Con questi dirigenti non vinceremo mai”).
Invece era l’annuncio di una scalata. E il primo metro dell’ascesa fu quell’assemblea, foto dei vari pezzi della sinistra che non ne poteva più.
A Firenze si affollano giovani sindaci Pd (e non) critici con il segretario Bersani, sindacalisti di base e ambientalisti, pezzi del Popolo viola, radicali perfino.
Cercano il nuovo. Trovano un giovane sindaco, già presidente della Provincia.
Con lui sul palco Giuseppe Civati, primo organizzatore dell’evento, ai tempi consigliere regionale in Lombardia.
Poi l’europarlamentare Debora Serracchiani, che un anno prima a Roma aveva sbattuto in faccia alla dirigenza tutta errori e viltà politiche.
Ma l’allora franceschiniana partecipa solo a una giornata: ancora poco convinta, raccontano, dal Renzi che le pareva troppo moderato.
Intervengono anche due irregolari come Ivan Scalfarotto e Anna Paola Concia. Poi ci sono gli artisti: Pif, lo scrittore Alessandro Baricco.
E filosofi, economisti, giornalisti.
Spicca l’intervento di Maria Elena Boschi, 29 anni. “Sono un avvocato” si presenta dal palco. Colpisce spettatori e stampa.
Di dirigenti e parlamentari di nome nessuna traccia. Bersani, invitato per la chiusura, marca visita. Da Roma, per Renzi e Civati, arrivano solo i fischi dell’assemblea dei circoli.
Poco male, forse meglio per la coppia rottamatrice.
Le parole d’ordine sono velocità e giovinezza. Tempi contigentati per gli interventi (800 in totale).
Dal palco un dj spara la playlist dei rottamatori: dai Muse a Bowie per arrivare ai toscani Baustelle. Lo schermo si riempie di video, brevi e colorati. Si va di fretta, perchè Renzi ha fretta. Di prendersi tutto. Anche se lui nega: “Non si può dire, anche perchè la parola leader porta una sfiga bestiale. E poi io voglio fare il sindaco”.
Ma la Leopolda è soprattutto sua.
È lui a seminare parole veloci e ironiche, spesso contro l’avversario di Arcore: “Dicono che sono un berluschino perchè comunico bene, è peggio di essere berlusconiani” assicura.
Aggiunge: “La sinistra deve liberarsi della subalternità a Berlusconi”.
Il concetto lo riassume una clip: un frammento del cartone animato di Wile, il simpatico coyote che insegue l’uccello Beep Beep, senza prenderlo mai.
Ma il momento culminante è la lettura della Carta di Firenze, sorta di manifesto politico.
Tutto al plurale. “Noi che abbiamo imparato a conoscere la politica con Tangentopoli e il debito pubblico e che oggi troviamo la classe dirigente del Paese occupata a discutere di bunga bunga e società offshore” inizia.
Renzi declama: “Vogliamo un Paese che permetta le unioni civili; che preferisca la banda larga al ponte di Messina; in cui si possa scaricare tutto”.
Obiettivi lontani, per il premier attuale. Lo stesso che puntava i piedi: “Vogliamo un Paese che rende il lavoro meno incerto e il sussidio più certo”.
E la battaglia attuale contro l’articolo 18?
Quattro anni dopo, Civati: “Io alla Leopolda pensavo a un progetto di sinistra, moderno; lui pensava a Renzi. Si è spostato a destra, prendendo da quell’evento l’aspetto più comunicativo”.
Ma si poteva già prevedere? “Vedevo la sua voglia di emergere, ma pensavo di tenere assieme a tutto. Quello era un appuntamento per tutto il centrosinistra: non un evento contro, ma propositivo”.
Un mese dopo la prima Leopolda, il sindaco Renzi bussava alla porta di Arcore.
Era l’inizio di un’altra storia. Di palazzo.
Luca De Carolis
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile CAPITALE DELLA CULTURA E TRIVELLAZIONE SELVAGGIA: E SE FOSSE UNO SCAMBIO ?
Pasolini e le trivelle, Carlo Levi e le discariche, Mel Gibson e l’acqua avvelenata. 
La Lucania di oggi, così perduta agli occhi, piange e ride insieme.
I Sassi hanno appena ricevuto la fiducia del mondo: Matera sarà la capitale europea della Cultura nel 2019. Titolo strameritato.
Ma i Sassi, questo incavo di pietre, anfiteatro di una umanità dolente, poverissima, dove uomini e capre si scambiavano umori e necessità , questo scheletro meraviglioso a cielo aperto rimasto quasi intatto per merito di chi lì vive e ha vissuto, tutelando anzitutto la dignità della memoria, sarà tombato, sigillato nell’area vasta degli scavi petroliferi, degli oli combustibili, dei fumi d’arrosto da kerosene
Matteo Renzi accompagna i Sassi nel petrolio, e punta, come sa fare bene, a conquistare tutti.
Gli ambientalisti e gli industriali dell’oro nero, poeti e commercianti, pensatori e asfaltatori.
Ad agosto si domanda: “Con tutto il petrolio che abbiamo in Basilicata e Sicilia, dobbiamo acquistarlo altrove? ”.
E via col decreto Sblocca Italia che permetterà ai trivellatori di trivellare immediatamente, superando ostacoli, controlli, impatti ambientali e proteste. Tetragono, il premier dice: “Perderemo qualche voto, ce ne faremo una ragione”. Forse nemmeno più qualche voto, avendo oggi Matera conquistato il primato europeo. Panem et circensens dunque?
Così appare. Senza voler far torto alla qualità della candidatura, sembra che le opere pie siano mischiate alle cattive intenzioni di molti lupi mannari.
Lo scambio, è accusa senza prove però, sarebbe: tu mi fai bucare e io ti premio.
Certo è che la classe dirigente che governa la Regione non è stata mai — dai tempi di Emilio Colombo, un dominus democristiano che per un trentennio interpretò le istanze di quella terra remota — così vicina al cuore del potere.
La famiglia Pittella ha messo radici a Strasburgo, dove con Gianni guida il gruppo parlamentare europeo, e a Potenza domina la regione con il fratello minore Marcello. Due sere fa Pittella jr a Radio24 si è esibito in una enfatica dichiarazione di fedeltà e un entusiasmo senza pari nel commentare i tagli del Governo che lo avrebbero penalizzato, entusiasmo irrintracciabile tra i suoi colleghi governatori.
Nell’esuberanza del momento, forse perchè coinvolto nei festeggiamenti per la vittoria di Matera, è parso che Pittella non aspettasse altro che tagliare e che i soldi a sua disposizione sono così tanti da non sapere come impiegarli.
La Basilicata, ma forse Pittella jr non lo ha ancora chiaro, è terra di continua emigrazione.
Dire a chi è costretto a fare le valigie che, senza i tagli di Renzi, in Regione continuerebbero a fregarsene del suo destino, sprecando ancora qualcosina è un atto politicamente suicida, un manifesto di totale imprevidenza.
Ma forse quelle parole così avventate erano frutto dell’entusiasmo (o figlie del debito da saldare).
Ma la Basilicata a Roma gode di altri sponsor eccellenti: due ex governatori oggi al governo (De Filippo alla Salute, Bubbico all’Interno) e poi, distanziato negli affetti del leader, il capogruppo alla Camera del Pd Roberto Speranza.
La Lucania è anche la terra di Banfield, la culla dove lo studioso americano ha tenuto a battesimo la sua teoria del familismo amorale.
Ed è così piccina che le famiglie che contano ancora oggi si tramandano poteri e doveri, onori e nomine. In una filiera conosciuta e riverita.
E oggi quella terra diviene teatro del pendolo renziano.
Nella filosofia concretista del premier, sempre contratta verso il presente, ambiente e cemento sono valori turnari, cointeressi che si espangono e si restringono a seconda dei bisogni. E le parole d’ordine divengono cangianti, legate al bisogno, misteriosamente interscambiabili.
L’ambiente è il nostro futuro, il turismo la nostra economia, e quindi i Sassi il bene supremo.
Ma anche con le trivelle si fanno soldi. Sporcano? Distruggono? Chi lo dice? Se c’è il petrolio lì, lì si scava e poi si vede.
Infatti la legge prevede il primato dell’opera su ogni altra tutela.
Vicino ad Aliano, il paese di Carlo Levi, ora si discute dell’arrivo di una discarica.
Lì ci sono i calanchi, nuvole di pietra, voragini che resistono anche alla meraviglia.
In Lucania tutto si tiene: lo scrittore dà una mano all’asfaltatore, il bosco al cemento, le ginestre al petrolio.
Antonello Caporale
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile PROFESSIONISTI PENALIZZATI DAL REGIME FORFETTARIO… RIDOTTO IL TAGLIO IRAP: NON 5 MILIARDI MA SOLO 2,9
Il testo del disegno di legge di Stabilità approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri arriverà in Parlamento la prossima settimana, spiegano fonti governative.
Per ora bisogna accontentarsi della bozza, che non ha subito modifiche di rilievo, aggiungono. Aggiustamenti più importanti potrebbero invece arrivare alla Camera, dove comincerà l’iter del ddl.
Sono infatti numerose le sorprese tra le righe dei 47 articoli della bozza e tanti i nodi da sciogliere. Alcuni noti da tempo, come l’allargamento della platea dei beneficiari del bonus di 80 euro alle famiglie numerose (nel testo non c’è ma molti parlamentari lo vogliono). Altri sorti dalla lettura della bozza. E non si tratta solo dei tagli a carico di Regioni ed enti locali.
Quante assunzioni?
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in conferenza stampa aveva annunciato la decontribuzione totale per tre anni sui nuovi assunti. Una misura finalizzata a favorire l’occupazione giovanile che, come certifica l’Istat, dal 2008 ad oggi, è diminuita di oltre due milioni, da 7,2 a 5,1, nella fascia tra 25 e 34 anni.
Lo sgravio contributivo c’è, ma l’articolo 12 fissa un tetto di 6.200 euro l’anno, che corrisponde a una retribuzione lorda annua di circa 19 mila euro, 1.200 euro netti al mese.
Un livello che copre la grandissima parte delle retribuzioni d’ingresso.
Ma il limite maggiore è costituito dallo stanziamento per lo sgravio. Lo stesso articolo 12 parla di «un miliardo per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017».
Sommando le risorse che verranno dalla soppressione degli sconti sulla stabilizzazione degli apprendisti e sull’assunzione di disoccupati da più di 24 mesi, si arriva a 1,9 miliardi l’anno, dice il governo.
Con questa somma, però, le aziende potrebbero assumere poco più di 300 mila persone (1,9 miliardi diviso 6.200 euro fa 306.451) mentre, secondo i dati del ministero del Lavoro, in un anno vengono attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato (nel 2013 sono stati 1.584.516).
Anche considerando i paletti fissati dal ddl (la decontribuzione vale sulle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel solo 2015, con l’esclusione del settore agricolo, dei contratti di apprendistato e del lavoro domestico e di coloro che nei sei mesi precedenti hanno avuto già un contratto a tempo indeterminato) i fondi stanziati potrebbero andare esauriti già nella prima metà del 2015.
Se quindi davvero Renzi vuole rendere strutturalmente il contratto a tempo indeterminato meno costoso, deve stanziare molti più soldi.
Sconto Irap a metà
Oggetto di discussione è anche l’alleggerimento dell’Irap.
La deducibilità totale del costo del lavoro dalla base imponibile riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato.
Ed è controbilanciata dalla cancellazione del taglio del 10% dell’aliquota Irap decisa ad aprile.
L’Irap torna quindi al 3,9% (dal 3,5%) sulla componente lavoro a tempo determinato e sulle altre due voci della base imponibile (profitti e interessi passivi).
Significa che il taglio complessivo dell’Irap si riduce a 2,9 miliardi rispetto ai 5 annunciati da Renzi
Stangata su Tfr e fondi
È forse il capitolo più criticato della manovra.
Perfino Stefano Patriarca, (ex Cgil, ex Inps), esperto di previdenza che ha proposto il Tfr in busta paga già una decina di anni fa, boccia la decisione del governo di sottoporre a tassazione ordinaria il flusso di accantonamento del Tfr che il lavoratore, dal 2015 (e fino al 2018) potrà chiedere gli venga messo nello stipendio anzichè andare al fondo pensione o restare in azienda ai fini della liquidazione (che gode di una tassazione agevolata).
«Si rischia di compromettere tutta l’operazione – dice Patriarca –. Basti pensare che con una tassazione pari a quella del Tfr, con le somme messe in busta paga il reddito netto di un lavoratore che guadagna 15 mila euro all’anno aumenterebbe del 7,8% mentre con la tassazione ordinaria solo del 5,2%».
Ed è pioggia di critiche anche sull’aumento del prelievo sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5 al 20% e del Tfr (dall’11,5 al 17%).
Partite Iva, chi ci perde
La manovra prevede una riforma del regime di minimi per favorire le partite Iva a basso reddito.
Oggi sono ammesse al regime di tassazione forfettaria le partite Iva con fatturato fino a 30 mila euro.
Con la riforma i fatturati ammissibili varieranno per tipo di attività , da un tetto di 15 mila euro per i professionisti fino ai 40 mila euro per i commercianti.
Questi ultimi quindi sarebbero avvantaggiati mentre i professionisti, osserva lo stesso sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, si vedrebbero dimezzata la soglia di fatturato e triplicata l’aliquota di prelievo che, secondo la stessa bozza, passa per tutti dal 5 al 15% del reddito imponibile. Anche qui, dunque sono possibili correzioni in Parlamento.
Statali esasperati
La proroga a tutto il 2015 del blocco dei contratti dei dipendenti pubblici non fa più notizia. Le retribuzioni sono ferme dal 2010.
L’articolo 21 dispone anche il rinvio dell’indennità di vacanza contrattuale (non un gran danno, vista l’inflazione quasi a zero) e il blocco degli automatismi per il personale non contrattualizzato.
Il tetto alle retribuzioni è stato tolto per militari e forze di polizia ma subiscono tagli l’indennità ausiliaria i fondi per il riordino delle carriere e le una tantum.
E le spese per il funzionamento dei Cocer, gli organi di rappresentanza, sono dimezzate.
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile SENZA VERGOGNA: “MI MANDA FUORI DI TESTA IL FATTO CHE SI SIA RIPETUTA A DISTANZA DI TRE ANNI”… A NOI FA RIBREZZO CHI COME LUI ERA DA MESI PERFETTAMENTE INFORMATO DEI RITARDI E NON HA MOSSO UN DITO
Il premier Matteo Renzi “non ama le passerelle”: sarà per questo che oggi era da Barbara D’Urso a
pontificare su tutto lo scibile umano, promettendo soldi a palate per chi ancora gli crede.
A un certo punto dell’intervista, interpellato dalla conduttrice sull’alluvione che ha colpito il capoluogo ligure , Renzi ha detto che a Genova «non sono andato perchè non ci andava di andare a fare la passerella: mi è preso un senso di rispetto per questa gente”
Detto da uno che andrebbe anche ai funerali di Jack lo squartatore se sapesse che ci sono le Tv a riprenderlo con la bocca aperta , la cosa fa sganasciare dalle risate.
Renzi sa bene perchè non è venuto a Genova: perchè è stato smascherato dalla pubblicazione delle lettere che Burlando e le aziende vincitrici dell’appalto gli avevano indirizzato rispettivamente a marzo e agosto di quest’anno, in cui lo informavano dei ricorsi al Tar e gli chiedevano di intervenire per dare nizio ai lavori.
Perchè , cosa che non molti sanno, non è vero che il Tar aveva bloccato l’opera: non era stata emessa alcuna sospensiva.
Se Renzi si fosse assunto la responsabilità , come gli chiedevano la Regione Liguria e le aziende vincitrici dei lavori, questi sarebbero iniziati da mesi.
Ma qualcuno vigliaccamente non l’ha fatto.
Si dà il caso che le lettere di cui sopra, rese pubbliche dal Tg di Mentana e riportate da noi dopo due ore (anticipando di 36 ore il blog di Beppe Grillo che lo ha fatto a scoppio ritardato) siano venute quindi a conoscenza dei genovesi.
Da qui i contatti con la Pinotti e la dirigenza Pd locale e il timore-certezza di essere contestato dai cittadini incazzati.
Non a caso lui ha disertato e la Pinotti è stata dirottata a far visita a Montoggio, nell’entroterra.
Questa è la verità sulla mancata visita di Renzi a Genova, altro che le palle sull’evitare passerelle.
E abbiamo dovuto ascoltare oggi in Tv da Renzi frasi del tipo: “Tre anni fa a Genova i politici hanno fato una sfilata per dire che le cose sarebbero state messe a posto».
Infatti grazie anche a personaggi come lui che non lo sono ancora.
E ancora: «A Genova andrò quando partiranno i lavori». Facile così.
E ancora: “Dobbiamo capire perchè alcune opere pubbliche non sono state fatte”. Semplice, a causa di politici come lui.
E sulle minacce di Burlando a un giornalista, il “cambia verso” se la la cava con un “Burlando ha sbagliato, ma non credo il problema sia dimettersi: solo una frase infelice”.
Come tutte quelle che sulla alluvione ha pronunciato lui dalla D’Urso questo pomeriggio, insomma.
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile ZANON E DE PRETIS ALLA CORTE COSTITUZIONALE: IL PRIMO FU PAGATO DA BERLUSCONI ATTRAVERSO IL CONTO DELLE OLGETTINE
Aveva promesso tempi rapidi e li ha mantenuti, dando così uno schiaffo al Parlamento nelle sabbie mobili.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ieri ha nominato i due giudici della Corte costituzionale di sua competenza.
Ma nonostante il ruolo richieda un curriculum al di sopra delle parti, tra i due nominati c’è un noto berlusconiano, il professor Nicolò Zanon .
L’altro giudice è la professoressa Daria De Pretis, rettore dell’università di Trento, moglie di un ex parlamentare Ds.
Prenderanno il posto dell’attuale presidente della Consulta Giuseppe Tesauro e del giudice Sabino Cassese il cui mandato scade il 9 novembre.
Con un comunicato, Napolitano, marca la differenza con il Parlamento, arrivato alla ventesima fumata nera: il presidente con le due nomine “ha inteso confermare la più alta considerazione per la Corte Costituzionale e per l’esigenza che essa possa svolgere le proprie fondamentali funzioni nella pienezza della sua composizione”.
Poi l’ennesimo auspicio “che le sue nomine possano essere rapidamente seguite dall’elezione dei due Giudici Costituzionali di nomina parlamentare”.
Parole che non sorprendono, venerdì, infatti, aveva ribadito che “avrebbe scelto rapidamente”.
Ventiquattro ore dopo i due nuovi giudici.
Il più conosciuto e politicamente connotato è Nicolò Zanon, docente di diritto costituzionale, fino a settembre membro del Csm, in quota Pdl.
Ha fatto parte del comitato dei 35 saggi per le riforme voluto da Napolitano. È sempre stato favorevole a un giro di vite sulle intercettazioni e a una legge più severa sulla responsabilità civile dei magistrati.
Negli atti dell’inchiesta della procura di Milano sul caso Ruby è finito anche un bonifico di Silvio Berlusconi a Zanon, emesso da un conto gestito dal ragionier Giuseppe Spinelli: 24.960 euro versati nel marzo 2010, 4 mesi prima della sua elezione al Csm.
È lo stesso conto dal quale sono stati dispensati bonifici per diverse “olgettine”, tra cui Nicole Minetti e Alessandra Sorcinelli.
Quei soldi, per una consulenza, ha spiegato Zanon, sono stati regolarmente fatturati. Quando Berlusconi è stato condannato definitivamente per frode fiscale, ha scritto, insieme ad altri giuristi, per gli avvocati dell’ex premier, un parere sulla incostituzionalità della legge Severino, nel tentativo di evitargli la decadenza da senatore.
Da membro del Csm, nella guerra tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo, si è schiarato con il primo, in piena sintonia con Napolitano.
Insieme al collega Nello Nappi ha pure chiesto il trasferimento di Robledo.
Nel 2012, fu il promotore dell’apertura di una pratica contro l’allora procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato in Prima commissione, quella competente sul trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale.
Scarpinato, in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio, aveva definito “imbarazzante” partecipare alle cerimonie ufficiali per la presenza “di personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione” dei valori di giustizia e di legalità per i quali Borsellino si è fatto uccidere.
Per un’intervista al Mattino, nell’agosto 2013, è sempre Zanon, insieme ad altri laici del centro destra, a chiedere l’apertura di una pratica in Prima commissione contro Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato definitivamente Berlusconi per frode fiscale.
Tre mesi prima, nel maggio 2013, quando il plenum del Csm approva quasi all’unanimità un documento in cui si chiede all’allora ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri di difendere i magistrati (c’era stato il comizio di Berlusconi a Brescia con pesanti insulti) Zanon vota contro: “Ho ritenuto che ilpressing nei confronti del ministro fosse inopportuno”.
L’altra scelta del presidente Napolitano è una giurista poco conosciuta a livello nazionale anche se con un lungo curriculum.
Daria De Pretis, seconda donna in Consulta insieme a Marta Cartabia, è rettore dell’Università di Trento.
Dal 2000 professore ordinario di diritto amministrativo sempre a Trento, titolare nella facoltà di Giurisprudenza, tra l’altro, di “Diritto processuale amministrativo” , “Diritto amministrativo dell’Unione europea e delle amministrazioni globali”.
È la moglie di Giovanni Kessler, magistrato, deputato Ds dal 2001 al 2006 e presidente del Consiglio autonomo della provincia di Trento dal 2008 al 2011. Attualmente è direttore dell’ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf).
Il suocero della neo giudice, Bruno Kessler, scomparso diversi anni fa, è stato parlamentare della Dc e sottosegretario all’Interno del governo Cossiga.
Antonella Mascali
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile GLI ANNI IN COOPERATIVA, LA FAMIGLIA E L’IMPEGNO NEL SINDACATO: “STO DALLA PARTE DEI PIU’ DEBOLI E ODIO LE INGIUSTIZIE, LA POLITICA NON MI INTERESSA, FACCIO IL SINDACALISTA”
C’è un memorabile episodio nel Mondo piccolo, quando il compagno sindaco — organizzata la festa
del partito in paese — vende il giornale del popolo per le strade.
Il parroco gli chiede l’Osservatore romano e Guareschi annota: “Peppone, oltre alla testa, voltò anche il resto del corpo verso don Camillo. Non parlò, ma nei suoi occhi c’era un intero discorso di Lenin”.
È la prima cosa che ti viene in mente quando nella sede della Fiom, tra manifesti di Cipputi e felpe rosse, Maurizio Landini comincia a raccontare di un paese dove — giovanissimo — è andato a lavorare.
“Si chiama Cavriago, non so se lo conosce. Ma è un posto famoso perchè c’è un busto di Lenin e tutti giorni gli mettono davanti un fiore fresco. Ancora oggi”.
Tout se tient. Alle pareti puoi leggere un mucchio di parole rispettabili, e ormai sul viale del tramonto: lavoro, diritti, uguaglianza.
Vecchia mercanzia abolita dalla nuova gauche rottamatrice. Ma il segretario generale della Fiom dice “salario”, “occupare le fabbriche”, dice anche “logica padronale”.
E ci tiene a spiegare che non è un riflesso pavloviano, nemmeno nostalgia. Prima delle piazze e delle bandiere rosse, tutto inizia a Castelnovo ne’ monti, sull’Appennino reggiano, nell’estate del ’61.
C’è un papà che fa lo stradino, e una famiglia numerosa — cinque fratelli, Maurizio è il quarto — che segue il lavoro paterno e scende dalla montagna in pianura.
Fino a San Polo d’Enza, dove ancora oggi il segretario generale della Fiom abita. E torna appena può, anche se di tempo libero ne ha poco.
“Stacco veramente solo quando sono a casa. Mia moglie ha un po’ di piante in giardino e quando posso la aiuto. Fare un lavoro manuale mi fa bene, mi scarica molto. Qualche volta vado a correre, ma sempre più di rado. In vacanza leggo gialli e ascolto musica. Autori italiani: Ligabue, De Gregori, Zucchero, la Mannoia”
Ma come, niente Claudio Lolli e Guccini?
Nooo! La canzone politica, per come la s’intende generalmente, mi è sempre sembrata pallosa, pesante, triste. Non mi son mai piaciuti quelli che si piangono addosso. Le cose cupe non fanno per me.
Quando ha cominciato a lavorare?
Sono andato a scuola fino a 16 anni. Dopo le medie, ho fatto due anni di geometra, poi dovevo iscrivermi al terzo anno ma sono andato a lavorare: in casa non c’erano più soldi. Studiare mi piaceva, sono sempre stato promosso. Ho iniziato come operaio nel ’77 da un artigiano che faceva cancelli e finestre. Nel ’78 sono andato a lavorare in una cooperativa metalmeccanica, a Cavriago.
Il ’77 è un anno di fuoco per l’Italia.
Ricordo solo gli echi del terrorismo, della contestazione. In quel momento ero più portato a giocare a pallone… Per me non era un periodo di impegno politico, anche se ero iscritto alla Fgci: dalle mie parti o eri in parrocchia o eri in cooperativa. E io avevo un papà che era stato partigiano comunista. In paese c’era la Cooperativa e sopra la sezione del partito. Il bar, che era il luogo dove alla sera si andava per trovarsi anche se non c’erano riunioni. Facevano davvero i cineforum, come nella canzone di Venditti. Io ero iscritto alla Federazione comunista perchè stavo “naturalmente” da quella parte lì: ma il mio approccio alla politica non nasce dall’ideologia, nasce dal lavoro.
Cioè?
Dopo l’apprendistato, sono stato assunto come saldatore in una cooperativa che faceva impianti termo-sanitari e che aveva molti cantieri: andavi a fare impianti nelle case, negli ospedali, le prime esperienze di teleriscaldamento. Lavoravo anche all’aperto, sia d’estate che d’inverno. Ma lavorare otto ore all’aperto tra novembre e febbraio non è uno scherzo. Io il freddo lo soffro moltissimo, e c’erano inverni gelati nella bassa. È stata la mia prima battaglia, provare a lavorare un’ora di meno durante i mesi più rigidi: otto ore al gelo non sono uno scherzo.
Sono anni in cui succedono molte cose, c’è il ricortentativo del compromesso storico, il terrorismo, l’assassino di Moro. I movimenti.
In quel periodo Enrico Berlinguer era per tutti un punto di riferimento indiscusso. Anche per me, però il compromesso storico non mi convinceva. A casa mia gli accordi tra i comunisti e la Dc non si sono mai fatti. La solidarietà nazionale non era roba per noi.
E quando capisce che da grande avrebbe fatto il sindacalista?
Sono stato operaio saldatore fino all’85. In mezzo ho fatto il militare a Trapani e poi un pezzo a Modena. Fanteria, ricordo che facevo delle gran guardie. Però, visto che ero saldatore, mi facevano fare dei lavori di manutenzione.
Sembrava più il tipo da obiezione di coscienza…
Se uno all’obiezione non ci credeva, fare quella scelta era una paraculata: facevi l’obiettore per non partire. Così ho optato per il militare. Tornato a casa, a un certo punto mi chiedono se sono disponibile a fare un’esperienza sindacale fuori dalla fabbrica. E dico sì. Il lavoro però a me piaceva. Fare il saldatore non è mica facile, ci vuol degli anni a imparare: bisognava prendere i patentini. È un mestiere pesante. Come dicevo la cosa che mi pesava di più era stare fuori d’inverno. Ma c’era il problema della cooperativa.
Cosa vuol dire?
Che eravamo tutti soci. Poi che eravamo tutti comunisti, avevamo tutti in tasca la stessa tessera, però otto ore col gelo nelle ossa ci stavano solo alcuni. E quelli che invece fuori non ci stavano sempre comunisti, eh — eccepivano, accampavano scuse. Una volta dissi al compagno direttore del personale che in tasca avevamo la stessa tessera, che però la tessera non mi proteggeva dal freddo. Non si poteva buttarla in politica per fregare i lavoratori! Alla fine l’abbiamo spuntata. E lì è iniziato tutto.
Invece il suo sogno da bambino era?
Mi piaceva tantissimo giocare a calcio, sognavo di farlo per mestiere. Non avevo i mezzi. Correvo tanto, ero molto generoso, ma i piedi non erano buoni. Ero uno come tanti, un mediano, come quello di Ligabue. Oggi purtroppo non ci riesco più, sono completamente fuori allenamento. Però nemmeno pensavo che avrei fatto il sindacalista: m’immaginavo che avrei fatto l’operaio saldatore.
Torniamo ai suoi primi passi nel sindacato, dopo la battaglia del freddo.
Gli anni in cui esco dalla fabbrica per entrare alla Fiom coincidono con il momento in cui Craxi decide, con il famoso decreto di San Valentino, di tagliare quattro punti alla scala mobile. Lo ricordo bene perchè è stato un passaggio di rottura nella Cgil, tra i socialisti di Del Turco e gli altri. Tutto questo porterà a una spaccatura profonda, con il Pci che — perso il referendum — perde anche la capacità di condizionare i governi, anche se al governo non ci sta. Lì inizia il declino della rappresentanza del Partito comunista.
Non a caso, sui temi del lavoro.
È la prima volta che s’interviene sui temi del lavoro senza che ci sia bisogno del Pci, anzi contro il parere del Pci. Poi sparirà la scala mobile, e dopo ancora spariranno i contratti nazionali. Io avevo appena messo il naso fuori dalla mia azienda. Seguivo le vertenze sindacali di quattro o cinque Comuni della zona, sui cui mi avevano dato la competenza: tra aziende e piccole imprese erano una sessantina. Facevo assemblee, incontri, trattative. Quando ho dovuto abbandonare la scuola, nella mia testa c’era che avrei potuto fare le serali, volevo trovare il modo di diplomarmi. Non l’ho fatto, però il sindacato è stata la mia università . Nel ’91, a 29 anni, mi hanno chiesto di fare il segretario provinciale della Fiom a Reggio Emilia, poi in Emilia Romagna, poi a Bologna. E dopo a Roma.
Dov ‘era mentre si consumava la Bolognina?
Io al partito sono stato iscritto, fino a un certo punto, sempre senza ruoli. Nella mia sezione appoggiai Occhetto e la svolta. Poi quando i Ds hanno scelto di sciogliersi per dare vita al Pd, le nostre strade si sono divise. La consideravo un’operazione a tavolino, che non aveva progetti, non era fondata su idee comuni e valori. Temevo, e avevo ragione, che attraverso la fusione fredda di Margherita e Ds si sarebbe arrivati alla scomparsa della rappresentanza politica dei lavoratori. Avevo ragione. Oggi in tasca ho due tessere…
…quella della Cgil e?
Quella dell’Anpi. Mio papà ha fatto la Resistenza. Aveva 18 anni e nel ’43 doveva partire militare per andare a Salò. Ma scelse di disertare ed entrò in clandestinità . È stata una cosa importante per noi figli, anche se lui era un uomo taciturno. Per me è stato sempre un riferimento, un esempio più per le cose che faceva che per quello che mi diceva.
Con Renzi avete avuto un buon feeling all’inizio. Che è successo?
Sono cambiate le scelte politico-economiche. Il suo modello di società — per come viene fuori dalle dichiarazioni, perchè per ora non s’è visto molto di concreto — è sideralmente distante dal mio. Le sue proposte sono una regressione pericolosa. Schematizzando, il modello di relazioni politiche a cui ambisce è molto americano, un sistema che riduce gli spazi di partecipazione dei cittadini. Capitolo Fiat: un’azienda che ha la sede legale in Olanda, fa le auto a Detroit, è quotata a New York, paga le tasse a Londra e in Italia ha lasciato briciole di produzione e cassintegrati.
Le sarà venuto un colpo quando ha visto le immagini americane del premier con Marchionne
Renzi è intelligente, veloce, ma anche pericolosamente spregiudicato. È uno che non fa nulla a caso. Ha dichiarato che non andava a Cernobbio perchè non gli interessavano i discorsi di quelli che vanno nei salotti buoni. Poi è andato nella famosa rubinetteria, ma con Squinzi, il presidente di Confindustria. E, guarda un po’, sta assumendo in toto le loro richieste: Irap, quella cosa che lui chiama Jobs act, l’articolo 18. E poi: non è andato a Cernobbio, ma da Marchionne sì. Mi sfugge completamente come la Fiat possa essere un esempio: non solo per la fuga all’estero, ma anche per gli atteggiamenti precedenti, la decisione di escludere la Fiom dalla rappresentanza sindacale interna, il modo ricattatorio con cui ha portato avanti l’accordo per lo stabilimento di Pomigliano. Bisogna distinguere sempre i rapporti tra le persone e le scelte politiche. Vorrei precisare una cosa: non è Marchionne la questione, è la politica industriale e occupazionale della Fiat. Uno dei nostri mali, in un senso o nell’altro, è l’eccesso di personalizzazione.
Dicono: i sindacati tutelano una minoranza già tutelata.
Come direbbero dalle mie parti, questo è vero fino a mezzogiorno. Abbiamo assistito a un processo legislativo che ha permesso alle imprese di riorganizzarsi, liberandosi dai vincoli: esternalizzazioni, appalti, subappalti. Determinando anche l’impossibilità per noi di utilizzare alcuni strumenti contrattuali classici. E lo dico senza voler sollevare dalle loro responsabilità i sindacati, che non hanno fatto abbastanza per capire come bisognava cambiare e reagire. Oggi un imprenditore può lavorare, e quindi trarre profitto, senza avere alcuna responsabilità sulle condizioni di lavoro di chi concorre a formare questo profitto. Quando io sono entrato nel mondo del lavoro, dal centralinista al progettista erano tutti inquadrati nello stesso contratto: oggi sotto lo stesso tetto ci sono persone che fanno lo stesso identico lavoro, ma con trattamenti diversi. Una delle riforme da fare, è ridurre drasticamente le forme contrattuali.
Questo lo dice anche Renzi.
Sì, ma in un’idea di riforma che ci esclude completamente. Deve mettere in condizione i lavoratori, se lo vogliono, di potersi organizzare collettivamente e contrattare le proprie condizioni. Io penso che sia necessario arrivare al contratto dell’industria, il contratto dei servizi, il contratto dell’artigianato. Forme che garantiscano a tutti, a tutti, diritti minimi: orari, salario, malattia, maternità . Non c’è all’orizzonte nessun provvedimento sugli appalti, perchè questo sistema fa comodo: innesca un regime di competizione tra i lavoratori, e non sul piano delle competenze, delle capacità o dei talenti. Se poi si va incontro alla logica della Fiat, saranno le aziende a decidere quali sindacati, quali diritti.
Tornato dagli Usa Renzi è andato da Fabio Fazio e ha detto: gli imprenditori devono avere la possibilità di licenziare. Che effetto le ha fatto?
Mi ha fatto incazzare. Ho pensato: ma a Renzi cosa hanno fatto di male quelli che per vivere devono lavorare? Perchè ce l’ha così tanto con loro? Prevale in questi discorsi la logica padronale. Non autoritaria, proprio padronale: cioè di chi vuole poter disporre di te e della tua vita. Il principio di fondo è che il singolo lavoratore, nel rapporto con l’imprenditore, è più debole perchè dipende da lui, e quindi ha bisogno di diritti per riequilibrare in parte una relazione che altrimenti sarebbe sbilanciata. Se neghi questo, affermando che l’imprenditore può disporre del lavoratore come gli va, svilisci le persone. Per uscire da questa crisi, la ricetta non è la liberalizzazione selvaggia sulla pelle dei cittadini. Non è accettabile: il modello sociale che propone Renzi è aggressivo, competitivo, feroce. Non terrà . Perchè le persone non devono competere tra loro per poter vivere lavorando.
Da molto tempo le domandano di diventare il leader di una formazione di sinistra. Lei si è sempre schermito, ma ultimamente le voci sono moltiplicate e gli osservatori scrivono di una sua maggiore disponibilità .
Questa campagna è un modo per sminuire quello che stiamo facendo per costruire sui temi del lavoro una proposta alternativa a quella del governo. E non è un caso che le voci si moltiplichino adesso: c’è la manifestazione del 25 ottobre, si parla di uno sciopero generale, siamo a uno scontro vero sul piano sociale, perchè se tutto quello che Renzi ha messo in fila va in porto, i rapporti sociali e sindacali cambiano radicalmente. Il governo ha scelto i contenuti della Confindustria, decidendo di attaccare frontalmente i diritti: articolo 18, cancellazione dello statuto dei lavoratori. Il tentativo di dire “la Fiom o Landini sta cercando di fare un partito” è un’operazione di bassissimo livello che vuole solo delegittimare l’opposizione che stiamo provando a fare alla politica di Renzi. Buttano la palla fuori dal campo. Ma non glielo facciamo fare.
Si ricorda l’imitazione di Bertinotti che faceva Corrado Guzzanti? L’atomizzazione della sinistra… È andata così, non è rimasto nulla.
Questa è un’altra questione, sulla quale sono certamente d’accordo. Però già nel 2010, all’indomani della manifestazione in piazza San Giovanni, scrissero che volevamo fare un partito.
Lei dice cose di sinistra.
Le ho sempre dette e pensate. Semplicemente prima non mi conosceva nessuno. Dicono che buco lo schermo perchè riesco a farmi capire, ma questo dipende dall’esperienza che ho fatto nel sindacato.
Vabbè, ma non è mica sposato con la Fiom.
Io ho un patto con il sindacato. Non posso nemmeno immaginare che un iscritto della Fiom possa pensare che l’ho utilizzato per fini personali. Ho preso un impegno, il mio mandato scade fra tre anni. Nessuno mi crede, ma è così.
Ma non potrebbe fare le stesse cose in Parlamento?
È un altro mondo. Il vuoto politico che indubbiamente c’è a sinistra non lo può riempire un leader calato da Marte e non lo si può fare nemmeno incollando insieme tante realtà , frammentate tra loro. Nella mia testa io mi vedo sindacalista. Aggiungo: quando dico i lavoratori non hanno un riferimento politico, penso a tutte le persone che per vivere devono fare un lavoro salariato. E siccome sono quelli che producono la ricchezza, hanno il diritto di avere un’adeguata rappresentanza in Parlamento. Bisogna però prima creare le condizioni per un movimento in cui sono i cittadini a decidere quello che verrà . L’idea dell’uomo carismatico che risolve tutti i problemi è una stupidaggine.
Si sente ancora comunista?
Non ho studiato Marx, quando ho preso la tessera della Fgci non capivo quasi nulla. Mi sono sempre sentito una persona che stava dalla parte dei più deboli e di quelli che lavorano. Mi danno fastidio le ingiustizie e le disuguaglianze. E adesso sono molto arrabbiato, perchè non ho mai visto così tanta disuguaglianza sociale. Penso ai cassintegrati, ai disoccupati, ai precari, a quelli che s’ammazzano perchè non sanno come tirare a campare. Il lavoro non è una merce che si compra e vende, perchè attraverso il lavoro le persone trovano non solo i mezzi per sostentarsi, ma anche realizzazione e dignità .
Il 25 ottobre sarà un altro Circo Massimo?
Allora il presidente del Consiglio si chiamava Silvio Berlusconi, oggi il premier è il segretario del Pd. Non c’è più semplicemente l’attacco all’articolo 18 e allo statuto dei lavoratori. In questi anni il mondo del lavoro si è spezzettato, il tasso di astensione elettorale è ulteriormente aumentato. Il peggioramento è generale. Oggi ricostruire un punto di vista comune è più difficile rispetto al 2002. Però sento crescere attorno alla Fiom e alla Cgil un consenso che mi fa dire che il 25 sarà l’inizio di una lotta: adesso andare in piazza non basta. Bisogna porsi il problema di quanto essere duri per fermare i piani del governo. Il messaggio che bisogna mandare è che oltre alla manifestazione, oltre allo sciopero generale che va fatto, ci saranno altre iniziative per portare avanti un progetto alternativo a quello del governo. Ci sono altri modi per reperire risorse: combattere l’evasione fiscale, la corruzione, cancellare la riforma delle pensioni. In Parlamento è finita la discussione, non è più il luogo in cui i rappresentanti dei cittadini possono far valere un’opposizione efficace al governo: la delega in bianco sul decreto lavoro è la prova lampante. Allora bisogna dimostrare in altri modi e in altri luoghi che il governo non rappresenta la maggioranza del Paese. La gente mi ferma per la strada e mi dice: tenete duro.
Silvia Truzzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile FIORI ALLE MINISTRE E VIAGGI: PAGAVA TUTTO IL PRESIDENTE RENZI
Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Stefania Prestigiacomo e Giorgia Meloni il 12 maggio 2008, dopo aver giurato da ministre del governo Berlusconi, ricevettero, tra i doni dei sostenitori, anche un mazzo di fiori da un mittente comune e all’epoca a loro totalmente sconosciuto: Matteo Renzi.
Il giovane presidente della Provincia, per complimentarsi con la quota rosa fece recapitare alle neoministre un omaggio floreale.
La ricevuta è tra le migliaia messe in ordine dalla Corte dei Conti nel fascicolo che riguarda le spese di rappresentanza della Provincia guidata dal boy scout di Rignano sull’Arno negli anni tra il 2005 e il 2009.
Il fascicolo è stato aperto solamente nel 2012 a seguito di un’indagine del Ministero dell’economia che rivelò “gravi anomalie” nella gestione renziana della Provincia, ma ormai lui era già sindaco e proiettato alla conquista del Pd, così le conseguenze sono ricadute sul successore Andrea Barducci.
Se è vero, come sostiene Renzi, che le Regioni devono farsi perdonare dai cittadini a seguito delle inchieste sulle spese pazze che hanno coinvolto tutti i governi territoriali (con eccellenze come la Lombardia che ha visto indagare il 90 per cento dei consiglieri) è altrettanto vero che, osservando a ritrovo la gestione della Provincia, Renzi è stato un precursore delle spese di rappresentanza.
Ma va detto che la procura di Firenze, a differenza di quelle del resto d’Italia, non ha aperto alcun fascicolo , lasciando così alla magistratura contabile il compito di accertare solo ciò che era di sua competenza.
L’esempio più recente riguarda Matteo Richetti che lo scorso settembre ha rinunciato alle primarie del Pd perchè indagato per peculato: da consigliere regionale, secondo la procura di Bologna, avrebbe speso 5500 euro di spese in maniera poco chiara.
Ecco. A Matteo Renzi, invece, la Corte dei Conti ha contestato diversi milioni di euro spesi tra il 2004 e il 2009, anni in cui era Presidente della Provincia.
E nel periodo in cui era impegnato nelle primarie per il sindaco di Firenze e nella sfida, poi vinta, per conquistare Palazzo Vecchio.
Il contenzioso tra Corte dei Conti e Provincia è ancora in corso.
Nel luglio 2007 la Provincia liquida ristoranti e ricevute per 17 mila euro. Undicimila a ottobre e altrettanti novembre. Sempre per “attività di rappresentanza”.
Per lo più sono cene, conti di pasticcerie, ristoranti, trattorie.
Al bar Nannini, per dire, il 17 ottobre 2007 Renzi spende 1.224 euro; 1.213 li lascia al ristorante Cibreo, due mila in totale alla trattoria da Lino, 1.855 alla Taverna Bronzino.
Qui è il cinghiale a farla da padrona. Il ristorante non è tra i più economici di Firenze, del resto. Ma a Renzi piace.
Per tutto il suo mandato alla guida della Provincia frequenta assiduamente i tavoli della taverna. Con conti che oscillano tra i 200 ai 1.800 euro.
Renzi ogni tanto cambia ristorante. Alla trattoria I due G in via Cennini il 29 aprile 2008 ordina una bottiglia di Brunello di Montalcino da 50 euro per annaffiare una fiorentina da un chilo e otto etti.
Alla Buca dell’Orafo in via dei Girolami il 13 giugno 2008 si atto-vaglia con due commensali e opta per un vino da 60 euro a bottiglia.
E ancora: al ristorante Lino, dove è di casa (anche qui), riesce a spendere per un pranzo 1.050 euro. 1.213 li lascia al ristorante Cibreo.
Durante le missioni all’estero non è da meno.
Il 22 aprile 2008 la carta di Credito della Provincia (che usa il presidente) paga alle ore 01:01 pm un pranzo al Riva Restaurant on Navy Pier di Chicago: 4 aragoste, 2 sushi, 2 pepsi, una birra e 2 porzioni di gamberi fritti.
Oltre allo scontrino, l’estratto conto della carta conferma che quel conto è stato saldato da Renzi in persona. In una delibera della Provincia di Firenze del 12 Maggio 2008 si legge: “Il sottoscritto Matteo Renzi (…) attesta sotto la propria responsabilità , che le spese delle fatture sottoelencate e che vengono inviate alla liquidazione dei competenti Uffici della Provincia, sono state da me sostenuto nel corso di attività istituzionali e di rappresentanza”.
Segue elenco di pranzi e cene.
Il fidato capo gabinetto Giovanni Palumbo, oggi con Renzi a Palazzo Chigi, firma decine e decine di delibere per rimborsi spese del presidente che aveva a disposizione anche una carta di credito con un limite mensile di 10 mila euro.
Nell’ottobre 2007 però riesce a farsela bloccare.
Durante un viaggio negli Stati Uniti, infatti, la carta viene sospesa a garanzia di un pagamento da parte di un hotel così Renzi è costretto a pagare di tasca sua 4.106 dollari, al cambio dell’epoca 2.823 euro, all’hotel Fairmont di San Jose, in California.
Appena torna in Italia si fa restituire la somma.
Una delibera del 12 novembre autorizza il versamento dei 4 mila dollari al presidente. Solo per quel viaggio le casse della provincia tra biglietti, alberghi e ristoranti, spendono 70mila euro.
Dal due all’otto novembre per la missione a Santa Clara sempre in California e sempre per “attività internazionali” la Provincia stanzia 26.775,82 euro.
Renzi, si legge nella delibera firmata dal solito Palumbo, deve presentare il Genio Fiorentino dell’anno successivo, incontrare i rappresentanti delle aziende Cisco e Apple, verificare lo stato di avanzamento delle attività avviate con il Mit, Massachusetts Institute of Technology.
Che è a Boston. Dove è tornato circa un mese fa da Presidente del Consiglio.
Ma le spese della missione compiuta da premier non sono state rese note sul sito di Palazzo Chigi.
Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 19th, 2014 Riccardo Fucile IL TESORO BLOCCATO DALLA MANOVRA E ALLA CAMERA RIAPRE IL SUK
Ieri vi abbiamo raccontato come — a dispetto di un’approvazione avvenuta in Consiglio dei ministri
mercoledì — all’ufficio legislativo del Tesoro siano ancora alle prese con la riscrittura di intere parti della legge di Stabilità .
A parte la bizzarria di un governo che approva una legge che non esiste, la cosa non è senza effetti pratici.
Il Mef in questi giorni non ha fatto in tempo a seguire come dovrebbe i lavori parlamentari: gli emendamenti che comportano spese, infatti, hanno bisogno dell’ok del Tesoro: viste alcune brutte esperienze dei mesi scorsi — vedi il pensionamento degli insegnanti di quota 96 — il presidente della Camera Laura Boldrini ha prescritto che niente sia votato senza questo passaggio formale.
Le brutte abitudini, però, sono dure a morire e nella notte di venerdì, in commissione Ambiente, il decreto Sblocca Italia (oltre alle porcherie che conteneva già di suo e su cui torneremo) è stato approvato con una serie di modifiche con coperture bizzarre o inesistenti.
“Cose da pazzi”, dicevano ieri i funzionari del Tesoro, “dovesse passare tutto sarebbero miliardi, ma tanto toglieremo tutto al momento dell’arrivo in aula”.
Pure i pareri della commissione Bilancio comunque, anch’essi ancora di là da venire, metteranno ordine nel bailamme, ma intanto a Montecitorio s’è riaperto il suk e alla lista delle opere “strategiche” da sbloccare ne sono state aggiunte parecchie altre. L’autostrada Regionale Cispadana, per dire, che è una roba dell’Emilia Romagna, da oggi è una priorità nazionale: così si potranno aggirare i pareri contrari come quello del ministero dei Beni Culturali.
La palla passa a Maurizio Lupi, nominato unico signore del cemento italiano dallo Sblocca Italia di Matteo Renzi.
Pure la strada Telesina, che corre dentro il Sannio caro al sottosegretario alle Infrastrutture Umberto Del Basso de Caro, passa dall’essere finanziabile in project financing (cioè dai privati) sotto l’egida dell’Anas.
Spiega Alberto Zolezzi, deputato M5S che ha partecipato alla seduta notturna: “C’era di tutto, soprattutto opere infrastrutturali collegate, in maniera fantasiosa, a quelle ‘sbloccate’ dal governo: dalle ferrovie in Sicilia a quelle pugliesi, dalle autostrade al Tav tra Brescia e Padova”.
La Basilicata ha fatto un capolavoro: è riuscita a far approvare un emendamento che lascia alla regione un pezzo più grande del previsto dei tributi Ires dovuti all’aumento dei permessi di trivellazione.
Magari è pure giusto, ma quelle sono risorse dell’erario che andrebbero comunque compensate.
Bizzarro, poi, è il caso dell’articolo 4, che doveva essere ritirato e invece è ancora lì: vi si stanzia un miliardo di euro per quei comuni che hanno fatto pervenire a palazzo Chigi i loro progetti entro il 14 giugno scorso.
Quali sono questi comuni? Gli altri erano stati informati di questa possibilità ? Non si sa, la lista è segreta o almeno alla Camera il governo non ha voluto presentarla.
Non è finita. Davide Crippa, altro deputato 5 Stelle, parla di “deroghe sugli appalti per importi da 50 o 100 milioni”: “Anche l’autostrada Orte-Mestre, che pure stava nel testo originario, non si farà . L’ha detto pure il presidente Ermete Realacci”.
Ecco Realacci è un’altra delle pietre dello scandalo di questa vicenda: al nostro, nome storico dell’ambientalismo italiano, il testo del governo non piaceva, e lo ha anche detto pubblicamente, eppure i cambiamenti apportati durante la sua gestione della commissione Ambiente sono stati solo marginali.
Per capirci su come la vedono gli ecologisti basti citare Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi: “Questo Rottama-Italia di Renzi è scandaloso. Se questa proposta l’avesse fatta Berlusconi il centrosinistra che l’ha approvata nel silenzio degli ambientalisti Pd, sarebbe sceso in piazza per protestare”.
Il M5S ha preso di punta direttamente Realacci e ha chiesto a Legambiente di ritirargli la carica di presidente onorario: “Realacci deve decidere da che parte sta”.
Nel testo, per dire, è rimasto lo scandaloso prolungamento ad libitum delle concessioni autostradali — condannato anche dall’Antitrust e dall’Autorità dei Trasporti — che fa felici Benetton, Gavio e gli altri. Intonse pure tutte quelle semplificazioni autorizzative negli appalti che hanno spinto Bankitalia a parlare di un rischio di “aumento della corruzione”.
Resta pure la potestà del ministero di Maurizio Lupi (esclusi Ambiente e Beni culturali) sul via libera alle opere in aree archeologiche che tanto interessa la Metro C di Roma su cui si spende il gruppo Caltagirone.
Resta la svendita del demanio pubblico ai fondi immobiliari, restano gli incentivi a trivellare lo Stivale (da Favignana alle Tremiti passando, ovviamente, per la Basilicata) per raddoppiare la produzione di petrolio.
Non solo: trivelle e inceneritori diventano “opere strategiche di interesse nazionale” e dunque approvabili sopra la testa dei cittadini e difendibili dall’esercito contro le contestazioni come il Tav in Val di Susa.
Dulcis in fundo, il Tesoro si prende il potere di indicare le linee guida per investire i 20 miliardi della Cassa depositi e prestiti in “opere strategiche”.
Dunque pure trivelle e inceneritori, volendo.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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