Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile LA BOSCHI EVIDENZIA I RITARDI DEI GOVERNI PRECEDENTI MA DIMENTICA DI CITARE I SUOI: I DECRETI ATTUATIVI MAI EMANATI E RESTA TUTTO FERMO
Salva Italia, Destinazione Italia, Sblocca Italia. Le leggi cardine degli ultimi tre governi hanno un
elemento in comune: l’alto tasso di decreti attuativi mai emanati.
Il governo in carica non fa eccezione: i 46 provvedimenti pubblicati in Gazzetta ufficiale nei suoi primi otto mesi rimandano ad altri 242 che ancora oggi mancano all’appello.
Erano 133 a giugno, 140 a luglio, 171 ad agosto.
Il piede di Renzi inizia dunque ad affondare nel terreno dei decreti e dei regolamenti inattuati.
Il suo esecutivo rischia di andare incontro a un ko tecnico sul ring delle riforme nel confronto con quelli di Monti e Letta, tra i più paludati della storia.
E sarebbe uno schiaffo pesantissimo. Ecco perchè.
“A noi non interessa il gioco della conta, gli scontri, noi facciamo proposte che diventano leggi dello Stato”.
Alla Leopolda Renzi ha rimarcato così la distanza con la piazza di sindacati e lavoratori in San Giovanni.
Stando ai numeri, però, è vero proprio il contrario. A certificarlo è l’aggiornamento sullo stato di attuazione del programma diffuso sui siti della Presidenza del Consiglio e della Funzione pubblica il 24 ottobre scorso.
E lì che spunta il fardello dei 242 provvedimenti fantasma. Con alcune chicche.
Il governo ha appena approvato il secondo bonus da 80 euro, quello per neomamme. Ma non è ancora entrato del tutto in vigore il primo bonus, quello approvato ad aprile: attende ancora 35 decreti attuativi.
L’altro dato sorprendente è che ben 30 provvedimenti inattuati facciano capo alla stessa Presidenza del Consiglio, la casa di Renzi.
Qualcuno potrebbe ricordare gli annunci del neopremier sull’impellenza di star dietro alla legislazione di secondo livello.
Ne aveva fatto un punto d’onore, sostenendo di aver ereditato da Monti e Letta “una scandalosa montagna di decreti inattuati”.
Era poi arrivato al punto di mettere alla gogna i suoi stessi ministri, rei di contribuire alla mole di pezzi di legislazione finiti a bagnomaria. Ma evidentemente non è bastato.
Renzi aveva annunciato una task force per smaltire l’arretrato. Non è mai arrivata
Nei report e nelle comunicazioni ufficiali pubblicate dagli uffici del Ministro Maria Elena Boschi a ottobre si continuano così a tirare in ballo Monti e Letta.
La foga di far emergere performance positive del governo fa sì che su 22 pagine di rapporto solo 7 siano dedicate all’azione dell’esecutivo in carica, 15 all’eredità incompiute dei predecessori, come se queste non riguardassero anche il governo Renzi. Come dire, il fardello è colpa loro. Noi siamo più bravi.
Sarà poi vero? Nella sua relazione alla Camera sullo stato di attuazione del programma di governo la Boschi ha messo in luce come il confronto tra i primi sette mesi e mezzo (226 giorni) di Letta e Renzi facciano segnare punti a favore del nuovo premier: 40,6% di provvedimenti adottati contro il 28,6%.
Ma se il confronto fosse stato fatto pochi giorni dopo avrebbe avuto come base di calcolo non 171 ma 242 decreti non attuati. Con risultati decisamente diversi.
Sull’oggetto della legislazione “sospesa”, poi, sembra calato il silenzio. Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto ufficialmente agli uffici del Ministro Boschi il 21 ottobre: visto che è stato aggiornato il report sullo stato di attuazione, indicando i numeri dei provvedimenti che mancano all’appello, è possibile sapere a quali misure esattamente si riferiscono?
Nel report si legge, ad esempio, che mancano 35 atti legislativi secondari al Dl 66/2014.
Si tratta del decreto che disciplina il famoso bonus da 80 euro approvato il 24 aprile 2014 convertito in legge e pubblicato in Gazzetta il 23 giugno, quattro mesi fa.
A cosa mai si riferiscono? Quali parti del provvedimento sono rimaste inattuate? Come cadono sulla platea dei percettori del bonus?
La risposta non è mai arrivata. Non è bastata la mail inviata martedì 21 ottobre al capo ufficio Alessandra Gasparri. “La risposta arriva, non preoccupatevi” assicurava mercoledì il portavoce del ministro, Luca Di Bonaventura.
Rassicurazioni al giovedì, salvo scoprire venerdì che “sono tutti alla Leopolda”, la kermesse renziana.
Se ne riparla lunedì, forse.
Lo stock dei decreti riferiti ai Governi Monti e Letta è sceso da 516 a 448
Non resta dunque che affondare gli occhi tra tabelle e riferimenti normativi.
Partiamo allora con il primo provvedimento in lista.
La legge 56/2014 che doveva abolire le Province. Si è pure votato per riconfermarle ma a quella misura, varata addirittura ad aprile, mancano ancora oggi 5 decreti attuativi.
Ne mancano anche 6 al Dl 16/2014 “Finanza e scuola”, entrato in vigore il 6 marzo. E’ stato convertito il 2 maggio ma ancora è parzialmente inattuato.
Per quali parti? Nessuno lo spiega.
In alto mare anche il Decreto competitività (Dl 91/2014): che conta 36 decreti fantasma.
Andiamo avanti. Si parla tanto delle nuove misure del jobs act, articolo 18 etc etc.
Ma il primo decreto Poletti, approvato il 20 marzo, ancora non è pienamente operativo: due provvedimenti sono attesi da ben sette mesi.
C’è speranza per lo Sblocca Italia che ha appena incassato la fiducia alla Camera: approvato il 12 settembre ha già sul groppo un vagone di 29 decreti attuativi.
Certo, Renzi ha il vantaggio che per i suoi provvedimenti i termini non sono ancora scaduti. Può rivendicare un uso più intenso dei decreti auto-attuativi (15 su 87).
Ma non può più marcare l’abissale differenza che avrebbe voluto segnare da Letta e da Monti.
Monti ha governato il doppio di Renzi, un anno e cinque mesi. Quando è uscito di scena ha lasciato 207 decreti attuativi da adottare.
Anche il confronto con #lettastaisereno inizia ad andare stretto a chi ne ha preso il posto, in un modo che ancor l’offende: in 10 mesi l’esecutivo Letta, che sembrava il più impaludato della storia, ha lasciato sul terreno 306 provvedimenti da adottare. Ebbene, dopo 8 mesi Renzi ha già un passivo di 242 decreti ancora da emanare, e presto saranno molti molti di più, visto che la Legge di Stabilità aggiungerà un altro vagone carico di mattoncini.
Quella di Letta (dl 147/2013) ne ha portati in dote 84 in un colpo solo.
Così, non è azzardato pensare che siamo prossimi addirittura a un sorpasso.
Si vedrà , ma intanto si può affermare l’inconfessabile: aldilà degli annunci, neppure Renzi ha messo il turbo al processo legislativo.
Anche lui, come i predecessori, legifera e accumula pezzi di leggi inattuate.
Thomas Mackinson |
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile “I PARLAMENTARI COSTRUISCONO E LUI DISTRUGGE TUTTO IN DIECI MINUTI”… “LUI E RENZI SONO SOLO DUE COMICI”
Fiorella Mannoia scarica Beppe Grillo.
“La cosa migliore che possa fare in questo momento per il bene del Movimento 5 Stelle è andarsene. Deve fare come un buon padre: lasciare andare i suoi ragazzi”.
La cantante, a margine della presentazione del doppio cd antologico ‘Fiorella’ con cui festeggia i suoi 60 anni e i 46 di carriera, sostiene che il leader del Movimento debba fare quindi un passo indietro.
L’artista, da qualche tempo vicina al M5S, sottolinea: “Io sostengo i ragazzi del movimento e il loro lavoro in Parlamento perchè credo che siano dei validi ‘cani da guardia’ e l’unica reale opposizione in questo momento nel Paese”.
“Ma purtroppo il grande lavoro di credibilità e contro le etichette che loro stanno portando avanti viene sistematicamente demolito dalle uscite di Beppe Grillo. Loro costruiscono per mesi e lui in dieci minuti distrugge. Sembra uno di quei genitori che vanno a vedere le partite di calcio dei figli e cominciano ad urlare ed inveire a bordo campo. Per questo mi auguro che faccia un passo indietro il prima possibile”.
Non è migliore l’opinione che la cantante ha di Renzi: “Per me lui e Grillo sono due comici. E la sinistra che faceva riferimento a Berlinguer non esiste più, è morta per sempre”.
Quanto alla scelta tra piazza San Giovanni e la Leopolda non ha dubbi: “Io sto con chi era in piazza a San Giovanni”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile SONO 600 I CANTIERI RIMASTI APERTI PER DECENNI: IL DANNO PER LO STATO E’ DI 4 MILIARDI DI EURO… MA I GUASTI PER L’AMBIENTE SONO ANCORA PIU GRAVI
Potrebbe sembrare una considerazione banale. 
Ma se la costruzione di una strada, un ponte, uno stadio o una diga non finisce mai, la prima cosa che viene da pensare è che quella strada, quel ponte, quello stadio e quella diga non servano.
Oppure non servano più. Niente meglio della storia che segue rende chiaro come tale banalità possa purtroppo trasformarsi in realtà . Correva l’anno 1976.
Steve Jobs e Steve Wozniac fondavano la Apple Computers: tre mesi prima dagli stabilimenti Ibm era uscita la prima stampante laser.
La Cassazione condannava al rogo per oscenità il capolavoro di Bernardo Bertolucci Ultimo tango a Parigi. Un devastante terremoto colpiva il Friuli-Venezia Giulia, provocando 989 morti. Il Torino vinceva il campionato di calcio di serie A e l’Italia di tennis guidata da Adriano Panatta si aggiudicava per la prima volta la Coppa Davis battendo a Santiago, fra polemiche feroci, il Cile del dittatore Augusto Pinochet.
Mentre un rampante imprenditore edile milanese di nome Silvio Berlusconi si apprestava a festeggiare il suo quarantesimo compleanno, a Roma nasceva Francesco Totti.
E sulle note della canzone Ancora tu di Lucio Battisti, il singolo più venduto in Italia quell’anno, partiva in Basilicata la realizzazione del grande schema idrico Basento Bradano, che avrebbe dovuto irrigare decine di migliaia di ettari portando sviluppo e ricchezza in un’immensa area agricola.
Obiettivo: trasformare con l’acqua quelle terre baciate dal sole nel più grande orto d’Europa.
Il progetto finanziato dalla Cassa del Mezzogiorno prevedeva due dighe collegate fra loro da alcune grandi condotte, oltre a una rete di distribuzione.
Ben tre i ministri che in quell’interminabile 1976, con le prime elezioni politiche con il voto ai diciottenni e un governo Moro che vivacchiò per appena cinque mesi, si alternarono al timone dell’Intervento Straordinario nel Sud: Francesco Compagna, Giulio Andreotti e l’astro nascente della Dc, Ciriaco De Mita da Nusco, Avellino.
Ma in quell’Italia dove già la politica si stava facendo famelica, e le grandi opere pubbliche cominciavano ad arenarsi nelle sabbie mobili di una burocrazia inefficiente e corrotta, la sete delle campagne lucane passò ben presto in secondo piano.
Denari che arrivavano a intermittenza, cantieri che aprivano e chiudevano, vertenze sindacali, battibecchi continui fra l’Ente irrigazione incaricato di gestire i lavori e la Regione, nel frattempo sempre più potente.
Passano trent’anni e si scopre che se le dighe sono state fatte, mancano sempre i tubi.
E che per farli ci sono appena 17 milioni, un ventesimo di quello che sarebbe necessario. Dietro le pressioni che arrivano dai politici lucani il Cipe nel 2006 stanzia 85 milioni.
Ma per far ripartire quella macchina infernale, fra Regione Basilicata, Ente irrigazione e i vari commissari straordinari, ci vorranno ancora sette anni.
Soltanto cinque se ne vanno per stipulare un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti, che deve mettere il denaro mancante.
Altri due evaporano con le procedure della gara d’appalto. L’ex sottosegretario alle Infrastrutture Rocco Girlanda, che nell’autunno del 2013 si incarica di comunicare che i lavori stanno finalmente per ripartire, annuncia contestualmente che l’opera pubblica sarà completata presumibilmente entro il 2017.
Quarantuno anni dopo la posa della prima pietra.
Complimenti.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile LA LEGA PIANGE MISERIA, CHIESTA LA CASSA INTEGRAZIONE PER I 70 DIPENDENTI DELLA PADAGNA DEL MAGNA MAGNA… SALVINI PERCHE’ NON LI SISTEMA IN REGIONE COME HA FATTO CON SUA MOGLIE?
Sono state avviate le procedure di richiesta di cassa integrazione per i circa 70 dipendenti della Lega Nord.
Il consiglio federale aveva dato mandato al segretario federale Matteo Salvini e ai componenti del comitato amministrativo – Roberto Calderoli, Giancarlo Giorgetti e Giulio Centemero – di incontrare i dipendenti per negoziare una soluzione.
Nel corso della riunione in via Bellerio il segretario ha comunicato la decisione di richiedere la cassa integrazione per tutti i dipendenti, unica soluzione possibile visto lo stato in cui versano le casse del partito.
Deciso anche un significativo aumento dei contributi che tutti gli eletti già versano alla Lega.
I dipendenti della Lega sono in tutto una settantina: impiegati, addetti alle segreterie, ai gadget e alla promozione, portinai.
La maggior parte lavora nel quartier generale milanese, mentre una minoranza, di circa il 30 per cento, è impiegato nella sezioni e negli uffici sparsi per il territorio.
“Abbiamo deciso di tagliare le spese del partito e di puntare sul nostro generosissimo volontariato, chiedendo un grosso contributo ai nostri parlamentari, assessori e consiglieri per poter dare il massimo aiuto ai 70 lavoratori-militanti che hanno accompagnato la Lega fino a oggi”.
La situazione dei conti era stata oggetto anche di un congresso straordinario a luglio.
Erano state avanzate critiche al fatto che Salvini aveva destinato una grossa cifra alla campagna elettorale, dove si giocava la segreteria, penalizzando di fatto l’ordinaria amministrazione.
Ora il redde rationem: mancano i soldi per pagare i dipendenti.
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile OGNI 100 CONTRATTI SOLO 15 SONO A TEMPO INDETERMINATO E QUASI IL 70% SONO INTERINALI O DI FORMAZIONE
Già oggi ogni 100 nuovi contratti di lavoro che vengono attivati appena 15,2 sono a tempo
indeterminato, in pratica uno su sei.
Tutto il resto è precario, flessibile, a termine.
Dunque, di posti fissi come si intendevano un tempo se ne contano davvero pochi e Matteo Renzi, dopo Monti nel 2011 e D’Alema addirittura nel 1999, alla Leopolda scopre l’acqua calda a proclamare a sua volta la fine del posto fisso.
Il grosso dei nuovi contratti, ben il 69,7% nel secondo trimestre del 2014 secondo i dati raccolti dal ministero del Lavoro, è rappresentato dalla sommatoria di contratti di formazione, contratti di inserimento, interinali, intermittenti e contratti di agenzia.
Poi c’è un 6,2% di contratti a termine, un 5,8% di contratti di apprendistato ed infine un 3,1% di contratti di collaborazione.
Su 2.651.648 nuovi rapporti di lavoro, dunque, solo 403.036 (227mila maschi e 176mila femmine) sono a tempo indeterminato.
Ne consegue un turnover fortissimo che, sempre nel II trimestre 2014, arriva a sommare ben 2.430.187 cessazioni: 355mila sono frutto di richieste del lavoratore, 249mila sono invece promosse dall’azienda.
Restano 1 milione e 639 mila contratti che terminano per semplice scadenza naturale del rapporto di lavoro.
Contratti di un giorno
La cosa curiosa è che di queste 2,43 milioni di cessazioni ben 403mila riguardano contratti che durano appena 1 giorno, 170mila tra due e 3 giorni ed altri 380 mila non arrivano al mese pieno di lavoro.
Solo 381mila contratti durano più di un anno.
Se si analizza la serie storica che va dal primo trimestre 2011 al secondo trimestre 2014 si vede che in tre anni e mezzo lo stock dei contratti cessati ha toccato l’iperbolica quota di 34 milioni e 824 mila interessando 12 milioni e 147 mila lavoratori, che in media hanno pertanto «subito» 2,87 cessazioni a testa.
Che tradotto in concreto significa un cambio di contratto, e quindi magari pure di azienda, di mansione, di stipendio e inquadramento ogni 14 mesi e mezzo.
Con picchi di 11 mesi e 12 giorni in Puglia e di 11 mesi e 27 giorni nel Lazio.
Tutti a termine
Camerieri e braccianti agricoli si contendono la palma delle professioni più gettonate rappresentando rispettivamente la prima occupazione per la manodopera femminile e la seconda per quella maschile, la prima occupazione per gli uomini e la seconda per le donne.
Su 179.815 braccianti maschi assunti nel secondo trimestre 2014 ben 178.689 avevano un contratto a tempo determinato e appena 988 uno a tempo indeterminato (126.376 i contratti relativi alle donne, con anche qui appena 6347 contratti a tempo indeterminato). Su 127 mila camerieri maschi quelli assunti a tempo indeterminato sono stati invece 5.534, più o meno come per le donne (143.559 nuovi contratti e 6347 contratto a tempo indeterminato).
Se si passa a tipologie di lavoro meno soggette a stagionalità il discorso non cambia più di tanto.
Tra le donne su 78mila commesse assunte ce ne sono ben 52mila a tempo determinato, 5.700 in apprendistato, 6.680 con contratti precari e solo 12.100 assunte a tempo indeterminato.
Idem per i maschi: se si guardano le qualifiche di manovale e muratore, ad esempio, si scopre che meno della metà dei nuovi rapporti di lavoro attivati per queste posizioni è stabile: 22.175 su 50.174 nel primo caso e 11.190 su 24.717 nel secondo.
Il 46% dei giovani in cerca
In realtà , secondo un’indagine Coldiretti/Ixè, meno della metà dei giovani italiani (46%) ambisce ad avere un posto fisso contro il 53% dell’anno passato.
Quasi un giovane su tre (31%) vuole lavorare autonomamente.
Ben il 51% sarebbe pronto anche ad espatriare per trovare un lavoro, mentre il 64% è disponibile a cambiare città .
A rischio il 56% dei lavori
Qualche esperto sostiene che il posto fisso nei fatti non è esistito mai. Perchè in seguito innovazioni, cambiamenti delle abitudini e globalizzazione è inevitabile che i vecchi lavori muoiano di continuo e i nuovi lavori nascano.
Di qui al 2022, secondo l’indagine «Career Cast», scompariranno taglialegna e tornitori assieme a giornalisti, tipografi, hostess, agenti di viaggio, postini e letturisti dei contatori. Apocalittica, in questo senso, una stima della London School of economics secondo cui in Italia ben il 56% dei lavori di oggi rischia di sparire entro vent’anni.
Roba da fare gli scongiuri.
Paolo Baroni
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile 17.000 SOCI PRONTI A CHIEDERE RISARCIMENTO ALLA REGIONE DELLA SERRACCHIANI CHE NON HA VIGILATO
Una storica cooperativa operaia che si avvia verso il fallimento su richiesta della Procura, 103 milioni di “buco”, 600 dipendenti in bilico e 17mila soci rimasti con il cerino in mano.
Mille dei quali sono già pronti a chiedere un risarcimento alla Regione Friuli Venezia Giulia, mentre altri studiano una class action nei confronti delle Coop a cui potrebbe partecipare anche il Comune di Trieste.
E’ in questo quadro che lunedì 27 ottobre, in un’aula del Tribunale civile del capoluogo giuliano sotto il quale nel frattempo protestavano centinaia di risparmiatori, si è svolta l’udienza sulla richiesta di fallimento presentata dai pm Federico Frezza e Matteo Tripani per le Coop Operaie di Trieste, Istria e Friuli.
L’inchiesta deflagrata una settimana fa vede indagato per falso in bilancio l’ex presidente Livio Marchetti in sella da dieci anni prima di essere esautorato dai pm. Nel mirino dei magistrati sono finite delle operazioni immobiliari infragruppo portate a termine per “gonfiare il patrimonio netto e rientrare solo fittiziamente nei parametri per il prestito sociale“, come si legge nell’atto della Procura triestina reso noto dal quotidiano Il Piccolo.
In base all’attuale disciplina la raccolta di risparmio tra i soci delle coop denominata appunto prestito sociale, deve essere limitata a una cifra non superiore a cinque volte il patrimonio stesso della cooperativa.
Quindi secondo l’accusa la Coop Operaie ha compensato le pesanti perdite degli ultimi anni (37 milioni tra il 2007 e i primi mesi del 2014) con i proventi di cessioni avvenute solo sulla carta in quanto gli immobili venivano venduti “in casa” a società dello stesso gruppo.
Un vecchio trucco praticato anche in Borsa, che sembra quindi funzionare ancora.
E così a bilancio sono finiti guadagni netti (plusvalenze) “per 15 milioni su vendite di immobili ceduti internamente a società controllate al 100 per cento”.
Il trucchetto che ha permesso alla coop di stare in piedi nonostante quello che il consulente tecnico incaricato dalla procura definisce “uno scenario di precaria condizione finanziaria”. Che si regge, appunto “sostanzialmente sul mantenimento del prestito sociale, il quale rappresenta la maggior parte delle passività finanziarie di breve periodo”.
Di qui la richiesta di fallimento, su cui il tribunale dovrebbe esprimersi martedì. Anche se l’amministratore giudiziario Maurizio Consoli ha nel frattempo messo a punto un piano di salvataggio che vedrebbe Coop Nordest intervenire in soccorso della cugina friulana acquistando per 70-80 milioni il centro commerciale Torri d’Europa, sul quale vantano già un diritto di prelazione in seguito a un finanziamento concesso a Coop Operaie che dovrebbe essere restituito entro fine anno.
Peccato che anche i 103 milioni dei risparmiatori, ormai, esistano solo sulla carta: Consoli ha disposto la sospensione dei rimborsi “per salvare la società e conservarne il patrimonio”.
Vale a dire che i 17mila soci prestatori non possono ritirarli. E il prestito sociale non è garantito fino a 100mila euro, come invece i depositi bancari, bensì solo per una somma pari al 30% di quanto versato.
In questo caso a garanzia c’è una fidejussione concessa da Banca Generali.
Per completare il quadro occorre aggiungere che la Regione guidata dalla vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani in base a una legge del 2007, è tenuta a vigilare sull’attività delle cooperative.
Di conseguenza il fatto che le irregolarità di gestione non siano emerse durante le revisioni svolte dal 2007 al 2013 “su incarico di Confcooperative o della Lega delle Cooperative“, come riferito dal vicepresidente della Giunta regionale Sergio Bolzonello, non fa venire meno le responsabilità politiche.
Di qui lo scontro scoppiato in regione, con il capogruppo di Sel Marino Sossi che in Consiglio comunale ha chiesto se a fare le revisioni fosse “l’usciere della Regione” e il capogruppo di Forza Italia in Consiglio regionale Riccardo Riccardi che ha presentato un’interrogazione per sapere “quali urgenti iniziative la Regione intenda assumere per tutelare i risparmi di 17mila consumatori triestini e gli oltre 600 dipendenti delle Cooperative Operaie di Trieste Istria e Friuli”.
Dal canto suo Serracchiani ha fatto sapere di giudicare “opportuno e apprezzabile l’intervento della Procura” e di essere “a disposizione” per “rassicurare i prestatori sociali, i cooperatori e i lavoratori”.
Una disponibilità tardiva e insufficiente, secondo le opposizioni.
La vicenda triestina è destinata a sollevare un nuovo polverone sul fenomeno dei prestiti sociali, che per l’universo delle coop italiane vale quasi 11 miliardi ma non è tutelato da adeguati fondi di garanzia nè soggetto alla regolamentazione della Banca d’Italia, visto che le cooperative non sono istituti di credito e non dovrebbero agire come soggetti finanziari.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile IL SENATORE ERA STATO ASSOLTO IN PRIMO GRADO DALL’ACCUSA DI PECULATO PER 65.000 EURO IN PASTI E ALBERGHI
L’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini, è stato condannato dalla terza Corte d’Appello di Roma a 2
anni e 6 mesi per l’accusa di peculato continuato per aver utilizzato in modo improprio la carta di credito aziendale.
In primo grado il senatore di Forza Italia era stato assolto.
Il giudice ha fissato anche per lo stesso periodo l’interdizione dai pubblici uffici. Il procuratore generale aveva chiesto 2 anni di reclusione.
L’accusa era quella d’aver superato in 14 mesi il budget messo a sua disposizione dall’azienda.
C’è da sottolineare che la somma contestata, circa 65mila euro in un anno e mezzo, è stata completamente rimborsata alla Rai.
Minzolini ha sempre rivendicato la propria innocenza: “Le spese sostenute a partire dal 2009 con la carta di credito della Rai sono state solo in funzione del mio lavoro” ha spiegato in precedenza.
Tra le spese contestate un weekend alle terme di Saturnia da 550 euro a notte in “grand suite”, con una tariffa scontata di un terzo rispetto al listino ufficiale (pochi giorni prima il direttore del centro termale era stato ospite del Tg1).
E poi diversi viaggi in tutto il mondo, da Istanbul a Londra, da Praga a Marrakesh, dove il direttore fu ospite del re del Marocco.
“E’ una sentenza che ci lascia interdetti — commentano gli avvocati di Minzolini, Fabrizio Siggia e Franco Coppi — Alla lettura delle motivazioni valuteremo il ricorso in cassazione”.
In aula i due penalisti avevano sostenuto che la carta di credito aziendale fosse “un mezzo di pagamento agevolato assegnato a Minzolini dalla direzione generale della Rai senza dover attendere il rimborso delle spese sostenute nel suo ruolo di direttore del telegiornale”.
Per la difesa del senatore di Forza Italia “non c’era nessuna indicazione nel regolamento su come giustificare e rendicontare le spese, lo prova il fatto che per 14 mesi la Rai non ha avuto nulla da ridire sulle ricevute spedite per il rimborso”. Minzolini ha sempre sostenuto che la carta di credito faceva parte della trattativa con l’allora direttore generale Mauro Masi.
Una auto-difesa che aveva “promosso” anche in un editoriale nel telegiornale.
Il caso era emerso alla fine del 2010, grazie al Fatto Quotidiano, quando si venne a sapere che Minzolini aveva speso 10 volte Mario Orfeo, allora direttore del Tg2 e attualmente a capo del telegiornale di Rai1.
Nella successiva primavera quello che poi è diventato senatore di Forza Italia fu iscritto nel registro degli indagati.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile CGIA DI MESTRE: IL CALCOLO COMPRENDE OLTRE 30 MILIARDI TRA TIMBRI, CERTIFICATI, FORMULARI, BOLLI E MODULI VARI
Tra tasse, contributi previdenziali e burocrazia le imprese italiane sopportano un costo annuo di 248,8 miliardi di euro.
Un peso eccessivo che, in linea di massima, non ha eguali nel resto d’Europa.
A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia, che ha stimato il contributo fiscale e i costi burocratici che le nostre imprese si fanno carico ogni anno.
“In nessun altro Paese d’Europa – segnala Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia – viene richiesto un simile sforzo fiscale. Nonostante la giustizia civile sia lentissima, il credito sia concesso con il contagocce, la burocrazia abbia raggiunto livelli ormai insopportabili, la Pubblica amministrazione rimanga la peggiore pagatrice d’Europa e il sistema logistico-infrastrutturale registri dei ritardi spaventosi, la fedeltà fiscale delle nostre imprese è massima”.
Le aziende italiane contribuiscono al gettito fiscale nazionale per oltre 110 miliardi di euro.
Seppur calcolata per difetto, ci troviamo di fronte ad una cifra “spaventosa”.
La stima è stata determinata secondo le metodologie utilizzate da Eurostat; in questo importo, però, mancano alcune tasse “minori”, come il prelievo comunale sugli immobili strumentali e altri “piccoli” tributi locali.
Complessivamente questa voce ammonta ad almeno 12,5 miliardi di euro.
Inoltre, vanno aggiunti anche i contributi a carico delle imprese versati per la copertura previdenziale dei propri dipendenti, una cifra che stimiamo in circa 95 miliardi di euro.
Integrando queste ultime informazioni con le statistiche Eurostat, si può affermare che complessivamente le imprese italiane subiscono un peso tributario e contributivo pari a 217,8 miliardi di euro (anno 2012).
Se allo sforzo fiscale aggiungiamo altri 31 miliardi di euro che, secondo la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sono i costi amministrativi che le Pmi italiane patiscono ogni anno per districarsi tra timbri, certificati, formulari, bolli, moduli e pratiche varie, l’ammontare complessivo del carico fiscale e burocratico sale a 248,8 miliardi di euro: una cifra che solo a pensarci fa tremare i polsi.
Secondo i calcoli della Cgia, se disaggreghiamo la voce tasse, scopriamo che l’imposta che produce il maggior gettito per le casse dello Stato è l’Ires: l’imposta sui redditi delle società garantisce all’Erario quasi 33 miliardi di euro all’anno.
L’Irpef versata dai lavoratori autonomi, invece, pesa ben 26,9 miliardi, mentre l’Irap in capo alle imprese private “garantisce” un gettito di 24,4 miliardi di euro.
Infine, gli autonomi versano per i contributi previdenziali altri 23,6 miliardi di euro.
(da agenzie)
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Ottobre 27th, 2014 Riccardo Fucile 25 CONVOGLI USATI ACQUISTATI IN GERMANIA A 900.000 EURO, POI RISTRUTTURATI IN POLONIA PER 22 MILIONI… “SOCIETA’ FANTASMA DIETRO L’AFFARE E SOSPETTE TANGENTI AI POLITICI”
Bisogna venire qui in Puglia per provare un’esperienza straordinaria: il viaggio sul treno più costoso
del mondo.
Pagato 900mila euro in Germania, è stato riacquistato dopo nemmeno un anno, ristrutturato, da una società polacca per 22 milioni e 500 mila euro.
Ma gran parte di questi soldi arrivavano da fondi pubblici.
Un incredibile “affare” da cui è partita l’inchiesta della procura di Bari sulle Ferrovie Sud est, azienda interamente del Ministero dei trasporti, che ha in concessione più di 500 chilometri di ferrovie pugliesi.
I reati ipotizzati vanno dalla truffa, all’abuso di ufficio, ma gli uomini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Bari sospettano anche che dietro questo vorticoso giro di denaro si nasconda “una tangente per la politica e per la burocrazia”.
La storia nasce nel 2009 in seguito a un normale controllo fiscale dell’Agenzia delle Entrate. Viene fuori che le Sud est hanno acquistato per 912 mila euro 25 carrozze passeggeri dismesse da due distinte società tedesche.
Poco dopo vengono però vendute a una società polacca, la Varsa, nello stesso stato.
Ma con un prezzo diverso: sette milioni di euro. Sembra un grande affare per le Ferrovie ma in realtà qualcosa non funziona.
Perchè pochi mesi dopo le stesse carrozze vengono vendute dalla Varsa alle Fse, seppur questa volta ristrutturate. Ma a un prezzo molto maggiore. Molto, anzi troppo: ventidue milioni e mezzo di euro, precisamente. “Ci troviamo di fronte a una delle ristrutturazioni più costose della storia”, scherza oggi, ma non troppo, un investigatore.
Secondo una perizia infatti il prezzo è stato nella migliore delle ipotesi raddoppiato rispetto ai reali valori di mercato.
Non c’è poi molto da sorridere anche perchè la Varsa non è esattamente un colosso del settore. Anzi, in realtà non ce l’ha un settore. Perchè nella sua vita questa azienda creata in Polonia qualche giorno prima di chiudere il primo affare (è registrata alla camera di commercio locale il 29 dicembre del 2006) da un italiano, Marco Mazzocchi, oggi indagato, nella sua vita ha fatto soltanto questo affare con le Sud Est. Più un altro, sempre con i treni, sempre con le Sud Est.
Le ferrovie regionali nel 2009 hanno comprato infatti, sempre da un’azienda polacca, 27 treni nuovi questa volta per circa 50 milioni di euro.
Si tratta di un’azienda seria, che realizza i treni Pesa. Ma anche in questo caso interviene la Varsa facendo “attività di consulenza”, si legge negli atti.
Un’attività di mediazione che viene riconosciuta con 11 milioni e 369mila euro. Circa il 20 per cento dell’affare.
Insomma tante, troppe circostanze strane. Che rafforzano la convinzione della Finanza che la Varsa sia soltanto una scatola vuota, uno schermo societario, essendo priva di una struttura aziendale, creata unicamente per ottenere i fondi erogati dalla Regione e dall’Unione Europea. Dietro alla quale in realtà si nasconderebbe qualcun altro, che al momento non è stato però ancora individuato.
La Regione sta cercando ora di mettere una pezza. Dopo aver ricevuto una serie di visite da parte della Finanza e aver saputo del primo avviso di garanzia all’attuale numero uno delle Fse, Luigi Fiorillo (contattato il suo legale ha preferito per il momento non rispondere), chiese al governo Monti (allora il ministro delle Infrastrutture era Corrado Passera) il commissariamento dell’ente, ottenendo però risposta negativa.
A quel punto, dopo un audit interno, hanno inviato (due mesi fa) una relazione alla Commissione europea che ha erogato il finanziamento che ora potrebbe essere restituito.
Giuliano Foschini
(da “La Repubblica“)
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