Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
IL SISTEMA DI SUSSIDI UNIVERSALI DOVREBBE ANDARE A SOSTITUIRE I FONDI DESTINATI ALLA CASSA INTEGRAZIONE, MA A FRONTE DELL’ESIGENZA DI AUMENTARLI IN REALTA’ IL GOVERNO LI HA ADDIRITTURA RIDOTTI
L’ufficialità è arrivata nella tarda serata di venerdì. ![](http://s28.postimg.org/q6rxhpr31/PRESA_CULO.jpg)
Il governo ha messo in votazione il suo emendamento sui fondi da assegnare ai nuovi ammortizzatori sociali previsti dal Jobs Act: quelli che dovrebbero essere universali e permettere a “Marta, 28 anni, che è incinta ma non ha il diritto alla maternità a differenza delle sue amiche dipendenti pubbliche” — il personaggio che Matteo Renzi chiama in ballo per spiegare quant’è di sinistra — di partorire senza stare troppo a preoccuparsi (ammesso che non abbia perso il lavoro proprio perchè è incinta). Ebbene, da venerdì sera quella del premier è ufficialmente una bugia.
ELENCHIAMO I FATTI
La legge delega sul lavoro — noto come Jobs Act — sostiene che verrà creato un sistema di sussidi universali: non più solo i garantiti, ma anche i precari potranno avere l’assegno di disoccupazione o la maternità e in più la formazione e l’accompagnamento verso un nuovo posto di lavoro.
In cambio, viene abolita la Cassa integrazione in deroga: il sostegno al reddito è legato alla persona, questa la filosofia di base, non al posto di lavoro.
Diciamo pure che sia una buona idea, ma ovviamente è più costosa rispetto agli attuali ammortizzatori sociali appannaggio dei soli “garantiti”.
E qui i conti cominciano a non tornare: di sola Cassa in deroga, infatti, nel 2014 spenderemo un po’ di più di due miliardi di euro (erano tre l’anno prima).
E quanto ha messo da parte il governo per i fantomatici (e mai definiti nel dettaglio a tutt’oggi) nuovi ammortizzatori sociali universali?
Un miliardo e 700 milioni in tutto, cioè meno di quanto si è speso quest’anno per la Cig in deroga.
Cosa si paga con una cifra del genere? Niente che possa definirsi “universale”, nè che renda più di una bugia la frase “nella legge di stabilità 2015 avremo le risorse per ampliare la gamma degli ammortizzatori sociali riducendone il numero” (Renzi lo annunciò alle Camere a settembre).
La supercazzola del presidente del Consiglio sugli ammortizzatori sociali disegnati dal Jobs Act non è peraltro senza effetti politici: estenderli anche a chi non li ha era l’ultima frontiera dietro cui s’era asserragliata la minoranza del Pd.
Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi alle primarie, è stato insolitamente netto. “Così come è, il Jobs Act non lo posso votare, ha scandito all’assemblea costitutiva di “Sinistra-Dem” a Milano: “In quel ddl delega ci sono rischi gravi e seri di incostituzionalità ”, ad esempio “sugli aspetti di disuguaglianza che si creano tra lavoratori” (chi è già assunto avrà l’articolo 18, chi lo sarà in futuro no).
Spiega Stefano Fassina al Fatto Quotidiano: “Sono due mesi che Renzi fa propaganda contro la precarietà e su questi generici ammortizzatori sociali universali, ora però per finanziarli nella manovra mette meno soldi di quello che spendiamo oggi in cassa integrazione in deroga. Un piatto di lenticchie. Allora, visto che nemmeno si riducono le decine di contratti precari esistenti, il risultato vero di questo Jobs Act è quello che resta: la libertà di licenziare”.
Perfida la conclusione: “Della serie: La sinistra dalla parte dei più deboli e Le parole che producono fatti” (due citazioni testuali della lettera che Renzi ha inviato a Repubblica per spiegare pure a Ezio Mauro che lui è di sinistra).
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
SUSSIDI, ACQUA E ALLUVIONI: I SOLDI NEGATI AI PIU’ DEBOLI… I GOVERNI NON HANNO MAI STANZIATO UN EURO PER RISARCIRE IL PRIVATO CITTADINO
Quando qualcuno dirà ancora spending review oppure — nel caso sia un tecnico di fede brussellese — consolidamento fiscale, ricordatevi quanto segue: se per disgrazia un’alluvione o un terremoto distruggerà la vostra casa è assai probabile che lo Stato non vi darà una mano a ricostruirla.
Come dimostrano i dati che seguono, infatti, l’Italia ha praticamente abdicato ai doveri di solidarietà verso i suoi cittadini.
Solo nel 2013-2014 il governo ha dovuto emanare per 27 volte lo “stato d’emergenza” per eccezionali eventi atmosferici in territori che coinvolgono quasi tutte le regioni italiane: dopo la prima emergenza — quella in cui la Protezione civile si occupa di salvare la vita alle persone, dar loro cibo, un tetto e cure — non resta mai neanche un euro per la seconda fase, quella in cui bisognerebbe ristorare le perdite subìte tanto dai privati che dal pubblico.
In questo biennio alle richieste di danni per complessivi 4,5 miliardi (senza contare la nuova alluvione in Liguria di una settimana fa) i governi Monti, Letta e Renzi hanno risposto con stanziamenti per 315,9 milioni in tutto, soldi che sono stati usati tutti per gestire le emergenze (nell’apposito Fondo nazionale, per dire, in questo momento non c’è neanche un euro).
Eppure non si tratta di una cosa di cui la politica non si sia occupata: l’ultimo intervento legislativo sul tema è dell’estate 2013 (governo Letta) e prevede che Protezione civile e Regioni facciano una “ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture, pubbliche e private, danneggiate, nonchè dei danni subiti dalle attività economiche e produttive” per poi procedere al ristoro “entro i limiti delle risorse finanziarie disponibili”.
Ecco, il numero dei relativi stanziamenti chiarirà al lettore (o ai commercianti di Genova a cui Matteo Renzi ha promesso risarcimenti via Facebook) cosa aspettarsi in un caso del genere: zero, neanche un euro.
Alle regioni, però, durante il governo Monti è stata assegnata una possibilità che aggiunge il danno alla beffa: se proprio gli servono i soldi per rimettere a posto le cose, possono sempre alzare le tasse locali.
Scorrere l’elenco delle 27 emergenze di questi ultimi due anni significa ricordare storie, volti, vittime, territori disastrati apparsi nei telegiornali e presto dimenticati.
Tra piogge e trombe d’aria, ad esempio, questa estate pezzi di Lombardia sono stati strapazzati dal maltempo: 87 milioni di danni secondo la ricognizione, ma lo stanziamento è stato di soli 5,5 milioni di euro.
In Abruzzo, l’alluvione verificatasi tra il novembre e il dicembre 2013 ha causato 296 milioni di danni: il governo ne ha concessi 13.
La stessa storia si ripete dovunque: la Basilicata è stata colpita due volte tra gennaio e febbraio per 261 milioni di danni certificati, ne ha avuti in tutto 21,5; due emergenze anche in Calabria (novembre 2013 e febbraio 2014) che comportano risarcimenti per quasi 300 milioni a fronte di uno stanziamento governativo di 2,8 milioni.
Ci sono casi peggiori. Guidano la fila le Marche: in due successivi disastri atmosferici (autunno 2013 e primavera 2014) Regione e Protezione civile hanno contato distruzioni per 764 milioni in tutto, da Roma sono arrivati 30 milioni.
Oppure l’Emilia Romagna: 4 stati di emergenza (al netto del terremoto del 2012), danni totali per circa 550 milioni, fondi per 62 milioni.
E poi ci sono la Toscana — quattro emergenze anche qui tra alluvioni, piogge torrenziali, trombe d’aria e 532 milioni di danni conteggiati a fronte di un contributo di 41,8 milioni — e il Lazio, dove le piogge di inizio anno hanno causato danni per 427 milioni cui il governo ha reagito con uno stanziamento di 22 milioni e mezzo.
Giova ribadirlo: la seconda fase, quella dei risarcimenti, a Roma non è mai partita.
Il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, ha sostenuto più volte che — se questo è lo stato della finanza pubblica — allora l’unica soluzione per garantire i risarcimenti è “l’assicurazione obbligatoria contro le calamità ” (com’è ora per la Rc auto, per capirci): solo che oltre a essere un ulteriore costo per cittadini e imprese, l’assicurazione obbligatoria andrebbe accompagnata da sgravi fiscali e dunque avrebbe un costo per l’erario in termini di mancati incassi.
Il sottosegretario Graziano Delrio, qualche giorno fa a Genova, non s’è sbilanciato: “Vediamo…”.
Sperando che il piano contro il dissesto idrogeologico da 9 miliardi in 7 anni lanciato da Renzi funzioni: niente risarcimenti, ma almeno meno gente da risarcire.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
SUL LAVORO IL GOVERNO RISCHIA IL FLOP
E se avesse ragione la Camusso? Nel sollevare il dubbio, lo dico subito, non mi riferisco alle proposte
economiche della Cgil, e tantomeno alla baruffa sull’articolo 18.
No, il sospetto che abbia ragione la Camusso, e torto il governo, mi è venuto su un’unica questione, che però ai miei occhi è anche la più importante: la situazione del mercato del lavoro e i mezzi per creare nuova occupazione.
Cominciamo dal mercato del lavoro.
Secondo Renzi negli ultimi sei mesi sono stati creati 153 mila posti di lavoro, che certo non bastano ma segnalano finalmente un’inversione di tendenza.
Secondo i sindacati, invece, bisogna guardare anche alla qualità dei posti di lavoro, all’andamento della disoccupazione, alle ore di cassa integrazione.
Chi ha ragione? Difficile dirlo con sicurezza, ma il pessimismo sindacale appare più fondato dell’ottimismo governativo.
Secondo l’Istat negli ultimi sei mesi l’occupazione è aumentata, ma di sole 70mila unità .
L’aumento di 153 mila posti di lavoro proclamato da Renzi è solo frutto di un ingenuo trucco statistico, che gli anglosassoni chiamano cherry picking (scegliersi le ciliegie), ovvero presentare solo i dati che ci danno ragione: in questo caso confrontare i dati di settembre non con quelli di 6 mesi prima (marzo), ma con quelli del mese più basso dell’anno (aprile, in questo caso).
Si potrebbe obiettare che, se consideriamo solo le ultime due rilevazioni, ossia agosto e settembre, l’aumento è di 83mila posti di lavoro, un risultato decisamente positivo.
Ma qui intervengono ben tre contro-obiezioni dei sindacati.
Primo, in attesa dei dati Istat più analitici, nulla sappiamo della qualità dei nuovi posti di lavoro, e tutto lascia pensare che l’aumento possa essere dovuto soprattutto alla sostituzione di posti di lavoro full-time con posti di lavoro part-time, una tendenza che non si è mai interrotta negli ultimi 10 anni.
Secondo, fra agosto e settembre la disoccupazione non è affatto diminuita, bensì è aumentata di 48 mila unità .
Terzo: sempre fra agosto e settembre sono esplose le ore di cassa integrazione, e questa tendenza è proseguita fra settembre e ottobre.
Se si convertono le ore di cassa integrazione in posti di lavoro, e si correggono i posti di lavoro nominali con i posti di lavoro congelati dalla cassa integrazione, si scopre che l’occupazione reale (fatta di posti di lavoro in cui si lavora) non è aumentata di 83 mila unità ma è diminuita di 145 mila.
Il che, forse, spiega l’aumento dei disoccupati registrato dall’Istat, un dato che ad alcuni è parso in contrasto con l’aumento dell’occupazione.
Primo round: Camusso 1, Renzi 0.
Ma passiamo al secondo round.
Dice Renzi che «i sindacati passano il tempo a inventarsi ragioni per fare scioperi, mentre io mi preoccupo di creare posti di lavoro».
Susanna Camusso gli risponde che «se fosse vero che il governo ha intenzione di creare posti di lavoro, le norme che ci sono nella legge di stabilità rispetto ai precari sarebbero tutte diverse».
Sono convinto anch’io che talora i sindacati scioperino per scioperare, e naturalmente non nutro alcun dubbio sul fatto che Renzi desideri creare posti di lavoro.
Però il punto sollevato dalla Camusso è di sostanza, non di buona o cattiva volontà . La domanda cruciale non è che cosa sogna Renzi, ma è se le norme varate dal governo, in particolare la riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro prevista dalla Legge di stabilità , siano idonee a creare nuovi posti di lavoro, dove per «nuovi» si deve intendere posti che senza quelle norme non sarebbero mai nati.
Secondo la Cgil no: se Renzi puntasse davvero a massimizzare i nuovi posti di lavoro, «non distribuirebbe fondi a pioggia alle imprese, ma li vincolerebbe alle assunzioni». Qui le obiezioni della Cgil collimano perfettamente con le perplessità degli studiosi, che si possono riassumere in almeno cinque osservazioni.
Primo: la decontribuzione riguarda solo gli assunti nel 2015, quindi non potrà fornire una spinta permanente all’economia.
Secondo: la decontribuzione non richiede all’impresa beneficiaria di aumentare l’occupazione e quindi, nella maggior parte dei casi, si risolverà in un regalo alle imprese.
Terzo: è molto improbabile che i pochi fondi stanziati per il 2015 (1,9 miliardi) bastino a coprire le richieste, che saranno tantissime proprio perchè nulla si pretende dalle imprese.
Quarto: la previsione governativa che i lavoratori assunti con la nuova formula siano 1 milione implica che i relativi posti di lavoro siano quasi tutti part time, un po’ come i mini-job alla tedesca (lo sgravio medio preventivato dal governo è di soli 5000 euro per addetto, più o meno quel che paga un datore di lavoro per un assunto part-time). Quinto: proprio perchè non può creare un numero apprezzabile di posti di lavoro addizionali, la decontribuzione governativa non si finanzia da sè (attraverso l’aumento del Pil generato dai nuovi posti di lavoro), ma richiede ogni anno di essere rifinanziata, cosa per cui il governo non ha le risorse.
Fine del secondo round: Camusso 2, Renzi 0.
Arrivati a questo punto, qualche lettore potrebbe obiettare che è tutto da dimostrare che la decontribuzione prevista dal governo non produrrà molti posti di lavoro.
E allora lasciamo parlare il governo.
Nella Legge di stabilità (che è scritta dal governo, non da me) si prevede che l’impatto complessivo delle decine e decine di misure della legge stessa sia di appena 40 mila nuovi posti di lavoro.
Anche assumendo che tutte le altre misure non creino un solo posto di lavoro, e che l’intero merito vada alla sola decontribuzione, si tratta di un risultato davvero modesto.
Un risultato che è reso ancora più deludente dalla lettura di quel che la Legge di stabilità prevede per il lontano 2018: un tasso di occupazione e un tasso di disoccupazione quasi identici a quelli attuali, con circa 3milioni di disoccupati.
Se queste sono le prospettive, forse non sarebbe male che il governo, fra un tweet e l’altro, trovasse cinque-minuti-cinque per ascoltare non solo la Cgil ma le tante voci che, in queste settimane, hanno posto il medesimo problema: la norma prevista dal governo non pare lo strumento più incisivo per creare veri nuovi posti di lavoro.
Ne ha scritto Tito Boeri sul sito lavoce.info, ne abbiamo parlato noi, come Fondazione Hume e come Stampa, con la proposta del job-Italia, ne ha discusso Confartigianato pochi giorni fa a Torino, ne ha parlato più volte in pubblico Giorgia Meloni, che sul nodo fondamentale della «addizionalità » dei posti di lavoro ha anche depositato un emendamento al Jobs Act.
Su una questione come questa, il presidente del Consiglio non può cavarsela con una battuta.
Perchè, è vero, la Cgil troppo spesso ha lo sguardo rivolto al passato, ma in questo caso è vero precisamente il contrario: la battaglia per creare nuovi posti di lavoro è la battaglia cruciale del nostro futuro.
Luca Ricolfi
(da “La Stampa”)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
IL GOVERNO TACE, MA LA NOTIZIA E’ APPARSA SUL SITO INTERNET DEL PENTAGONO: ACCORDO FIRMATO DAL NOSTRO MINISTERO DELLA DIFESA CON LA LOCKHEED: 153 MILIONI PER I DUE AEREI, 40 MILIONI PER I MOTORI… CONSIDERANDO ARMAMENTO E MANUTENZIONE, CIASCUN F35 COSTERA’ 500 MILIONI
“Non ci sono soldi per il lavoro, ma per comprare armi il denaro si trova”, denunciava giovedì Papa Francesco.
Il giorno dopo, come risulta dal sito del Pentagono, la Difesa italiana firmava l’ennesimo contratto internazionale con l’americana Lockheed Martin per l’acquisito di altri cacciabombardieri F35.
Tutto come preannunciato. Quello che non si sapeva era il valore del nuovo contratto: 153 milioni di euro per altri due velivoli, senza i relativi motori Pratt & Whitney che ci costeranno almeno altri 40 milioni.
A conti fatti, i due F35 appena comprati — il settimo e l’ottavo per il nostro paese — li andremo a pagare 100 milioni di euro l’uno.
Il costo unitario — in dollari 94,8 milioni ad aereo nella sua versione “A” convenzionale, senza motore — è stato annunciato da Joe Dellavedova il portavoce del programma F35 per il Dipartimento della Difesa americano, spiegando che la versione “B” dell’F35, quella a decollo corto e atterraggio verticale di cui l’Italia vuole comprare 30 esemplari (15 per la portaerei Cavour e altrettanti, incomprensibilmente, per l’Aeronautica), avrà un costo unitario di 102 milioni di dollari, vale a dire circa 82 milioni di euro, sempre senza il motore.
Denaro che si continua a trovare, come denuncia il pontefice, ma che non basterà . Perchè queste spese dichiarate coprono solo il cosiddetto costo “fly-away”, cioè il prezzo di produzione del velivolo nudo, nella sua configurazione base.
Se si considerano anche i costi per l’armamento e la manutenzione nel corso dell’intero ciclo di vita degli F35 (fino al 2050) ognuno di questi cacciabombardieri verrà a costare non meno di mezzo miliardo.
Il che significa ipotecare per i prossimi decenni almeno 40-50 miliardi di euro, se il governo deciderà di confermare l’acquisto di 90 aerei come chiede Washington, ignorando le direttive del Parlamento che ha chiesto il dimezzamento del budget originario del programma (13 miliardi per il solo sviluppo e acquisto).
A proposito di direttive parlamentari: quando due mesi fa il ministro della Difesa Roberta Pinotti preannunciò la decisione di ordinare altri due aerei entro fine anno, disse che in attesa di eventuali decisioni sulla sua ridefinizione conseguenti al Libro Bianco, era necessario andare avanti con il programma “per mantenere la credibilità nazionale”.
Vale la pena ricordare che il contratto firmato venerdì scorso è “figlio” del contratto “N00019-13-C-0008″ con cui un anno e mezzo fa la Difesa aveva avviato l’ordine per gli aerei di questo nuovo lotto di aerei e che quel contratto che fu siglato il 18 luglio 2013, pochi giorni dopo l’approvazione della mozione parlamentare che sospendeva “ulteriori acquisizioni” e quindi in violazione della moratoria appena decisa.
La credibilità agli occhi degli alleati d’Oltreoceano arriva prima della considerazione dei cittadini italiani.
E’ di pochi giorni fa, intanto, la notizia della petizione del Codacons che chiede al governo di annullare l’acquisto degli F35 e destinare i fondi, o parte di essi, alla messa in sicurezza del territorio e della cittadinanza per fermare il dissesto idrogeologico ed evitare le tragedie e i danni prodotti da frane e alluvioni.
Enrico Piovesana
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
LA PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI VENEZIA ZACCARIOTTO ACCUSATA DI ABUSO D’UFFICIO; DETTE UN LAVORO COME GUARDIAPARCHI A LUCIANO MARITAN, FIGURA STORICA DELLA CRIMINALITA’ VENETA
Avrebbe favorito un noto boss della malavita locale facendolo assumere, all’interno di un programma di
recupero, come guardiaparchi aggirando la graduatoria predisposta dai servizi sociali: con questa accusa Francesca Zaccariotto — volto noto della Lega nord, presidente della Provincia di Venezia, sindaco per più di dieci anni di San Donà di Piave — è stato richiesto il rinvio a giudizio dai pm veneziani Carlotta Franceschetti e Walter Ignazitto.
La vicenda nasce un anno fa da una inchiesta per un traffico di droga, compiuta dai carabinieri di Venezia che aveva arrestato dieci persone accusate di acquistare sostanze stupefacenti a Milano, da una famiglia di ‘ndrangheta, per poi smerciarle nel nordest.
Tra queste anche Luciano Maritan, detto Cianetto, figura storica della malavita del Veneto orientale, nipote di Silvano Maritan, “colonnello” dell’ex boss della Mala del Brenta Felice Maniero.
Nel corso dell’inchiesta il collaboratore di giustizia Luca Fregonese aveva riferito ai magistrati la confidenza che gli avrebbe fatto Maritan e cioè che la Zaccariotto, che conoscerebbe da anni, lo avrebbe aiutato assumendolo come guardia parchi.
Nei guai, oltre la Zaccariotto, è finita anche la dirigente della Provincia Eugenia Candosin che sarebbe stata indotta dall’allora sindaco ad affidare quel lavoro di guardiaparchi al boss della malavita locale.
Le imputazioni sono di concorso in abuso d’ufficio per la Zaccariotto, mentre per la dirigente comunale si aggiunge quella di falso ideologico.
La difesa ha negato l’accusa, sostenendo che la lista di nomi non fosse una graduatoria ma un semplice elenco di “candidabili” alla posizione.
Ad aggravare la posizione della politica leghista ci sarebbe anche una conversazione telefonica intercettata dagli inquirenti, in cui la dirigente comunale si lamenta con un collega di essere stata messa nei guai dal sindaco.
Gianni Belloni
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
ALLE 19 IN EMILIA HA VOTATO SOLO IL 30,9% DEGLI ELETTORI, CIRCA IL 20% IN MENO DELLE EUROPEE DI MAGGIO (ANCHE IN QUEL CASO UN SOLO GIORNO PER VOTARE)… IN CALABRIA IL 34,6%
Comunque vada sara’ un insuccesso: si potrebbe definire così lo scenario che si sta delineando in Emilia Romagna (e in tono minore in Calabria) dove alle 19 ha votato solo il 30,9% degli aventi diritto.
Poichè i seggi chiuderanno alle 23 è facile ipotizzare una percentuale finale di votanti intorno al 45%.
Sarà quindi una minoranza di elettori a determinare la composizione del nuovo consiglio regionale, delegittimandolo di fatto.
E anche i risultati dei partiti e dei candidati non potranno certo assumere grande rilevanza, non essendo riusciti a coinvolgere nemmeno la maggioranza degli elettori.
Come già sottolineato in Emilia Romagna si è recato alle urne solo il 30,9% degli aventi diritto.
Alle precedenti regionali, quando si votò però anche lunedì, l’affluenza alle urne alla stessa ora era il 39,6%.
Ancora più impressionante è il confronto con le europee di maggio (allora si votava in una sola giornata come oggi) quando alle 19 fu del 52,3%.
Situazione migliore in Calabria (34,62%). Alle precedenti regionali, nel 2010, l’affluenza, alla stessa ora, era stata del 28,7%.
In quella occasione, però, si votava anche di lunedì.
In Emilia Romagna sono chiamati a votare circa 3,4 milioni di cittadini: gli sfidanti sono Maurizio Mazzanti (Liberi cittadini), Stefano Bonaccini (sostenuto da Pd, Sel, Emilia-Romagna civica e Centro per Bonaccini), Alan Fabbri (Lega nord, Forza Italia e Fratelli d’Italia), Cristina Quintavalla (L’altra Emilia-Romagna), Giulia Gibertoni (M5s) e Alessandro Rondoni (Ncd).
In Calabria invece si è arrivati al voto per le dimissioni dell’allora governatore Scopelliti, messo fuori gioco dalla legge Severino dopo la condanna a 6 anni e l’interdizione dai pubblici uffici per abuso d’ufficio e falso, commessi durante gli anni del suo mandato di sindaco a Reggio Calabria.
Il nuovo Consiglio regionale, per effetto del calo demografico con meno di due milioni di abitanti, sarà composto da soli 30 consiglieri e non più 50.
A contendersi l’ambito ruolo di presidente della Regione saranno in cinque.
Il favorito della vigilia è certamente Mario Oliverio, presidente uscente della Provincia di Cosenza, in campo per il centrosinistra, con ben otto liste al suo fianco, Pd, Dp, Oliverio Presidente, Autonomia e Diritti, La Sinistra, Calabria in rete, Centro Democratico e Cdu.
Uno dei punti di forza di Olverio è la spaccatura del centrodestra, che si presenta diviso.
In corsa ci sono infatti Wanda Ferro, presidente uscente della Provincia di Catanzaro, per Forza Italia con tre liste, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Casa delle Libertà ; e Nico D’Ascola, senatore e noto avvocato per la coalizione “Alternativa popolare” con due liste, il Nuovo Centro Destra e l’Udc.
Gli altri due sfidanti sono Cono Cantelmi, giovane avvocato, per il Movimento 5 Stelle; e Domenico Gattuso, docente universitario, per “L’altra Calabria” che raccoglie i sostenitori della lista Tsipras.
Sull’argomento è intervenuto anche Pippo Civati che sul suo blog ha scritto: «I primi dati dell’affluenza alle Regionali sono disarmanti. Da domani forse sarà più chiaro che la governabilità come unica stella – senza rappresentanza – è non solo un problema, ma un vero e proprio pericolo. La sera delle elezioni sapremo chi ha vinto, forse. Ma sapremo anche che avrà perso la democrazia”.
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
DOPO IL TENTATIVO DI RESTYLING DI VILLA GERNETTO SBOTTA: “PRENDI DORIS, GLI AMICI DEL PATTO DEL NAZARENO, I VOLTI NUOVI, I SELEZIONATORI E VAI A FARTI UN NUOVO PARTITO”
“Licenziato” su due piedi dal suo ex tesoriere. ![](http://s18.postimg.org/xx1u2xhc9/bianconi.jpg)
Queste almeno, a parole, sarebbero le intenzioni di Maurizio Bianconi, ex tesoriere di Fi, nei confronti di Silvio Berlusconi che all’indomani dell’incontro di Villa Gernetto, ha invitato il Cavaliere ad accomodarsi all’uscita.
“Presidente Berlusconi, le vogliamo bene, ma per il bene di tutti prenda Doris, gli amici del Patto, i volti nuovi, i selezionatori, quelli che si autodefiniscono ‘fedelissimi’ anche adesso che è sfumata l’ipotesi di una candidatura, e vada a fare il suo nuovo partito lasciando a noi, immeritevoli, ingrati, che osiamo pensare e rispettare gli elettori, il compito di tentare con Forza Italia, finalmente all’opposizione, il riscatto e la rinascita del centrodestra”.
Diretto e senza giri di parole Maurizio Bianconi dà corpo allo scontento dentro la vecchia guarda FI e chiede un chiarimento definitivo perchè “tutto ciò è drammatico ma inevitabile poichè, a quanto pare, non importa niente a nessuno se dei 13 milioni di italiani che credevano in noi sono rimasti 2 o 3 milioni che, pur maledicendoci, non si rassegnano e sui quali dobbiamo fondare il nostro riscatto”.
Nel Mirino di Bianconi è finito anche il presidente della Banca Mediolanum Ennio Doris, “l’uomo che ha fatto una banca intorno a noi, – afferma Bianconi – che ora rammostra il figlio in tv, che ha scritto un libro sulla sua vita, è l’uomo della finanza di fiducia di Berlusconi. Colui, sembra, che lo indusse a fiduciare Monti e colui che oggi ci fa sapere che, se è vero che il Patto ha effetti politici disastrosi, tuttavia va tenuto in vita per il bene della comunità (di Mediolanum dicono i malpensanti). Lo stesso giorno il Presidente Berlusconi addottora i volti nuovi selezionati da esperte volpi della politica, dotate del sesto senso che conta (Toti, Calabria, Cattaneo, peraltro persone degnissime) e dichiara che nel partito rifondato loro saranno gli eletti, essendo fra l’altro insoddisfatto dei suoi parlamentari, alcuni dei quali osano aver in mente le promesse elettorali. In più – aggiunge – il giorno precedente il presidente ha confermato l’appoggio al Senato della vergogna, pietra tombale della democrazia in Italia”.
Lo sfogo di Bianconi su Doris arriva proprio il giorno dell’uscita sul Giornale di un’intervista in cui il fondatore di Mediolanum punta sull’asse Renzi-Berlusconi (“Lavoramdo insieme stanno dimostrando di avere senso dello Stato”) e ‘benedice’ il Nazareno: “Toglie voti a entrambi, ma è vitale per l’Italia”.
L’operazione Villa Gernetto, definita l’X-factor della politica, è una sorta di tentativo di rottamazione, di restyling che i “vecchi” non hanno gradito.
Berlusconi ha infatti incontrato venticinque giovani militanti selezionati per essere i volti nuovi del partito con l’obiettivo di trovare qualcuno che assomigli a Renzi per rilanciare l’azione del centrodestra.
“Tutto – osserva – a 48/24 ore da elezioni, quasi a danneggiare ancor di più un partito già provato da errori ripetuti, patti vari, interessi estranei, comportamenti ondivaghi, faide locali, dirigenti territoriali impresentabili, assenza di linea politica coerente, assaltato da destra e da sinistra”.
Di qui l’appello a una separazione consensuale.
L’iniziativa di Villa Gernetto ha inoltre scatenato un vero e proprio duello via tweet tra Ncd e Fi. Comincia l’ex capogrupo FI alla Camera che scrive: “Villa Gernetto come Cinecittà negli anni Cinquanta di De Sica: volti nuovi per il cinema”.
La stoccata al seminario con le nuove leve del partito del Cavaliere provoca la replica della responsabile Comunicazione, che dice all’attuale esponente Ncd: “Cicchitto di anni ’50 se ne intende. E’ più o meno da quegli anni che fa il politico”, annota con l’hashtag #PrimaveraAzzurra. Cicchitto controbatte ribaltando la critica: “Non capisco proprio perchè la Bergamini, evocando me e gli anni ’50, attacchi cosi’, obliquamente, Berlusconi”.
(da “La Repubblica“)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
I DATI CONFERMANO: LA DIFFERENZA TRA TASSE E CONTRIBUTI
Ha ragione papa Francesco: gli immigrati sono una ricchezza. Lo dicono i numeri.
Fatti i conti costi-benefici, spiega un dossier della fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno.
E la crisi, senza i nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo milione di aziende, sarebbe ancora più dura.
Certo, è facile in questi tempi di pesanti difficoltà titillare i rancori, le paure, le angosce di tanti disoccupati, esodati, sfrattati ormai allo stremo.
Soprattutto in certe periferie urbane abbruttite dal degrado e da troppo tempo vergognosamente abbandonate dalle pubbliche istituzioni. Ma può passar l’idea che il problema siano «gli altri»?
Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro».
Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani.
Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale».
Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza.
C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.
Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini, collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi.
Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta».
L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi».
Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.
A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre.
Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi.
Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro».
Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi».
Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi».
Cosicchè «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».
Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati?
«Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità , dai ricoveri all’uso di farmaci.
Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa».
E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui».
E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione.
Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».
In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi».
Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa.
Poi, per carità , restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza.
Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?
Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti.
Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti.
Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro.
Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie.
Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
MA COME CI SI PERMETTE IN ITALIA A PARLARE DI ONESTA’? SI PARLI DI “DIVERSAMENTI DISONESTI”
Maurizio Landini ha sbagliato a dire che Matteo Renzi “in questo Paese non ha il consenso delle persone
oneste”, e infatti se n’è scusato.
Non ha invece fatto ammenda per l’errore davvero imperdonabile che ha commesso pronunciando la parola “onestà ”, una caduta di stile insopportabile come gli fanno notare illustri editorialisti su autorevoli quotidiani, ma a nostro sommesso avviso senza la necessaria durezza.
A questo sindacalista che si ostina ad alzare la voce e a gesticolare ogniqualvolta si parla di lavoratori in esubero o in attesa di nuova collocazione (lui li chiama “disoccupati”, termine dal suono piuttosto volgare) bisognerebbe insegnare oltre alla buona creanza un uso più accorto della lingua italiana.
Onestà è un’espressione intrisa di quel moralismo e di quella morale (ultimo rifugio dei farabutti parafrasando Samuel Johnson quando parlava del patriottismo) che fino dai tempi di Enrico Berlinguer hanno fuorviato intere generazioni con una visione settaria e violenta che non a caso trova le sue radici “nella mistica della ghigliottina tanto cara a Robespierre”, come acutamente ha notato Pierluigi Battista sul Corriere della sera
Chi siamo noi, per distinguere l’onesto dal disonesto poichè se è opinabile definire qualcuno, per esempio, corrotto (anche se fosse colto mentre intasca una tangente sarebbe colpevole, ricordiamolo, solo dopo il terzo grado di giudizio e sempre che non scatti una legittima prescrizione o qualche benedetto indulto), siamo sicuri caro Landini che i suoi presunti “onesti” lo siano per davvero e non nascondano, per dire, qualche multa non pagata e che al bar richiedano sempre lo scontrino?
E poi, come opportunamente si chiede Cesare Martinetti, sulla Stampa, chi è per Landini “chi lavora?”. “Gli iscritti alla Fiom?” . “Tutti?”. Eh, eh, ci siamo capiti…
Davvero intollerabile, infine, è la discriminazione quasi razzista della dicotomia landiniana tra buoni e cattivi: non siamo forse tra i paesi al mondo dove girano più mazzette (superiamo perfino il Ghana) senza contare il record planetario dell’evasione fiscale e l’impunità assicurata a tutti coloro che possono permettersi un bravo avvocato anche se, per ipotesi, avessero mandato al creatore tremila persone avvelenandole con l’amianto?
E delle mafie che comunque danno lavoro a tante brave persone, che ne vogliamo fare?
Lo sa il virtuoso Landini che l’economia illegale tiene a galla gran parte della nostra meravigliosa penisola?
Vuole forse le barricate per le strade in nome di un astratto concetto di etica con cui, diciamolo non si mai sfamato nessuno (caso mai è il contrario)?
Quindi caro segretario della Fiom, faccia la cortesia, riponga nel cassetto certe visioni passatiste e demagogiche.
Per dirla con il pragmatico Giuliano Ferrara “la smetta di farci perdere tempo”, si rassegni al nuovo che avanza ed eviti di dare spago “a una questione morale, o meglio moralistica che autorizza il rilancio di un’atmosfera girotondina che la difficile situazione sociale sta rendendo sempre più avventuristica e drammatica” (Martinetti). Lasci lavorare in pace il nostro amato premier che sta “rivoluzionando il Paese da sinistra” (Repubblica).
E la smetta di usare parole che possono essere delle vere bombe.
Dia retta, se anche gli onesti esistessero, per ragioni di alta politica e di ordine pubblico andrebbero chiamati diversamente disonesti.
O meglio ancora “cosi”, come ci insegna il compagno Lotito.
Antonio Padellaro
(da “il Fatto Quotidiano”)
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