Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
INTERROGAZIONI CADUTE NEL NULLA, MOZIONI CHIUSE NEI CASSETTI DEI MINISTERI… DEGLI ATTI DI INDIRIZZO VEDE LA LUCE SOLO IL 4,5%
Anchilosato da tre ore abbondanti passate sui banchi del governo nell’aula di palazzo Madama, Matteo Renzi aveva pensato bene di alzarsi proprio nel momento in cui i senatori di maggioranza e opposizione aspettavano una risposta alle loro osservazioni. Lui – caso raro nell’intera storia repubblicana – decideva di non replicare.
Di più, si alzava e se ne andava, costringendo la presidente di turno, Linda Lanzillotta, a difenderlo dal coro di sdegno: “Forse aveva bisogno di muoversi”.
Era il 22 di ottobre e quel giorno il suo governo compiva otto mesi giusti giusti.
Li festeggiò così: celebrando plasticamente il suo totale disinteresse per quei 630, arrivati lì prima di lui e ora chiamati a rincorrere gli umori del suo governo.
Eppure, che il rapporto tra i poteri dello Stato si sia interrotto, non lo dicono solo i 30 voti di fiducia in 10 mesi.
Il ministro Maria Elena Boschi ha da poco pubblicato una tabella riepilogativa degli atti di indirizzo della legislatura: secondo il Dipartimento per i Rapporti con il Parlamento sono stati conclusi il 53 per cento delle mozioni e risoluzioni presentate alla Camera e il 58 per cento di quelle depositate in Senato.
Per “conclusi”, specifica la tabella, si intendono tutti gli atti “discussi, trasformati o ritirati”.
Che poi il governo li tenga in considerazione, è tutto da vedere.
È il “Servizio per il controllo parlamentare” di Montecitorio a fornire cifre che fotografano il totale disinteresse del governo verso le indicazioni dei parlamentari.
Cominciamo dall’inizio.
Il “Servizio per il controllo parlamentare” ha, tra gli altri, il compito di verificare e controllare “il seguito delle deliberazioni e delle iniziative parlamentari non legislative”.
A questo scopo, segnala ai ministeri competenti tutti quegli atti che sono stati approvati in Assemblea o in commissione e che sono stati accolti dal governo anche solo come “raccomandazione”.
Sarà poi cura del ministero informare il “servizio per il controllo parlamentare” che fine hanno fatto quegli atti che gli erano stati segnalati.
Dunque, le cose sono due: o i ministeri si scordano sistematicamente di comunicare il loro lavoro, oppure quegli atti finiscono in un cassetto che nessuno apre più.
Ecco i numeri: su 2.450 ordini del giorno segnalati, ne sono stati attuati 92.
Su 115 risoluzioni, hanno avuto un seguito soltanto 15.
E delle 186 mozioni sottoposte ai ministeri, solo 18 sono state messe in campo.
Le somme sono presto fatte: su un totale di 2751 atti di indirizzo, il governo ne ha attuati 125.
Tradotto: il 4,5 per cento.
Nella classifica (elaborata dall’associazione Openpolis) la Presidenza del Consiglio è quella che meno risponde alle interrogazioni, seguita dal ministero della Giustizia e da quello dell’Economia.
I governi precedenti non avevano brillato in capacità di ascolto delle prerogative parlamentari: Berlusconi aveva risposto al 39 per cento delle interrogazioni, Monti al 29. Ma quest’ultima legislatura (per metà di Enrico Letta e per l’altra di Matteo Renzi) non arriva nemmeno al 15.
Paola Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
L’ECONOMISTA FRANCESE: “AIUTERA’ A RIVEDERE L’AUSTERITY CHE SOFFOCA L’EUROPA”
«Non capisco perchè le cosiddette cancellerie europee siano così terrorizzate dalla probabile vittoria di Syriza in Grecia. O meglio, lo capisco, però è ora di smontare le loro ipocrisie”.
Thomas Piketty, docente all’Ecole d’èconomie parigina, “l’economista più autorevole del 2014” come lo ha definito il Financial Times, è sceso in campo con tutta la sua grinta con un editoriale pubblicato ieri da Liberation .
«Serve in Europa una rivoluzione democratica», ha scritto e ce lo ripete chiaro e forte al telefono dall’aeroporto di Parigi mentre sta per imbarcarsi per New York, la città che ha lanciato il suo “Capitale nel XXI secolo” come libro dell’anno grazie all’endorsement del premio Nobel Paul Krugman.
Professore, però Tsipras si è fatto strada sventolando la bandiera dell’uscita dall’euro…
«Sì, ma ora ha molto ammorbidito le sue posizioni. Si è rivelato, all’opposto, un leader fortemente europeista, una posizione che si assesterà ulteriormente se com’è probabile dovrà formare un governo di coalizione, visto che secondo i sondaggi non avrà più del 28% e quindi 138 seggi, 12 in meno della maggioranza. I più probabili alleati come sapete sono il neocostituito partito di centrosinistra Potami e l’altra forza di sinistra democratica Dimar, che gli garantirebbero un altro 8-10%. Certo, Syriza farà valere le sue posizioni in Europa, ma non sarà un male, anzi».
Qualcosa accadrà , insomma. Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente?
«Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà , entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra che realizzano la coalizione di cui stanno mettendo le basi incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi. Lei quale soluzione sceglie? Io la terza».
La famosa “rivoluzione democratica”, insomma. Quali dovrebbero essere i primi atti?
«Due punti. Primo, la revisione totale dell’attuale politica basata sull’austerity che sta soffocando qualsiasi possibilità di recupero in Europa, a partire dal Sud dell’eurozona. E questa revisione deve per primissima cosa prevedere una rinegoziazione dei debiti pubblici, un allungamento delle scadenze, eventualmente dei condoni veri e propri di alcune parti. È possibile, glielo assicuro. Vi siete chiesti perchè l’America marcia alla grande, così come l’Europa fuori dall’euro come la Gran Bretagna? Ma perchè l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pil al pagamento degli interessi e solo l’1% al miglioramento delle sue scuole e università ? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’eurozona. Secondo punto: un accentramento presso le istituzioni europee di politiche di base per lo sviluppo comune a partire da quella fiscale, e magari riorientare quest’ultima tassando di più le maggiori rendite personali e industriali. Su queste materie fondamentali si deve votare a maggioranza e non più all’unanimità , e poi vigilare perchè tutti si adeguino. Più centralità serve anche su altri fronti a somiglianza di quanto si sta cominciando a fare per le banche. Solo così si potrà omogeneizzare l’economia e sbloccare la frammentazione di 18 politiche monetarie con 18 tassi d’interesse, 19 da inizio gennaio con la Lituania, esposta al flagello della speculazione. Non rendersene conto è miope e, quel che è peggio, profondamente ipocrita».
Le “ipocrisie europee” di cui parlava all’inizio: a cosa si riferisce più precisamente?
«Andiamo con ordine. Il più ipocrita è Jean-Claude Juncker, l’uomo al quale incoscientemente si è data in mano la commissione europea dopo che per vent’anni ha condotto il Lussemburgo a una sistematica depredazione dei profitti industriali del resto d’Europa. Ora pretende di fare il duro e di prendere un giro tutti con un piano da 300 miliardi che però è finanziato solo per 21, e all’interno di questi 21 la maggior parte sono fondi europei già in via di erogazione. Parla di “effetto leva” senza neanche rendersi conto di cosa sta parlando. Al secondo posto c’è la Germania, che fa finta di aver dimenticato il maxi-condono dopo la seconda guerra mondiale dei suoi debiti, scesi di colpo dal 200 al 30% del Pil, che le ha permesso di finanziare la ricostruzione e la prepotente crescita degli anni successivi. Dove sarebbe andata se fosse stata obbligata a ridurre faticosamente il debito a colpi dell’uno o due per cento all’anno come sta costringendo a fare il sud Europa? La terza piazza nell’imbarazzante classifica delle ipocrisie spetta alla Francia, che ora si ribella alla rigidità tedesca ma è stata in prima fila nell’affiancare la Germania quando è stata impostata la politica dell’austerity, e altrettanto decisa sembrava quando con il Fiscal Compact del 2012 si sono condannate le economie più deboli a ripagare i debiti fino all’ultimo euro malgrado la devastante crisi del 2010-2011. Ecco, se saranno smascherate e isolate queste ipocrisie si potrà ripartire per lo sviluppo europeo nell’anno che sta per iniziare. E Syriza farà meno paura»
Eugenio Occorsio
(da “La Repubblica”).
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
CON IL DECRETO VARATO LA VIGILIA DI NATALE RISCHIERà€ IL CARCERE SOLO CHI EVADE OLTRE 150 MILA EURO, CONTRO I 50 MILA ATTUALI…IL SOLE 24 ORE: “SENZA MODIFICHE SALTERà€ UN PROCESSO SU TRE”
La vigilia di Natale è stata generosa con gli evasori: il regalo è arrivato direttamente dal governo.
Man mano che la bozza del decreto legislativo sui reati tributari viene analizzata, infatti, si capiscono meglio anche gli effetti dell’allentamento deciso dall’esecutivo di Matteo Renzi con il testo licenziato lo scorso 24 dicembre: migliaia di processi e fascicoli cancellati, con l’abuso del diritto che di fatto esce dall’ambito penale grazie alle soglie di punibilità triplicate.
Andiamo con ordine. Il segnale d’allarme l’ha lanciato il Sole 24 Ore: con queste norme, “salterà un processo su tre”.
Stando al testo — inviato alle commissioni parlamentari — la soglia sotto il quale non scatta il reato di omesso versamento di Iva e trattenute passa da 50 mila a 150 mila euro.
Resta solo la sanzione amministrativa, con la fedina penale che resta pulita.
Stando al quotidiano di Confindustria, l’effetto sarà quello di condannare all’estinzione oltre un terzo dei processi.
Un numero sottostimato visto che si riferisce ai procedimenti in corso per effetto del “favor rei”, per cui le disposizioni penali più favorevoli valgono anche per il passato.
A questi vanno aggiunte le “notizie di reato” arrivate alle Procure (peraltro solo le 38 prese in esame).
Tradotto in numeri: 8500 fascicoli su poco più di 25 mila, verranno archiviati.
Per dare l’idea, solo in Umbria rischiano lo stop 400 processi.
Le norme valgono anche per i versamenti degli acconti Iva effettuati nei giorni scorsi.
A far discutere è anche la decisione annunciata mesi fa — e confermata nel testo — di fissare un tetto di 1.000 euro al di sotto del quale emettere fatture false non è reato.
Come dire che quello che oggi è un illecito penale punito con la reclusione da 18 mesi a 6 anni diventa un semplice illecito amministrativo.
E il colpevole se la cava con una multa.
Lo stesso vale anche per chi si serve di quelle fatture o di altri “documenti per operazioni inesistenti” per truccare la dichiarazione dei redditi con l’obiettivo di evadere le imposte sui redditi o l’Iva.
Le soglie salgono anche per chi sfugge del tutto al Fisco: l’imposta evasa dovrà essere superiore a 50 mila euro.
In pratica una via di mezzo tra i 30 mila fissati nel 2011 da governo Berlusconi nel novembre 2011 e i 77 mila precedenti.
Il tetto resta invece a 30 mila euro per la dichiarazione fraudolenta attraverso “altri artifici”, cioè documenti falsi o altri “giochetti” con l’obiettivo di “ostacolare l’accertamento” e “indurre in errore il fisco”.
Ma anche qui interviene l’allentamento: a rischiare il carcere sarà solo chi riesce a sottrarre al fisco più di 1,5 milioni di euro.
Oggi ne basta uno per rischiare la galera. Ufficialmente l’allargamento delle maglie è motivato con la crisi economica.
Iva e trattenute, ad esempio, sono tra le imposte più evase dalle piccole e medie imprese in crisi di liquidità , la cosiddetta “evasione di necessità ”. Si tratta pur sempre di persone che hanno dichiarato i redditi al fisco, senza però versare l’imposta, e le soglie erano già salite grazie a una sentenza della Consulta dell’8 aprile.
Alcune, però, diluiscono ancora di più la possibilità di perseguire chi evade Iva e imposte: si verrà puniti, per dire, solo se le somme evase “sono superiori al 3 per cento del totale o dell’imponibile”.
Anche sui tempi, il fisco è depotenziato: grazie a una norma dell’ex ministro Vincenzo Visco, finora in caso di reati l’Erario poteva contare su un raddoppio dei termini di decadenza. Il decreto, invece, stabilisce che questo scatti solo se è stata presentata denuncia in Procura.
E chi paga il debito col fisco, potrà dimezzare o estinguere il reato. “Abbiamo fatto un decreto sull’abuso del diritto e nessuno ne parla”, ha spiegato il premier durante la conferenza di fine anno.
Di sicuro lo avranno fatto gli evasori.
Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
BUFERA SULLA PROPOSTA DI SOSTITUIRLI CON L’ASFALTO A PIAZZA VENEZIA E USARLI PER FARE CASSA
Prima ha sparato alto. «Venderemo i sampietrini di piazza Venezia per fare cassa» ha dichiarato il nuovo assessore ai Lavori Pubblici della giunta Marino, Maurizio Pucci «c’è un grande mercato nazionale e internazionale, e così ci rifaremo per le spese del nuovo asfalto fonoassorbente che stenderemo dal Vittoriano al Corso».
Poi ha corretto il tiro, ma di poco: «Non si tratta di vendere i sampietrini, si tratta di fare uno scambio con il rifacimento delle strade. Che verrà ripagato in parte con i sampietrini, e in parte con ulteriori interventi fuori dalle Mura Aureliane. Noi non vogliamo soldi, noi vogliamo opere, opere che noi scegliamo. Faremo una specie di gara d’appalto a rialzo».
E quanto si può ricavare da un sampietrino? E Pucci: «Un metro quadrato con la posa in opera costa oltre 200 euro, fare un metro quadrato di strada con l’asfalto fonoassorbente viene meno della metà ».
Ma intanto la rituale “guerra del sampietrino” è già scoppiata.
A dare fuoco alle polveri è subito Sgarbi, che tuona: «È una follia, un’offesa alla città . I sampietrini rappresentano la pavimentazione caratteristica di Roma. Inoltre non mi pare che siano pietre preziose e che quindi consentano di fare profitti o di venderle. Temo che l’assessore abbia avuto un colpo di sole in pieno inverno, speriamo che Marino ne metta un altro».
Lapidario l’archistar Massimiliano Fuksas: «Mi sento male solo all’idea che i sampietrini spariscano, che vengano venduti. Ho convissuto con loro per una vita. Non so da dove venga il dottor Pucci, ma la sua idea provoca un malessere spaventoso.
E Gasparri su Twitter arriva all’aggressione fisica: «Non amo i sampietrini, ma l’idea di venderli è così deficiente che meriteresti che te li tirassero in fronte», dice al sindaco di Roma.
Ribatte Ignazio Marino: «Ma noi li toglieremo in parte dal Centro per metterli nelle aree pedonali in periferia». Però non calma gli animi.
E il capogruppo di “Noi con Salvini” nel primo municipio, minaccia: «Sono pronto a sdraiarmi in strada per impedire la rimozione. La impedirò fisicamente».
Parla anche Nicodemo Linguido, il titolare della Cava Basalto Laghetto, l’ultima a fornire sampietrini.
«Tutte le cave di basalto hanno chiuso, ormai li importiamo dal Vietnam e dalla Cina in caso di ordinazioni. Ci sono i “cubetti”, 12 centimetri per 12 e i tradizionali “spilloni” alti anche 18 centimetri. L’importante è come si mettono sulle strade».
Contro Pucci l’associazione del selciaroli romani. «Invece di rimuovere i sampietrini» afferma Ilaria Giacobbi, nipote di uno degli storici esponenti della categoria «bisognerebbe valorizzare il lavoro del posatore, che è un nostro patrimonio».
Ma c’è anche chi si rivolge in procura. Come il consigliere regionale Sartori, che paragona i sampietrini ai «monoliti di Stonehenge e minaccia un esposto: «Dove sono finiti quelli di piazza Vittorio?». Chissà .
Intanto i privati si cominciano a muovere: una catena di librerie li vende, numerati, a 40 euro l’uno.
Come ricordi di Roma.
Paolo Boccacci
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
PRIMARIE DI NUOVO RINVIATE AL 1 FEBBRAIO, IN ATTESA DELLA SENTENZA SU DE LUCA
Un Vietnam che è sul punto di esplodere, questa è la fotografia del Pd in Campania, alla vigilia della corsa per le elezioni regionali di maggio
Ieri lo specchio di questo Vietnam è stata la direzione regionale del partito, che ha votato a maggioranza il secondo rinvio delle primarie, indette per il 14 dicembre, poi slittate all’11 gennaio, e ieri al primo febbraio.
Il problema ovviamente non è tecnico, è un partito squassato in correnti e sottocorrenti (racconta un dirigente che «per una corrente si arrivano a contare fino a sei sottocorrenti»).
In questo quadro Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, è pronto a correre, peraltro con la mannaia di una sentenza in arrivo (guarda caso, attesa il 22 gennaio: col paradosso di un Pd garantista che spera nei giudici per toglierselo di torno), sfidando Andrea Cozzolino, europarlamentare, gran signore delle tessere.
Una corsa a dir poco ancien regime, che non entusiasma molti.
Cozzolino va dicendo che «se ci sono ragioni tecnico organizzative un rinvio è accettabile, ma altre ipotesi mi sembrerebbero delle forzature al processo democratico». Il problema è che è evidente a tutti che non si tratta di «ragioni tecnico organizzative».
Il dilemma è strategico, prima che locale-campano: può il Pd di Renzi – l’homo novus che ha scalato il partito proprio grazie alle primarie – sancire che, «se non ci sono le condizioni», le primarie non si fanno? Chi decide le condizioni?
A Napoli c’era stata un’esperienza stile-Leopolda, la Fonderia: ma la sua candidata possibile, Pina Picierno, è stata subito stoppata dai veti incrociati.
E a Roma riprende quota la carta meno compromessa: Gennaro Migliore.
A Francesco Nicodemo, il napoletano più vicino a Renzi, non dispiacerebbe: Migliore è estraneo a vent’anni di beghe campane, sostanzialmente è un esterno al Pd, quindi (forse) non avrebbe grossi veti addosso.
Raccontano che, secondo l’Underwood renziano, Luca Lotti, su Migliore potrebbe esserci il via libera di Renzi.
Anche perchè, volente o nolente, sfumato Cantone, nomi salvifici non se ne vedono, e con questi chiari di luna Caldoro rischia persino di rivincere.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa“)
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
“POSSIBILE LICENZIARE DOPO UN GIORNO DI ASSENZA”
Complicata da attuare, potenzialmente incostituzionale e discriminatoria, mirata a bypassare la trattativa sindacale “a un modico prezzo”.
Questo, in sintesi, il giudizio del giuslavorista Umberto Romagnoli sull’estensione della riforma dell’articolo 18 ai licenziamenti collettivi contenuta in uno dei due decreti attuativi del Jobs Act approvati dall’esecutivo alla vigilia di Natale.
“Il Jobs Act determina un doppio binario nella gestione dei licenziamenti. I nuovi assunti hanno un trattamento di tutela assai meno efficace rispetto ai colleghi al lavoro da più tempo”, sottolinea il professore diventato docente ordinario di diritto del lavoro nel 1970 all’Università di Bologna, che negli anni novanta ha fatto parte della Commissione di garanzia sugli scioperi.
“Stando al decreto attuativo la riforma, che prevede in quasi tutti i casi la sostituzione del reintegro con un’indennità , si applica ai lavoratori “assunti (…) a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Questa disparità di trattamento, fa notare il giuslavorista, si ritrova sia nei licenziamenti collettivi sia in quelli individuali.
Ma con una sostanziale differenza. “Se il provvedimento è collettivo, si presentano ulteriori complicazioni a livello pratico — continua Romagnoli — Tra i vari licenziati, bisognerebbe distinguere tra quelli assunti prima e quelli assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act e agire in modo diverso”.
Insomma, i dipendenti di lunga data avrebbero diritto al reintegro, gli altri solo all’indennizzo.
“Siamo di fronte a un trattamento diversificato che è discrezionale, immotivato, non ragionevole — conclude il professore — Sono situazioni identiche trattate in maniera disuguale. Questa riforma aumenta le divisioni tra i lavoratori”.
Diretta conseguenza di questo ragionamento sono i profili di incostituzionalità del Jobs Act.
“Credo che questo provvedimento non sia legittimo — aggiunge — E’ una legge che costituzionalmente non sta in piedi: viola il principio di uguaglianza riconosciuto dalla Carta”.
La previsione, quindi, è che presto partiranno ricorsi per rilevare l’incostituzionalità della norma.
“Ma mentre la Consulta deciderà , passerà molto tempo — riflette il professore — Basti pensare all’estromissione della Fiom da parte della Fiat a Pomigliano d’Arco. La Corte impiegò due anni prima di decretare la sua riammissione in fabbrica. Nel frattempo, il danno si produce e si generano lesioni non riparabili“.
Un’altra conseguenza dell’estensione delle nuove regole ai licenziamenti collettivi risiede, secondo Romagnoli, nell’ulteriore indebolimento del ruolo del sindacato. “Con il Jobs Act, l’imprenditore potrà evitare la fase della trattativa sindacale che precede l’avvio dei licenziamenti collettivi, pagando il piccolo prezzo della corresponsione delle indennità — ragiona il giurista — Qui si monetizza non solo il diritto alla continuità del rapporto di lavoro, ma anche il potere contrattuale del sindacato”.
A essere ridimensionato dalla riforma, sempre nella visione di Romagnoli, non sarà solo il potere delle sigle sindacali, ma anche quello dei giudici.
Il riferimento è a quel passaggio del decreto attuativo dove si contempla il reintegro per i licenziamenti disciplinari, ma esclusivamente nei casi in cui sia “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento“.
Secondo il professore “è incostituzionale limitare l’esercizio del potere giurisdizionale. Il giudice deve avere la possibilità di accertare se c’è stata proporzione tra gravità del fatto commesso e la sanzione che è stata inflitta. Con un tratto di penna, il governo ha cancellato un principio di equità ”.
A sostegno della sua tesi, il giuslavorista porta un esempio pratico: nel caso di un solo giorno di assenza ingiustificata dal lavoro, l’imprenditore potrà procedere al licenziamento, senza che il giudice possa decidere se si tratta di un provvedimento sproporzionato rispetto al fatto commesso.
Eppure, il potere dei magistrati era già limitato, nella pratica, dalla scarsa applicazione dei loro verdetti.
“Su dieci sentenze di reintegro, otto non avevano luogo — spiega Romagnoli — Se l’imprenditore non voleva, il lavoratore non riprendeva il servizio”.
In sostanza, precisa il docente, era garantita l’erogazione dello stipendio e del versamento dei contributi, ma di fatto il dipendente non era più ammesso sul posto di lavoro, a causa della mancanza di strumenti coercitivi che obbligassero l’imprenditore a dare piena attuazione alla sentenza.
E molti lavoratori, pur avendo diritto al reintegro, finivano per accettare il risarcimento.
“Anche per questo motivo, i discorsi del governo sull’articolo 18 e sui maggiori investimenti che la riforma dovrebbe attrarre, sono pura propaganda — conclude — Si dice che stiamo andando verso il futuro, ma in realtà stiamo recuperando il passato, con un ritorno al potere unilaterale e tendenzialmente insindacabile dell’imprenditore. Se Matteo Renzi potesse riscrivere l’articolo 1 della Costituzione, direbbe che la Repubblica Italiana è fondata non sul lavoro, ma sulla libertà d’impresa“.
Stefano De Agostini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
“NON POSSO SOTTOVALUTARE ETA’ E AFFATICAMENTO”
Un discorso “speciale e un po’ eccezionale”. Tra i cui destinatari c’è anche “chi presto sarà al mio posto”.
E’ l’introduzione del discorso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il nono da quando fu eletto nel 2006, l’ultimo prima delle sue annunciate dimissioni che dovrebbero essere formalizzate a metà gennaio, in concomitanza con la fine del semestre della guida italiana dell’Unione Europea.
“Questa sera — ha detto il capo dello Stato — ci sarà un discorso un po’ diverso dal passato”. Il presidente ha ufficializzato l’addio senza giri di parole: “Sto per lasciare le mie funzioni rassegnando le dimissioni”.
Dimissioni che sono quindi “una scelta personale” e che riguardano una procedura, ha aggiunto Napolitano, “che la Costituzione prevede espressamente. E desidero dirvi subito che a ciò mi spinge l’avere negli ultimi tempi toccato con mano come l’età da me raggiunta porti con sè crescenti limitazioni e difficoltà nell’esercizio dei compiti istituzionali, complessi e altamente impegnativi, nonchè del ruolo di rappresentanza internazionale, affidati dai Padri Costituenti al capo dello Stato”.
Il presidente della Repubblica parla anche a chi gli chiede ancora oggi di aspettare.
“A quanti auspicano — anche per fiducia e affetto nei miei confronti — che continui nel mio impegno, come largamente richiestomi nell’aprile 2013, dico semplicemente che ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono, e dunque di non esitare a trarne le conseguenze. Ritengo di non poter oltre ricoprire la carica cui fui chiamato, per la prima volta nel maggio del 2006, dal Parlamento in seduta comune. Secondo l’opinione largamente prevalente tra gli studiosi, si tratta di una valutazione e di una decisione per loro natura personali, costituzionalmente rimesse al solo presidente, e tali da non condizionare in alcun modo governo e Parlamento nelle scelte che hanno dinanzi nè subendone alcun condizionamento”.
Napolitano auspica che “Parlamento e forze politiche si preparino serenamente alla prova dell’elezione del nuovo Capo dello Stato. Sarà quella una prova di maturità e responsabilità nell’interesse del paese, anche in quanto è destinata a chiudere la parentesi di un’eccezionalità costituzionale“.
“L’aver tenuto in piedi la legislatura apertasi con le elezioni di quasi due anni fa, è stato di per sè un risultato importante: si sono superati momenti di acuta tensione, imprevisti, alti e bassi nelle vicende di maggioranza e di governo; si è in sostanza evitato di confermare quell’immagine di un’Italia instabile che tanto ci penalizza e si è messo in moto, nonostante la rottura del febbraio scorso, l’annunciato, indispensabile processo di cambiamento. Un anno fa, nel messaggio del 31 dicembre, avevo detto: ‘Spero di poter vedere nel 2014 almeno iniziata un’incisiva riforma delle istituzioni repubblicane’.
Ebbene, è innegabile che quell’auspicio si sia realizzato”
Un passaggio del messaggio agli italiani è stato dedicato anche alla lotta alla corruzione contro la quale il Paese deve combattere unito. E’ una delle “patologie” del Paese.
“A cominciare da quella della criminalità organizzata e dell’economia criminale; e da quella di una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e complici in alto: gli inquirenti romani stanno appunto svelando una rete di rapporti tra ‘mondo di sotto’ e “mondo di sopra”.
Sì, dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società . E bisogna farlo insieme, società civile, Stato, forze politiche senza eccezione alcuna. Solo riacquisendo intangibili valori morali la politica potrà riguadagnare e vedere riconosciuta la sua funzione decisiva.
Napolitano ha, subito dopo, per contrasto elencato gli esempi nobili di italiani che danno lustro al Paese (e su questo la voce del presidente si è rotta).
In contrasto con “gli italiani indegni” ci sono dunque “figure esemplari”.
Come Fabiola Gianotti, diventata direttore generale del Cern, l’astronauta Samantha Cristoforetti, Serena Petriucciuolo, ufficiale della guardia costiera che sulla nave Etna, la notte di Natale, ha aiutato una profuga nigeriana a partorire.
E ancora Fabrizio (citato solo per nome verosimilmente per motivi di privacy), il medico di Emergency che si è ammalato di ebola durante il suo servizio in Sierra Leone. E infine un accenno ai soccorritori italiani che hanno portato in salvo centinaia di passeggeri del traghetto Norman Atlantic, nel mare Adriatico, tra la Puglia e l’Albania.
Lungo il passaggio sulla funzione dell’Unione Europea e degli sforzi, anche del presidente del Consiglio Matteo Renzi, di migliorare “da dentro” le politiche comunitarie. Con un messaggio indiretto a forze politiche euroscettiche, come Movimento Cinque Stelle e Lega Nord. “Sono pericolosi gli appelli al ritorno a monete nazionali” ha detto Napolitano.
Napolitano ha chiamato dunque a raccolta tutta quella che ha chiamato “comunità nazionale”. “Mettiamocela dunque tutta, con passione, combattività e spirito di sacrificio — ha affermato il capo dello Stato — Ciascuno faccia la sua parte al meglio. Io stesso ci proverò, nei limiti delle mie forze e dei miei nuovi doveri, una volta concluso il mio servizio alla presidenza della Repubblica, dopo essermi impegnato per contribuire al massimo di continuità e operosità costituzionale durante il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea. Resterò vicino al cimento e agli sforzi dell’Italia e degli italiani, con infinita gratitudine per quel che ho ricevuto in questi quasi nove anni non soltanto di riconoscimenti legati al mio ruolo, non soltanto di straordinarie occasioni di allargamento delle mie esperienze, anche internazionali, ma per quel che ho ricevuto soprattutto di espressioni di generosa fiducia e costante sostegno, di personale affetto, direi, da parte di tantissimi italiani che ho incontrato o comunque sentito vicini. Non lo dimenticherò”.
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
SARA’ IN OCCASIONE DELL’ASSEMBLEA DEI GRANDI ELETTORI DEM CHE SI CAPIRA’ SE ESISTE UN NOME IN GRADO DI REGGERE IL VOTO SEGRETO
Inutile girarci intorno.
Se il capo dello Stato deve uscire da una rosa approvata dall’assemblea dei Grandi elettori del Pd è dentro quel partito, o intorno a esso, che vanno accesi i riflettori.
Per evitare agguati o crisi di rigetto, Renzi infatti sa bene che un nome dem ha più probabilità di passare attraverso l’ordalia del voto segreto.
In questi giorni, prima della chiusura delle Camere, nei capannelli dei parlamentari Pd la discussione si è già accesa. Non su vaghi identikit, come impone la liturgia mediatica. Ma su nomi e cognomi.
E benchè nel partito abbia molti, moltissimi avversari, in fondo il primo personaggio a dominare le conversazioni, per status internazionale, per il prestigio interno di cui ancora gode, è sempre Romano Prodi.
Se una rosa deve essere offerta a Grillo e Berlusconi uno dei petali non può che essere lui, due volte premier e poi presidente della Commissione europea.
Personalità troppo ingombrante per Renzi?
Michele Anzaldi, renziano della prima ora, non lo crede affatto: «Nel 2013 Renzi ci disse di votare Prodi, è una leggenda che tra i 101 traditori ci fossimo noi».
Certo, c’è il problema di Berlusconi. Ma la “teoria Minzolini”, quella che vede in Prodi l’unico presidente che potrebbe opporsi davvero se il premier volesse andare al voto anticipato, sta facendo proseliti in Forza Italia.
«Non c’è un veto pregiudiziale su nessuno», si ripete dal cerchio magico di Arcore, nonostante Giovanni Toti di recente abbia sconsigliato la candidatura “troppo divisiva” del Professore.
Sta di fatto che i prodiani doc sono sempre più orbitanti intorno al capo del governo.
Dal sottosegretario Sandro Gozi, ormai fisso in televisione a difendere il governo, fino ad Arturo Parisi, che ha interpretato l’idea renziana di “partito della nazione” come realizzazione del sogno maggioritario dell’Ulivo.
Per non parlare del sottosegretario Graziano Delrio, non a caso presente quando Prodi varcò tre settimane fa il portone di Palazzo Chigi per un colloquio inevitabilmente interpretato anche come atto d’ingresso tra i “papabili”
Ma a dominare le chiacchiere da Transatlantico, lasciando da parte i nomi più o meno esotici, ci sono anche esponenti della vecchia guardia.
Come Walter Veltroni, di nuovo in auge dopo un offuscamento dovuto allo schizzo di fango di Mafia Capitale, che ha visto coinvolto un suo ex collaboratore (Luca Odevaine). Veltroni risulta del tutto estraneo alla vicenda e le sue quotazioni sono di nuovo in crescita.
Se non altro perchè è stato il pioniere della vocazione maggioritaria e fondatore del partito. Oltretutto, a differenza di Prodi, Veltroni può vantare una benevola neutralità da parte di Berlusconi.
Tanto che in Parlamento c’era in questi giorni chi ricordava non solo la campagna elettorale del 2008, all’insegna del fair play (addio al Caimano, l’ex Cavaliere era semplicemente «il leader dello schieramento a noi avverso»), ma anche quell’antico sdoganamento che l’allora capo della propaganda del Pci fece a Berlusconi nel 1986, invitandolo a un dibattito alla festa dell’Unità .
Certo, come Prodi anche Veltroni è ugualmente detestato da una parte ormai minoritaria del partito.
Potrebbero riaccendersi nei suoi confronti gli odi tribali che portarono al pugnalamento di Prodi? Secondo Walter Verini, ex braccio destro di Veltroni oggi deputato dem, lo spettro del 2013 ormai è dissolto: «Da quei giorni tutto è cambiato. Allora nei gruppi del Pd, figli delle parlamentarie, c’era grandissima inesperienza, c’era gente spaventata e pronta a cambiare idea al primo stormir di fronda sui social network. Oggi siamo tutti più maturi».
Seguendo la pista interna si incontrano però altri due nomi nella top list dei candidabili.
Il primo è stato segretario dei Ds e vanta ancora molte simpatie tra i bersaniani, dopotutto ha fatto la gavetta nella “Ditta”: Piero Fassino, sindaco di Torino, presidente Anci e, soprattutto, una lunga preparazione in campo internazionale.
Su di lui potrebbero convergere sia i renziani che Areadem.
Poi c’è Dario Franceschini, che nei gruppi conta meno sostenitori ma resta una figura di riferimento. Soprattutto, pur essendo stato segretario del Pd, nelle sue vene scorre l’antico sangue democristiano. Il vento potrebbe volgersi a suo favore se per il Quirinale tornasse a valere il principio dell’alternanza laico-cattolico.
Se questi sono gli umori che si raccolgono nei gruppi dem, le voci del mondo renziano puntano anche su un’altra figura, del tutto estranea alla politica: Raffaele Cantone. Invocato da Renzi come santino ovunque si sia verificato uno scandalo, dall’Expo al Mose a Roma Capitale, sarebbe difficile per chiunque opporsi alla sua candidatura. Marco Follini, nel 2006 tra i king maker di Napolitano, oggi punterebbe su di lui: «Sarebbe un segnale fortissimo che l’Italia dà all’estero».
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 31st, 2014 Riccardo Fucile
LA CONTESA DEI RIMORCHIATORI E LE MANOVRE DEI PROPRIETARI
Quattro navi albanesi, cinque italiane, due greche.
Tutte intorno al relitto della Norman Atlantic in una minuscola battaglia navale nel porto di Valona.
L’epilogo non poteva essere più atroce e grottesco, con due gruppi di rimorchiatori a contendersi questo cimitero galleggiante che custodisce, oltre i cadaveri dei dispersi, le risposte al quesito più importante: di chi sia la responsabilità della tragedia.
La Procura di Bari ha sequestrato la Norman: nessuno deve poter inquinare le prove.
E così la stampa albanese nel tardo pomeriggio titola: “Lotta per il traghetto della tragedia, vincono gli italiani. La nave a Brindisi”.
Ma sarebbe un errore interpretare la “lotta” come una questione tra Stati. E a rivelarlo è il ministro della difesa albanese, Mimi Kodheli, che nel rimorchio della Norman s’è intromesso un rimorchiatore che “non ha alcun legame ufficiale con la flotta albanese”.
Si riferisce all’Iliria che, spiega la tv albanese Top Channel, è “stata contattata dai proprietari del traghetto per recuperare il mezzo abbandonato”.
Una mossa poco gradita dalla procura che ha ufficialmente affidato ai rimorchiatori della compagnia Barretta il compito di custodire e trainare il traghetto nel porto di Brindisi.
L’incipit di questa battaglia, come rivelato ieri dal Fatto, avviene poche ore dopo il termine delle operazioni di salvataggio quando, quasi per scherzo, i tre rimorchiatori italiani vengono avvicinati dall’omologo albanese, l’Adriatik, che li stuzzica via radio dicendo: “Provo a rimorchiarlo io”.
Pensando a una semplice provocazione, i marinai italiani rispondono di provarci pure, non immaginando che l’Adriatik l’avrebbe davvero agganciato per portarlo nel porto di Valona.
Inizia il surreale inseguimento in mare, che si chiude tragicamente nella mattinata di ieri, quando un secondo rimorchiatore, l’Iliria, che inizia, a sua volta, a rimorchiare il primo, in una sorta di fila indiana.
La cima però si spezza uccidendo due marinai albanesi. La Norman resta però agganciata all’Adriatik, che non ha alcuna intenzione di mollare la “preda”, finchè personale militare della nave San Giorgio non sale a bordo del traghetto per affidare il rimorchio alla compagnia italiana.
Il governo albanese è d’accordo, la procura l’ha convinto a desistere, ma poi tiene a precisare che con l’Iliria non ha nulla a che spartire, è intervenuto dopo essere stato contattato dai proprietari.
Nel frattempo, in questa guerra navale, s’aggiunge un ulteriore protagonista: il mega rimorchiatore genovese Varrazze, giunto da Malta, al quale la San Giorgio — con a bordo circa 214 persone – intima di allontanarsi di almeno un miglio dalla Norman.
In realtà , non è possibile stabilire con certezza da chi, l’Iliria, sia stato contattato: la Visemar da giorni afferma di aver affidato alla società olandese Smit Salvage, sin dal momento dell’incidente, “le operazioni di salvataggio”.
Ieri ha precisato di non avere “altro interesse che l’accertamento della verità ”, che “si atterrà a ogni indicazione dell’autorità giudiziaria, anche in merito al porto di destino della nave, richiedendo alla società Smit Salvage di attenersi a tali indicazioni”.
C’è un ulteriore dettaglio, però, che il Fatto è in grado di rivelare, e riguarda proprio il rapporto tra la Smit Savage e la compagnia dei rimorchiatori Barretta.
A raccontarlo è proprio Giuseppe Barretta: “Confermo che la Smit ha avuto un ruolo operativo sin dal 28 e infatti, qui in ufficio, abbiamo una sfilza di fax con cui ci chiede propone di lavorare in sub appalto per loro”.
Ma i Barretta non accettano: “Non abbiamo bisogno dei loro soldi, gli abbiamo risposto, perchè siamo andati lì per salvare delle vite e svolgere il nostro lavoro con professionalità e in autonomia, come sempre”.
A questo punto, secondo Barretta, la Smit alza il tiro: “Annunciano che, se non accettiamo, saranno costretti a inviare un loro rimorchiatore”.
Senza alcuna allusione, ma soltanto rimettendo in fila i fatti, c’è da rilevare una coincidenza: le fonti albanesi riferiscono che il rimorchiatore Ilia giunge, dopo l’Adriatik, in seguito a un generico “contatto” con la proprietà della nave.
Nel frattempo, però, è intervenuta la procura di Bari a mettere un punto definitivo: il traghetto è ufficialmente affidato ai rimorchiatori italiani, che nel tardo pomeriggio lo agganciano, e possono finalmente rimorchiarlo verso Brindisi.
“Vincono gli italiani”, titolano i tg albanesi.
Ora il punto chiave è capire davvero con chi — e soprattutto perchè — s’è lottato: se con gli armatori, con la Smit, con gli assicuratori, o con i rimorchiatori albanesi.
E la Procura di Bari intende capirlo al più presto.
Antonio Massari
(da “il Fatto Quotidiano“)
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