Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
IL GIALLO DEL FINANZIERE PESTATO
«Fai una busta per Bolla e ci metti una B. Poi una per Massimo e ci scrivi Car».
«M non lo posso scrive perchè c’ho la M de Marco Clemenzi». «Vabbè, scrivi C e gli fai trovare venti».
A parlare sono Salvatore Buzzi e la sua segretaria, Nadia Cerrito, entrambi arrestati nell’inchiesta su Mafia Capitale.
E l’oggetto della conversazione sono le buste di soldi con cui il ras delle cooperative si spartiva il “bottino” dei soci e assicurava la “benevolenza” di chi gli faceva vincere gli appalti.
Nuovi dettagli che emergono nel giorno in cui la procura incassa il primo successo processuale: il tribunale del Riesame di Roma, presieduto da Bruno Azzolini, ha confermato l’aggravante mafiosa per Massimo Carminati, Riccardo Brugia, Roberto Lacopo e Fabrizio Franco Testa che rimangono tutti in carcere.
Va ai domiciliari, invece, Raffaele Bracci, uno dei pesci piccoli del clan accusato di usura. Regge, dunque, l’impostazione dell’accusa, affidata ai pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, nonostante la battaglia combattuta in aula dagli avvocati Giosuè e Ippolita Naso (padre e figlia) che hanno cercato di smontare l’accusa di mafia. Il sindaco Marino ieri ha firmato l’atto con cui il Campidoglio si costituisce parte offesa.
Emergono, intanto, nuovi dettagli.
I carabinieri del Ros e i finanzieri del nucleo di Polizia tributaria indagano anche su un’aggressione avvenuta ad aprile a Cisterna di Latina.
La vittima è un maresciallo delle Fiamme Gialle, picchiato a colpi di spranga da due albanesi.
Quello che ha incuriosito la procura è che il sottoufficiale proprio in quel periodo stesse facendo una serie di accertamenti sulle cooperative riconducibili a tale Angelo Fanfarillo.
Uno che a Latina faceva lo stesso lavoro di Buzzi e che, guarda a caso, a Buzzi era collegato.
A lui direttamente e a Marco Clemenzi, anche lui di Cisterna di Latina e anche lui indagato nell’inchiesta perchè accusato di aver emesso una serie di fatture per operazioni inesistenti in favore delle cooperative del ras della “29 giugno”.
E non a caso, è proprio a Clemenzi che era destinata una delle buste con il denaro che Buzzi faceva mettere in cassaforte dalla Cerrito.
Ed è sempre Clemenzi a trovarsi, molto spesso, a contare le mazzette di contante insieme alla segretaria.
Una sua specialità , per al quale Nadia Cerrito lo prende in giro: «hai fatto il banchiere». Mazzette che Carminati (così come Clemenzi) volevano in pezzi piccoli, probabilmente per non dare nell’occhio.
Tanto che la Cerrito dice a Buzzi e al suo collaboratore Claudio Bolla: «Carminati tutti pezzi grossi c’ho, mo’ gli do quelli. Da venti non ce ne ho manco uno»
Il 15 novembre 2013, negli uffici della Cooperativa 29 giugno, Buzzi e alcuni suoi collaboratori commentano la recente ispezione della Finanza durante la quale non è stato trovato nulla.
Un colpo di fortuna che inorgoglisce il ras: «Marco mi aveva dato i soldi. Li avevo messi nell’armadio visto che non dovevo paga’ nessuno. Lunedì è arrivato Massimo se l’è presi e finita la storia. Ma se venivano lunedì, che cazzo je dicevo?».
Maria Elena Vincenzi
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
“QUESTE NORME NON SARANNO APPLICABILI ALL’INCHIESTA ROMANA”
Pene più severe, prescrizione aumentata, misure più efficaci per recuperare il maltolto. Questi i contenuti aggiuntivi al ddl Orlando sulla criminalità economica — che è all’esame del Senato da fine novembre — che il governo ha approvato ieri sera in un apposito Consiglio dei ministri.
Si potrebbe dire che forse il governo poteva pensarci prima, e effettivamente una settimana fa le stesse norme che il Guardasigilli ha fatto passare ieri erano state bloccate dal no di Angelino Alfano, però adesso c’è di mezzo l’inchiesta su Mafia Capitale e quindi non si può dare l’idea di perdere tempo: “In Consiglio c’è stata piena condivisione”, ha potuto dire Renzi ieri sera.
Missione compiuta, si dirà , ma solo a livello mediatico: le nuove norme infatti, vendute come reazione a Mafia Capitale, non saranno comunque applicabili ai reati commessi prima dell’entrata in vigore.
Lo spiega lo stesso Guardasigilli, Andrea Orlando: “No, non saranno applicabili ai reati di ‘Mafia Capitale’ se non forse per alcuni aspetti patrimoniali”.
L’articolo 25 della Costituzione, d’altronde, è assai chiaro: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
La questione dei tempi, dunque, è pura propaganda: il governo approva in Consiglio dei ministri proposte da inviare in Senato una settimana dopo l’esplosione dell’inchiesta sul “Mondo di mezzo” di Massimo Carminati e soci.
Queste norme non hanno, però, alcuna speranza di influire sull’inchiesta in corso a Roma e peraltro arrivano — ironia della sorte — proprio a Palazzo Madama, dove un ddl anti-corruzione giace abbandonato da un anno e mezzo: porta la firma del presidente del Senato Pietro Grasso e contiene già molti dei contenuti approvati ieri a palazzo Chigi.
Il senatore Pd Felice Casson l’ha detto chiaramente: “Bastava che il governo desse via libera al disegno di legge fermo in commissione Giustizia al Senato : faremmo pure più in fretta”.
Ma il punto non è fare in fretta — visti i probabili, lunghissimi dibattiti da azzeccagarbugli che inizieranno ora alle Camere — ma dare l’impressione di reagire allo scandalo romano.
Veniamo ai contenuti, che — dal poco che si è capito ieri sera — sono comunque un passo avanti rispetto a oggi.
Si tratta, in sostanza, di aumentare le pene per la “corruzione propria” (restano fuori quella giudiziaria e l’induzione illecita): la minima passa da 4 a sei anni, la massima da 8 a dieci, il che fa conseguentemente aumentare anche i tempi di prescrizione.
Sul punto, però, c’è anche un’altro intervento: la prescrizione verrà bloccata automaticamente per due anni dopo il primo grado e per uno dopo l’appello.
Meno chiaro il meccanismo sul recupero del “bottino”, anche se il premier ha sostenuto che si tratta di un modo per rendere più facile la confisca dei beni e che sarà applicabile anche agli eredi.
Forse è colpa del viaggio di due giorni in Turchia da cui è atterrato giusto ieri pomeriggio, ma il premier sembra più confuso del solito: vorrebbe dire che è tutto a posto, eppure non può rinunciare a attaccare il vecchio sistema corrotto.
La rottamazione è uno sport logorante, si sa.
E infatti prima dice che “la lotta alla corruzione non si fa con le norme, è una grande questione educativa e culturale”, poi però magnifica l’aumento delle pene “perchè ci sono patteggiamenti che consentono di non andare in carcere e tenersi pure una parte dei soldi” (il riferimento è alla fine in gloria delle inchieste su Expo e Mose, in cui quasi tutti hanno patteggiato pene basse e restituito cifre decisamente contenute).
In realtà poi Orlando spiegherà che con le nuove pene “il patteggiamento non esclude la pena detentiva”, ma non la comporta automaticamente.
Finita? Macchè.
Il Renzi di ieri era un pendolo in incessante movimento tra l’italian pride e il vigore giustizialista: prima cita Transparency International e i suoi pessimi dati sull’inflazione percepita, poi però dice che “noi non siamo d’accordo con chi dice che l’Italia è piena di corruzione”.
Pure lo slogan gli esce così così: ripete un paio di volte una cosa tipo “pagare fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo centesimo” e poi s’incarta sul non entusiasmante autoritratto “siamo il governo che ha l’ambizione di fare di più contro la corruzione”. E ancora: don Ciotti dice che l’autoriciclaggio è un compromesso al ribasso?
“Non è così, ma comunque almeno noi l’abbiamo messo l’autoriciclaggio. C’è chi fa le cose e chi…”, poi siccome di don Ciotti non può dire che chiacchiera e basta cambia discorso.
La chiusura è “un appello ai magistrati” — in cui include pure il Guardasigilli bordeggiando l’incidente costituzionale — “a fare rapidamente i processi per avere le sentenze il prima possibile”.
Così, per curiosità , per vedere se “Mafia Capitale” può essere smantellata con le vecchie leggi.
Lui, intanto, ha fatto il suo spot.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NE PROMETTE DI TUTTI I COLORI
Il richiamo al rispetto reciproco. L’invito ad una discussione pacata. L’auspicio che si mettano da parte esasperazioni sempre più evidenti.
E’ l’ultimo appello del Presidente della Repubblica, nel giorno dello sciopero generale di Cgil, Uil e Ugl.
Parole al vento, con ogni probabilità : come portate via dal vento — lo conferma la cronaca di queste ore — sono state, per mesi, le invocazioni a varare quelle riforme (costituzionale ed elettorale) che giacciono tutt’ora in questa commissione o in quell’aula parlamentare, ostaggio di continui veti incrociati.
Le manifestazioni in cinquanta e più città italiane, e uno sciopero generale quasi «ad personam» — come non se ne vedeva dai tempi dei governi Berlusconi — segnalano con inequivoca nettezza come il vento attorno al governo di Matteo Renzi stia decisamente cambiando.
La filosofia dell’ «uno contro tutti», che tanto aveva pagato nei mesi dell’ascesa dell’ex sindaco di Firenze, comincia infatti a mostrare l’altra faccia della sua medaglia. I «tutti», infatti, vanno riorganizzandosi, si accordano, si spalleggiano e muovono al contrattacco.
Il quadro che ne emerge è desolante.
Pessimi i rapporti con l’Europa; in caduta libera tutti i parametri economici; improntati a sospetti (patto delNazareno) o a scontri durissimi i rapporti tra i partiti; guerra aperta tra Cgil e governo; disastrato, fino a far immaginare una rottura imminente, il rapporto tra il segretario-premier e la minoranza del suo partito, il Pd.
In un panorama fattosi così cupo, non può sorprendere che torni ad aleggiare il fantasma di elezioni anticipate: che poi sia tecnicamente difficilissimo arrivarci e politicamente quasi suicida pensarci, pare importare poco o nulla.
Tanto a destra quanto a sinistra.
E’ opinione comune che l’origine del rapido deterioramento del quadro politico sia da ricercare nel drammatico scontro in atto nel Partito democratico.
La guerra che le correnti di minoranza hanno intrapreso contro Renzi sta infatti riverberando i suoi effetti su quasi ogni fronte.
Nelle aule del Parlamento, ogni provvedimento di un qualche peso (riforma del Senato, Jobs Act, legge elettorale) è ostacolato o rallentato dallo scontro interno al Pd; e sul piano economico-sociale, si assiste ad un lievitare della protesta e ad una sorta di rovesciamento — nei rapporti tra sinistra e sindacati — dell’antico concetto di «cinghia di trasmissione»: con la Cgil, oggi, a far da traino e guida per l’opposizione interna al Pd.
Molto di quanto avviene, ricorda assai da vicino dinamiche che erano tradizionali al tempo della Prima Repubblica e della Dc, quando la guerra tra correnti (andreottiani, demitiani, dorotei…) produceva crisi di governo, cambi di premier e fine anticipata di questa o quella segreteria.
Sembrava un passato destinato a non tornare, e invece eccolo qui: con i suoi effetti disastrosi tanto sul piano della tenuta del sistema che dell’efficienza di governo.
Che il passato non ritorni, è possibile ma non scontato; che occorrerebbe ricordarne gli aspetti peggiori, invece, sarebbe — anzi: è — segno di saggezza e responsabilità .
In tale caos, è annunciata per domani l’ennesima «resa dei conti» all’interno del Pd, ma è difficile che l’Assemblea nazionale dei democrats possa portare a conclusioni e dinamiche nuove e certe.
E’ arduo, infatti, immaginare che il copione possa esser assai diverso da quelli visti e noti: Renzi che fa la sua relazione, la minoranza che vota contro, si divide o si astiene, e ogni cosa — alla fine — che ricomincia come prima.
Del resto, è inutile per i nemici del segretario-premier, forzare tempi e scelte adesso, quando la migliore occasione per una resa dei conti definitiva sembra a un passo, lontana qualche settimana o poco più.
E’ infatti lungo le alture di quel vicolo stretto — un vero e proprio canyon — rappresentato dalla scelta del nuovo Presidente della Repubblica, che i nemici interni ed esterni del premier vanno accampandosi per consumare la vendetta.
In una situazione nella quale nessuno dei leader maggiori (da Berlusconi a Renzi, fino a Beppe Grillo) controlla pienamente il proprio partito, si rischia di vederne di tutti i colori.
E il ricordo dei 101 franchi tiratori che affondarono la candidatura di Romano Prodi, potrebbe sbiadire di fronte a dissensi ed insubordinazioni ancor più espliciti e numerosi.
In palio, infatti, non c’è solo l’elezione del nuovo Capo dello Stato, ma la testa di Matteo Renzi: Pier Luigi Bersani, del resto, la sua la perse così.
Il più giovane premier della storia repubblicana sa che potrebbe andar incontro ad analogo destino. Riflette e ragiona su come scansare il pericolo, ma una soluzione ancora non ce l’ha.
E intorno a lui, intanto, tutto sembra degradare e cambiar verso. Anzi, ricambiar verso: come non si sarebbe mai detto fino ad ancora due o tre mesi fa…
Federico Geremicca
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »