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MAFIA CAPITALE, SOLDI PER IL GASOLIO, MA LA NAVE ERA AFFONDATA: ARRESTATI TRE UFFICIALI DI MARINA

Dicembre 15th, 2014 Riccardo Fucile

TRUFFA DA 7 MILIONI DI EURO: CARBURANTE MAI ACQUISTATO PER UNA CISTERNA ANDATA A PICCO NELL’OCEANO

Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, lo aveva annunciato l’11 dicembre scorso: “A Roma non c’è solo la mafia, presto ci saranno nuove operazioni”.
Ecco che la cronaca dell’inchiesta su Mafia Capitale registra una nuova tornata di arresti dopo il secondo round che aveva fatto scattare le manette ai polsi di due presunti affiliati della ‘ndrangheta in affari con Salvatore Buzzi.
Sono sei le ordinanze di custodia cautelare eseguite dalla Guardia di Finanza e tre di questi sono appartenenti alla Marina Militare. Cuore dell’inchiesta il rifornimento di una nave fantasma, il Victory I, naufragata nel settembre 2013 nell’Oceano Atlantico, tanto che alcuni componenti dell’equipaggio risultano ancora oggi formalmente dispersi.
Tra i protagonisti di questo nuovo blitz delle forze dell’ordine Massimo Perazza, detto “Massimo il romanista”, figura già  emersa nell’ambito dell’operazione ‘Mondo di mezzo’   del Ros dei Carabinieri.
Gli investigatori hanno registrato contatti tra Perazza e Roberto Lacopo (anche lui già  arrestato nel primo blitz), anche nel distributore di corso Francia, considerata una base della banda capeggiata da Massimo Carminati
Cuore dell’inchiesta il rifornimento per una nave fantasma, il Victory I, naufragata nel settembre 2013 nell’Oceano Atlantico
L’operazione, chiamata Ghost ship, ha permesso di scoprire che la banda consegnava solo sulla carta milioni di litri di gasolio al deposito della Marina Militare di Augusta (Siracusa) in Sicilia. Lo stratagemma utilizzato, grazie anche alla complicità  di appartenenti alla stessa Marina Militare, era semplice: veniva registrato il rifornimento per la ‘Victory I’, ma questa nave cisterna, hanno scoperto gli uomini delle Fiamme gialle, in realtà  era naufragata nel settembre 2013 nell’Oceano Atlantico, tanto che alcuni componenti dell’equipaggio risultano ancora oggi formalmente dispersi.
Grazie ai falsi trasporti della fantomatica Victory I, mai attraccata nel porto di Augusta, così era stata dichiarata la fornitura di oltre 11 milioni di litri di gasolio navale, per oltre 7 milioni di euro. Il carburante veniva fornito solo sulla carta dalla ditta danese O.W. Supply a/s, riconducibile a Lars P. Bohn, uno degli arrestati titolare di un appalto con l’Amministrazione della Difesa.
Bohn poteva contare sulla “collaborazione” di due società  italiane quali brokers, la Global chemical broker Srl di Massimo Perazza e la Abac Petroli di Andrea D’Aloja.
Grazie ai falsi trasporti della fantomatica Victory   era stata dichiarata la fornitura di oltre 11 milioni di litri di gasolio del valore di oltre 7 milioni di euro
Mario Leto e Sebastiano Distefano, il primo capitano di Corvetta della Marina Militare, capo deposito della direzione di Commissariato Militare Marittimo di Augusta, e il secondo, primo maresciallo, capo reparto Combustibili, erano, secondo l’accusa, invece i punti di contatto dell’associazione nel porto di Augusta, erano loro il trait d’union con la pubblica amministrazione militare.
Ed erano loro che, secondo gli inquirenti, preparavano i documenti falsi.
La banda poteva poi contare anche sulla collaborazione di altri appartenenti alla Marina Miliare, i marescialli Salvatore De Pasquale e Salvatore Mazzone, quest’ultimo arrestato, che, a vario titolo, dichiaravano l’avvenuta consegna del carburante ovvero la sua certificazione.
C’era anche un tecnico chimico Francesco Ippedico che invece attestava la qualità  e le caratteristiche del prodotto mai consegnato.
Il gip, che ha firmato gli ordini di cattura, ha anche il sequestro preventivo di   7.401.248,36 di euro, delle risorse finanziarie e dei beni delle persone fisiche e delle società  coinvolte.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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LAVORO, “CERCASI GIOVANI LAUREATI”: MA NESSUNO SI PRESENTA

Dicembre 15th, 2014 Riccardo Fucile

UN CONTRATTO DI APPRENDISTATO DA 22.000 EURO L’ANNO, AUTO, TELEFONO E ALTRI BENEFIT NON TROVA CANDIDATI… “NON C’E’ CORRISPONDENZA TRA DOMANDA E OFFERTA”

“Cercasi giovani neolaureati ad alto potenziale per ricoprire la posizione di sales account”, ma in Liguria, Molise e Basilicata quasi nessuno si presenta. Succede anche questo nell’Italia della disoccupazione giovanile che sfiora il 43 per cento.
Quando Diego Malerba, capo della Execo, società  che si occupa di selezione e formazione del personale, ha ricevuto il compito di trovare 4 apprendisti da inserire nella J Colors, società  leader nel settore delle vernici, pensava sarebbe stato un lavoretto piuttosto semplice.
S’immaginava già  alle prese con centinaia di curriculum, essendo in palio un posto di lavoro con contratto di apprendistato (finalizzato all’assunzione) da 22 mila euro lordi l’anno, auto, telefono aziendale e altri benefit.
I requisiti richiesti erano la laurea, età  sotto i 30 anni e la residenza nel territorio. Malerba e il suo team si sono messi al lavoro, pubblicando l’annuncio sui siti più importanti, utilizzando i social network e i canali tradizionali.
In Basilicata hanno risposto in 6, ma tutti, dopo essere stati contattati telefonicamente, hanno rifiutato l’offerta. In Liguria hanno risposto in 8, ma solo un paio si sono presentati al colloquio.
In Molise solo un giovane ha risposto all’annuncio, ma ha dato forfait al primo appuntamento.
“In Liguria e in Molise più di un giovane da noi contattato ci ha risposto di no, perchè preferisce aspettare il prossimo bando pubblico per accedere a un posto statale”, racconta Malerba, piuttosto sorpreso dalla situazione.
Il manager ha raccontato questa storia sul blog aziendale e moltissimi hanno risposto, aprendo un dibattito sull’assurdità  del contratto di apprendistato, che limita l’offerta di lavoro agli under 30, mentre ci sarebbero tante persone qualificate, fra i 30 e i 40, rimaste senza lavoro e che sarebbero ben liete di accettare quell’offerta.
Mentre nessun giovane neolaureato ha commentato.
Un caso isolato? Forse no.
Anche Giorgio Veronelli, partner della Gch Consulting, società  torinese che si occupa di selezione del personale, racconta un’esperienza analoga: “Faccio questo lavoro da 17 anni e mai come in questo periodo fatico a trovare giovani disposti ad accettare soluzioni interessanti. Ad esempio, una rinomata azienda veneta, operante nel settore della moda, stava cercando giovani laureati. Molti ragazzi ci hanno contattato, qualcuno per curiosità  ha fatto un colloquio, ma nessuno ha accettato il posto”.
Un caso analogo è avvenuto in H3G che, nei mesi scorsi, ha aperto le selezioni per mille giovani da inserire per lo più nel settore commerciale.
In questo caso il contratto prevede una percentuale di retribuzione fissa e un’altra a provvigione, in base alla capacità  di strappare contratti alle aziende, più svariati benefit aziendali.
Un lavoro non banale, che consiste nel battere a tappeto le piccole e medie aziende del territorio per offrire contratti telefonici. Anche qui l’azienda, che si aspettava la fila di giovani interessati all’offerta, sta faticando a trovare neolaureati.
Adecco cerca di dare qualche spiegazione al fenomeno.
Secondo l’agenzia siamo di fronte a casi di mismatching, problema ancora sottovalutato in Italia, dove non c’è corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro.
In pratica, nonostante i numeri allarmanti sulla disoccupazione crescente, specialmente tra i giovani, si verifica il paradosso per cui migliaia di posti di lavoro rimangono vuoti.
Gli annunci non trovano risposta e le aziende rinunciano a cercare.
“I giovani sono flessibili, ma è sempre più frequente il caso di mismatching, dove le competenze di chi cerca lavoro non corrispondono a quelle ricercate dalle aziende”, conferma Federico Vione, amministratore delegato di Adecco.
Secondo lui la causa prima è di tipo quantitativo: “Ci si laurea e ci si diploma in discipline non idonee alla richiesta da parte del mondo del lavoro. Ad esempio, ci sono troppi giovani che scelgono carriere umanistiche, mentre sono pochi quelli che intraprendono un percorso tecnico, che al contrario viene richiesto dalle aziende”, racconta il manager.
Il secondo problema è di tipo qualitativo, perchè, come racconta Vione, anche chi intraprende un percorso di studi scientifico e ad alto contenuto tecnico non possiede le competenze pratiche per entrare nel mondo del lavoro.
Il terzo problema è la scarsa intermediazione fra chi cerca lavoro e chi lo offre: “Le parti continuano a non incontrarsi. Se vogliamo risolvere questo problema è necessario comprendere le necessità  future delle aziende — non attraverso indagini statistiche, ma ascoltando le esigenze delle aziende, i loro piani di sviluppo e le loro ambizioni — ed entrare nelle scuole e nelle università  per raccontare ai ragazzi cosa cerca il mercato del lavoro. Così i giovani sapranno già  quello che li attende una volta terminato il percorso di studi”, conclude Vione.

Gloria Riva
(da “L’Espresso”)

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CACCIA AL TESORO DELLA MAGLIANA

Dicembre 15th, 2014 Riccardo Fucile

LA BANDA È VIVA:   DOPO GLI ARRESTI DEGLI ANNI ’90 MAFIA CAPITALE HA CONTINUATO A ESISTERE, A INVESTIRE IN APPALTI, A TESSERE LEGAMI CON IL POTERE E LA CRIMINALITà€ ORGANIZZATA

“Sarebbe un errore annoverare ‘Mafia Capitale’ nel catalogo delle nuove mafie.
Perchè deve escludersi che la sua genesi sia recente” e anzi deve “reputarsi che essa sia radicata da tempo…. La pellicola di ‘Mafia Capitale’ evidenzia un gruppo criminale che costituisce il punto d’arrivo di organizzazioni che hanno preso le mosse dall’eversione nera, che si sono evolute nel fenomeno criminale della Banda della Magliana e si sono definitivamente trasformate…” .
Questo scrivono i magistrati della Dda di Roma nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita lo scorso 1 dicembre nei confronti del nero Carminati er Pirata, o er Cecato, l’ex bandito della Magliana che all’epoca, mentre militava nei Nar, compiva insieme ai capi della gang delitti comuni anche efferati, secondo i pentiti, che lo accusarono non solo di essere il killer di Mino Pecorelli ma dissero che il Pirata regolarmente partecipava a spedizioni di morte che erano routine per quei malavitosi di borgata, come accadde quando, secondo il pentito Maurizio Abbatino, Carminati dopo aver tentato di uccidere due persone impugnando un mitra Mab prelevato dall’arsenale dei neofascisti, si era fatto rilasciare un falso certificato di ricovero presso l’ospedale militare del Celio per precostituirsi un alibi.
Lucido e spietato. Affidabile e rigoroso. Non a caso Renatino De Pedis lo avvicinò a sè, quando ormai la banda si era divisa e De Pedis si era allontanato da quelli che nel gruppo erano rimasti malavitosi veraci, perchè sperperavano i guadagni invece che accumularli e moltiplicarli come faceva lui, il Dandy, che si era ormai messo in affari con Enrico Nicoletti, ‘banchiere’ della gang ma anche della camorra e della ‘ndrangheta insediate Roma, quello a cui De Pedis consegnava i soldi affinchè li moltiplicasse, attraverso l’usura oppure investendoli in investimenti immobiliari e negozi.
Delinquenti rivestiti da imprenditori     Già  all’epoca gli appalti del Comune di Roma facevano gola, tant’è che Nicoletti — mentre intanto tesseva la sua tela di rapporti anche con la camorra di Michele Senese e affiancava a sè gli zingari Casamonica, per utilizzarli nelle operazioni di recupero crediti — aveva infiltrato il cantiere dell’università  di Tor Vergata facendosi assegnare dal Campidoglio lavori per 434 milioni di vecchie lire, allo scopo di fare un ospedale annesso alla nuova facoltà  di Medicina.
Affare suggellato da un pranzo a cui parteciparono, tra gli altri, lo stesso Nicoletti e l’allora sindaco di Roma, Ugo Vetere, calabrese, eletto col Pci.
I soldi che finivano negli appalti, in quei tempi, erano quelli del traffico di eroina dalla Sicilia dopo che De Pedis si era alleato con il cassiere di Cosa Nostra Pippo Calò attraverso il suo luogotenente romano Ernesto Diotallevi.
Un altro, Diotallevi, col pallino per gli affari, tant’è che col denaro di Calò aveva avviato speculazioni in Sardegna, attraverso società  immobiliari che avevano sede a Roma, nel quartiere Prati.
Oggi sappiamo che Massimo Carminati con lo stesso Diotallevi era in affari per alcuni appartamenti a nord della capitale e che all’interno di quelle unità  immobiliari il Cecato aveva in mente di nascondere un arsenale di armi, tra cui due pezzi di Makarov 9 con silenziatore.
“Non senti neanche il clack, prima che se ne accorgono… cioè… già  si è allargata la macchia di sangue…”, diceva mentre ne parlava col suo braccio destro Riccardo Brugia, ex neofascista, secondo il collaboratore di giustizia Roberto Grilli attualmente “uno dei più grossi rapinatori di Roma”.
Sempre dalle carte di mafia capitale, sappiamo che Carminati nel 2013 si incontrava con il boss Michele Senese, condannato di recente all’ergastolo, già  legato a Nicoletti. Il clan Senese, nel corso degli ultimi vent’anni, a Roma ha conquistato il monopolio della distribuzione della droga sulle piazze dello spaccio.
Business contemporaneo non più dell’eroina ma la cocaina, importata dalla Spagna.
I carabinieri scoprirono che Carminati, a maggio dello scorso anno, si vide al bar “La Piazzetta” vicino corso Francia, col sanguinario “Michelino”, come lo chiamava affettuosamente il Cecato.
Ed era un periodo in cui Senese, tornato libero per decorrenza dei termini di custodia, si era reso irreperibile. Gli investigatori videro Carminati e il camorrista discutere tra loro e quindi separarsi bruscamente. “Hanno un rapporto alla pari”, dedussero gli inquirenti.
Non a caso, un anno prima, Carminati fece da paciere a seguito di un fatto di sangue di cui era rimasto vittima, per mano di alcuni napoletani assoggettati ai Senese e legati alle frange estreme della tifoseria laziale, un bandito romano già  legato ai Fasciani di Ostia, gruppo legato Cosa Nostra che si era accaparrato tutte le concessioni delle spiagge sul litorale.
A proposito dei legami di Carminati con Cosa Nostra, il pentito Sebastiano Cassia ha dichiarato che “ per certe cose… tipo ammazza’ qualcuno qua a Roma, i Santapaola parlavano pure co’ Massimo….”, per avere un placet e ottenere supporto logistico.     Gli amici avvocati     e le mire politiche
Dunque De Pedis-Nicoletti-Carminati. “Renatino la domenica si attaccava al telefono e chiamava il fior fiore degli avvocati di Roma… Era referente, diceva: Avvocato, professore, ha ricevuto il regalo?… De Pedis già  si stava costruendo il futuro… Aveva questi modi da boss imprenditoriale… Per questo era di una noia mortale… Non si faceva neanche una canna! Si preparava agli avvenimenti che lui sognava… Si immaginava, perchè no, con qualche incarico in Parlamento, magari come sottosegretario o presidente di qualche cosa” disse anni fa in un’intervista a chi scrive il pentito della Magliana Antonio Mancini, detto l’Accattone.
De Pedis il bandito con velleità  borghesi. De Pedis che prima di morire ammazzato a 36 anni viveva in un appartamento al quinto piano dietro il Parlamento, in piazza della Torretta 26, ufficialmente sede di una società  di costruzioni.
Lì Renatino abitava con la moglie, Carla Di Giovanni, figlia di buona famiglia, un padre funzionario dell’ex azienda Iacp (Istituto autonomo case popolari).
Si era comprato, Renatino, la boutique di Enrico Coveri, sulla prestigiosa via della Vite. E della banda era anche il «Jackie O’», famosa discoteca dietro via Veneto.
Poi De Pedis era morto ammazzato per mano di Antonietto D’Inzillo, anche lui ex neofascista già  legato a Gennaro Mokbel. E dopo la morte di De Pedis, Enrico Nicoletti salì sul suo trono.
Iniziò quattro anni dopo il maxi processo alla banda della Magliana e quando arrivò la sentenza definitiva Enrico Nicoletti, Carminati e tanti altri appartenenti all’ala finanziaria della gang uscirono dopo lievi condanne, non avendo i giudici ritenuto la banda associazione mafiosa.
Oggi i magistrati ripartano da qui, dal punto in cui i rappresentati della pubblica accusa di venti anni fa fallirono.
E suggeriscono di guardare indietro, senza però spiegare cosa sia accaduto dal momento in cui la banda della Magliana fu ufficialmente sgominata — ora sappiamo che non è così — al giorno in cui è stato palese che essa non era affatto morta bensì si era “evoluta”, investendo e moltiplicando quel capitale iniziale lasciato da Renatino al suo ‘banchiere’.
I magistrati non fanno neppure cenno, in quelle oltre mille e cento pagine di custodia cautelare, al fatto che 11 anni fa ci fu un pentito, Dario Marsiglia, che svelò alla Dda quali erano, già  all’epoca, cioè nel 2003, le alleanze criminali a Roma. Marsiglia, catanese, era il pupillo di Giuseppe detto Ciccio D’Agati, già  uomo di Calò e rappresentante in quegli anni nella capitale della cupola di Bernardo Provenzano.
I suoi verbali di interrogatorio finirono presto in un cassetto.
Eppure Marsiglia aveva raccontato come gli eredi di De Pedis ancora gestissero numerosi centri commerciali al centro, soprattutto a Te-staccio . E che D’Agati era in rapporti già  all’epoca con Carminati.
Il pentito aveva anche parlato del sempreverde Ernesto Diotallevi, a cui sette anni dopo l’Antimafia sequestrerà  25 milioni di euro. Aveva detto Marsiglia che Diotallevi trafficava cocaina con Nicoletti. E che «Nicoletti per la droga si appoggiava ai Senese».
Carminati, invece, secondo Marsiglia ,«era molto vicino ai siciliani ed era pertanto intoccabile». Per questo motivo non era stato ucciso dagli ex della Magliana della vecchia guardia nel frattempo usciti di galera.
Questi ultimi erano intenzionati a vendicarsi nei confronti di quelli appartenenti all’ala finanziaria della banda che invece l’avevano fatta franca.
I miliardi e gli infami
“Si stava ricostituendo e ci stavano riuscendo la banda della Magliana, per far fronte a certe eliminazioni per Nicoletti, Carminati e Vitale — racconterà  Marsiglia — perchè quelli tra droga, usura e estorsioni al centro di Roma si erano fatti i miliardi, chiamando gli altri ‘infami’”.

Angela Camuso
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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BERLUSCONI PROVA IL PRESSING: “SE NON C’E’ IL QUIRINALE IL PATTO NON HA PIU’ SENSO”

Dicembre 15th, 2014 Riccardo Fucile

“UN CANDIDATO CHE SIA GRADITO ANCHE A NOI”

La scelta del futuro presidente è inclusa nel Patto del Nazareno. Meglio, l’accordo «ha come conseguenza logica che non potrà  essere eletto un capo dello Stato che “a noi non sembri adeguato all’alta carica ».
Silvio Berlusconi non fa in tempo a scagliare l’”ordigno” sull’assemblea del Pd riunita in quelle ore, chè incassa le smentite dei più alti vertici dem, dal vice segretario Guerini alla governatrice Serracchiani («Non fa parte del Patto»).
Una provocazione studiata, per gettare scompiglio, dietro la quale tuttavia si annida la paura di essere escluso dal grande Risiko del Colle.
È il timore che attanaglia l’ex Cavaliere sempre di più, man mano che la scadenza si avvicina: il premier che decide di fare da solo, chiudendo un accordo con la sinistra interna o, peggio ancora, coi 5 stelle.
Il leader di Forza Italia invece a quel tavolo vuole, «deve» sedere, come va ripetendo a tutti i collaboratori anche in questo fine settimana segnato dalla telefonata-monito ai militanti di Imola.
Del successore di Napolitano pretende di essere a tutti i costi uno dei due grandi elettori, perchè da un presidente della Repubblica «non ostile, non sfacciatamente renziano e di alto profilo» (è il suo identikit tracciato in privato) fa dipendere i suoi destini personali e giudiziari.
Convinto che se la Corte di Strasburgo non cancellerà , com’è probabile, gli effetti della condanna definitiva, allora solo il prossimo inquilino del Colle potrà  rimetterlo in gioco restituendogli in qualche modo «agibilità  politica ».
Berlusconi non si spinge più fino alla richiesta di scegliere il presidente «prima» dell’approvazione delle riforme: Renzi aveva già  risposto picche, stizzito.
Nè azzarda nomi come quello fatto (e bruciato) di Amato.
Ma pretende comunque di essere chiamato in causa. La minaccia sottintesa è quella esplicitata solo nei colloqui di Arcore e Palazzo Grazioli.
«È chiaro che se Matteo si sceglie un suo uomo per il Quirinale, magari con l’obiettivo di sciogliere subito dopo le Camere, il patto del Nazareno per noi non avrebbe più senso».
Rispettarlo finora gli è costato già  tanto, come ha ricordato anche in queste ore nella telefonata pubblica. Quell’accordo sulle riforme, dice ai militanti, «dà  fastidio perchè ha impedito un’opposizione vera su tutto, ha creato anche delle difficoltà  dentro il partito e ha disorientato gli elettori, ma come facevamo a dire di no a delle riforme che sono le nostre?»
Difficoltà  che sta cercando di dissimulare, evitando di arrivare allo scontro finale con Fitto, pur di presentarsi a gennaio coi 120 elettori forzisti schierati in riga.
Ma per eleggere chi? Berlusconi spera almeno di contenere i danni.
Parlando con i dirigenti, in questi giorni, ha confessato di ritenere superato il «rischio Prodi» perchè «non lo vuole neanche Renzi».
Ma considera attualissimo un altro, di rischio: «Sulla scia degli scandali e delle inchieste quelli lì sarebbero capaci di puntare sul presidente del Senato Pietro Grasso, o peggio ancora sul capo dell’anticorruzione Raffaele Cantone».
Un vento di «giustizialismo » sul Colle che il leader di Fi vuole assolutamente spazzare via.
A quel punto, altro che colpo di spugna, per lui. Solo in quest’ottica considera Mario Draghi una soluzione «da ultima spiaggia». Non lo ama (benchè lo abbia sponsorizzato alla Bce proprio il suo governo), «ma tanto non lo ama nemmeno Renzi», sottolinea coi fedelissimi. La partita insomma resta aperta.
«Dal 15 febbraio ci sarà  un cambiamento assoluto», promette Berlusconi nella telefonata al club di Imola alludendo al suo ritorno in campo (parziale) finito di scontare i servizi sociali.
Ma il match sul Quirinale si giocherà  prima.
E vorrà  dire la sua, e pesare, anche il leader Ncd Angelino Alfano, forte della pattuglia neonata di Area popolare di una settantina di parlamentari: «Non abbiamo difficoltà  a fare una scelta comune, dovrà  essere una figura che possa ottenere i voti del Pd, i nostri e quelli di Forza Italia».
Il ministro ignora, non a caso, la Lega di Salvini. I due si detestano e se le danno ormai di santa ragione.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)

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NESSUNA BATTAGLIA FINALE ALL’ASSEMBLEA PD, SOLO UNA GUERRA DI TRINCEA

Dicembre 15th, 2014 Riccardo Fucile

COME IN TUTTI I MATRIMONI DI CONVENIENZA, ROMPERE E’ UN LUSSO

Io da piccolo volevo cambiare il mondo, non fare la moviola”. Assemblea Pd, Hotel Parco dei Principi a Roma.
Matteo Renzi, in maniche di camicia (bianca ovviamente), conia la metafora che è insieme rivendicativa nei confronti delle minoranze. Ma anche amara.
Perchè più che a passo di marcia, gli tocca andare al rallentatore.
E alla fine della giornata, all’attivo del segretario-premier, non ci sono espulsioni, nè sanzioni, ne per i “ribelli”.
Non c’è neanche la conta finale su una relazione, che dice poco.
Dalll’altra   parte, non c’è nè l’Aventino (D’Alema non è venuto per non farsi insultare, Bersani diserta a casa di un mal di schiena, ma gli altri sono presenti), nè strappi espliciti e definitivi.
Stefano Fassina si conquista applausi entusiasti della platea quando urla in faccia al leader: “È inaccettabile, non ti permetto più di fare caricature di chi non la pensa come te. Se vuoi andare a votare, dillo”. Ma non parla di scissione.
Non è una battaglia campale quella nel Pd, è una guerra di trincea.
Maggioranza e minoranza si muovono da separati in casa, costretti a rimanere insieme, per ragioni di opportunità  e di necessità .
La prima, l’elezione del presidente della Repubblica, ormai alle porte. Passaggio di basso profilo nell’intervento di Renzi: “Io non sono preoccupato, questo Parlamento sarà  nelle condizioni di eleggere il capo dello Stato quando sarà  il momento. Non è il momento per evocare paure e minacce”.
Ci pensa Berlusconi a metà  della riunione del Pd a farlo: “Il Colle è nel Patto del Nazareno”. Smentita ufficiale alle telecamere del vicesegretario, Lorenzo Guerini, presente a tutte le riunioni tra Matteo e Silvio.
E però, quello che suona come un altolà  da parte del Cavaliere arriva a compromettere un equilibrio delicatissimo: il premier ha bisogno della minoranza, con la quale sta trattando, a partire da Pier Luigi Bersani (al quale lascia persino coltivare qualche illusione sulla sua persona), finito su una inconsueta linea di dialogo negli ultimi giorni.
Tra critiche della magistratura alle nuove misure anti-corruzione, legge elettorale che questa settimana arriva al voto in Commissione al Senato nella più totale confusione, riforme costituzionali appena licenziate dopo un corpo a corpo estenuante tra renziani e “dissidenti”, la giornata di ieri è uno show, senza showdown.
Renzi apre i lavori parlando quasi per un’ora. Critiche al passato. Non si capacita di “come si possa aver perso venti anni di tempo senza aver realizzato le promesse” che l’Ulivo aveva indicato in campagna elettorale.
Filosofia chiave: “Siamo quelli che cambiano l’Italia, non quelli che si mettono a mugugnare su chi cambia l’Italia”. Ammonimento/avvertimento: “Tutti quelli che stanno nel Pd devono avere l’onestà  come elemento fondamentale”. Ironia ai danni della magistratura: “L’indignazione e lo schifo non ci bastano. Io chiedo ai magistrati di arrivare velocemente ai processi. Devono parlare un po’ di più con le sentenze e un po’ meno con le interviste”.
L’affondo interno arriva alla fine: “Il Pd non starà  fermo per i diktat della minoranza. Sia chiaro che si farà  ogni sforzo per il dialogo fino all’ultimo giorno, ma non staremo nella palude per guardare il nostro ombelico”.
Ma è un affondo di rito, lo stesso che il segretario replica ormai ad ogni riunione dem. Rimasta sul tavolo anche la pistola carica dei conti delle vecchie segreterie.
I dossier sono pronti, ma meglio non scaricare tutte le munizioni subito. E poi, a scoperchiare il vaso di Pandora, non si sa mai cosa si trova.
Attesa per la replica della minoranza. Anzi delle minoranze, che nella migliore tradizione procedono divise.
Per usare gli aggettivi di Fassina il “raffinato” Cuperlo si limita all’analisi ( “Le piazze non diventino il nostro nemico”) e il “diplomatico” D’Attorre vorrebbe un grazie per il lavoro fatto in Commissione alla Camera.
Fassina, appunto, è l’unico che va all’attacco. Civati non interviene e parla di una scissione. Ma futura. Se si vota.
La Bindi passa e poi va in tv a rivendicare la grande tradizione dell’Ulivo.
Nella replica Renzi si rimette la giacca. A Fassina risponde ribadendo l’orizzonte di legislatura: “Non ha senso votare a ogni intoppo”. Alla Bindi: “Contrasto il racconto mitologico e nostalgico dell’Ulivo quando quella esperienza è stata mandata a casa dai nostri errori e dalle nostre divisioni”.
Chiarisce: “Non sono affezionato a un principiodi obbedienza, in un partito sta insieme sulla base del principio di lealtà ”.
Chi si aspettava qualche cedimento è rimasto deluso. Più deluso ancora chi conoscendo Renzi vedeva maturo il tempo degli strappi.
Di questi tempi, come in ogni matrimonio di convenienza, rompere è un lusso.

Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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RENZI GUARDA AL COLLE: “COSI’ POSSO FARE A MENO DEI VOTI DI FORZA ITALIA”

Dicembre 15th, 2014 Riccardo Fucile

IL PREMIER NON PUO’ PERMETTERSI IL CAOS INTERNO SE VUOLE EVITARE LA GUERRIGLIA SULLA NOMINA DEL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Dev’essere chiaro che se il patto del Nazareno salta o viene “arricchito” impropriamente con la corsa al Quirinale, la colpa è di Berlusconi. «Confermo: l’Italicum al Senato si vota prima dell’elezione del presidente della Repubblica», dice Matteo Renzi ai suoi collaboratori.
Dunque, non accetta diktat o ricatti nemmeno dal leader di Forza Italia.
«Non sono preoccupato e non necessariamente ci serviranno i voti di Forza Italia», spiega ancora il premier che probabilmente punta a spaventare l’ex Cavaliere con il ritorno al Mattarellum.
Ma per evitare il cortocircuito riforme-Colle è necessario tenere unito il più possibile il Pd.
Così si spiega la virata all’assemblea di ieri, riunita in un hotel vicino a Villa Borghese
Non è stato presentato alcun documento contro la minoranza, non c’è stato alcun voto politico contro i dissidenti.
Significa che ha vinto una linea di mediazione, sponsorizzata da Lorenzo Guerini e Roberto Speranza e sposata dal segretario. Una linea sulla quale si regge, al di là  della scissione di Civati e dello sfogo di Fassina, la tregua tra i renziani e l’ala guidata da Pier Luigi Bersani.
L’assenza dell’ex segretario (causa mal di schiena) assume così il senso non di un atto ostile ma di un via libera a quella lealtà  alla ditta invocata al microfono da Renzi.
Raccontano che anche Giorgio Napolitano, negando un ripensamento o un rinvio delle dimissioni ormai accettate con rassegnazione anche dal premier, abbia consigliato le parti in guerra del Pd, almeno quelle più responsabili, di non dividersi proprio adesso.
Perchè la sua successione appare tutt’altro che semplice. «Era sbagliato forzare, era sbagliato votare e la resa dei conti non si è vista», commenta soddisfatto il capogruppo del Pd alla Camera Speranza.
Renzi non può oggi tenere un fronte aperto anche nel Pd. Ora diventa chiarissimo infatti che il centrodestra sul nome del capo dello Stato si gioca le residue chance di ricomporsi.
Alfano con Berlusconi, Berlusconi con Fitto e Alfano. Se i democratici si spaccano o peggio si avviano a una scissione corposa, Renzi finisce per essere prigioniero dei giochi dentro il vecchio Pdl. Per questo rimane difficile che la legge elettorale venga approvata prima della grande riffa del Colle. Ma Renzi ci prova, per evitare di mischiare tutto.
E ha bisogno del Partito democratico, dei suoi voti, dei suo parlamentari.
Una strada per avere l’approvazione dell’Italicum prima che le Camere diventino seggio elettorale del capo dello Stato è chiudere su un nome condiviso in tempi brevi.
Dopo le parole di Alfano (non dev’essere un Pd che ha già  molte poltrone) e di Berlusconi, l’idea di scegliere un candidato di stretta osservanza dem che avrebbe il potere di consolidare la tregua interna rischia di non essere realizzabile.
Molti in sala, ieri, hanno letto nel discorso di Piero Fassino una candidatura al Quirinale.
E secondo alcuni il sindaco di Torino ha cominciato a muoversi anche fuori dal suo partito sondando i leader di altre forze. Ma un politico Pd ha possibilità  di essere scelto e votato dalla larghissima maggioranza dei parlamentari?
I grillini hanno fatto sapere che la loro indicazione cadrà  su un non politico e che solo con questo criterio sarà  fattibile un accordo in Parlamento. Quindi si lavora su uno schema libero, anche Renzi ne dovrà  tenere conto.
L’eleganza di Cuperlo e la diplomazia di D’Attorre, come le ha chiamate Fassina, lo hanno aiutato, per convinzione e per convenienza, ad accettare il compromesso interno e a non provocare la tempesta.
L’eco dello scontro si è sentito solo negli interventi di Ivan Scalfarotto e di Giorgio Tonini mentre dietro le quinte Guerini, Speranza e Dario Franceschini lavoravano a una linea soft. Renzi sa che il punto nodale rimane la tentazione di un voto anticipato e ieri, per negarla, è stato più convincente del solito, facendo l’esempio di Shinzo Abe, il premier giapponese che «al primo intoppo» ha portato il Paese alle urne, peraltro vincendo.
«Ma io non mi voglio fermare al primo intoppo. Voglio lealtà  e non accetto i diktat della minoranza. Detto questo, ascoltiamoci e troveremo sempre una direzione unitaria».
No, non era il giorno giusto per sfasciare il Partito democratico.
Semmai adesso bisogno indebolire le prime prove di ricostituzione del centrodestra, puntare su un candidato o una candidata che non renda troppo compatta l’area centrista e forzista e che sia frutto di un confronto dentro il Pd.
Magari certificando la scelta con un appuntamento solenne. Come una nuova assemblea nazionale convocata ad hoc.

Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)

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ROMA E GLI AFFITTI: LE SPESE FOLLI PER LE EMERGENZE

Dicembre 15th, 2014 Riccardo Fucile

CASE IN PERIFERIA A 2.700 EURO AL MESE… GLI AFFITTI D’ORO PER BUZZI E I COSTRUTTORI: PAGATI DAL COMUNE PER LE FAMIGLIE IN DIFFICOLTA’

Duemilasettecento euro al mese: lo stipendio di due impiegati comunali, oppure la pigione di un appartamento signorile ai Parioli.
Impossibile credere che il Comune di Roma possa spendere una somma simile per l’affitto di un alloggio in un residence di periferia.
Prima, naturalmente, di aver visto le cifra che il Campidoglio spende per la cosiddetta emergenza abitativa. Ovvero, circa 43 milioni l’anno. Più le bollette delle utenze.
Soldi, quei 43 milioni, incassati dai costruttori che affittano immobili al Comune, e dalle cooperative sociali come il Consorzio Eriches 29 di Salvatore Buzzi.
Con risvolti paradossali, più volte segnalati nelle sue interrogazioni dal solito consigliere comunale Riccardo Magi, recentemente eletto presidente dei Radicali italiani.
E non soltanto per i costi, oggettivamente astronomici.
Un esempio? Per gli 84 alloggi dell’Immobiliare San Giovanni 2005 del costruttore Antonio Pulcini in vicolo del Casale Lumbroso il Campidoglio spende 2.690.753 euro: 2.669 euro al mese per ciascuno.
In discussione, soprattutto, sono le modalità  con cui gli alloggi venivano di regola assegnati: senza graduatorie e i dovuti controlli sulle situazioni patrimoniali dei nuclei familiari.
Con il risultato che l’emergenza «temporanea» si trasforma sempre in emergenza stabile, con le famiglie (circa 1.850) che restano perennemente a carico del Comune pure quando viene accertata la mancanza dei requisiti.
Anche perchè le ordinanze di sgombero quasi mai vengono eseguite.
In una di queste strutture, quella di via Giacomini di proprietà  della Immobiliare commerciale srl, era addirittura ospitata la sede dell’organizzazione della destra romana Popolo di Roma.
Quello dell’assistenza all’emergenza abitativa è un meccanismo a geometrie variabili.
C’è il cosiddetto «vuoto per pieno», che consiste nell’affittare un immobile intero, pagandolo indipendentemente dal fatto che tutti gli alloggi siano o meno occupati.
In qualche caso al canone si somma il costo del servizio di «portierato sociale»( ?!) o «guardiania» (?!) affidato a una cooperativa: per cifre niente affatto simboliche.
C’è poi l’assistenza alloggiativa diretta da parte delle coop sociali.
Il Comune paga a queste una retta a persona, e la coop provvede all’alloggiamento e ai servizi. In questo caso il costo di aggira fra i 23 e i 24 euro a cranio. Il che significa oltre 2.100 euro al mese per un nucleo familiare di tre persone
Il Consorzio Eriches 29 di Buzzi ha incassato per il solo 2012 una cifra superiore ai 5 milioni di euro per 584 persone: 720 euro mensili per ognuna di queste. E in aggiunta un milione circa per i servizi di guardiania in due strutture, della Immobiliare Pollenza e della Investimenti Roma 2006.
Entrambe riconducibili alla famiglia di Antonio Pulcini (del quale si è ricordato ieri il coinvolgimento nell’inchiesta sulle presunte tangenti al deputato pd Marco Di Stefano), che con quattro immobili affittati al Comune (gli altri due sono quelli della New Esquilino e, appunto, della Immobiliare San Giovanni 2005) risulta il soggetto privato più attivo in questo business.
Il giro d’affari annuale con il Comune di Roma si aggira intorno ai 9 milioni: più di un quinto del totale
Ma nell’elenco non manca la famiglia Armellini, proprietaria del Park Hotel Costanza attraverso una società  lussemburghese (la Soloverte finance sa), come pure gli eredi del conte Romolo Vaselli (Nuova patrimoniale srl), mentre la Serenissima Sgr, che incassa circa tre milioni e mezzo l’anno ci porta fino alla A4 holding, la società  che controlla l’Autostrada Brescia-Padova presieduta dall’ex presidente leghista della Provincia di Vicenza Attilio Schneck.
Quindi nomi come quelli dei gruppi Baldassari, Amore, Caporlingua… Infine, la Immobiliare Ten amministrata da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma calcio e bandiera della città , Francesco Totti, a cui fa capo il pacchetto di maggioranza.
E se alla testa del gruppo di cooperative sociali impegnate nell’affare figura indisturbata la Eriches di Buzzi, nella lista furoreggiano anche la Domus Caritas e la Casa della Solidarietà .
Due coop alle quali la relazione degli ispettori della Ragioneria che mesi fa avevano decretato come illegittimi gli affidamenti diretti a Buzzi perchè sopra le soglie di importo comunitarie e illecitamente prorogati, non ha riservato commenti più lusinghieri.
C’è da dire che molti di quei contratti (fra i quali quello con la società  di Totti) sono scaduti o in scadenza a fine anno, anche se per alcuni, fra cui un paio di Pulcini e quello della famiglia Armellini, si andrà  avanti fino al 2018.
Sarebbe pure ingeneroso non riconoscere che il sindaco Ignazio Marino avrebbe voluto cambiare un sistema chiaramente assurdo, passando dagli affitti ai costruttori e alle coop a un contributo diretto alle famiglie bisognose, con un risparmio di una decina di milioni l’anno.
Peccato che tutto sia ancora a bagnomaria.

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)

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