Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
“SONO I NUOVI POVERI: NON VENGONO PIU’ SOLO STRANIERI O PERSONE ANZIANE SENZA FAMIGLIA E CON LA PENSIONE SOCIALE”
C’è la persona anziana che non ha famiglia, il senzatetto e la badante dell’Est che non può tornare a casa per le vacanze.
Ma ci sono anche avvocati, imprenditori, commercialisti, professionisti con la partita Iva, disoccupati.
Uomini e donne, madri e padri che fino a qualche anno fa avevano un lavoro e pagavano le tasse, ma che a causa della crisi l’hanno perso, o non riescono più ad arrivare alla fine del mese, e per concedersi un buon pranzo il giorno di Natale devono ricorrere alla solidarietà .
Sono loro i commensali degli appuntamenti all’insegna della beneficenza organizzati per le persone in difficoltà di Bologna in occasione delle festività : il 25 dicembre al Centro commerciale Vialarga, offerto dalla Camst, e il 3 gennaio al circolo Arci Benassi di via Mazzini, allestito dall’associazione Piazza Grande e dalla Caritas.
“Sono i nuovi poveri — spiegano gli organizzatori del pranzo solidale del 25 dicembre, Vialarga e Conad — oggi al pranzo di beneficenza non vengono più solo gli stranieri che faticano a trovare lavoro o le persone anziane che magari prendono la pensione minima e non hanno una famiglia con cui trascorrere le feste. Ci sono anche lavoratori autonomi con uno stipendio regolare che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. E ovviamente i disoccupati, generalmente di un’età compresa tra i 45 e i 60 anni, che a causa della situazione attuale non riescono a reintrodursi nel mercato del lavoro”.
Il volto dell’Italia segnato da sette anni di recessione, che non risparmia nè i giovani, nè i meno giovani.
E che sempre più spesso è costretto a chiedere aiuto alle associazioni, capofila la Caritas, anche solo per procurarsi un pasto caldo. Il pranzo di Natale del Centro commerciale Vialarga, che quest’anno celebra la sua ventesima edizione ed è organizzato con la collaborazione di Comune, Provincia, Quartieri, associazione Il Parco, Coop, Camst e Conad, ne è un esempio.
Nata nel 1994 come un’iniziativa ideata per riunire chi il 25 dicembre non ha nessuno con cui trascorrere le feste, per lo più anziani e stranieri che, residenti in Italia, hanno la famiglia all’estero, infatti, negli ultimi anni l’ormai tradizionale appuntamento natalizio intitolato “Un Natale per chi è solo” si è trasformato: “Ci siamo adattati alle nuove esigenze della città ”. Così sedute al tavolo con un piatto di lasagne — il menù è rigorosamente tradizionale — ci sono anche le mamme single con minori a carico o i padri divorziati che, dovendo pagare gli alimenti a moglie e figli, non hanno più denaro per l’affitto, e spesso vivono in auto o in mezzo a una strada. E poi c’è chi un lavoro non ce l’ha più, e non riesce a trovarlo.
“Tanti italiani, che magari perdendo l’occupazione hanno perso anche la famiglia, e non avrebbero altro posto dove trascorrere il 25 dicembre”.
Per il momento il Centro commerciale Vialarga conta 420 coperti prenotati per il pranzo di Natale, “ma ogni anno si presentano più persone di quelle che ci erano state segnalate dai servizi sociali o dai presidi notturni, e noi non lasciamo nessuno senza un pasto caldo”.
A servire ai tavoli saranno 100 volontari, affiancati da quattro camerieri d’eccezione: ragazzi del Centro di Giustizia Minorile di via del Pratello, “al servizio della città per dimostrare, prima di tutto a loro stessi, di potersi integrare nella comunità ”.
Altre 250 persone, invece, saranno ospiti al Pranzo di Napoleone, organizzato dalla Caritas e dall’associazione Piazza Grande al circolo Arci Benassi di Bologna per il mezzogiorno del 3 gennaio.
A inventare l’iniziativa, che ormai è una tradizione per il capoluogo emiliano romagnolo, in realtà fu Lucio Dalla, che era solito invitare, il giorno dell’Epifania, al ristorante di Ezio ‘Napoleone’ Neri, i senzatetto della città , per offrire loro un pasto caldo e una busta con 50 mila lire.
Un’eredità che con la scomparsa del cantautore bolognese non è andata perduta, ma che anzi viene portata avanti annualmente proprio da Neri, chef del pranzo di beneficenza al Benassi.
Oggi, però, non sono più solo i senzatetto a sedersi a tavola: “Chiedono di partecipare anche professionisti con la partita Iva, o lavoratori italiani in difficoltà economiche, o i disoccupati”, spiega la Caritas.
Solo gli iscritti ai centri per l’impiego di Bologna, fa i conti il vicepresidente provinciale Graziano Prantoni, del resto, sono 94.000: “È un segnale allarmante, che dimostra come associazioni, istituzioni e imprese debbano lavorare insieme tenendo ben presente i valori di solidarietà e impegno civile”.
Annalisa Dall’Oca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
L’INTERVENTO DELL’IDEOLOGO CINQUESTELLE SUL SUO BLOG SMANTELLA IL NUOVO REGOLAMENTO
Oggi il Movimento 5 Stelle vota un suo regolamento, il quale prevede, tra le altre cose, la costituzione di un Comitato d’appello destinato a giudicare i ricorsi avverso i provvedimenti di espulsione.
Viene anzitutto da chiedersi da dove venga l’urgenza di questo regolamento e perchè sia stato previsto che la votazione online degli iscritti non abbia ad oggetto il regolamento stesso, ma soltanto la nomina di “due dei tre componenti di questo comitato all’interno di una rosa proposta di cinque persone“.
C’è chi ha parlato di “rivoluzione copernicana“.
Affermazione non soltanto di per sè politicamente inopportuna (perchè finisce per riconoscere implicitamente che, sino ad oggi, esisteva un sistema sbagliato e puramente arbitrario per decidere le espulsioni), ma anche in contrasto con quanto, da oggi, si prevede.
Avevo già avuto modo, in occasione dell’espulsione dei deputati Artini e Pinna, di sottolineare le difficoltà e le incongruenze del Movimento e della sua disciplina delle espulsioni.
Mentre, infatti, l’espulsione dal gruppo parlamentare è disciplinata dai regolamenti dei gruppi di Camera e Senato del Movimento, nulla — sino ad oggi — era previsto in merito all’espulsione dall’associazione (ossia dal Movimento, con la perdita della qualità di “iscritto”).
Si aveva, in tal modo, un doppio sistema:
a) per l’espulsione dal gruppo parlamentare, veniva (e viene tuttora) previsto che «i parlamentari del M5S riuniti, senza distinzione tra Camera e Senato, potranno per palesi violazioni del Codice di Comportamento, proporre l’espulsione di un parlamentare del M5S a maggioranza.
L’espulsione dovrà essere ratificata da una votazione online sul portale del M5S tra tutti gli iscritti, anch’essa a maggioranza».
Dunque, causa di espulsione è la «violazione degli obblighi assunti con la sottoscrizione del “codice di comportamento del MoVimento 5 Stelle in Parlamento”», mentre il procedimento per l’espulsione è interno al gruppo parlamentare (salvo la «ratifica» in rete da parte degli iscritti).
b) per l’espulsione dall’associazione, nessuna indicazione veniva, invece, data dallo Statuto del MoVimento (che all’art. 5 disciplina unicamente il diritto di recesso dell’associato), con la conseguenza che trovava applicazione l’art. 24 c.c., per il quale «l’esclusione d’un associato non può essere deliberata dall’assemblea che per gravi motivi; l’associato può ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui gli è stata notificata la deliberazione».
Ciò implicava che, per l’espulsione di un associato, era necessaria la delibera dell’Assemblea del MoVimento.
Con il nuovo regolamento, le cose cambiano radicalmente.
Anzitutto, all’art. 4, vengono indicate specificatamente le tre cause di espulsione. 1. venire meno dei requisiti di iscrizione stabiliti dal “non statuto”; 2. violazione dei doveri previsti dall’articolo 1 del presente regolamento; 3. se eletti ad una carica elettiva, violazione degli obblighi assunti all’atto di accettazione della candidatura), laddove, prima, l’espulsione avrebbe potuto essere disposta unicamente per «gravi motivi».
Viene, poi, introdotta una procedura per l’espulsione.
A disporre la sospensione dell’iscritto e la contestazione della violazione è, oggi, direttamente il «capo politico» del Movimento (Beppe Grillo).
Avverso il provvedimento di espulsione — sempre disposto dal capo politico — , l’iscritto ha la possibilità , entro dieci giorni, di ricorrere al Comitato d’Appello, costituito con il regolamento.
Il comitato d’appello è composto di tre membri:
— 2 nominati dall’assemblea mediante votazione in rete tra una rosa di cinque nominativi proposti dal Consiglio Direttivo;
— 1 nominato direttamente dal consiglio direttivo.
Il Consiglio Direttivo è stato previsto fin dallo statuto del Movimento (artt. 11 e 13), e, con l’atto costitutivo dell’associazione Movimento 5 Stelle del 14 dicembre 2012, per i primi tre anni è stato stabilito che componenti del Consiglio Direttivo siano Beppe Grillo, in qualità di Presidente, Enrico Grillo, Vicepresidente, ed Enrico Maria Nadasi, Segretario (art. 7).
Dire che il meccanismo previsto sia, di fatto, interamente controllato da Grillo, appare pertanto un eufemismo. Egli, infatti:
a) nella sua qualità di capo politico, accerta il verificarsi di una causa di espulsione, sospende l’iscritto e provvede successivamente alla sua espulsione;
b) nella sua qualità di Presidente del Consiglio Direttivo, nomina direttamente 1 membro del Comitato d’Appello e stabilisce i nomi dei candidati entro cui scegliere gli altri 2 membri.
Appare paradossale che l’espulso possa ricorrere, contro il provvedimento di Grillo, ad un organo di “garanzia” composto da membri sostanzialmente decisi da Grillo stesso.
Non solo: il regolamento prevede che «se il comitato d’appello ritiene insussistente la violazione contestata, esprime il proprio parere motivato al capo politico del MoVimento 5 Stelle, che se rimane in disaccordo rimette la decisione sull’espulsione all’assemblea mediante votazione in rete di tutti gli iscritti, la quale si pronuncia in via definitiva sull’espulsione».
Se, pertanto — ma appare un’ipotesi inverosimile — il Comitato fosse in disaccordo con il capo politico, quest’ultimo potrebbe sempre ricorrere alla consultazione diretta sulla rete per ottenere l’espulsione dell’iscritto.
Resta, allora, da chiedersi se — rispetto alle vecchie “lacune” di prima, che venivano comunque integrate dal codice civile — questa nuova disciplina costituisca davvero una «garanzia» in più per gli iscritti, se realizzi davvero una «trasparenza» prima assente.
Certamente sarà sempre possibile, per l’iscritto, ricorrere all’autorità giudiziaria contro il provvedimento di esclusione (in quanto, in questa parte, l’art. 24 c.c. non è derogabile).
Il problema, però, è che il controllo effettivo del giudice sarà , in ogni caso, molto limitato.
Se, infatti, prima dell’approvazione del regolamento, il Tribunale avrebbe avuto il potere di verificare la legittimità sostanziale dell’espulsione con riferimento ai «gravi motivi».
Oggi, in presenza di una specifica descrizione dei motivi ritenuti idonei a provocare l’esclusione dell’associato, la verifica giudiziale sarà destinata ad arrestarsi al mero accertamento della puntuale ricorrenza di quei fatti previsti causa di esclusione.
Il Movimento ha, di fatto, deciso dunque di dotarsi di propri interni meccanismi diretti a disciplinare cause e modalità dell’esclusione degli associati.
Ciò non è contestabile, ed anzi — diremo — fisiologico per un’associazione che è un movimento di massa e di natura politica.
Resta, però, il fatto che questi meccanismi non rispondono in alcun modo a quella logica di democrazia diretta che ha costituito l’ispirazione ultima ed il senso del Movimento.
Somigliano, piuttosto, ai meccanismi tradizionalmente utilizzati dai partiti politici, al loro «centralismo» e alla decisione “presa dall’alto”.
Paolo Becchi
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
IN AULA IL PATTO PUO’ REGGERE FINO A 195 FRANCHI TIRATORI
Nell’agenda che Denis Verdini ha mostrato agli amici prima della pausa natalizia sono appuntate tre lettere e un numero. «Max 100».
Ed è la stessa stima che risulta, in corrispondenza alla voce «possibili franchi tiratori», ai responsabili del pallottoliere del Pd.
Lo dice anche il renziano Ernesto Carbone, che è tra questi ultimi.
«Lasceremo per strada meno di cento voti. Nessuno ci ha fatto caso ma negli ultimi mesi, con le votazioni per la Consulta, abbiamo eletto 16 potenziali capi dello Stato. In ben 16 votazioni, infatti, il Parlamento a voto segreto ha superato quota 505 su un singolo nome».
Sono 1.009 i grandi elettori che sceglieranno il successore di Napolitano.
E a 505 è fissata l’asticella per eleggerlo dalla quarta votazione.
Dei 1.009, circa 700 sono quelli che ufficialmente stanno sotto l’ombrello del Patto del Nazareno.
Ci sono i 460 del Pd, i 130 di Forza Italia, i 70 del gruppone Ncd-Udc fino a quelli dei gruppi minori.
Di conseguenza, un candidato formalmente espresso dalla maggioranza di governo più FI può permettersi fino a 195 franchi tiratori senza veder compromessa l’elezione. Come se, in una finale dei mondiali ai rigori, una squadra potesse vincere il titolo sbagliando dal dischetto quasi due volte su cinque.
Che ci sia poco spazio per i franchi tiratori lo ammette anche Paolo Naccarato, il senatore autonomista che l’arte di come far pesare i voti in Parlamento anche oltre il loro valore aritmetico l’ha imparata da Francesco Cossiga: «Non è partita per franchi tiratori questa. Quand’anche fossero 150 non basterebbero a sabotare un candidato scelto da Renzi e Berlusconi. La partita si gioca sul nome. Più è di indiscussa levatura, più si riducono gli spazi per i giochetti».
Uno schema su cui concorda anche Augusto Minzolini, che aggiunge un dettaglio: «Se Renzi trova il modo di garantire al Parlamento che non ci saranno elezioni anticipate, tutto sarà più semplice».
Eppure, tra chi sta sotto l’ombrello del Patto del Nazareno, c’è chi affila le armi.
«Se Berlusconi non ci dà le garanzie politiche che chiediamo», dice il fittiano Maurizio Bianconi, «i nostri voti per il Colle li useremo per farli fruttare al meglio. Alleandoci con chiunque, dai singoli ex montiani ai leghisti…».
Partendo da che base? «Siamo in 40, 36 a viso scoperto, 4 in incognito. E possiamo crescere ancora…», risponde.
Arrivare a 195, il quorum al contrario, il numero di franchi tiratori che servono a far saltare il banco, pare difficile. Almeno sulla carta.
Due settimane fa, andando a trovare Berlusconi, l’ex ministro (centrista) Mario Mauro gli disse che «secondo me Alfano ha fatto il gruppone con l’Udc perchè proverà a giocare in proprio».
Oggi quelle sensazioni sono finite nel dimenticatoio.
Merito della tenuta del Pd, ovviamente. Ma anche del lavoro di sponda tra Berlusconi e lo stesso Alfano. Che, secondo molte voci di dentro, nelle ultime settimane si sarebbero sentiti e forse anche incontrati.
Il tutto per tenere i franchi tiratori il più possibile lontano da quel numero 195 che oggi sembra sempre più inarrivabile.
Sembra.
Tommaso Labate
(da “il Corriere della Sera“)
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
NEMMENO SU PRODI IL VETO DI SILVIO E’ TOTALE, MA LA PREFERITA E’ LA FINOCCHIARO
Tormentato. Forse anche pentito. Di sicuro con le mani legate.
Berlusconi non è per nulla convinto che sia stata una buona idea quel suo via libera a Renzi sul Quirinale.
Se potesse tornare indietro, il Cav se lo rimangerebbe volentieri, magari non dichiarerebbe più a «Repubblica» che voterebbe perfino un esponente Pd: un regalo che neppure il premier si sarebbe aspettato.
Ma chi è partecipe dei dubbi di Silvio, e in queste ore ne raccoglie gli sfoghi, pensa che però al dunque l’uomo farà proprio quanto chiede Matteo.
Perchè troppe volte si sono viste scene del genere («di quello io non mi fido, il ragazzo è pericoloso, so che mi prenderà in giro e resterò con un pugno di mosche») salvo che poi Berlusconi ha fatto il rovescio e si è sistematicamente adeguato con rapidi dietrofront.
Perchè, al di là dei mugugni, non è in condizione di comportarsi diversamente.
L’ex premier ha disperato bisogno di santi in paradiso. La benevolenza operosa del suo successore gli serve come l’aria.
Nel giro politico romano riprendono quota le solite chiacchiere sulle difficoltà (vere o presunte) del Biscione, su fantomatiche operazioni di sostegno alle reti Mediaset che mai andranno in porto se il governo non darà una mano.
Si aggiunga lo status di condannato, con i servizi sociali agli sgoccioli e il terrore, tipico di chi viene privato della libertà personale, che i magistrati possano appigliarsi a qualche comportamento sopra le righe, per esempio nella prossima campagna quirinalizia, per posticipargli la fine della pena.
Le scelte dell’ex Cavaliere
Insomma, gli avventori della mensa di Arcore sono convinti che Renzi non debba minimamente impensierirsi.
Non solo Berlusconi farà votare i suoi in base alle indicazioni di Palazzo Chigi, ma si acconcerà al ruolo di buttafuori, ponendo veti su questo o quel candidato sgradito al premier dimodochè quest’ultimo possa allargare le braccia sospirando e sorridere a Prodi, per esempio, dicendogli: «Io ti avrei voluto sul Colle ma purtroppo Forza Italia non è d’accordo…».
In realtà , se si crede alle fonti berlusconiane più genuine, tutta questa ostilità nei confronti di Prodi il Cavaliere non la nutre per niente.
I due non si amano, bella scoperta. Però neppure sono ai ferri corti.
Prova ne sia il processo di Napoli sulla compravendita di senatori dove a luglio Romano era andato in veste di testimone.
Avrebbe potuto scatenarsi contro chi fece cadere il suo secondo governo, e invece disse ai giudici che mai aveva subdorato operazioni così indecenti.
Neppure Veltroni fa impazzire l’ex-Cav. Idem Bersani (sebbene a entrambi Berlusconi riconosca un tratto di umanità ).
Lui certo preferirebbe Amato e al limite la Finocchiaro, donna che stima per l’equilibrio.
Però in fondo, se Renzi gli chiedesse di sostenerli, nemmeno contro Pierluigi e Walter lui solleverebbe obiezioni, sempre beninteso che qualcuno lassù non gli chieda di sollevarle.
Sogna Draghi e teme candidature tecniche alla Padoan, ministro dell’Economia, o alla Cantone, il censore dei cattivi costumi nella pubblica amministrazione.
Considera entrambi parecchio fragili per un ruolo che richiederebbe polso specie nei momenti di crisi.
Ma un conto è dirlo a cena, altra cosa convincere Renzi.
Per farla breve: a Berlusconi stanno bene tutti e in cambio della gratitudine politica del premier il personaggio è pronto a qualunque operazione.
Ugo Magri
(da “La Stampa”)
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
L’IDEA E’ FAR CALARE IL COSTO DEL LAVORO IN MODO CHE LE IMPRESE ESPORTATRICI ASSUMANO
Il ddl Stabilità ora è legge dello Stato: l’intervento economico pubblico sul 2015 è insomma in gran parte definito.
È il momento, dunque, di tracciare un bilancio di quale idea di paese traccia il governo Renzi nella sua legge fondamentale.
Qual è l’obiettivo della legge di Stabilità firmata da Pier Carlo Padoan?
Intanto una premessa: i governi nazionali, specialmente di paesi con alto debito, hanno pochi margini di manovra visto che non hanno in mano la politica monetaria e quella fiscale solo in parte visti i vincoli Ue.
Per uscire dalla recessione/stagnazione in cui affonda l’economia italiana, quindi, l’esecutivo s’affida al privato. Le direzioni sono due: stimolare i consumi individuali e spingere le imprese a investire.
In che modo pensa di riuscirci?
L’intervento sui consumi è abbastanza debole: si tratta della conferma strutturale degli 80 euro di bonus Irpef (che hanno inciso poco nel 2014) e della possibilità di avere il Tfr in busta paga per tre anni.
Questa scelta, peraltro, non è indolore visto che la tassazione è più alta rispetto al normale.
Per “incentivarla”, comunque, il governo Renzi ha anche deciso di alzare le tasse tanto sul Tfr che resta in azienda che su quello devoluto ai fondi pensione.
Non proprio un atto amichevole verso il risparmio. Nel quadro di incentivi ai consumi può essere inserito anche il bonus per chi fa figli nel 2015 o l’ecobonus sulle ristrutturazioni edilizie. E per gli investimenti delle imprese?
Questo è il vero core business della manovra e s’intreccia col Jobs Act. Renzi e Padoan hanno deciso che è la grande impresa — e in particolare quella che punta sull’export — che ci porterà fuori dalla palude.
L’idea è far calare il costo del lavoro: a suo modo, è il modello tedesco . E allora il governo dà alle imprese lo sgravio completo della componente lavoro dell’Irap e la detassazione delle assunzioni per tre anni.
Il Cdm cancella l’articolo 18 e crea il contratto unico a tutele crescenti.
“A questo punto gli imprenditori non hanno più alibi”, ha detto Renzi.
Nessuno però produce per riempire il magazzino: per assumere l’imprenditore deve avere mercato.
È vero che c’è stato un taglio delle tasse da 18 miliardi? Non proprio.
Il saldo tra maggiori e minori entrate dice che la detassazione all’ingrosso vale meno di 8 miliardi, il resto sono partite di giro o meglio spostamenti di tasse da un settore all’altro.
Roba che per i comuni cittadini sarà comunque ampiamente controbilanciata dall’aumento della tassazione locale (o dal taglio dei servizi come la sanità o il welfare di prossimità , che poi andranno acquistati sul mercato) dovuto ai tagli lineari sugli enti locali.
E la spending review? Poca roba.
A parte le sforbiciate su Regioni, Province e Comuni — che sono lineari alla Tremonti — il conto per i ministeri non arriva ai 2 miliardi.
Chi ci perde da questa manovra? Sicuramente il Mezzogiorno non è stato trattato bene da questa legge di Stabilità .
Una parte di quelli che Renzi chiama “risparmi di spesa” infatti — all’ingrosso 4 miliardi — sono soldi sottratti ai fondi destinati agli investimenti pubblici nel Sud.
In generale, il governo Renzi ha scritto nei suoi conti che gli investimenti pubblici continueranno a calare nei prossimi tre anni. Un grave errore.
Quali sono i problemi più grossi?
Come hanno scritto i Servizi bilancio di Camera e Senato il quadro macroeconomico non è del tutto credibile: le nuove entrate, ad esempio, sono in parte aleatorie (vedi la “lotta all’evasione”) e pure i dati su cui è disegnato il bilancio (crescita del Pil, inflazione, domanda interna e esterna) non paiono solidissimi.
La cosa non è tranquillizzante perchè a coprire il tutto ci sono le clausole di salvaguardia… Cioè gli aumenti di Iva e accise.
Sono un eredità addirittura del governo Berlusconi (che però aveva piazzato la mina sotto forma di taglio delle deduzioni fiscali), ma sono ancora lì: si tratta di possibili aumenti di tasse e accise per 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi l’anno dopo e 21,2 miliardi dal 2018.
Almeno la manovra è espansiva. A stare ai numeri di Renzi nient’affatto: il deficit in rapporto al Pil oggi è al 3 per cento e a fine 2015 sarà al 2,9 per cento.
Tradotto: il bilancio pubblico si contrae, non si espande.
Si parla di “marchette”. Qualcuna ce n’è, le abbiamo elencate nei giorni scorsi.
Una sembra particolarmente sgradevole: la sanatoria per le sale scommesse illegali senza neanche pagare per il passato, come pure il favore alla Sisal per rilanciare il Superenalotto. Nella stessa legge in cui si dice di voler combattere la ludopatia.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
UN ANNO FA MATTEO E SOCI IRRIDEVANO LETTA, I SUOI DECRETI POLVEROSI, LE SUE “MARCHETTE” … ORA SONO LORO A PRENDERE POLVERE E AUMENTANO PURE IL REGALO AI RAS DELLE AUTOSTRADE
Puntuale come il Natale arriva anche quest’anno il decreto Milleproroghe.
La prossima settimana il Consiglio dei ministri rinnoverà infatti questa simpatica tradizione italiana che va avanti ininterrottamente dal 2005 e metterà anche quest’anno a dura prova gli occhi dei cronisti che vorranno leggerlo.
Pare passata una vita da quando Matteo Renzi, fresco segretario del Pd, mandava avanti i suoi a dirne contumelie in chiave anti-Letta (nel senso di Enrico).
Prendiamo il sindaco di Firenze, Dario Nardella, allora deputato Pd: “Napolitano ha parlato dei decreti omnibus, ma ora c’è di nuovo la questione Milleproroghe. In Italia quando c’è un problema, invece di risolverlo, ci si inventa una regola. Il governo ha una colpa imperdonabile a non interrompere questa spirale”.
Oppure l’allora responsabile welfare, Davide Faraone: “Se chiedi la fiducia lo fai per provvedimenti alti, utili per il Paese, non per legittimare decine di inutili marchette. E poi sul Milleproroghe: si nominano nuovi prefetti, portati a 207 quando le prefetture sono la metà ”.
Sembra una vita, si diceva, e invece era solo l’anno scorso.
D’altronde si sa, il tempo vola solo quando ci si diverte: il Milleproroghe stavolta lo firma Renzi e per non farsi mancare niente oggi il premier farà pure il solito giro di prefetti di fine anno. Chissà com’è indignato Faraone.
L’obiezione la sappiamo. Il Milleproroghe di Renzi sarà un’altra cosa: è pulito, è rivoluzionario, è ottimista, fa ripartire il Paese.
E per ripartire, infatti, riparte proprio da una delle più incredibili “marchette” (per usare il linguaggio di Faraone) sfornate dall’esecutivo #cambiaverso.
Nelle bozze di decreto circolate in questi giorni c’è infatti pure la dilazione del cadeau fatto ai concessionari autostradali con un altro decreto, il famoso Sblocca Italia.
Breve riassunto.
A settembre l’attuale esecutivo decise di regalare una proroga quasi infinita delle concessioni ai ras delle autostrade, imprenditori che amministrano un monopolio naturale che funziona come un bancomat: pochi investimenti, costi di gestione in calo, pedaggi sempre in aumento.
L’economista Giorgio Ragazzi, un passato al Fmi e alla Banca mondiale, ha calcolato il favore in 16 miliardi.
Di chi parliamo? Daniele Martini — studiato il meccanismo che parla di eventuale “unificazione delle tratte” — lo scrisse cognome per cognome sul Fatto Quotidiano del 2 settembre: “I signori omaggiati sono un bel gruppetto: le Autostrade dei Benetton e poi quelle del gruppo Gavio, le Cooperative di costruzione, il gruppo Astaldi, Banca Intesa, i costruttori Mattiona di Torino”.
Quella norma non si tocca, disse il ministro soi-disant vigilante Maurizio Lupi: garantisce investimenti per 12 miliardi che ci porteranno fuori dalla crisi.
A parte che quelli sono quasi tutti investimenti che i concessionari avrebbero dovuto fare già in base alle vecchie concessioni, ora si scopre che Lupi e soci non hanno nemmeno tanta fretta di portarci fuori dalla crisi: la bozza del Milleproroghe, infatti, contiene uno spostamento di sei mesi (al 30 giugno 2015) del termine con cui sottoporre al ministero dei Trasporti “le modifiche del rapporto concessorio per il potenziamento strutturale, tecnologico e ambientale delle infrastrutture autostradali”.
Insomma, non sono ancora proprio pronti a ricevere il regalo e quindi ci vuole una bella proroga.
Ovviamente non è la sola e bisognerà aspettare il testo definitivo per apprezzarne fino in fondo le delizie.
Per ora si sa che molte proroghe riguardano decreti delegati al governo.
I ministeri non li hanno scritti nei tempi indicati dalla legge e dunque si concedono qualche mese o più per fare questo e quello: tre mesi per il regolamento sulle acque reflue, sei per quello sugli emoderivati, due anni e mezzo per la ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali e via così.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
IL PREMIER NON RIESCE A REGALARE LO JOBS ACT AD ALFANO E CONFINDUSTRIA… CONFRONTO DRAMMATICO IN CDM, POI IL VIA LIBERA AI DECRETI, STRALCIATO L’OPTING OUT
È al termine di un confronto a tratti drammatico che i decreti sul jobs act vengono riequilibrati con “la mano sinistra”.
Il nodo più importate, l’opting out – e cioè la possibilità per l’azienda di optare per l’indennizzo anche in caso di licenziamento illegittimo di natura disciplinare, con una quota di risarcimento che oscilla tra 30 e 36 mensilità – è di fatto stralciato: “Chiudiamo così — dice Renzi nel corso del cdm che ha dato il via libera anche al decreto sull’Ilva — ascoltiamo le commissioni e poi valutiamo”.
È il terreno della battaglia vera: la possibilità da parte dell’impresa si “superare il reintegro” nel posto del lavoro deciso dal magistrato pagando al dipendente un indennizzo più alto. Anche in caso di licenziamenti disciplinari.
Di fatto, l’abolizione totale dell’articolo 18.
Quando il premier lascia intendere, sin dal preconsiglio, che non ha alcuna intenzione di seguire la linea Sacconi facendo saltare il delicato equilibrio interno al Pd, i ministri di Ncd minacciano di non partecipare al consiglio dei ministri.
È per questo che slitta di un paio d’ore: dalle 10 alle 12,30.
La verità è anche Renzi, nelle ultime 24 ore, si trova di fronte a una scelta.
Perchè, con i partner di Ncd si era mostrato assai possibilista sull’opting out. Ed è stato solo dopo una lunga mediazione con pezzi importanti del suo partito che ha deciso di preservare l’unità del Pd, anche in vista della battaglia sul Quirinale.
Il capogruppo Roberto Speranza è rimasto fino all’ultimo a Roma.
È stato lui, insieme a Guglielmo Epifani, Cesare Damiano e il ministro Martina a far capire che far saltare il compromesso raggiunto all’ultima direzione del Pd sarebbe stato devastante.
Quello cioè in base al quale il reintegro scompare sui licenziamenti economici, c’è sempre in quelli discriminatori menrte per quel che riguarda i licenziamenti disciplinari vanno normate le fattispecie.
Ecco, attorno a quella mediazione si riconoscono oltre circa 120 parlamentari, il corpaccione del Pd non disposto a seguire la linea del no a tutto di Cuperlo e Fassina, ma neanche disposta a sposare la linea del renzismo oltransista.
C’è molta preoccupazione per il voto sul Quirinale nella scelta del premier di non far saltare l’equilibrio del Pd.
E chissà se è un caso che la mediazione arriva il giorno dopo che Renzi è salito al Colle da Napolitano.
Fonti del Quirinale raccontano che l’ultimo a salire per gli auguri e per un colloquio al Colle, nel tardo pomeriggio, è stato il capogruppo Roberto Speranza.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
PER IL MINISTERO LA PRESIDENTE DEL MUSEO NON AVEVA COMPENSI
Non bastava lo stipendio. Giovanna Melandri, presidente della Fondazione MAXXI, a fine anno troverà sotto l’albero anche un bel premio.
Ricordate le polemiche sul ‘MAXXI stipendio’ del politico? Melandri il 22 novembre del 2013 al Messaggero rivelava che il suo stipendio ammontava a 45 mila euro netti.
Il 6 novembre, pochi giorni prima, il Cda presieduto da lei stessa approvava la delibera n. 12 che Il Fatto ha visionato.
Si scopre che lo stipendio è di 91.500 euro lordi all’anno e che Melandri avrà diritto anche a un bonus sull’andamento dei ricavi fino a una somma di 24 mila euro o ancora di più se l’incremento di biglietti, sponsor e introiti supera il 30 per cento.
Non solo. Il Fatto ha visionato anche il voluminoso carteggio seguito alla travagliata scelta di elargire uno stipendio all’ex ministro.
La delibera del cda del MAXXI è oggetto di un duro braccio di ferro.
Prima la delibera è stata annullata sulla base di un parere negativo del Ragioniere Franco.
Poi su spinta del segretario generale e del capo gabinetto del ministro, il capo dell’ufficio legislativo si è espresso contro l’annullamento che è stato ritirato in autotutela.
Ora proprio la Ragioneria Generale dello Stato sta esaminando il voluminoso carteggio per stabilire una volta per tutte se il MAXXI sia davvero una fondazione di ricerca e possa quindi pagare Giovanna Melandri.
Tutto inizia con la nomina alla presidenza della Fondazione MAXXI dell’allora parlamentare Melandri il 19 ottobre del 2012.
Melandri si dimette da deputato per dirigere l’ente che controlla il museo di arte contemporanea ma la nomina del ministro della cultura del Governo Monti, Lorenzo Ornaghi fa discutere.
Il rottamatore Matteo Renzi sbotta: “Facciamoci del male! Com’è possibile dopo il Parlamento avere subito lo scivolo del Maxxi? ”.
Giovanna Melandri se la cava sostenendo che avrebbe lavorato gratis: “prenderò 90 euro all’anno”
A luglio del 2013 Gian Antonio Stella scopre che, grazie alla trasformazione dell’ente in fondazione di ricerca, il MAXXI poteva finalmente pagare il suo presidente.
Le polemiche consigliano di soprassedere fino al 6 novembre. Quel giorno con la presidenza di Giovanna Melandri, il cda propone “in favore del presidente per ciascun anno di esercizio il compenso (…) di 91.500 euro quale componente fissa (…) su base mensile posticipata al netto delle ritenute previste (…) più un ulteriore ammontare quale componente variabile (premio) da determinarsi in ‘misura fissa’ come sintetizzato nella tabella che segue in funzione dell’incremento rispetto al precedente esercizio della sommatoria delle voci di proventi quali: I) biglietteria; II) Contributi di gestione; III) Sponsorizzazioni; IV) Altri ricavi e proventi. Le somme di componente variabile devono intendersi quali componenti netti”.
Segue tabella: se l’incremento va dal 5 al 15 per cento, il premio è di 12 mila euro (netti) se raggiunge la forchetta 15-20 arriva a 18 mila euro; se si pone tra il 25 e il 30 per cento Melandri prende un premio di 24 mila euro. Se aumenta più del 30 per cento il premio sarà “quanto deliberato di volta in volta dal Cda”.
Melandri si astiene ma il suo stipendio passa con un verbale a sua firma grazie al voto degli altri due consiglieri: Monique Veaute e Beatrice Trussardi.
La delibera del Cda si chiude così: l’atto “è trasmesso all’Autorità Vigilante ai sensi dell’articolo 20 comma 2 dello Statuto per la relativa approvazione”.
L’autorità vigilante è la direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale diretta da Anna Maria Buzzi, sorella di Salvatore Buzzi.
Si potrebbe pensare che la sorella di un soggetto in affari e arrestato con Luca Odevaine, vicino a Giovanna Melandri, avrebbe avuto un occhio di riguardo per l’ex ministro Pd.
Invece è accaduto il contrario.
La direttrice Buzzi ha chiesto un parere alla Ragioneria Generale sulla delibera.
Lo stipendio è giustificato dal Cda del MAXXI con l’inserimento della Fondazione nell’elenco di quelle ammesse alle agevolazioni fiscali. In risposta al quesito di Buzzi, il Ragioniere generale in persona, Davide Franco, scrive una nota il 13 gennaio 2014 per sostenere che l’inserimento del MAXXI nell’aprile del 2013 nell’elenco suddetto “assume rilievo solo ai fini fiscali”.
Sembra di capire, quindi, non ai fini dello stipendio del presidente.
Il 22 gennaio la direttrice Buzzi scrive una nota per annullare la delibera del cda che dava lo stipendio a Giovanna Melandri.
Il 21 marzo del 2014 però il capo dell’ufficio legislativo del ministero Paolo Carpentieri scrive una nota dai toni duri, concordata con il capo di gabinetto del ministro Franceschini, Giampaolo D’Andrea, e con il segretario generale Antonia Pasqua Recchia.
Carpentieri boccia la scelta del direttore generale, forte di un parere favorevole allo status di ente di ricerca di Emanuele Fidora, direttore generale della ricerca del MIUR.
Carpentieri intima a Buzzi di annullare in autotutela il suo atto perchè ha male interpretato la nota del Ragioniere Franco.
Per Carpentieri il MAXXI va valutato come ente di ricerca nel concreto e non ci sono storie: Giovanna Melandri ha diritto allo stipendio. A quel punto Anna Maria Buzzi si adegua. Annulla il suo annullamento ma comunque non approva la delibera del MAXXI.
Quindi ancora oggi Giovanna Melandri percepisce uno stipendio sulla base di una delibera non approvata dall’Autorità vigilante.
A metà aprile tutto il carteggio finisce sul tavolo della Ragioneria Generale dello Stato.
Ora sarà Davide Franco in persona a dover dire se lo stipendio e il premio del presidente Melandri sono da approvare o no.
Marco Lillo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 24th, 2014 Riccardo Fucile
“LEGGONO I MIEI LIBRI E POI CHISSA’ COSA GLI VIENE IN MENTE”…”MANNI E’ SOLO UN MILLANTATORE, FACEVA DISCORSI PIENI DI FREGNACCE”
Lo troviamo intento a disegnare un lupo, «l’animale per eccellenza simbolo di ferocia e violenza, non è così?», ironizza Rutilio Sermonti, 93 anni e la mano ancora ferma, col pennino che tratteggia alla perfezione l’animale digrignante sotto lo sguardo fiero della sua seconda moglie, Krisse, Clarissa, nata in Finlandia e «sposata davanti al sole, con rito solo nostro, in cima al Monte Pellecchia, in Abruzzo, a 2 mila metri d’altezza, molto vicino al nido delle aquile…».
La notte del 22 dicembre a casa sua sono arrivati i carabinieri: «Erano le tre, dormivamo – ricorda Sermonti –. Si sono messi a fare luce con le torce contro le nostre finestre. “Aprite!” ci dicevano. E noi due, spaventatissimi: “Neanche per sogno, ora chiamiamo la polizia”.
Alla fine ci hanno convinti, sono entrati e si sono messi a perquisire la casa, portando via il computer. Bene, io dico, perchè nel mio computer c’è tutta la verità . E quello che penso è scritto nei miei libri».
Secondo la Procura dell’Aquila, invece, sarebbe proprio lui – l’ex repubblichino, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano e poi di Ordine Nuovo – l’ideologo di «Aquila Nera», il grande vecchio che avrebbe ispirato con le sue teorie rivoluzionarie il progetto terroristico della banda di «Avanguardia ordinovista», il gruppo di neo-fascisti che avrebbe voluto sovvertire la Repubblica a colpi di attentati, rapine e omicidi.
Ma lui non ci sta: «Avanguardia ordinovista? Mai sentita nominare. La verità è che io sono l’ideologo di tanti che non conosco, che leggono i miei libri e poi chissà cosa gli viene in mente. E chi sarebbero i miei adepti? L’ex carabiniere Stefano Manni e sua moglie Marina? Sì, ora ricordo, son venuti più volte qui a casa mia…».
La signora Clarissa rammenta che venivano «quasi in adorazione», il signor Manni, la moglie e altri che i coniugi Sermonti chiamavano «il gruppo di Pescara».
«Vennero da noi tre o quattro volte, erano simpatici, amichevoli, poi mettevano su Facebook le mie foto e i miei testi».
E passavano le ore a farsi raccontare da Rutilio i tempi della guerra o di quando giurò davanti al Duce allo Stadio dei Marmi il 28 ottobre 1938.
E qualche volta cantavano anche, tutti insieme, le canzoni fasciste («Diventiamo tutti eroi con la morte a tu per tu») oppure delle SS («Waffen Waffen Waffen»), ma senza mai accennare a propositi bellicosi, come quello di uccidere i politici e gli extracomunitari e addirittura replicare la strage dell’Italicus e «carbonizzare» il capo dello Stato.
«Chi è Stefano Manni? Solo un millantatore – s’indigna Rutilio Sermonti sulla sua sedia a rotelle –. Un chiacchierone che riempiva i discorsi di fregnacce e bla-bla-bla. Uno a cui piaceva sentirsi qualcuno. Ma per essere qualcuno bisogna fare qualcosa e lui non ha mai fatto niente. Manni il deus ex machina dell’organizzazione? Ma scherziamo, al massimo della macchina del caffè…».
Il vecchio pittore e scrittore, autore con Pino Rauti di «Una storia del fascismo», confessa di sentirsi preso in giro: «Manni l’ultima volta mi promise mille euro per dare alle stampe il mio ultimo libro “Non omnis moriar”, ma il suo bonifico ancora l’aspetto e due mesi fa gli scrissi al computer un elenco di insulti che i carabinieri potranno riscontrare. Da quel giorno chiusi con lui».
Rutilio Sermonti è fratello di Giuseppe lo scienziato e Vittorio l’illustre dantista: «Giuseppe mi ha telefonato appena saputa la notizia dal telegiornale, con Vittorio non ci vediamo da sette anni e mi piacerebbe tanto riabbracciarci, come quando un tempo ci vedevamo a Roma al ristorante di mio nipote Andrea, il figlio di Giuseppe, a Trastevere».
Oggi fanno impressione i suoi racconti dal fronte jugoslavo, dopo l’8 settembre, lui arruolato nella Schutzpolizei («Gli ufficiali tedeschi amavano ripetere: con Sermonti non si muore…»).
Senza l’ombra di un pentimento, neppure un dubbio sul fatto di essersi schierato coi nazisti. Anzi mostra con orgoglio la croce di ferro della Wehrmacht appesa al muro, vicino a un manifesto di Julius Evola e a una foto in bianco e nero di Pio Filippani-Ronconi («Mio grande amico») con l’uniforme delle Waffen-SS.
«È vero, sono un ideologo – conclude Sermonti –. Ma non della violenza! Uccisi della gente, in guerra, con la mitragliatrice: ma appunto solo in guerra uccidere è legittimo, per me! La violenza popolare io l’ho prevista, mai incoraggiata».
Fabrizio Caccia
(da “il Corriere del Sera”)
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