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RENZI CHIAMA UN ALTRO FEDELISSIMO A PALAZZO CHIGI PER 100.000 EURO L’ANNO

Dicembre 25th, 2014 Riccardo Fucile

FILIPPO BONACCORSI, EX PRESIDENTE DI ATAF E FRATELLO DELLA DEPUTATA PD LORENZA, GUIDERA’ LE TRUPPE PER L’EDILIZIA SCOLASTICA

Da privatizzatore di Ataf a dirigente di Palazzo Chigi, nella cabina di regia che gestisce un miliardo di euro per migliorare le scuole.
Filippo Bonaccorsi, a dire la verità , nel frattempo ha pure fatto pure per dieci mesi l’assessore alla mobilità  di Palazzo Vecchio, dove però non andava granchè d’accordo con il sindaco in pectore Dario Nardella.
Così, da circa due settimane, l’ex presidente di Ataf fa il pendolare tra Firenze e Roma, dove il premier Matteo Renzi lo ha nominato direttore dell’unità  di missione per l’edilizia scolastica, con uno stipendio annuo di circa 100 mila euro lordi.
Si tratta di un incarico molto importante, perchè il 43enne dovrà  gestire il maxi piano voluto dal governo per migliorare le strutture scolastiche italiane, punto sul quale il premier ha annunciato fortissimo impegno per il 2015.
Un fedelissimo conosciuto da Letta (Enrico)
Una missione molto delicata, che Renzi ha deciso di affidare ad un altro fedelissimo della squadra fiorentina.
«Pippo» e «Matteo», scherzo del destino, si sono conosciuti oltre dieci anni fa ad una convention di Vedrò, il «pensatoio» trasversale inventato da Enrico Letta. I due, scaltri e veloci di pensiero, si piacquero subito.
A fare le presentazioni fu Lorenza Bonaccorsi, oggi deputata Pd e sorella dell’avvocato Filippo.
Quest’ultimo, quando Renzi fu eletto in Provincia, da dirigente prese subito le redini di un settore chiave come quello dei trasporti.
La coppia Bonaccorsi-Renzi stravolge subito i ritmi paludati di Palazzo Medici Riccardi.
Se il primo si destreggia tra carte e burocrazia, il secondo inizia subito a sparare bordate contro il servizio di Ataf, pagato appunto dalla Provincia.
È l’inizio silenzioso della rottamazione. Non a caso, cinque anni più tardi, arrivato a Palazzo Vecchio dopo aver sbaragliato la vecchia classe dirigente della sinistra, per «rivoltare l’Ataf come un calzino», Renzi «licenzia» la presidente Maria Capezzuoli e ci mette «Pippo».
In verità , con quell’espressione poco diplomatica, il neo sindaco di Firenze ha già  un chiodo fisso: privatizzare l’azienda di trasporto pubblico.
I sindacati gli si rivolteranno subito contro con scioperi e manifestazioni a raffica.
La missione del governo per il 2015
L’avvocato Bonaccorsi, intanto, forte della copertura politica di Renzi predispone una mastodontica pila di documenti, che serviranno a vendere Ataf al Gruppo Fs.
I due si dividono solo nel febbraio scorso, quando Renzi devia verso Palazzo Chigi. Poi il tanto sospirato sms da Roma, dove gestirà  il piano del governo che riguarda 21.230 strutture scolastiche tra 2014 e 2015 per uno stanziamento di circa un miliardo di euro.
Gli interventi per restaurare, migliorare o ricostruire le scuole sono circa 8.500 finanziati entro fine anno, mentre per i restanti si dovrà  attendere il 2015.

Claudio Bozza
(da “il Corriere della Sera”)

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ILVA, GIRAVOLTA DI RENZI: LO STATO RICOMPRA L’ACCIAIERIA DI TARANTO

Dicembre 25th, 2014 Riccardo Fucile

POCHI MESI FA SI ERA ESPRESSO PER AFFIDARE IL COLOSSO SIDERURGICO A UNA CORDATA DI PRIVATI

Matteo Renzi è notoriamente dotato di una certa flessibilità  di pensiero che lo rende inaffidabile agli occhi dei critici.
Il 29 maggio scorso il premier manifestò l’urgenza di affidare il gigante siderurgico a una cordata di imprenditori privati: “Così non si va avanti: c’è bisogno di un cambio di passo nel giro di qualche giorno”.
Lo stesso giorno il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi incontrò i rappresentanti di Arcelor Mittal (il gruppo a guida indiana oggi leader mondiale dell’acciaio) e di Marcegaglia spa, candidati all’acquisto.
Per il gruppo italiano erano presenti il presidente Antonio Marcegaglia, che nel 2008 aveva patteggiato una condanna per aver corrotto un dirigente dell’Eni in cambio di commesse, e sua sorella, la vicepresidente Emma Marcegaglia, nominata nel frattempo da Renzi presidente dell’Eni stesso.
Il quale è fornitore di gas dell’Ilva, quindi oggi suo creditore, mentre la Marcegaglia compra a Taranto le lamiere con cui fa i tubi piegandole e saldandole.
Già  questa fotografia avrebbe dovuto sconsigliare eccessi di entusiasmo per i mitici privati, ma Renzi era troppo lanciato: nel giro di pochi giorni fece fuori il commissario Enrico Bondi, il manager che aveva risollevato la Parmalat dal crac da 14 miliardi di Calisto Tanzi, e lo sostituì con Piero Gnudi, noto commercialista di Bologna, già  ministro e presidente dell’Iri e dell’Enel.
L’uomo giusto per gestire una vendita anzichè un’azienda.
Nel giro di sei mesi esatti Renzi ha dovuto capovolgere il suo punto di vista.
Il 30 novembre scorso l’ha detto: “A Taranto stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico: rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato”.
Una volta per queste operazioni c’era l’Iri, acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale.
Proprio l’Iri aveva costruito nel Dopoguerra la siderurgia italiana, le acciaierie a ciclo integrale (dal minerale ferroso al laminato grazie ai costosissimi altiforni), a Genova Cornigliano, Napoli Bagnoli e infine Taranto.
Il problema era lo stesso di oggi. L’industria metalmeccanica italiana lavora l’acciaio. Lo trasforma in elettrodomestici, automobili, macchine utensili, guard rail per le autostrade, tralicci elettrici, barattoli di conserva.
Oggi come allora dobbiamo decidere se i dieci milioni di tonnellate di acciaio che si fanno a Taranto vogliamo continuare a farceli in casa o importarli.
Il governo ha deciso che l’Ilva va salvata.
Due sono le ragioni che hanno costretto Renzi a piegarsi a una soluzione statalista.
La prima è quella ambientale. Chiudere l’Ilva perchè comunque inquina troppo è illogico: significherebbe importare acciaio prodotto da impianti che inquinano altre città  e uccidono altri bambini.
Tanto vale mettere l’Ilva in grado di produrre senza provocare tumori a nessuno.
Costa, secondo le stime del governo, 1,8 miliardi. Non c’è nessun privato che ce li voglia mettere.
La storia è antica. Quando l’Ilva Laminati Piani di Taranto fu privatizzata nel 1994, l’acquirente Emilio Riva, subito dopo aver pagato circa 1.400 miliardi di lire, ne chiese indietro oltre la metà  sostenendo di aver scoperto solo a cose fatte che l’impianto richiedeva massicci investimenti per contenere le emissioni nocive.
Un collegio arbitrale gli dette torto e lui si guardò bene dal fare comunque gli interventi.
La seconda difficoltà  è il groviglio di questioni legali e giudiziarie che incombono sull’azienda di Taranto.
La proprietà  è ancora della famiglia Riva, e gli eredi di Emilio, il capostipite morto il 30 aprile scorso, hanno già  in campo fior di avvocati per contestare quello che considerano un esproprio a suon di decreti legge.
Intorno all’Ilva si stima una nebulosa di contenziosi legali del valore totale di 30 miliardi. Gli impianti sono ancora sotto sequestro giudiziario, e il tribunale di Taranto ha imposto (per ragioni ambientali) un tetto alla produzione di 8 milioni di tonnellate all’anno.
Un limite che confligge con il senso comune industriale.
Le acciaierie funzionano prevalentemente con costi fissi, quindi la quantità  prodotta è decisiva per la redditività : con soli otto milioni di tonnellate di acciaio sfornato Taranto non può che essere un’azienda in perdita.
Infine, per finanziare il rilancio di un’azienda che oggi lavora a ritmo ridotto e perde ogni mese decine di milioni di euro, sono decisivi i soldi sequestrati ai Riva nell’ambito delle severe inchieste giudiziarie che li hanno travolti.
Si tratta di 1,2 miliardi appunto sequestrati, non ancora confiscati, e quindi anch’essi a rischio di contenzioso.
Difficilmente un privato si accollerebbe il rischio sia pure remoto di doverli un giorno restituire.
Le due cordate rivali (contro Arcelor Mittal e Marcegaglia c’è il siderurgico di Cremona Giovanni Arvedi con la Csn del brasiliano Benjamin Steinbruch) hanno capito che per aggiudicarsi l’ambito boccone dovranno aspettare come minimo un anno, durante il quale il vituperato Stato italiano dovrebbe rimettere le cose a posto.
Operazione tutt’altro che semplice, e per la quale non a caso il presidente della commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, ha chiesto a Renzi di mettere in campo il suo consulente di maggior spicco, l’ex amministratore delegato della Luxottica Andrea Guerra, un manager di razza come Bondi.
Il passaggio ha un suo fascino. Prima di diventare premier, Renzi amava farsi beffe degli imprenditori privati qualora, come nel caso dei Riva, avessero in passato finanziato Pier Luigi Bersani.
Da quando è a palazzo Chigi riserva a tutti indistintamente lodi sperticate.
Ma sull’Ilva è costretto a mettere la faccia sulle insostituibili virtù dello statalismo e anche sui suoi insopportabili difetti.
Il più pericoloso è quello di sempre: quando lo Stato è inefficiente c’è sempre un privato che ci guadagna.
Per esempio, molti amano ricordare che l’Ilva fu privatizzata per disperazione perchè perdeva soldi a palate.
Ma gli stessi fingono di dimenticare che la siderurgia statale ne perdeva metà  per finanziare i partiti e le loro clientele locali, metà  strapagando le imprese private fornitrici e concedendo sconti sontuosi alle imprese private che riforniva di acciaio.
Una strettoia che si è riproposta pericolosamente nelle scorse settimane quando la Cassa Depositi e Prestiti (che ambisce al ruolo di nuovo Iri), non potendo per statuto mettere capitali direttamente in un’azienda in perdita come Ilva, ha pensato di finanziare la Marcegaglia.
Come se il denaro pubblico potesse sostenere lo sviluppo di un’azienda privata che ha tutto l’interesse a sottopagare l’acciaio all’azienda neo-statale che si dovrebbe rilanciare.

Giorgio Meletti
(da “il Fatto Quotidiano“)

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THE ECONOMIC TIMES: ECCO IL PIANO DELL’ITALIA PER RIPORTARE A CASA I DUE MARO’

Dicembre 25th, 2014 Riccardo Fucile

IL QUOTIDIANO INDIANO SVELA I POSSIBILI TERMINI DELL’ACCORDO

Salvatore Girone è ancora fiducioso nelle istituzioni, come ha detto ieri in collegamento con il Coi (Comando operativo di vertice interforze).
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, crede invece sia necessario mantenere un dialogo con le autorità  indiane, nonostante, come lui stesso ha precisato parlando in diretta con il fuciliere di Marina ancora a New Delhi, finora abbiano «dato prove negative di sordità », mostrando «scarsa volontà  politica di dare una soluzione equa ad una vicenda che purtroppo si trascina da tempo in modo insopportabile».
Un dialogo che sarebbe in realtà  già  avviato da tempo, per stessa ammissione del ministro degli Esteri indiano Sushma Swaraj. Il quale, nel rispondere a un’interrogazione scritta di due parlamentari, ha annunciato che vi sarebbe all’esame del governo una proposta italiana che andrebbe verso una soluzione consensuale.
A svelare gli accordi tra Italia e India è l’Economic Times: in un articolo chiarisce che «il governo italiano pare aver offerto pubbliche scuse, attraverso il suo ambasciatore, per la morte dei due pescatori indiani, avanzando oltretutto un “pacchetto” di risarcimento per le famiglie delle vittime in cambio di un processo in Italia per i marò».
Sarebbe solo una parte, secondo il giornale, dell’accordo tra i due governi.
Un accordo che, se realmente fosse configurato in questo modo, siglerebbe la totale ammissione di colpevolezza di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre.
A confermare le voci su un accordo che preveda scuse e risarcimento alle famiglie dei due pescatori morti sarebbero state, sempre secondo l’Economic Times, «fonti del governo indiano.
Alti ufficiali del governo e del ministero degli Interni devono capire se la proposta di questa soluzione consensuale sia giuridicamente fattibile o meno.
I negoziati potranno iniziare solo dopo che la cosa sarà  stata definita giuridicamente.
Le istituzioni che si occupano di sicurezza tuttavia – scrive ancora il giornale – sarebbero contro la proposta italiana, e preferirebbero che i marò si dichiarassero colpevoli delle accuse e fossero inviati in seguito in Italia per scontare la pena, visti i trattati tra i due Paesi».

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CHIESTO IL PROCESSO PER I LEGHISTI BORGHEZIO E BOSO: “IDEE FONDATE SU ODIO ETNICO E RAZZIALE”

Dicembre 25th, 2014 Riccardo Fucile

“INSULTI RAZZISTI ALL’EX MINISTRO KYENGE”: LA PROCURA DI MILANO HA CHIESTO IL RINVIO A GIUDIZIO

Il procuratore aggiunto milanese Maurizio Romanelli ha chiesto il rinvio a giudizio per l’europarlamentare leghista Mario Borghezio e per Erminio Boso, ex senatore del Carroccio, indagati per aver propagandato “idee fondate sull’odio razziale ed etnico” in relazione ad alcune frasi pronunciate contro l’ex ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge alla trasmissione di Radio24 La Zanzara.
Borghezio, intervistato il 29 aprile 2013 sulla nomina di Kyenge, aveva detto fra le altre cose che “gli africani sono africani e appartengono a un’etnia molto diversa dalla nostra”. E ancora: “Non siamo congolesi, abbiamo un diritto ultramillenario” e “Kyenge fa il medico, gli abbiamo dato un posto in una Asl che è stato tolto a qualche medico italiano”. Frasi finite sotto la lente d’ingrandimento della Procura di Milano, così come quelle pronunciate da Boso, intervistato qualche giorno dopo.
Sempre parlando di Kyenge, Boso aveva affermato che l’allora ministro doveva “rimanere a casa sua, in Congo”, definendola “un’estranea a casa mia”.
Poi aveva ammesso di essere “razzista”
Nella richiesta di rinvio a giudizio depositata dal procuratore aggiunto Romanelli, che lo scorso 22 ottobre aveva chiuso le indagini preliminari, vengono individuate come persone offese l’ex ministro e la presidenza del consiglio dei ministri.
Borghezio e Boso sono accusati di discriminazione razziale in base alla legge 85 del 2006.

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TRIVELLAZIONI, LEGAMBIENTE A CHIAMPARINO: “COSA ASPETTA A IMPUGNARE LO SBLOCCA ITALIA?”

Dicembre 25th, 2014 Riccardo Fucile

PROVOCHERA’ EFFETTI NEFASTI SUL NOSTRO TERRITORIO

Sono già  6 le Regioni — Abruzzo, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto —   che, entro il 10 gennaio, hanno deciso di impugnare di fronte alla Corte Costituzionale   la legge 166/2014 di conversione del decreto 133/2014, in particolare l’articolo 38 del decreto Sblocca Italia che sceglie le trivelle per fare cassa a spese dell’ambiente.
Come sostenuto e richiesto da Legambiente, Fai, Greenpeace, Marevivo, Touring Club Italiano e Wwf ed associazioni e comitati locali, le Regioni stanno decidendo di contrastare la forzatura, voluta dal Ministero dello Sviluppo Economico, e   secondi gli ambientalisti e le Regioni «Contraria al Titolo V della Costituzione, che bypassa l’intesa con le Regioni e stabilisce corsie preferenziali e poco trasparenti per le valutazioni ambientali e per il rilascio di concessioni uniche di ricerca e coltivazione di idrocarburi. Trivellazioni che potrebbero interessare anche il territorio piemontese con diverse richieste di ricerca ed estrazione di idrocarburi».
Fabio Dovana, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, sottolinea: «Siamo fortemente preoccupati per i contenuti di questo decreto, che non solo su alcune questioni strategiche esautora di fatto le competenze delle Regioni, ma ripropone una visione vecchia del Paese, che non coglie le sfide del XXI secolo e sbaglia la scelta delle priorità  senza individuare criteri di utilità  effettiva per il territorio e i cittadini. Siamo convinti che il nostro Paese debba essere “sbloccato”, incidendo strategicamente nel quotidiano dei cittadini e delle pubbliche amministrazioni, con un effettivo snellimento delle procedure e una reale delegificazione, puntando alla realizzazione delle opere veramente utili a modernizzare l’Italia, ma non nella direzione individuata dallo Sblocca Italia. Speravamo —sottolinea ancora il presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta- che il decreto potesse essere uno strumento utile per modernizzare il nostro Paese, in realtà  si sta rivelando una scommessa persa che rischia di avere effetti nefasti sul nostro territorio».
Per questo Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta ha chiesto al Consiglio regionale e al presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino di impugnare il decreto di fronte alla Corte Costituzionale.
Chiamparino è in una evidente difficoltà , visto che è presidente della Conferenza delle Regioni e delle province autonome e non può stare ancora molto tra coloro che gli ambientalisti ed i sindaci accusano di tentennare, come il presidente della Regione Siciliana e quello della Basilicata.
Dovana   evidenzia che «il Consiglio regionale ha già  avuto una prima occasione per esprimersi favorevolmente al nostro appello ma ha preferito astenersi a larga maggioranza. Chiediamo ora alla Giunta e ai consiglieri di ritornare sulla questione impugnando entro il 10 gennaio il decreto così come fatto già  da altre sei Regioni. Per Legambiente col decreto Sblocca Italia si rischia una nuova ondata di trivellazioni petrolifere con irrilevanti benefici economici e sociali ed elevati pericoli ambientali per aree di pregio naturalistico e paesaggistico. Agli attuali tassi di consumo e valutate le riserve certe a terra e a mare censite dal Ministero dello Sviluppo Economico, il petrolio estratto potrebbe coprire il fabbisogno nazionale per soli 13 mesi. Secondo le stime di Assomineraria, l’upstream, cioè la filiera di esplorazione e produzione (E&P) in Italia e estero, vale il 2,1% del Pil italiano e con lo Sblocca Italia comporterebbe un aumento sul Pil dello 0,5%, mentre secondo il rapporto “World Travel & Tourism Council”, l’Italia ha ricavato nel 2013 dalle attività  turistiche (compreso l’indotto) il 10,3% del proprio Pil». Ribadendo che la via maestra per l’uscita dalla crisi in Italia si chiama manifattura verde e di qualità  — e non turismo — sono queste cifre che si commentano da sole.

(da “greenreport.it”)

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