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BERLUSCONI SCEGLIE VERDINI E GIURA FEDELTA’ AL NAZARENO

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

NEL GIORNO DI MATTARELLA, SILVIO RITORNA SUI SUOI PASSI

Nel nuovo Quirinale delle parole misurate e dei silenzi morotei, irrompe Silvio Berlusconi come un carnevale durante la Quaresima.
L’insediamento di Sergio Mattarella è soprattutto per il Cavaliere l’occasione per reinsediare Verdini al vertice di Forza Italia.
E per pronunciare il suo solenne giuramento di fedeltà  al Nazareno, attraverso il pluri-inquisito: “Sono sicuro della lealtà  di Verdini”.
È il segnale, politico. Uno dei pochi, che interrompe una serie infinita di gaffe.
Incrocia Rosy Bindi: “Mai — dice — avrei pensato che un uomo, pardon una donna, si commuovesse per l’elezione del presidente”.
Lei, di ghiaccio: “Pensavo che col tempo fosse diventato più galante”. A quel punto, l’ex premier tenta di scusarsi con un baciamano: “Io sono sempre galante”.
Ma la frittata è fatta. E l’imbarazzo del Cavaliere nullo.
Perchè nel carnevale berlusconiano l’importante è la battuta, è il compiacimento narcisistico di essere circondati dai cronisti — e poco importa se al Quirinale o all’osteria — è il one man show, che giornate come quella di oggi esaltano.
Perchè vuoi mettere, dopo mesi a Cesano Boscone, tornare nel salone del Quirinale, gaserebbe un depresso, figuriamoci uno che si ama.
Milan, barzellette, battute, pure sessiste, insomma il solito tentativo di rubare la scena, di avere un titolo sui giornali.
Nella giornata dell’insediamento solenne del nuovo capo dello Stato, Berlusconi neanche gli va a stringere la mano, dopo aver dichiarato che lo stima: “C’è troppa gente — dice – ci vedremo un’altra volta in udienza”.
Perchè la verità  è che il palcoscenico serve non a complimentarsi col protagonista, ma a perseguire l’obiettivo personale.
Dare segnali sul Nazareno. Non sono parole di fuoco quelle che Berlusconi pronuncia quando incrocia Matteo Renzi: “Birichino” dice l’uno. “Meno birichino di te” l’altro. Nella classifica dei birichini si ritrova anche Padoan, il terzo del capannello.
Il patto dei birichini pare reggere.
Per questo, sulle riforme, l’ex premier non solo non annuncia vendetta, ma — a modo suo — rassicura: “A volte per amore di riforme abbiamo detto sì a cose che non ci convincevano, da qui in avanti diremo sì soltanto a ciò che ci convincerà  veramente”.
Il minimo sindacale. Tradotto: se Renzi non cambia le carte in tavola, Forza Italia continuerà  a tenere la parola data.
È quando incrocia Nunzia De Girolamo che si compone l’ultimo tassello. Berlusconi, con voce non troppo bassa, le dice: “Mica lo so se questo patto con Alfano tiene”.
Poco più in là  c’è Angelino. Pare che i due si siano salutati freddamente.
Perchè Berlusconi si sente tradito davvero sulla vicenda del Quirinale, nè ha apprezzato come si è comportato il suo ex delfino in Aula durante il discorso di Mattarella.
Mentre Lupi non era seduto tra i banchi del governo, gli è sembrato che Alfano avesse un atteggiamento compiacente nei confronti di Renzi.
Insomma, si è re-insediato il Nazareno: fiducia a Verdini, battute con Renzi, gelo con Alfano.
La chiave sta proprio nel rapporto con “Denis”.
Negli ultimi giorni il cerchio magico ne ha chiesto la testa, stroncando la gestione del Nazareno da parte del “duo tragico” di Gianni Letta e Verdini. Berlusconi, per ora lo conferma nel suo ruolo.
Prima al Quirinale, con una dichiarazione. Poi nel corso di un colloquio.
Il Fatto ha raccolto un interessante analisi di un azzurro di peso: “Denis lo tiene per le p…e, Berlusconi non può permettersi di mollarlo”.
I motivi sono due. Il primo sono i numeri. Pare che i franchi soccorritori a Mattarella organizzati dal nume tutelare del Nazareno siano molti di più di quelli che Berlusconi aveva stimato in un primo momento: 71. Proprio così: settantuno.
Il che significa che, sulla carta, Verdini avrebbe i numeri per creare dei gruppi di “responsabili” che facciano da polizza di assicurazione a Renzi.
Il secondo è la ghirba. Nel senso che il 20 febbraio sarà  il giorno della salva-Silvio e l’ex premier considera inopportuno correre rischi ora.
Negli ultimi giorni sono arrivate rassicurazioni, a partire da quella pubblica della Boschi sul famoso tre per cento. Ecco.
Magari con Renzi è calato il sospetto. E la ferita sull’elezione di Mattarella brucia ancora. Però, se questo è il quadro, per Berlusconi l’unica strada percorribile resta quella di rimanere aggrappato al Patto.
Un parlamentare che ha parlato con Verdini tira le conclusioni: “Renzi il tre per cento lo farà . E il 20 sera vedremo chi è più forte, se noi o chi ci vuole fare fuori”.

(da “Huffingtonpost”)

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IL LOGO DEL COMUNE SVIZZERO PER NON FAR LAVORARE GLI ITALIANI: “QUI IL PERSONALE E’ RESIDENTE”

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

A CLARO, IN TICINO, UN BOLLINO PER AZIENDE E NEGOZI

C’è chi considera etico certificare che i suoi prodotti hanno una provenienza «doc»; chi invece si fa vanto di lavorare rispettando l’ambiente.
Nel comune di Claro da qualche giorno è titolo di merito per aziende e negozi dimostrare con tanto di «logo» da esporre a consumatori e clienti che tra i propri dipendenti ci sono residenti svizzeri e non manodopera importata dall’Italia.
«Lo so, l’iniziativa inevitabilmente apparirà  antipatica specie se vista da parte italiana. Ma noi l’abbiamo adottata in un’ottica di trasparenza. Il razzismo non c’entra niente»: Roberto Keller, sindaco di Claro, indossa la toga dell’avvocato del diavolo e prova a mettere ordine.
Il luogo, innanzitutto: Claro è un comune di 2.700 abitanti a nord di Bellinzona, sotto i primi contrafforti delle Alpi.
Il confine italiano non è vicinissimo, una sessantina di chilometri, ma l’onda lunga del fenomeno che da un decennio sta trasformando il mercato del lavoro in Canton Ticino arriva fin qui.
Anche nel 2014 il numero dei pendolari italiani che varcano ogni giorno la frontiera per lavorare accettando paghe più basse rispetto agli elvetici è cresciuto del 5,3%, sfondando il tetto delle 60 mila unità  (nel 2001 erano la metà ).
E benchè il tasso di disoccupazione ufficiale sia poco più del 4%, benchè le imprese locali ripetano a ogni occasione che i lavoratori provenienti da oltreconfine sono indispensabili, la vulgata degli «italiani che rubano il lavoro» monta sempre più.
A Claro si sono inventati il marchio delle imprese «patriottiche», se così le possiamo chiamare.
Il Comune ha lanciato una settimana fa una campagna in cui non solo invita le aziende di ogni settore a privilegiare residenti svizzeri nelle assunzioni ma anche a rivendicare la scelta esponendo un logo con la scritta «noi impieghiamo personale residente». Corollario: sul logo compare anche una sorta di pagella in cui l’imprenditore indica qual è la percentuale (da 20 a 100) di elvetici al lavoro nella sua azienda; sconti fiscali o altri premi non sono ammessi dalla legge, il titolo è puramente onorifico.
Una sorta di «white list» commerciale, la definiscono in municipio, in contrapposizione alla «black list» dei Paesi considerati complici degli evasori fiscali in cui il governo italiano continua a includere la Svizzera.
«Il problema lavoro per noi era gravissimo ed è peggiorato dopo che franco svizzero ed euro hanno raggiunto la parità  – racconta il sindaco Keller – ma si sa che di fronte a vantaggi di costo le imprese scelgono sempre di risparmiare. Però molte persone da tempo mi ripetono: sarei disposto a pagare merci o servizi qualche franco in più se almeno sapessi che vanno ad arricchire l’economia ticinese e non quella italiana. E così è nata l’idea della campagna a favore delle assunzioni locali. Claro è un comune piccolo, non sposteremo certo gli equilibri ma lanciamo un segnale: l’invito è destinato anche alle aziende dei centri più vicini al confine perchè facciano altrettanto».
Obiezione scontata: un segnale del genere presta il fianco all’accusa di xenofobia… «Obiezione respinta – ribatte Keller – perchè l’appello è ad assumere residenti, che non significa necessariamente svizzeri ma anche stranieri che vivono stabilmente in Ticino. È una questione innanzitutto di equilibrio: da quando il numero dei frontalieri è esploso sono nate storture nel mercato del lavoro. Ma anche di trasparenza: il negozio o l’azienda espone il logo e si assume il rischio, il cliente può fare la sua scelta. Non sta avvenendo la stessa cosa in Italia con i prodotti doc o la concorrenza sleale dei cinesi?».
I cinesi stavolta siamo noi, sono i lavoratori italiani che accettano impieghi in Svizzera per un salario più basso del 15-20% rispetto agli elvetici e che ormai sono arrivati a occupare un quarto dei posti di lavoro disponibili in Ticino.
Il problema insomma tiene banco ben al di fuori dei piccoli confini di Claro: dopo la tempesta valutaria di due settimane fa i sindacati hanno cominciato a denunciare casi in cui gli imprenditori hanno decurtato la busta paga degli italiani (ultimo caso in un’azienda di autotrasporti); in più ieri si sono incontrati per la prima volta la presidente della Confederazione elvetica Simonetta Sommaruga e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker.
Oggetto del vertice: la decisione svizzera di porre un tetto all’arrivo di immigrati e lavoratori stranieri così come stabilito dal referendum del 9 febbraio 2014.
La volontà  popolare fa però a pugni con i trattati internazionali sottoscritti da Berna con Bruxelles e la soluzione è in alto mare.
E allora non resta che affidarsi alle soluzioni «fai da te», come a Claro.

Claudio Del Frate

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ALLE SCUOLE PRIVATE UN FIUME DI SOLDI PUBBLICI: 700 MILIONI L’ANNO

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

MENTRE LO STATO NON HA SOLDI NEPPURE PER RENDERE SICURE LE AULE…SPESSO FINISCONO SENZA CONTROLLI A ENTI PRIVATI DI SCARSA QUALITA’ DOVE I PROFESSORI RICEVONO STIPENDI DA FAME

C’è un paradosso nel mondo dell’istruzione che sopravvive alle riforme e ai proclami.
Da una parte scuole pubbliche a corto di risorse, con 250 mila insegnanti precari ed edifici senza sicurezza come testimoniano i crolli nell’asilo di Milano e nella media di Bologna di inizio gennaio.
Dall’altra istituti privati che continuano a essere finanziati da Stato e Regioni con una dote che sfiora i 700 milioni di euro l’anno, senza che alle sovvenzioni corrisponda un controllo sulla qualità .
Il governo Renzi ha promesso di mettere mano almeno alle condizioni delle aule, con un piano di investimenti ambizioso che però stenta a partire proprio per la carenza di fondi: l’operazione richiede quattro miliardi di euro.
Così il dossier “La buona scuola” considera inevitabile il sostegno agli imprenditori dell’istruzione: «Va offerto al settore privato e no-profit un pacchetto di vantaggi graduali, attraverso meccanismi di trasparenza ed equità  che non comportino distorsioni».
Così ogni anno il ministero dell’Istruzione versa poco meno di mezzo miliardo alle paritarie.
Un lascito mai rimosso del secolo scorso, quando il maestro non arrivava nei paesi più remoti e ai piccoli studenti ci pensavano soprattutto le suore.
Oggi quel finanziamento è un nervo scoperto tra i pasdaran della statale ad ogni costo e i paladini delle strutture private.
Per i primi andrebbe cancellato il contributo per gli istituti laici e confessionali che vogliono stare sul mercato, mentre i secondi difendono la possibilità  di educare ai valori cattolici o con sistemi alternativi.
La rivoluzione annunciata più volte da Renzi per la scuola non ha cambiato nulla.
Le due opzioni sono sempre sullo stesso piano, rispolverando un vecchio mantra caro al centrodestra italiano: la libertà  di scegliere dove mandare i figli a scuola è sacrosanta e siccome le paritarie costano, ci vuole un aiutino.
Tesi sposata in pieno anche dal ministro Stefania Giannini: «Dobbiamo pensare una scuola che sia organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata. Dobbiamo uscire dalla logica che ci siano gli amici delle famiglie contro gli amici dello Stato».
Per gli “amici delle famiglie” sono riservati per quest’anno 473 milioni, necessari ad accogliere quasi un milione di allievi dai tre ai diciotto anni.
Fondi che arrivano da Roma in base al numero di sezioni e che solo negli ultimi anni sono scesi sotto quota mezzo miliardo
La riduzione è stata di venti milioni, poco più del tre per cento imposto ai ministeri dalla spending review, ma ha fatto lievitare il malcontento.
Come spiega padre Francesco Macrì, presidente della federazione degli istituti cattolici: «Siamo il vaso di argilla più debole di tutti, subiamo il taglio dei finanziamenti a fronte di una crescita di responsabilità  e di impegni educativi».
Di diverso avviso Massimo Mari della Cgil:«Quella della Giannini è una presa di posizione degna dei governi democristiani. Con un problema mai superato: al centro dell’istruzione c’è il cittadino e non la famiglia. Finanziare la scuola cattolica contrasta con lo Stato stesso»
Ancora più tranchant la Rete studenti: Investire nelle paritarie è un insulto ai milioni di ragazzi che frequentano istituti che cadono a pezzi, senza servizi e sotto finanziati».
Le statali italiane superano quota 41 mila, tutte le altre sono 13.625.
Di queste, oltre 11 mila sotto forma di cooperativa, congregazione o srl offrono un ampio ventaglio di formazione.
Per stare in piedi chiedono una retta che può arrivare fino ad ottomila euro all’anno. Tanto.
E allora oltre allo Stato ci pensano gli enti locali a dare una mano, con il buono-scuola della Regione Lombardia a fare da modello o gli aiuti dei comuni emiliani: a Bologna il milione di euro destinato ogni anno alle scuole d’infanzia è stato bocciato da un referendum.
Governatori e sindaci alimentano un altro fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico stimato dalla Cgil in altri 200 milioni, che si somma alla sovvenzione ministeriale.
Un assegno in bianco, che non premia solo le eccellenze: finisce pure ad enti privati che non brillano per qualità  o dove i professori ricevono stipendi da fame.
STORIE DI ORDINARIO SFRUTTAMENTO
Tra le distorsioni più frequenti delle private ci sono gli insegnanti alle prime armi che diventano vittime del ricatto.
Funziona così: per scalare la graduatoria nazionale devono accumulare punteggio con le ore di docenza, ma i professori a spasso sono così tanti che pur di mettere da parte ore utili sono disposti a salire in cattedra a gratis.
Lezioni a costo zero e tenuti sotto scacco nel purgatorio delle parificate per prendere il volo il prima possibile verso il paradiso delle statali. Paolo Latella, insegnante e sindacalista Unicobas, ha raccolto le testimonianze: «È un fenomeno così diffuso che tocca almeno il cinquanta per cento delle strutture. “Vuoi che ti pago quando c’è la fila fuori?” è la risposta più frequente data dai gestori senza scrupoli ai docenti disarmati».
In centinaia firmano il contratto e una lettera di dimissioni senza data.
È sufficiente aggiungerla e cacciarli. Senza strascichi in tribunale.
Lo stipendio in diversi istituti è sotto la soglia di sopravvivenza: ci sono esempi di retribuzioni da 200-300 euro al mese, significa due euro all’ora.
E poi un elenco vergognoso di condizioni a cui sottostare.
Dai rimborsi della maternità  da restituire, fino alla pratica del pagamento con assegno mensile da ridare in contanti alla segreteria.
Centinaia di casi, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, con tanto di minacce e pressioni. Tutte segnalazioni anonime, come se fare la prof fosse un mestiere a rischio. «Per sei anni sono stata malpagata a Cagliari. Sei mesi fa ho fatto una denuncia all’ispettorato del lavoro e ho scoperto l’ovvio: i contratti a progetto che avevo firmato sono illegali». Dopo l’esposto però la beffa. Licenziata con una motivazione paradossale: «Mancanza di fiducia a causa del mio comportamento».
Epicentro del fenomeno la provincia di Caserta, dove si contano oltre 400 tra srl e cooperative e solo 217 istituti con lo stemma della Repubblica.
Da qui arriva la storia di Maria: «Ho lavorato un anno intero senza ricevere neppure un euro, firmando però la busta paga. Ho fatto anche gli esami di idoneità  senza portare a casa nulla, tutto sotto minaccia di licenziamento e di perdere posizioni in graduatoria».
In Campania nelle scuole private resiste anche la pratica dei “diplomifici”: pago tanto, studio poco e prendo il pezzo di carta.
Ecco il racconto di una ragazza bolognese:«A Nola mi sono presentata tre volte per le prove scritte ed orali. Mi facevano copiare tutto». È una delle testimoni ascoltate dai finanzieri dopo il sequestro di due istituti nel Napoletano.
La maturità  partendo da zero, grazie a registri taroccati e atti pubblici falsi. Il tutto per 12mila euro in contanti.
A chi organizzava la truffa sono finiti in tasca milioni di euro: in centinaia si sono catapultati qui da Roma, Foggia e dalla Sardegna.
Per prendere un diploma che non vale nulla: dopo l’inchiesta i titoli sospetti sono stati cancellati.
SOPRAVVIVE IL SISTEMA FORMIGONI
Sul fronte dei finanziamenti, in Lombardia una dote ad hoc è stata il vanto dell’ex presidente Roberto Formigoni. Partiti nel lontano 2001, in tredici anni i contributi regionali hanno superato quota 500 milioni.
Messi a disposizione in nome della possibilità  di scegliere: la libertà  educativa è in mano ai genitori, che se vogliono iscrivere i propri figli nelle scuole cattoliche ricevono sostegno dal Pirellone, che sborsa una parte delle rette.
Un sistema fortemente contestato dalla Cgil, come spiega Claudio Arcari: «Per come viene distribuita, la dote finisce alle famiglie benestanti, alimentando un diritto allo studio al contrario: tanto a chi si può permettere rette da migliaia di euro e nulla a chi ha poco».
L’aiuto non si è inceppato neppure con la bocciatura del Tar dello scorso aprile.
Ecco come è andata.
Due studentesse milanesi fanno ricorso: troppa differenza (a parità  di reddito familiare) tra quanto destinato a loro – tra 60 e 290 euro – e quello che va a una coetanea privatista, che può intascare fino a 950 euro.
Una disparità  non accettabile per i giudici amministrativi: «Senza alcuna giustificazione ragionevole e con palese disparità , le erogazioni sono diverse e più favorevoli per chi frequenta una paritaria».
La sentenza è tuttavia una vittoria a metà  perchè è stata respinta la parte del ricorso che colpiva il sostegno economico. E anche per quest’anno scolastico sono arrivati trenta milioni di euro sotto forma di dote. La scelta del leghista Roberto Maroni è stata copiata dal compagno di partito Luca Zaia.
Il governatore veneto ha messo sul tavolo 42 milioni (21 per gli asili nido e altrettanti per le scuole d’infanzia) con questa motivazione: «Il Governo ci vorrebbe più impegnati nella costruzione di asili pubblici. Noi diciamo che questa è la nostra storia e che non ci sono alternative alle comunità  parrocchiali e congregazionali. In Veneto non cerchiamo e non vogliamo nessuna alternativa».
PRIMA GLI ULTIMI
Non sempre vince il malaffare. Oltre ai predatori voraci e governatori generosi, non mancano le buone pratiche: inclusione sociale, esperienze di eccellenza e una visone moderna dell’insegnamento.
A Rimini il centro educativo italo-svizzero (Ceis) è stato fondato nel dopoguerra dal Soccorso operaio elvetico.
Una istituzione privata   laica che col tempo è diventata un modello: niente cattedre, orari flessibili e classi che   gestircono in autonomia le lezioni per oltre 350 bambini fino a dieci anni. Di questi, cinquanta hanno una qualche forma di disabilità , oltre il triplo di una scuola pubblica.
Un’attenzione simile a quella riservata dall’Istituto per le arti grafiche di Trento, di proprietà  della congregazione dei Figli di Maria Immacolata, ma finanziata interamente dalla Provincia.
È normale trovare in ogni classe almeno un paio di ragazzi con handicap. «Il dualismo normalità -disabilità  va superato», afferma il direttore Erik Gadoni: «Ognuno può portare un contributo al gruppo in cui è inserito».
Ottimi i risultati anche sul fronte dell’autismo. Rudy è un ragazzo con la sindrome di Asperger: quando entrò la prima volta si nascondeva sotto il banco. Grazie un percorso ad hoc allargato alla famiglia e ai compagni, la sua capacità  relazionale è migliorata.
E adesso Rudy ha lasciato Trento per iscriversi all’università . Una vita normale, dopo cinque anni e tanti investimenti per la sua educazione. A buon fine.

Michele Sasso

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L’AIUTO AGLI ALEOTTI E IL SILVIO INGANNATO DA VERDINI

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

IL DECRETO SERVIREBBE AL PATRON MENARINI SRL, VICINI A RENZI… MENTRE BERLUSCONI VUOLE CAMBIARE LA SEVERINO

“Questa cosa nasce a Firenze”.
Una fonte di governo racconta così, dietro la garanzia dell’anonimato, la genesi del famigerato articolo 19 bis del decreto attuativo della delega fiscale, quello che cancella i reati di evasione e frode fiscale se il maltolto è inferiore al 3% del fatturato: la norma – che a quanto risulta al Fatto Quotidiano preoccupa anche la Procura di Firenze – servirebbe a chiudere il processo apertosi un anno fa contro i vertici della Menarini, colosso farmaceutico con 16mila dipendenti nel mondo, 3,36 miliardi di fatturato stimato nel 2014 e sede nel capoluogo toscano.
Proprietaria del gruppo – che ora possiede anche l’1 per cento di Mps, dopo essere salita fino al 4 – è la famiglia Aleotti: deceduto il capostipite Alberto, alla guida (e sotto processo) ci sono i figli Lucia e Giovanni, presidente e vice
I rapporti con l’ex sindaco e quelli con l’ex Cavaliere
Ovviamente conferme ufficiali sulla genesi dell’articolo 19 bis non esistono (a parte l’ammissione del premier al Fatto sui pareri positivi arrivatigli da “grandi avvocati”), ma è un dato di cronaca incontestabile il rapporto tra Matteo Renzi e il gruppo farmaceutico: Lucia Aleotti, per dire, a marzo fu tra i pochi invitati dal premier al suo primo incontro a Berlino con Angela Merkel (gli altri erano Giorgio Squinzi, Fulvio Conti dell’Enel, e Mario Greco delle Generali).
D’altronde la Menarini sa come coltivare le relazioni: quando Renzi era presidente, l’azienda firmò un protocollo con la provincia di Firenze e regalò oltre 600 computer a scuole e associazioni di volontariato; quand’era sindaco Menarini finanziò il recupero di alcuni appartamenti di edilizia popolare.
Più significativo, forse, il fatto che l’imprenditore renzianissimo Fabrizio Landi – nominato nel cda di Finmeccanica – sieda anche nel consiglio di tre società  del gruppo degli Aleotti: Menarini Diagnostics, Firma e Sili-con Biosystem.
I rapporti tra Menarini e la politica, comunque, sono una sorta di tradizione: anche col governo di Silvio Berlusconi c’erano contatti più che frequenti.
Ad esempio, agli atti dell’inchiesta fiorentina sulla Menarini – oltre a continui incontri con gli allora ministri Scajola, Fazio, Fitto, Matteoli, Sacconi e a una cena con l’ex Cavaliere – c’è pure una telefonata tra Alberto Aleotti e Gianni Letta: l’imprenditore chiede rassicurazioni su un emendamento e il sottosegretario risponde che se ne occuperà  lui (“lo faccio dire io a Mosca dal presidente a Scajola”).
Il processo iniziato un anno fa: danni alla Sanità  per 860 milioni
Tornando al decreto fiscale, i vertici della Menarini avrebbero un ottimo motivo per rallegrarsi se passasse con l’articolo 19 bis: un processo in corso a Firenze dal febbraio scorso in cui anche palazzo Chigi si è costituito parte civile (per una coincidenza divertente l’ha fatto il 22 febbraio, il giorno prima dell’insediamento del governo Renzi).
L’accusa per l’azienda è pesante: aver gonfiato – attraverso un raggiro e per quasi trent’anni (dal 1984 al 2010) – il prezzo di alcuni farmaci accumulando nel frattempo fondi neri. Lucia e Giovanni Aleotti, in particolare, sono accusati di aver partecipato a questo sistema inventato dal padre spostando i soldi su 900 conti correnti intestati a 130 società  estere fino a usufruire dei due scudi fiscali di Tremonti nel 2003 e nel 2009.
Racconto corroborato, dicono i pm, da alcuni indagati che hanno già  patteggiato la pena.
Per la Procura Alberto Aleotti (il padre) in questo modo si sarebbe “procurato un ingiusto profitto non inferiore a 575 milioni di euro, con conseguente ingentissimo danno per il Servizio sanitario nazionale non inferiore a 860 milioni”.
La dimensione della frode contestata è mostruosa: 1,2 miliardi di euro (la Cassazione, però, ha detto di no al sequestro preventivo). Lucia Aleotti, infine, è accusata anche di corruzione dell’ex senatore Pdl Cesare Cursi
I tormenti del sultano di Arcore: “Quella legge non è per me
Curiosamente anche fonti assai vicine a Silvio Berlusconi confermano la lettura per cui il beneficiario di quella amnistia mascherata che è l’articolo 19 bis sono gli Aleotti (è certo, in ogni caso, che pure quasi tutte le banche italiane avrebbero di che festeggiare).
Secondo questa versione Denis Verdini – ormai uno dei principali collaboratori di Renzi – era informato della cosa, ma avrebbe contribuito a far credere all’ex Cavaliere che quella norma era pensata per lui: “Berlusconi è stato messo in mezzo, ma quella roba gli serve a poco: la pena ormai l’ha scontata e lui infatti continua a chiedere solo la non retroattività  della legge Severino sulla incandidabilità , in modo da poter correre nel 2016”.
E invece, dicono dal cerchio magico, il premier e Verdini insistono ad agitargli davanti agli occhi l’esca del 3% “salva-Silvio”.
Fosse vero, sarebbe solo la conferma che i tramonti possono essere assai malinconici

Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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I GRILLINI COLPITI DA UN MATTARELLA: “SVOLTA, PRONTI A CONTRIBUTO”

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

SI ACCONTENTANO DI POCO… E PARTE UNA MAIL INTERNA DI APERTURA AL NEOPRESIDENTE, MA GRILLO FRENA

Un applauso non scontato al nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella arriva dal Movimento 5 Stelle.
Nel discorso d’insediamento di oggi c’è stato un passaggio “importante”, si legge in una mail interna dei deputati M5S, quello in cui Mattarella ha accennato alla la voglia di cambiare dei “giovani parlamentari“.
“A questi parlamentari”, si legge nella mail, “il presidente chiede un contributo positivo. Noi siamo pronti a darlo .È ora di voltare pagina, dopo due anni in cui non siamo stati tutelati”.
Una svolta rispetto all’era Napolitano, sottolineano i deputati M5S.
Certo i toni del post di Beppe Grillo pubblicato dopo il discorso del Capo dello Stato sono meno concilianti (“Gli applausi dei morti viventi”, scrive fra l’altro Grillo), ma l’attacco è mirato ai parlamentari plaudenti.
Al neopresidente, dopo la lettera di auguri anch’essa pubblicata sul blog, Grillo dice: “Vale più che mai il consiglio del fratello di Mattarella: ‘Sergio, guardati dai politici’. Più applaudono, più devi preoccuparti”, conclude.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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LA SANTANCHE’ VERSO LA LEGA DI SALVINI: DIO LI FA E POI LI ACCOPPIA

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

EMARGINATA DA “FORZA ITALIA”, E’ PRONTA A INDOSSARE LA CASACCA VERDE… CONTATTI CON GIORGETTI, CALDEROLI SI OPPONE

Velocissima a spostarsi da un partito all’altro, la pitonessa Daniela Santanchè ha iniziato le grandi manovre per approdare nella Lega di Matteo Salvini.
Ma non è la sola, perchè a questa ricollocazione stanno pensando anche Barbara Saltamartini, ex portavoce del Nuovo centrodestra, e Nunzia De Girolamo, anche lei critica nei confronti di Angelino Alfano
ELIMINATA DALLA CERCHIA DEL CAV
Allontanata dal cerchio magico di Silvio Berlusconi perchè sospettata di essere una delle fonti predilette dei cronisti politici de Il Fatto quotidiano, la Santanchè aveva già  preso le distanze nelle ultime settimane da Denis Verdini e Gianni Letta
La pasionaria del centrodestra aveva iniziato la sua carriera politica in Alleanza Nazionale, introdotta nel partito da Ignazio La Russa, per poi passare con la Destra di Francesco Storace, che lasciò polemicamente per tornare alla corte di Berlusconi dopo essersi candidata a premier con Movimento per l’Italia, forza politica da lei fondata
DANIELA CERCA L’APPOGGIO DI GIORGETTI
Ma le ambizioni di Daniela, che cerca l’appoggio del leghista Giancarlo Giorgetti, e di Barbara Saltamartini, nata politicamente con Gianni Alemanno per poi passare dal Popolo della Libertà  al Ncd, hanno subito trovato l’opposizione del potente leghista Roberto Calderoli, che ha già  denunciato il loro tentativo di riciclarsi.
Discorso diverso invece per la De Girolamo, che nel Carroccio può invece diventare un punto di forza per sfondare in Campania.

Giovanna Predoni
(da “Lettera43″)

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MATTARELLA PARLA, ONOREVOLI AL TABLET

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

VERDINI: “COSA HA DETTO?”. VILLARI: “NON LO SO”

Nonostante i 43 applausi che hanno interrotto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non tutti i parlamentari hanno prestato grande attenzione durante il discorso.
Tra questi Denis Verdini (Forza Italia) che controlla lo smartphone, scatta foto e risponde al telefono proprio durante il passaggio di Mattarella sul “promuovere la pace“, frase lungamente applaudita dall’Aula.
Il senatore azzurro è al telefono e chiede al suo collega Riccardo Villari: “Cos’ha detto?”.
Ma Viillari, anche lui impegnato col telefonino, risponde: “Non lo so”.
Sono tanti, tuttavia, i parlamentari che si distraggono con dispositivi multimediali: Dorina Bianchi (Ncd), il vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico (Pd), la vice presidente del Senato Linda Lanzillotta (Scelta Civica), Carlo Sibilia e Manlio Di Stefano del M5S e i senatori di Forza Italia Maria Rizzotti e Augusto Minzolini

(da “il Fatto Quotidiano”)

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LA REGIONE TOSCANA DEVE FARE CAUSA A PAPA’ RENZI

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

CONSIGLIERE DEL CDA SCRIVE AL PRESIDENTE: L’IMPRESA DI FAMIGLIA HA COMMESSO UN REATO PENALE “AI DANNI DELLO STATO”

“È“indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato”.
Paolo Spagnoli, avvocato e consigliere di amministrazione di Fidi Toscana, lo scrive nero su bianco: la società  Chil Post di Tiziano Renzi non solo era “priva dei requisiti” previsti, ma “l’omissione di informazioni” ha rilevanza “ai sensi dell’articolo 316 ter del codice penale”.
Per questo Spagnoli invita il presidente di Fidi Toscana, Silvano Bettini, “a informare senza indugio la Regione per gli adempimenti di legge”.
Il documento di cui il Fatto ha potuto prendere visione è stato inviato da Spagnoli il 26 gennaio ai membri del cda di Fidi Toscana che nella seduta del 14 gennaio avevano discusso la situazione della Chil Post.
La vicenda riguarda un mutuo concesso alla società  del padre del premier e finito nel fallimento dell’azienda per cui Tiziano Renzi è ora indagato dalla procura di Genova per bancarotta fraudolenta.
Parte di quel mutuo è stato pagato da Fidi Toscana attraverso un fondo per le piccole e medie imprese poi restituito dallo Stato.
Ma, come ha documentato il Fatto a inizio gennaio, la Chil Post non aveva i requisiti per beneficiarne.
Lo stesso governatore Enrico Rossi, in un’intervista pubblicata il 14 gennaio scorso, annunciò che sarebbe stato pronto ad agire per vie legali se ce ne fosse stato motivo. Quello stesso giorno il Cda di Fidi, di cui la Regione è socia di maggioranza, ha affrontato l’argomento e il 26 gennaio Spagnoli ha comunicato le conclusioni.
“Anche alla luce degli ulteriori approfondimenti     – scrive Spagnoli — emerge in modo evidente che alla data dell’erogazione del finanziamento la società  non aveva i requisiti”.
Non solo, ma individua e specifica che Chil Post è incappata in un reato penale “l’articolo 316-ter cp: indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato” e che prevede una pena detentiva dai sei mesi ai tre anni.
La Chil Post al momento della richiesta del finanziamento era rappresentata dalla mamma, Laura Bovoli, e dalle sorelle del premier, Matilde e Benedetta che hanno poi ceduto le quote a Tiziano Renzi.
Questa una delle variazioni societarie non comunicate che, secondo Spagnoli, rientrano “nell’omissione di informazioni dovute” previste dall’articolo 316.
Ora toccherà  a Rossi agire per vie legali. “Vediamo se manterrà  la parola”, commenta Giovanni Donzelli, capogruppo regionale di Fratelli d’Italia e candidato governatore. “Non può più scappare, a questo punto diventa necessario e urgente recuperare i soldi pubblici irregolarmente erogati come ha confermato lo stesso cda”, aggiunge.
“Fa particolarmente effetto scoprire che in un periodo di crisi con aziende costrette a chiudere e a licenziare, l’azienda di famiglia del premier fallita viene aiutata con soldi pubblici: è indecente”.

Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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BERLUSCONI: UN’ORA DI “PENA” OGNI 2 MILIONI FRODATI

Febbraio 3rd, 2015 Riccardo Fucile

MEDIASET GLI È COSTATA 42 MATTINE NEL CENTRO ANZIANI

Fine pena: 8 marzo, festa della donna.
Il giudice di sorveglianza Beatrice Crosti ha deciso di accettare la richiesta di sconto di pena avanzata dal condannato Silvio Berlusconi, 45 giorni in meno.
Così l’ex presidente del Consiglio se la caverà  con 168 ore passate, dal maggio 2014 al marzo 2015, tra i vecchietti dell’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone.
Per una frode fiscale di 368 milioni di dollari, vuol dire poco più di 2 milioni di dollari l’ora. Conveniente
La condanna per aver frodato il fisco con i bilanci Mediaset a proposito dei diritti tv riguarda, è vero, “solo” 7,3 milioni di euro, occultati nel 2002 e 2003.
Ma altri 6,6 milioni riguardano il 2001 e sono stati cancellati dalla prescrizione.
E in totale, scrivono i giudici nella sentenza, “le maggiorazioni di costo realizzate negli anni” dal sistema offshore Mediaset sono di almeno “368 milioni di dollari”.
Berlusconi li sanerà  passando, entro l’8 marzo, 42 venerdì alla Sacra Famiglia, quattro ore ogni volta, per un totale, appunto, di 168 ore.
Dunque ogni ora avrà  “lavato”, per la precisione, 2 milioni e 190mila dollari.
Considerando invece soltanto i 7,3 milioni di euro scampati alla prescrizione, saranno poco più di 43mila euro all’ora
La condanna definitiva dell’agosto 2013 era di quattro anni, ridotti a uno per effetto dell’indulto. La legge concede uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi scontati alle pene alternative. Berlusconi questo sconto lo ha chiesto, ma i magistrati dell’esecuzione penale gli hanno risposto che non se li meritava, visto il suo comportamento in questi mesi, in cui non ha smesso di attaccare i magistrati e di inveire contro la condanna.
L’esecuzione è il dipartimento della procura che segue i condannati.
A Milano è guidato dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, spostato lì d’imperio dal procuratore Edmondo Bruti Liberati dopo essere stato bersagliato dalle critiche e dagli esposti al Csm del suo aggiunto.
Ma in questa vicenda, il conflitto Robledo-Bruti non c’entra nulla: l’assegnazione dei fascicoli ai magistrati del dipartimento è automatica e questo è toccato a Ferdinando Pomarici, uno dei magistrati più autorevoli della procura milanese, che ha steso il suo parere, negativo, e lo ha poi mandato al procuratore Bruti Liberati, che nulla ha osservato e lo ha girato al Tribunale di sorveglianza.
Questa volta non si è ripetuto ciò che era successo ai tempi della sentenza definitiva per Alessandro Sallusti, condannato per diffamazione: Pomarici, seguendo le norme fatte valere fino a quel momento, aveva disposto che Sallusti entrasse in carcere.
Ma Bruti Liberati lo aveva contraddetto, imponendo una nuova interpretazione delle norme, che mandò il direttore del Giornale agli arresti domiciliari. In ogni caso la procura, dipartimento esecuzione penale, propone.
Ma poi il Tribunale di Sorveglianza dispone.
Nel caso di Berlusconi, i giudici di sorveglianza avevano disposto, subito dopo la condanna, di non mandarlo in cella nè agli arresti domiciliari e di concedergli invece l’affidamento in prova ai servizi sociali.
Gli avevano poi tirato le orecchie quando era andato a testimoniare al processo a carico di Valter Lavitola, a Napoli, dove aveva attaccato i giudici e mostrato di non accettare la sua condanna.
Ma ora il Tribunale di Sorveglianza ha deciso di non dare troppo peso a quell’episodio e ha accettato la richiesta di sconto, anche sulla base delle relazioni positive dei carabinieri e dell’Uepe (l’Ufficio esecuzione penale esterna)
Così l’8 marzo la pena sarà  scontata. Berlusconi tornerà  un uomo libero.
Niente più vincoli di orario nè di residenza. Non sarà  più obbligato a rientrare a casa ogni sera entro le 23, a risiedere ad Arcore, a non lasciare la Lombardia se non per recarsi a Roma — e solo dal martedì al giovedì.
Resta comunque incandidabile, per via della legge Severino. Almeno fino a quando il governo Renzi non riproporrà  il decreto “salva-Berlusconi” che azzeri la condanna.
Dopo l’8 marzo, basta mattine del venerdì passate alla Sacra Famiglia, a dimostrare la sua “attiva partecipazione all’opera di rieducazione”.
Basta anche con il cuore della pena, cioè l’affidamento in prova ai servizi sociali: per Berlusconi, questo si è concretizzato in un’oretta passata ogni quindici giorni con Severina Panarello, l’efficientissimo direttore dell’Uepe di Milano, che qualche volta è andata anche di persona ad Arcore, a verificare il comportamento del suo “affidato” e a parlare con i suoi “famigliari” (soprattutto con Francesca Pascale).
Se i conti si fanno con il tempo passato nella sede Uepe, allora sono 17 milioni di dollari “lavati” ogni ora ai servizi sociali.
Un affarone.

Gianni Barbacetto
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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