Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
AL CREMLINO HOLLANDE E LA MERKEL, LADY PESC NON LA CONSIDERA PROPRIO NESSUNO
Cercasi lady Pesc disperatamente. ![](http://s16.postimg.org/633g0lsyt/ladi_pesc.jpg)
Non fidandosi delle doti diplomatiche di Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Franà§ois Hollande hanno risfoderato la “diplomazia segreta” tanto in voga negli anni della Guerra Fredda e sono andati a Mosca per incontrare Putin, in un faccia a faccia molto teso sulla questione dell’Ucraina e i rischi di una guerra allargata, giacchè la Nato ha blindato nel frattempo il fronte orientale dell’Alleanza Atlantica e il segretario di Stato John Kerry promette di aiutare militarmente Kiev.
Una missione top secret, quella della Merkel e di Hollande, che ha clamorosamente bypassato Bruxelles e irritato la Casa Bianca. La Mogherini ha dovuto incassare.
E dichiarare a denti stretti che la visita franco-tedesca andava “nella direzione di una soluzione politica del conflitto”.
L’intento del blitz diplomatico è abbastanza lineare con la posizione cauta di Parigi e Berlino a proposito di eventuali forniture d’armi Usa per combattere i ribelli filorussi dell’Ucraina orientale: secondo indiscrezioni apparse sulla stampa tedesca e su quella russa, il piano franco-tedesco punterebbe ad anticipare le mosse di Washington, ed offrire al Cremlino un accordo in cui la priorità sarebbe quella dell’immediato cessate il fuoco, nonchè l’arretramento delle armi pesanti (la Nato aveva segnalato un inquietante incremento di blindati e carri armati) e la mobilitazione di un contingente internazionale di pace (eventualmente caschi blu dell’Onu).
Per disinnescare il conflitto nell’Ucraina dell’Est non è più tempo di chiacchiere a vuoto, devono aver pensato la Merkel e Hollande, bisogna agire, mettere sul piatto della bilancia il peso dei nostri Paesi, la loro influenza, e la nostra collaudata esperienza politica.
Doti che la Mogherini si deve conquistare sul campo, e negli anni.
Nell’aprile dello scorso anno, quando era ancora freschissima ministro degli Esteri nel governo Renzi, aveva dichiarato (in un incontro col Foglio) che “una Nato aggressiva non serve a nulla con Putin” e che nel pasticcio ucraino la posizione della Farnesina teneva conto che “non si può ragionare solo parlando di buoni e cattivi”.
In questo mondo ci sono “tante situazioni complesse da affrontare con lungimiranza e con un atteggiamento cooperativo”, aveva detto, sostenendo che per risolvere la crisi ucraina occorreva investire “sull’interesse comune” degli interlocutori che si affrontano durante le trattative. Così, si creano “win-win situation”, ossia tutti portano a casa qualcosa e le crisi rientrano. Ribadiva: “Non è la Nato il terreno più utile per risolvere la crisi, anche per non farla sembrare antagonista”. Dunque, meglio puntare sulle istituzioni internazionali.
Bello. In teoria. Nella pratica, la “dottrina Mogherini” non sembra aver fatto breccia nelle diplomazie di qua e di là del Reno: la Merkel e Hollande hanno spiazzato tutti, puntando sulla diplomazia e il buon rapporto con Mosca.
Addirittura, a metà gennaio, si era ventilata l’ipotesi di un incontro Merkel-Putin in Kazakistan, ma la cancelliera e il suo ministro degli Esteri Frank Walter Steinmeier avevano deciso di soprassedere, di attendere cioè il summit di Minsk, per tentare di bloccare le ostilità in Ucraina
Sabato 31 gennaio, a Minsk, il fallimento delle trattative e il contemporaneo riprendere vigore dei bombardamenti aveva invece fatto saltare il banco, complice probabilmente l’estensione delle sanzioni contro la Russia.
E la paranoia dell’assedio: poco tempo fa, il presidente russo, come riportato dai giornali di Pietroburgo e Mosca, aveva detto, parlando davanti ad un gruppo di studenti: “L’esercito ucraino non è un vero esercito, è semmai una legione straniera. La legione straniera della Nato”.
Non è poi così semplice gestire una situazione in cui la Russia ha pur sempre, nei confronti dell’Europa — in particolare di Germania, Italia, Olanda e Francia — una posizione di forza. Putin può chiudere il rubinetto del gas e del petrolio che alimenta un terzo delle necessità energetiche europee, se messo alle strette.
Sulla scommessa Ucraina il capo del Cremlino ha puntato forte, anche per controbilanciare le problematiche interne: il calo drammatico del rublo e della Borsa di Mosca, il crollo del prezzo del greggio, le restrizioni commerciali hanno contribuito alla frenata economica, all’aumento della disoccupazione, all’incremento dell’indebitamento di imprese e famiglie, tant’è che il 30 gennaio la banca centrale russa ha abbassato il tasso di sconto dal 17 al 15 per cento, per “prevenire una caduta importante dell’attività in un contesto di fattori esterni negativi”, riferendosi alle sanzioni occidentali legate alla crisi ucraina e al ribasso petrolifero.
Le previsioni, infatti, dicono che il prodotto interno lordo subirà una contrazione almeno del 3,2 per cento nel primo semestre del 2015.
E’ su questi tasti che avranno premuto Hollande e la Merkel, tenuto conto che in fondo è stato lo stesso Putin a coinvolgerli per sbloccare i colloqui di pace tra le parti impegnate nella guerra — perchè di guerra si tratta, non nascondiamoci dietro sinonimi che sono omissioni — nell’est dell’Ucraina.
Lo ha fatto il primo gennaio, chiamando al telefono sia la cancelliera tedesca che il presidente francese.
Non ha telefonato a Lady Pesc.
Leonardo Coen
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DI CESARE DAMIANO: “NON E’ CORRETTO DIVULGARE DATI INESATTI E NON OMOGENEI”
Numeri sbagliati per compiacere il governo? Non proprio, ma quasi.
Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, sinistra Pd, critico con Renzi ma sempre con un atteggiamento dialogante, ha fatto la sua denuncia qualche giorno fa dopo aver letto i dati dell’Istituto sulla cassa integrazione relativa al 2014.
Cosa l’ha allarmata?
Ho letto una dichiarazione dell’Inps nella quale si affermava che il totale delle ore di Cassa integrazione autorizzate nel 2014 si attestava a 1 miliardo e 112 milioni registrando una diminuzione di circa il 6% rispetto allo stesso consuntivo del 2013 indicato in 1 miliardo e 182 milioni.
Quindi, una bella notizia?
Certo. Però io verifico trimestralmente i dati dell’Inps e ricordavo che il consuntivo del 2013 non era quello indicato ma 1 miliardo e 76 milioni, oltre 100 milioni di meno. Quindi se confrontiamo il dato 2013 con quello del 2014 si ha un aumento del 3% e non una diminuzione.
Cosa ha risposto l’Inps?
Che l’Istituto provvede nel mese di giugno di ciascun anno a rivedere e aggiornare la cifre del mese di gennaio. Dopo la revisione, quindi, si è arrivati a 1 miliardo e 182 milioni. Ma se vogliamo monitorare davvero la Cig dobbiamo confrontare dati omogenei. Quale sarà , infatti, il dato rivisto a giugno? Sarebbe opportuno non fare dichiarazioni affrettate.
E perchè quella fretta?
Non lo so. Avrebbero dovuto precisare che si trattava di un confronto tra dati non omogenei.
L’Inps ha cercato di mostrarsi gentile con il governo?
Non voglio essere malizioso ma qualcuno può essere indotto in tentazione e magari se si può fornire un dato positivo lo si fa. Ma non è corretto.
Salvatore Cannavò
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
ALTRO CHE RIVOLUZIONE INFORMATICA, GLI ISTITUTI INFORMATIZZATI SONO 38 SU 8.519…. COSI SERVIRANNO 437 ANNI PER COMPLETARE IL PIANO
La sproporzione tra rassicurazioni, impegni, giuramenti del passato e il panorama di oggi è abissale. ![](http://s12.postimg.org/x2kj6cy59/scuola.jpg)
Dopo le mirabolanti promesse di un fantastilione di triliardi siamo messi così: in Italia le «scuole 2.0» all’altezza delle sfide digitali mondiali sono 38 su 8.519.
E un sondaggio rivela che 2 ragazzi su 3 «dichiarano di non avere la connessione wifi o di non utilizzarla per la didattica».
Così, spiegano gli esperti di Tuttoscuola, occorreranno «437 anni per digitalizzarle tutte».
È una sconfitta epocale. Che la dice lunga sulle indecorose panzane che ci sono state rifilate per anni.
Per capire la sproporzione abissale tra le rassicurazioni, gli impegni, i giuramenti del passato e il panorama di oggi è necessario fare un passo indietro.
A partire da un’Ansa del 1988 in cui l’allora ministro della Pubblica istruzione Giovanni Galloni già invitava a tener conto della «rivoluzione informatica».
Il primo pc esisteva solo da 12 anni, Internet non arrivava a 100 mila utenti e non c’era ancora il «www», ma era già chiaro: il futuro era quello.
Tanto che una dozzina d’anni dopo Luigi Berlinguer lanciava lo slogan «Libro e tastiera»: «Al momento il rapporto computer-alunni è di uno a cinquanta», garantiva, «vogliamo arrivare a uno a 10».
L’ultima finanziaria del governo Amato, fatta nel 2000 per il 2001, confidava di «colmare il divario digitale» che già c’era offrendo ai giovani un «prestito d’onore» che sperava di spingere «600.000 studenti di 60.000 scuole medie superiori » a comprare un pc «di buon livello, al costo di 1.440.000 lire, Iva inclusa».
Spiegava infatti: «Solo il 33% dei ragazzi italiani tra 15 e 17 anni possiede e utilizza abitualmente un pc; ben lontano dai livelli della Svezia ad esempio, dove il 75% delle famiglie ha un computer in casa e il 70% naviga in Internet».
L’anno dopo, miracolo! Nel novembre 2001, entusiasta di compiacere Berlusconi che aveva fatto la campagna elettorale sulle tre «I» di Internet, Inglese, Impresa, il ministro Letizia Moratti assicura trionfante: «Gli obiettivi fissati per il 2001 dal piano europeo sulla diffusione delle tecnologie informatiche nella scuola sono stati raggiunti. Quasi tutte le diecimila scuole italiane risultano oggi collegate in Rete: in particolare la totalità delle superiori, il 96% per cento delle medie e il 91% delle elementari». Bum!
E non è finita, assicura la maga Letizia: «Per il 2002 il nostro obiettivo è realizzare un collegamento Internet in tutte le classi e la creazione di specifici servizi di supporto informatico alla didattica».
Di più ancora: «Entro il 2004 uno studente su due avrà a disposizione un personal computer». Testuale. Ansa.
L’anno dopo, dimentica d’avere già festeggiato il prodigioso collegamento esistente per «quasi tutte», la Moratti annuncia un accordo per portare il web «nell’85% delle scuole entro il 2005» e il debutto della «telescuola, che consentirà agli studenti un contatto continuo con i docenti e darà loro la possibilità di approfondire le conoscenze attingendo dalle fonti in Rete…».
E non basta: « Nei prossimi anni prevediamo di collegare a Internet a banda larga il 90% delle scuole, contro l’attuale 18%».
Detto fatto, stanzia per il ciclopico impegno delle 10.797 scuole italiane 81 milioni. Pari a un deca per ogni studente. Due toast e una Coca.
L’anno dopo, il mago Silvio si spinge ancora più in là : «Introdurremo il computer già dalla prima elementare, non subito. Ma quando i bambini cominceranno a conoscere le lettere e i numeri, già a febbraio potranno giocare con il computer». Per capirci: febbraio 2004. Undici anni fa.
E potremmo andare avanti.
Ricordando i numeri dati nel 2005 dal ministro per l’Innovazione Lucio Stanca: «L’85% degli istituti usa Internet e uno studente ogni 10 ha a disposizione un pc» (bum!) e poi «il 68% delle famiglie con figli in età scolare possiede un pc, ponendo l’Italia al 3° posto in Europa» (bum!) e ancora «una famiglia su 5 ha già accesso alla banda larga» (bum!) e via così…
Dieci anni più tardi, dopo avere incassato via via altri impegni da Mariastella Gelmini («Un mini pc per tutti gli studenti, al ritmo 1.000 classi al mese») a Francesco Profumo («Da quest’anno tutte le classi delle medie e delle superiori potranno contare su un computer da utilizzare nelle lezioni. Alle classi che ancora non ce l’hanno sarà consegnato nelle prossime settimane») la situazione è quella fotografata dall’ultimo studio Survey Of Schools: Ict in Education.
Il quale dice che, in un contesto mondiale dove la velocità media di download (compresi il Niger o il Burkina Faso, per capirci) è di 22,1 megabyte al secondo e noi stiamo novantaseiesimi con 9,22, gli studenti europei che nella loro scuola non hanno la banda larga sono, a seconda dei gradi di studio, tra il 4% e l’8%.
Nelle quattro tabelle prese ad esempio per mettere a confronto varie classi delle medie e delle superiori noi siamo sempre (sempre) i peggiori, arrivando al 34%. E parliamo di una banda larga nominale. Spessissimo miserella. Che magari, tra un problema e l’altro, non arriva a 3 mega.
Due ragazzi su tre, dice un sondaggio di Skuola.net, «dichiarano di non avere la connessione wi-fi o comunque di non utilizzarla per la didattica».
Peggio: «Uno su 5 utilizza il laboratorio informatico una volta a settimana, uno su 5 una volta al mese».
Riccardo Luna, uno dei referenti di Matteo Renzi delle nuove tecnologie, ha raccontato un mese fa dello stupore di Enzo Valente, il direttore del Garr, il consorzio che gestisce la super-rete in fibra ottica della ricerca scientifica in Italia: «Roba seria, fino a mille volte più veloce di quello che avete a casa».
Aveva scritto a 260 scuole del Sud offrendo loro la fibra ottica gratis in cambio di un canone annuale di 3.000 euro: «Mi hanno risposto in 40: quaranta! Da non crederci!». Cecità . E mancanza di fondi.
Fatto sta che, con solo il 20% delle aule connesse al Web (dati dell’Agenzia digitale diretta da Alessandra Poggiani), lo studio di Glocus (il think tank presieduto da Linda Lanzillotta) ha denunciato che «il 18,5% dei plessi (4.200) non è connesso a Internet, le lavagne interattive multimediali sono appena 69.813 e i tablet per uso individuale nelle classi ancora meno, appena 13.650».
Certo, esistono eccellenze. E come scrive la rivista Tuttoscuola diretta da Giovanni Vinciguerra, le scuole sperimentali dei due progetti «cl@ssi 2.0» e «scuol@2.0» sono ambitissime.
Ma sono rare: «Nel 2012-13 erano 416 le cl@ssi 2.0, dotate di minicomputer per tutti gli alunni per interagire con la lezione in tempo reale. Mentre erano solo 14 le scuol@2.0, completamente digitalizzate».
Da allora «un lieve incremento si è registrato», ma i numeri sono quelli che dicevamo: «Dopo tre anni dal lancio del progetto, siamo a 38 scuole su 8.519».
Li abbiamo, quattro secoli e mezzo, per recuperare i ritardi?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera“)
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
IL RECORD STORICO AVVANTAGGIA IL PD
Se nella legislatura tra il 2008 e il 2013 – gli anni del trionfo dello scilipotismo e dell’Antonio Razzi che disse migrando da Di Pietro a Berlusconi: «Devo pagare il mutuo» – cambiarono gruppo 160 parlamentari, in cinque anni, adesso in appena due anni, quella quota di traslocatori politici è stata surclassata da questa nuova cifra monstre: 173 eletti hanno mutato casacca. Dirigendosi, per lo più, in direzione Pd (ed è clamoroso il caso degli ultimi otto arrivi neo-dem dal fronte ex montiano) ma va ricordato, pur se sembra archeologia, anche lo smottamento da Forza Italia che diede vita dopo le ultime elezioni alla nascita del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano nel dicembre 2013.
Secondo il Messaggero “i 173 sono destinati a diventare sempre di più” specialmente per lo spauracchio del voto anticipato.
Ma non tutti i cambi di casacca sono uguali: ci sono i 5 Stelle delusi che scelgono di passare al Gruppo Misto oppure, appunto, con Matteo Renzi almeno idealmente – come Walter Rizzetto che era già passato dall’estrema destra al Movimento 5 Stelle e ora è approdato al Gruppo Misto nella componente Alternativa Libera.
Oppure si trasmigra, dalla sinistra radicale di Sel alla sinistra stile partito nazione e acchiappa-tutto di Renzi, per motivazioni politiche del tipo di quelle di gennaro Migliore: aiutare il democrat a conquistare una regione importante come la Campania o una città importante come Napoli, alle elezioni amministrativa.
E trasmigrano i vendoliani, trasmigrano i liberali delusi da Monti (…).
Si tratta spesso di una transumanza collettiva, come nel caso di Scelta civica. Qualche calcolo:
Il Pd rispetto all’esordio ha guadagnato 16 parlamentari. Sel ne ha persi 10 alla Camera. Forza Italia ha perso 60 onorevoli. I grillini sono calati di 32 unità e la slavina pentastelluta è destinata a crescere.
A questo ritmo, tra altri due anni, i nostri eroi transumanti arriveranno a quota 346. A fine legislatura, nel 2018, saranno 519.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
PD 37,7%, SEL 5%, NCD+UDC 5,1%, FORZA ITALIA 14,3%, LEGA 11,3%, M5S 19,8%, FDI 3,6%
Pochi giorni dopo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il clima d’opinione verso le istituzioni
e il sistema politico, fra gli italiani, è cambiato.
In particolare, è migliorata l’immagine del governo e del suo premier.
Inoltre, si è rafforzato il PD. Ma, soprattutto, è risalita in modo repentino la popolarità del Presidente.
Il sondaggio appena concluso da Demos per l’Atlante Politico rileva, infatti, come il 59% degli italiani (intervistati) esprima (molta o moltissima) fiducia nei confronti di Sergio Mattarella.
Si tratta, dunque, di 15 punti in più rispetto a Giorgio Napolitano, al momento della conclusione del suo (secondo) mandato.
In altri termini, 6 italiani su 10 oggi attendono il Presidente con fiducia. Una maggioranza larga, come quella, d’altronde, che aveva guardato con fiducia Napolitano, al momento dell’insediamento, nel maggio 2006.
E ha continuato a sostenerlo, per molti anni. Unico riferimento unitario di un Paese diviso.
Oggi, evidentemente, il Paese attende, spera, di potersi riunire di nuovo intorno al Presidente. Anche se i consensi nei suoi riguardi riflettono, sostanzialmente, le dinamiche politiche che ne hanno accompagnato l’elezione.
Il sostegno a Mattarella, infatti, è molto elevato a centrosinistra. Anzitutto fra gli elettori del PD. Ma è ampio anche nella base di SEL e del Centro (prossimo al 60%). Mentre è molto più limitato (30% -40%) fra gli elettori di FI e del M5s.
Che, in Parlamento, non hanno votato per Mattarella. Il quale, invece, ottiene un consenso (di poco) maggioritario dalla base elettorale della Lega e dei Fratelli d’Italia.
A guardare i dati dell’Atlante Politico, l’elezione presidenziale sembra aver fatto bene al governo e al premier.
La fiducia nei confronti del governo, infatti, è risalita di 4 punti nell’ultimo mese. Oggi è al 46%, come in dicembre.
Ha recuperato consensi presso gli elettori di tutti i principali partiti. Per primo, evidentemente, il PD (quasi 80%). Ma anche SEL e AP. Perfino FI e il M5s. Unica eccezione: la Lega e i Fratelli d’Italia.
Parallelamente, è cresciuta anche la popolarità personale di Renzi. “Stimato” dal 49% degli elettori, 3 punti in più del mese scorso. Una ripresa significativa, per quanto limitata, perchè avviene dopo mesi di declino.
È, tuttavia, interessante osservare come gli orientamenti di voto, in questa occasione, siano solo in parte coerenti con le valutazioni “personali” sui leader.
Se non per quel che riguarda Renzi e il “suo” partito. Alla ripresa di consensi del Capo, infatti, corrisponde la crescita del PD, che, secondo le stime di Demos, rispetto a gennaio, è aumentato quasi di un punto e mezzo e si attesta al 37,7%.
Il livello più alto da ottobre. Peraltro, ormai pare non aver più avversari.
Salvo il M5s, che resta attestato poco sotto il 20%. Unica opposizione, che, tuttavia, non riesce a entrare nel gioco delle alleanze.
Percepito (e usato) dagli stessi elettori non tanto come alternativa di governo, ma come canale di dissenso. Malessere. Verso tutti.
Calano, invece, i consensi ai principali partiti di Destra.
Forza Italia supera di poco il 14%. La stessa Lega, dopo molti mesi, conosce un arretramento significativo. Si ferma all’11%. Molto, rispetto alle Europee, e ancor più rispetto alle politiche del 2013. Ma 2 punti meno di dicembre. Lontana da Renzi e dal PD.
Arretra anche di fronte a Berlusconi e a FI. Fra gli altri partiti, infine, crescono, in particolare, SEL e la Sinistra, ma anche i partiti di Centro. Entrambi oltre il 5%. Segno di una crescente “centrifugazione” del voto.
Ilvo Diamanti
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
IL COMMERCIALISTA CONSULENTE DELLE PROCURE: “MA QUALE SANARE ERRORI, SE NON C’E’ DOLO GIA’ ORA NON SCATTA IL REATO, IL GOVERNO RACCONTA BALLE”
Si occupa da anni di diritto penale dell’economia, anche come consulente delle procure, per cui da anni redige rapporti in inchieste su reati finanziari e di mafia.
“Ma io sono un commercialista”, dice Giangaetano Bellavia, “dunque, da idraulico del diritto, non capisco come invece tanti avvocati, al governo e in Parlamento, possano far finta di non sapere e di non capire”.
Il riferimento è alla soglia del 3 per cento dell’imponibile, sotto la quale Matteo Renzi e Maria Elena Boschi (che è avvocato) vorrebbero non far scattare la punibilità penale.
Lo hanno scritto nel decreto approvato la vigilia di Natale, poi ritirato dopo le polemiche sugli effetti “salva-Berlusconi”.
Ma ora lo stanno riproponendo, forse con qualche ritocco, quale l’esclusione della frode fiscale.
La soglia, ha detto il ministro Boschi, serve per sanare gli errori.
“Ecco”, trasecola Bellavia, “come fa un avvocato a non sapere che la frode fiscale scatta soltanto quando c’è un intento fraudolento, cioè il dolo? Se è un errore, non scatta il reato. Non possono non saperlo: lo dichiarano perchè tanto sanno che, come dice Crozza, ‘Si bevono tutto’. Gli errori non sono reati, sono già esclusi dalla punibilità penale”
Ma la soglia, ha dichiarato il ministro Boschi, c’è anche in altri Paesi. La Francia, per esempio.
“Sì, ma voi del Fatto avete giustamente replicato che, accanto alla percentuale, in Francia c’è una soglia in cifra assoluta, piuttosto bassa. E il bello è che c’è già anche in Italia! Non c’è per il reato di frode fiscale mediante fatture false. Ma per la frode senza false fatture sì, era di 150 milioni di lire, poi diventate 77 mila euro. Nel 2011 il governo Berlusconi l’ha ridotta a 30 mila euro. Per il reato di dichiarazione infedele, invece, era di 200 milioni di lire, diventati 100 mila euro. Anche qui, Berlusconi nel 2011 l’ha dimezzata, riducendola a 50 mila. È già una soglia generosa, visto che 50 mila euro d’imposta corrispondono ad almeno il triplo di soldi evasi”.
Quello che a Bellavia non va giù non è tanto la soglia in termini assoluti, ma la soglia in percentuale. “Privilegia i grossi contribuenti e penalizza i piccoli. Legittimare il 3 per cento a chi ha 1 miliardo di imponibile significa permettergli di frodare 30 milioni di euro l’anno. È mai possibile? E allora, perchè non mettiamo una soglia alla rapina? O ai furti nei supermercati? E ai poveracci che rubano per mangiare? Il comandamento dice: non rubare. Non dice: non rubare sopra una certa soglia. Se vogliamo introdurre una percentuale, facciamo prima ad abolire i reati tributari”
C’è poi un problema che rimane comunque irrisolto: “Segua il mio ragionamento. Un ufficiale tedesco durante la Seconda guerra mondiale porta via un quadro prezioso da una chiesa di Napoli. Oggi ritrovano il quadro: l’ufficiale è morto e non è più perseguibile, ma il quadro deve tornare a Napoli, non resta agli eredi del tedesco. E allora risponda alla mia domanda: il 3 per cento che viene depenalizzato che fine fa? Resta dello Stato? Lo confisco? Oppure resta nella disponibilità di chi ha frodato il fisco? Il quadro resta corpo di reato, e chiunque se lo passa di mano compie reato di ricettazione. Chi manovra invece i soldi sotto il 3 per cento è un riciclatore o no, visto che non ha commesso un reato? E pensi a che enormi riserve di nero possono fare le grosse aziende con il 3 per cento del loro fatturato: pronte per corrompere e per comprare chissà quanti senatori e deputati… ”.
Gianni Barbacetto
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
LA VECCHIA AUTO NON CE LA FA PIU’… L’ APPELLO SU FB PER FINANZIARE UNA DACIA A GAS
Al Partito s’è rotta la macchina, dopo 300mila chilometri “ha cessato di combattere per la democrazia e il
socialismo”.
Per questo Rifondazione Comunista – formazione politica che da anni versa in condizione economiche abbastanza complicate – ha lanciato una sottoscrizione speciale per finanziare l’acquisto di una Dacia Sandero 1.2 a gas.
La vecchia Lancia in dotazione alla direzione nazionale non è più riparabile ed è stata rottamata, stavolta nel vero senso della parola.
“Un bel guaio – dicono dal Prc – proprio nel momento in cui c’è da portare avanti l’opposizione al governo Renzi, difendere la Costituzione e la democrazia, sostenere il governo dei nostri compagni di Syriza in Grecia, unire la sinistra in alternativa al Pd e alle politiche neoliberiste”.
Non siamo spontaneisti – aggiungono nell’appello pubblicato sul sito – “e ben sappiamo che nessuno di questi obiettivi si raggiunge senza la macchina; non solo nel senso che c’è bisogno di Rifondazione come siamo soliti dire, ma anche in quello più letterale: non sempre si può arrivare in un posto, come necessità richiede e con la dovuta celerità , usando i mezzi pubblici come i nostri dirigenti sono abituati a fare. Spesso e volentieri un’automobile è indispensabile”.
Anche se in passato qualcuno ne ha fatto pure a meno, entrando nella leggenda della militanza di sinistra.
Come il pugliese Dino Frisullo – Walter Veltroni da sindaco di Roma gli dedicò anche una via – che per Democrazia Proletaria, anch’essa spiantata, si fece il viaggio da Roma a Bari in bicicletta per distribuire l’edizione speciale del Quotidiano dei Lavoratori. Rifiutando i soldi del treno.
L’sos di Rifondazione, che dopo il disastro della Sinistra Arcobaleno del 2008 ha ormai come unica parlamentare l’eurodeputata Eleonora Forenza (eletta con la lista Tsipras nel maggio scorso), è finito su Facebook.
Tra gli svariati commenti al post vince quello del nostalgico Patrizio: “Avrei preferito una Trabant”.
Matteo Pucciarelli
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
IL LEGHISTA RACCATTA QUALCHE ROTTAME TROMBATO EX CUFFARO ED EX LOMBARDO… SU FACEBOOK MIGLIAIA DI ADESIONI AL SIT IN DI PROTESTA IN CUI GLI VERRANNO RICORDATI GLI INSULTI ANTI-MERIDIONALI
Matteo Salvini sbarca a Palermo e la città si prepara a un’accoglienza particolare.
Se il segretario del Carroccio, pronto a presentare la nuova creatura politica “Noi con Salvini“, versione meridionale della Lega Nord, sembra aver dimenticato le sue uscite sul Sud Italia, a ricordargliele ci pensano i palermitani.
In concomitanza con il suo arrivo nel capoluogo siciliano è stata infatti organizzata la “Giornata dell’orgoglio terrone“.
“Salvini…Palermo non perdona”, si legge sui manifesti affissi per le vie cittadine che sponsorizzano l’evento.
Nata su Facebook, la protesta ha raccolto in pochi giorni migliaia di adesioni e consisterà in un sit-in davanti all’Hotel delle Palme della centralissima via Roma. Proprio lì il segretario incontrerà i sostenitori del suo nuovo progetto, che sarà guidato da Angelo Attaguile, un passato nel Movimento per le autonomie dell’ex presidente regionale Raffaele Lombardo e figlio di Gioacchino, sottosegretario alle Finanze in quota Dc nei governi Rumor e Colombo.
Tra ex Forza Italia, ex cuffariani ed esponenti di CasaPound, “Noi con Salvini” sta raccogliendo le poche adesioni in un’isola che fino a pochi anni fa era bersaglio delle offese dei big del Carroccio.
“Hai dimenticato quando dicevi che valigia di cartone fa rima con terrone?”, recita, in dialetto, il manifesto dell’evento.
In realtà la frase fu pronunciata da Umberto Bossi, ma anche il suo successore alla segreteria del partito, in passato, non è stato da meno.
La pagina fornisce così un elenco delle sue frasi più forti: da “Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani“, sull’episodio del 2009 in cui Salvini saltellava con alcuni amici intonando cori da stadio anti-partenopei, a “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”.
La lista prosegue con alcune dichiarazioni dei suoi colleghi di partito, ricordando quando Mario Borghezio diceva: “Non siamo Merdaccia Levantina e Mediterranea… noi siamo Padani!” o quando Leonardo Muraro, presidente leghista della provincia di Treviso, si lamentava del fatto che “i meridionali vengono qua come sanguisughe”.
“Salvini & co. stanno provando a sbarcare sull’intero scenario nazionale, e a utilizzarci come stupidi elettori — scrivono gli organizzatori dell’evento — non siamo disposti — proseguono — a mangiare al banchetto di chi ci ha sempre insultato e discriminato! Prepariamo un’adeguata accoglienza a chi pensa di poter sfruttare la popolazione siciliana per gli interessi del suo partito”.
Tra i commentatori, Valerio scrive: “Le offese non si dimenticano, soprattutto se frutto di pregiudizio e becera ignoranza”.
Gli fa eco Mauro: “Qui a Palermo la xenofobia non passa, a maggior ragione se portate dalla Lega Nord”.
Mentre c’è addirittura chi, come Gino, invita a boicottare la stessa protesta contro Salvini: “Ragazzi…non andate all’evento, così gli si da troppa importanza!”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 7th, 2015 Riccardo Fucile
L’EMENDAMENTO DEL GOVERNO RINVIA LA SCELTA SULLE TASSE PER MEDIASET E TELECOM-ESPRESSO: UNA DELLE DUE CONDANNATA A PAGARE DI PIÙ
Da presidente del Consiglio Matteo Renzi potrà indicare il prossimo direttore generale della Rai. ![](http://s15.postimg.org/dh4sikr3f/RENZI_NAPOL.jpg)
Ha un proficuo rapporto con la Fca di John Elkann e Sergio Marchionne, a cui fanno capo La Stampa e il Corriere della Sera, ma le sue preferenze e le sue indicazioni hanno un impatto molto concreto sui destini di due gruppi editoriali politicamente sensibili: Mediaset e L’Espresso.
Il governo ha presentato un emendamento al decreto Mille-proroghe, in discussione alla Camera, che rinvia a data incerta il pagamento di decine di milioni di euro di canone per la concessione di frequenze tv.
Una decisione che tiene in sospeso Mediaset e Persidera, società , quest’ultima, al 30 per cento del gruppo Espresso e al 70 di Telecom Italia.
Mediaset, grazie a una contestata delibera Agcom, avrebbe risparmiato 38,4 milioni di euro in 4 anni, la Rai 72 circa.
L’Espresso, invece, ne avrebbe spesi 47,5 in più in otto anni. E le emittenti locali sarebbero scomparse: Rete Capri, per dire, doveva 2,3 milioni quest’anno.
Il 30 giugno 2014 Telecom ed Espresso mettono insieme un pacchetto di frequenze televisive che detengono, in parte eredità del “dividendo digitale” (Telecom aveva La7 e L’Espresso Rete A quando c’è stato il passaggio di tecnologia) e parte acquistate. Un’alleanza da 96 milioni di euro di fatturato (nel 2013), ottenuti affittando le frequenze a produttori di contenuti, inclusa Mediaset.
Un affare che si regge su due semplici variabili: quanto si paga di concessione per le frequenze, un bene pubblico, e quanto si incassa dal canone pagato dal cliente.
Dai tempi della legge Gasparri, 2005, pende sull’Italia una procedura d’infrazione europea: il mercato è troppo concentrato tra pochi soggetti.
Per rispondere alle richieste europee, il 30 settembre scorso l’Autorità delle comunicazioni (Agcom) cambia il calcolo del canone da pagare per le frequenze.
Prima, con la tv analogica, il gettito di 50 milioni di euro era dovuto a un prelievo fiscale di circa l’1 per cento su un fatturato complessivo da canoni di 5 miliardi.
Il nuovo sistema di calcolo parte dal valore d’asta delle frequenze tv (31 milioni di euro) e stabilisce che chi deve pagare è la società che gestisce la frequenza, non il gruppo industriale di cui fa parte.
Risultato: dopo un graduale rialzo, Persidera pagherà 13 milioni di euro, quanto Rai (con Rai Way) e Mediaset (con Elettronica Industriale).
Nel 2014, Persidera ha saldato il conto con soli 802.000 euro.
In audizione alla Camera, l’amministratore delegato di Persidera Paolo Ballerani ha contestato il nuovo calcolo: “Esiste una rilevante differenza tra frequenze assegnate gratuitamente o anche illegittimamente occupate e quello oggetto di acquisto da parte di singoli operatori”.
Rai e Mediaset si sono trovate la banda aggiuntiva gratis con il passaggio dall’analogico al digitale; Telecom Italia Media ed Espresso, i due soci di Persidera, ci hanno investito 500 milioni.
Persidera contesta altre due cose: che viste le precarie condizioni degli editori tv non si può scaricare su di loro l’aggravio fiscale e che Mediaset e Rai hanno la possibilità di ammortizzare meglio il costo, essendo gruppi editoriali e non meri noleggiatori di frequenze.
Secondo Persidera, il canone equo sarebbe 230 mila euro, altro che 13 milioni.
Il 29 dicembre il ministero dello Sviluppo economico ha stabilito che, in attesa di decidere come recepire la delibera dell’Agcom in un apposito decreto, i titolari di frequenze devono versare soltanto un acconto pari al 40 per cento della somma dovuta relativa al 2014, calcolata con le vecchie regole.
Ma il decreto con i nuovi importi non è mai arrivato.
E così, con l’emendamento al Milleproroghe depositato pochi giorni fa, il governo ha deciso di rinviare ancora. Scadenza il 30 giugno.
Con una certa soddisfazione degli interessati.
A gennaio la Rai ha pagato 10,5 milioni, Mediaset 7 e Persidera soltanto 320 mila euro.
Il gruppo De Benedetti-Telecom è quello che risparmia di più: se le nuove regole fossero già state in vigore avrebbe pagato 1,4 milioni (destinati a diventare 13 in otto anni). Mediaset e Rai avrebbero pagato 3,2 milioni ciascuna (salgono a 13 in quattro anni). Persidera è la più interessata anche per un’altra ragione.
Il 5 dicembre, dopo alcune indiscrezioni uscite sui giornali, Telecom Italia Media ha dovuto precisare che “allo stato attuale, più di un soggetto ha manifestato interesse per la società ”.
Persidera è in vendita. E il suo valore dipende da quanto deve pagare di canone per le frequenze che possiede.
La dimostrazione: a gennaio la vendita di Persidera viene accantonata e si pensa di togliere dalla Borsa Telecom Italia Media, per vendere con più calma le frequenze senza sottoporsi ogni giorno al giudizio del mercato.
Di soldi nel settore ne circolano ancora parecchi, nonostante la crisi: due settimane fa proprio il Gruppo Espresso, azionista di Persidera, ha venduto per 17 milioni di euro Deejay Tv a Discovery Italia, ramo del colosso americano Discovery Communications.
I contenuti saranno prodotti ancora insieme a Elemedia, una società dell’Espresso, e trasmessi sui multiplex di Persidera.
In questi anni il gruppo Espresso non è mai riuscito a trasferire la sua forza editoriale di carta (con La Repubblica, L’Espresso e quotidiani locali) nell’etere.
Meglio limitarsi a noleggiare frequenze.
Per Mediaset la partita è importante , ma meno decisiva: Silvio Berlusconi sta iniziando a pensare di vendere tutto il gruppo, o almeno la parte Premium, finchè ha ancora un peso politico.
Le frequenze sono un aspetto collaterale che assume peso, perchè i ricavi dalla pubblicità scarseggiano.
Il patto del Nazareno sulle riforme pare si sia rotto, ma la vicenda televisiva continua a essere tangibile legame tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi.
Il premier sa bene che finchè rimarrà aperta la questione delle nuove regole sul pagamento dei canoni per le frequenze, all’Espresso non saranno molto tranquilli.
Con Carlo De Benedetti, fuori dalle aziende di famiglia affidate ai figli ma ancora presidente del ramo editoriale, il premier ha rapporti alterni.
L’Ingegnere prima era scettico, poi è diventato ottimista al limite dell’entusiasmo, condiviso da Repubblica.
Chissà se nel Gruppo Espresso la scelta di rinviare il salasso governativo da quasi 50 milioni per Persidera sarà stata letta come una cortesia o uno sgradevole tentativo di mantenere influenza sui destini finanziari del gruppo.
Stefano Feltri e Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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