Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile IL DOTTO IDEOLOGO 15 ANNI FUORI CORSO SPIEGA AI BEONI PADAGNI LE DIFFERENZE TRA LA L’ITALIA E LA GRECIA
Gaffe patetica del segretario e leader della Lega Nord Matteo Salvini, noto uomo di cul-tura ed esperto
di economia e politica internazionale, forte dei suo trascorsi all’università .
Nel senso dei 15 anni fuoricorso senza riuscire a conseguire uno straccio di laurea.
Nel corso di una serata di presentazione del suo libro “Salvini dalla A alla Z” (collana umoristica) a Seriate, in provincia di Bergamo, a cui ha partecipato anche il giornalista-conduttore Paolo Del Debbio, Salvini ha spiegato la differenza tra l’Italia e la Grecia.
Parlando appunto del Paese governato da Tsipras, Salvini argomenta: “Il problema dell’Italia è che non è la Grecia. La Grecia che c…o c’ha? Il Partenone, qualche isoletta e del formaggio. Noi abbiamo l’industria, abbiamo la piccola e media impresa, l’artigianato, i tre quarti delle opere d’arte del mondo…”.
Non ha probabilmente voluto infierire citando la grappa italica (quella di cui puzzerebbe il suo alito secondo Cecchi Paone) e i formaggi padagni nostrani.
Per fortuna ha evitato sillogismi tra la “magna Grecia” e la mangiatoia leghista che ha visto inquisiti decine di consiglieri negli scandali delle spese pazze in varie regioni del Nord.
Peccato che abbia perso l’occasione per spiegare come mai la Lega abbia rinunciato di costituirsi parte civile contro Belsito dopo che l’ex tesoriere aveva accusato Salvini di essersi intascato 20.000 euro in nero dal presidente dell’Ente aeroportuale di Milano.
Magari lo farà quando parlerà della Tanzania.
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile APPELLO A MATTARELLA CHE FA IL DEMOCRISTIANO E NON RICEVE NESSUNO… E’ IL LOGICO FINALE DI UNA RIFORMA INFAME
Dopo le botte, l’Aventino.
Messa così, la concatenazione degli eventi che stanno portando alla riforma della Costituzione ha un suono sinistro.
Ma è la ricostruzione empirica degli eventi. Perchè nella notte sono volati pugni, spinte, schiaffoni, con l’infermeria a soccorrere due contusi e il vicepresidente Roberto Giachetti sotto cortisone per il crollo delle corde vocali.
Poi, nella mattinata, la situazione è ulteriormente precipitata.
“O ci date una capigruppo o usciamo dall’aula”, ha tuonato Renato Brunetta di buon mattino. Quando Laura Boldrini ha concesso un’interruzione della seduta fiume per consentire ai presidenti dei vari schieramenti di fare il punto e tentare una mediazione tra l’intransigenza del governo e l’ostruzionismo delle opposizioni, il clima sembrava essersi rasserenato.
Forse era stata solo la stanchezza a placare gli animi.
Perchè, nell’ufficio della presidente, al primo piano di Montecitorio, l’aria era incandescente. Dopo un’ora è stata la vicecapogruppo del M5s Francesca Businarolo a infilare l’uscita e a sbottare: “Questa riforma non la appoggiamo, non la condividiamo e non la voteremo e usciremo dall’aula”.
Un Aventino in pieno stile, dopo che per tutta la giornata di ieri i grillini, pur rimanendo in Aula, non avevano partecipato alle votazioni.
Una situazione ancora più tesa, perchè anche Sel, Lega e probabilmente Forza Italia assumeranno la stessa decisione.
Insomma, si prefigura uno scenario in cui tutte le opposizioni disertano l’aula e la maggioranza tira dritto nel votare la riforma dell’architettura dello stato.
Non un’immagine bellissima. Con, per di più, anche la minoranza Democratica a fare la voce grossa per la totale incomunicabilità con la stanza dei bottoni in cui sono asserragliati i renziani.
È stato Roberto Speranza a mettere una pietra tombale sul possibile compromesso avanzato dal M5s.
Mettiamo da parte l’articolo 15 (quello che norma i referendum) e riapriamo il capitolo a marzo, con un clima più sereno. “Avanti con la seduta fiume, al massimo lo si può accantonare e votare alla fine” il massimo che ha concesso il capogruppo del Pd. Stop.
Una fine che potrebbe riguardare non solo la trattativa sulla riforma del Senato, che Forza Italia vuole portare all’attenzione del Capo dello Stato, al quale chiederà un incontro.
Perchè Matteo Renzi ha fatto capolino stanotte, verso le due e mezza, nell’emiciclo. E si è fermato a parlare con alcuni deputati forzisti.
“Sono otto mesi – ha detto il premier secondo quanto viene riferito da più fonti – che le riforme sono bloccate alla Camera. Se questa Camera non riesce a votare le riforme prendo atto che la legislatura è finita e si va a votare, a me va benissimo”.
Fine dei giochi?
Forse Renzi dimentica che non decide lui se si va o meno al voto…. delirio di onnipotenza
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile FALLO DI FRUSTRAZIONE DEI DEPUTATI DEL PD CHE PERDONO LA TESTA
All’inizio della legislatura nessuno aveva fatto caso a quella linea di faglia che separa, poco sopra la metà ,
l’ultimo blocco a sinistra dell’aula di Montecitorio.
Nei banchi più in basso, siedono i vendoliani di Sel.
Nelle ultime file verso la piccionaia, invece, i cugini del Pd.
Tutti eletti nel febbraio 2013 nella stessa coalizione, “Italia bene comune”, guidata da Bersani e Vendola.
Col passare dei mesi quella linea di faglia si è fatta sempre più visibile e calda: da cugini, Pd e Sel sono diventati avversari, poi nemici, fino alla mezzanotte di venerdì, quando quella linea è diventata la trincea di una rissa, non solo verbale.
Alla fine, il bilancio parla di due espulsi e due feriti.
I due contusi sono entrambi vendoliani, l’abruzzese Gianni Melilla e la pugliese Donatella Duranti.
Entrambi, intorno all’una di notte, sono arrivati all’infermeria di Montecitorio: per lui solo una borsa si ghiaccio per la botta alla mano, per lei una fasciatura alla spalla e una robusta dose di Voltaren.
Tra gli espulsi il piddino Emiliano Minnucci e l’ex leader Fiom Giorgio Airaudo, protagonista di una cavalcata in piedi sopra i banchi per raggiungere la zona rossa dello scontro con i dem.
La bagarre è scoppiata mentre parlava il capogruppo di Sel Arturo Scotto, che si è ironicamente complimentato con il Pd per il “capolavoro politico” di queste sedute notturne per la riforma costituzionale, costantemente scandite da risse, polemiche e tensioni.
Dai democratici che siedono sopra Sel, a quel punto, è partita una raffica di proteste e di insulti all’indirizzo di Scotto.
Daniele Farina di Sel ha risposto a tono e in pochi istanti si è arrivati al contatto fisico con Minnucci e altri democratici.
Nel frattempo Airaudo, da alcune file più sotto, gridando “pezzi di m….”, ha cercato di raggiungere l’epicentro della rissa, ma è stato fermato dallo stesso Scotto e da Melilla.
Il quale sedeva accanto alla sua vicina Donatella Duranti una fila sotto la faglia dello scontro. “Nessuna scazzottata”, racconta Melilla ad Huffpost. “C’è stata una rissa, in tanti sono arrivati, chi per separare, chi per partecipare…”.
Ressa, non rissa, precisa Melilla. “Sia io che Donatella Durati abbiamo cercato di calmare le acque e siamo rimasti colpiti. Ma è stata colpa della confusione, dei banchi di legno dove è facile prendere una botta. Nessuno ci ha aggredito intenzionalmente”.
“Il problema”, spiega Melilla, “non è fisico ma politico. Siamo stati eletti nella stessa coalizione, mai avrei immaginato che saremmo arrivati a questo, alle aggressioni. Io non ho visto e non ho subito schiaffi o cazzotti, ma c’era moltissima cattiveria nelle parole e negli atteggiamenti. Dal Pd c’è stato un fallo di frustrazione nei nostri confronti”.
Nella mattinata di venerdì, alla ripresa della seduta, la fasciatura di Duranti era già sparita. “Sto bene, per fortuna non è stata una lussazione ma sono una contusione”, racconta Duranti. “Io ero seduta al mio banco, all’improvviso ho sentito un forte dolore alla spalla. Non so dire chi mi ha colpito, ma è chiaro che noi di Sel siamo stati aggrediti da quelli del Pd, che sono passati dalle parole ai fatti”.
Nell’ottobre scorso, in Senato, un episodio simile durante la discussione sul Jobs Act. A finire in infermeria, in quel caso, la senatrice Pd Emma Fattorini, con una contusione al polso presa mentre cercava di fermare la cavalcata della capogruppo Sel Loredana De Petris verso i banchi dem.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile LA NOTTE PORTA SCOMPIGLIO: A MONTECITORIO SUCCEDE DI TUTTO
La notte porta scompiglio. Pugni e insulti da stadio (“pezzo di merda”) tra un esponente del Pd e un suo collega di Sel, deputati M5s sui banchi a gridare ‘onestà , onestà ‘, seduta sospesa e un clima tesissimo.
Se qualcuno pensava che la seduta fiume alla Camera sul ddl Riforme dovesse calmare gli animi dopo una giornata convulsa è rimasto deluso.
Prima l’accordo sfiorato tra M5s e Pd, poi le tensioni a Montecitorio e, infine, la scazzottata tra deputati di Sel e di Pd.
La miccia alla ripresa dei lavori dopo la prima sospensione.
Prende la parola il capogruppo di Sel Arturo Scotto, critica l’operato del M5s (“Complimenti, non avete fatto parlare neanche l’opposizione”) e del Pd (“Ha fatto un capolavoro”) e si scatena la bagarre. Urla e insulti.
Per i vendoliani la colpa del clima di tensione è dei dem, che non ci stanno e reagiscono.
“La prendono male” spiega a ilfattoquotidiano.it Liliana Ventricelli (Pd), presente al momento della zuffa.
“Uno di loro (si riferisce a Daniele Martini, ndr) si gira con tono di sfida verso un parlamentare del Pd (Luigi Taranto, ndr), provando a dargli un ceffone.
La tensione sale a livelli altissimi — è la ricostruzione dell’esponente dem — Ho visto saltare su un banco Giorgio Airaudo (SeL). Aggiunga anche che tra uomini sale anche il testosterone”.
Airaudo cerca di raggiungere un collega posizionato due file sopra il capogruppo di Sel. Volano pugni. E’ zuffa.
La cugina di Matteo Renzi (la deputata Pd Elisa Simoni) finisce per terra nella zuffa. Che ha un bilancio dei ‘feriti’: due deputati di Sel (il segretario di presidenza Gianni Melilla e Donatella Duranti) hanno dovuto ricorrere alle cure dell’infermeria della Camera. Il primo ha avuto una ferita a una mano, la seconda ha una spalla dolorante.
Il tentativo di mediazione del M5s e il no del Pd
L’antefatto, però, è tutto in un colpo di scena avvenuto poco prima, quando inaspettatamente Riccardo Fraccaro (M5s) ha lanciato la mediazione che avrebbe permesso di superare l’ostruzionismo di M5s: accantonare l’articolo 15 del ddl, riguardante il referendum, e votarlo a marzo, assieme al voto finale sul testo.
La proposta ha ricevuto un sostanziale “niet” dal capogruppo del Pd Roberto Speranza, il quale ha ricordato sia la contrarietà del Pd all’emendamento di M5s di un referendum senza quorum, sia la contrarietà ad un “ricatto” al Parlamento.
Roberto Giachetti espelle i deputati dei 5 Stelle
Benchè sul merito del referendum senza quorum nessun gruppo sia d’accordo, comprese le opposizioni, queste hanno invitato il Pd ad accettare l’idea dell’accantonamento.
La seduta si stava svolgendo ordinariamente alla presenza di una schiera di commessi presenti in aula, visti i boatos di una occupazioni da parte di M5s.
Questi hanno invece inscenato improvvisamente una bagarre, gridando ritmicamente in aula “onestà , onestà “, e battendo i faldoni degli emendamenti sui banchi, impedendo così il prosieguo del dibattito e dei voti.
Il vicepresidente Roberto Giachetti ha espulso uno dopo l’altro ben cinque deputati Pentastellati. Giachetti ha perso la pazienza definendo “inaccettabile” il comportamento di M5s: “Neanche ai tempi del fascismo si impediva di parlare”. In questo clima, come una scintilla, è scoppiata la rissa.
Fiano (Pd): “Caos è colpa dei 5 Stelle”. Di Battista: “Loro si picchinao, noi siamo squadristi?”
Dopo l’inevitabile sospensione dell’aula, alla ripresa il relatore Emanuele Fiano ha accolto la mediazione di M5s, dicendosi d’accordo sull’accantonamento dell’articolo 15,
Ma era troppo tardi, e Fraccaro ha replicato definendo “una presa in giro” l’apertura di Fiano. A notte inoltrata, all’1,30 è arrivato anche Matteo Renzi, visti i mal di pancia all’interno del Pd.
La minoranza ha chiesto per oggi una assemblea del gruppo per esprimere il “malumore” per il “pantano” in cui è finita la riforma.
Richiesta concessa: parteciperà anche il premier. L’inizio è previsto alle 13.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile LA RICERCA DELL’APPOGGIO DELL’ANGELO AZZURRO
Berlusconi gioca il tutto per tutto per stringere un patto con Alfano, per tenere dentro Salvini e salvare il
salvabile alle regionali. Dal Veneto alla Campania.
Sarà la prova del nove per la tenuta della sua leadership.
Tant’è che, dopo la minaccia di sospensione dal partito, tira un altro colpo a Raffaele Fitto, imponendo d’autorità un candidato nella «sua» Puglia.
Vuole spingere con tutte le sue forze l’ex governatore fuori da Forza Italia. E non fa nulla per nasconderlo: «Raffaele deve adeguarsi, deve rispettare le regole del partito, altrimenti è bene che vada e che lo faccia prima delle Regionali», è lo sfogo che l’ex Cavaliere consegna ai tanti che vanno e vengono per tutto il giorno da Palazzo Grazioli, dai fedelissimi Toti, Bergamini, Rossi, Ghedini, al coordinatore pugliese Francesco Amoruso.
Il timore, non confessato, è che un’eventuale disfatta al voto di maggio nelle sette regioni – fosse pure con la conferma dell’unico uscente forzista Caldoro a Napoli – consenta ai dissidenti di chiedere ben più che l’azzeramento dei vertici: la sua testa. L’ultimo sondaggio consegnato allo staff berlusconiano sulle regioni al voto non è confortante.
Il dato più soddisfacente si registra proprio in Campania, dove Fi si attesterebbe al 21 per cento, ben oltre la media del 13-14 nazionale, ma per vincere occorre molto di più. E altrove è un disastro, dal 4,5 della Toscana al 7,8 del Veneto.
È una guerra dei nervi. In un partito già logorato dal recente strappo al patto del Nazareno.
Nelle seduta fiume di ieri, solo poco più della metà delle postazioni forziste si accendeva durante le votazioni.
Ieri intanto la scelta del candidato in Puglia dopo aver incontrato il solo coordinatore locale Amoruso. E la scelta del leader per fronteggiare Michele Emiliano cade su Francesco Schittulli, oncologo ed ex presidente della Provincia di Bari, assai gradito all’Ncd.
Fitto non fa una piega. Si limita a dire che Schittulli è suo «amico », che sul suo nome non c’è nulla da eccepire, ma che ancora una volta il problema è il metodo: lui e la sua corrente avevano invocato invano le primarie.
Stamattina l’ex governatore pugliese tornerà alla carica con una conferenza stampa alla Camera, mentre resta confermata la kermesse del 21 a Roma con cui tornerà a sparare a palle incatenate contro la gestione del partito.
«Mi auguro che Fitto non se ne vada, ma nemmeno che il suo diventi un bombardamento continuo al gruppo dirigente fine a se stesso – avverte il consigliere Giovanni Toti – Adesso o Fitto fa la sua proposta oppure viene da pensare che ci sia dietro qualcosa». La minaccia di sospensione entro due settimane resta in piedi.
Proprio Toti, con Deborah Bergamini, ha incontrato ieri sera nella stanza del governo di Montecitorio il leader Ncd Angelino Alfano.
Si lavora a un incontro con Berlusconi per la prossima settimana.
Il ministro ha risposto con la battuta che ripeteva ai suoi nel pomeriggio: «Siamo così importanti adesso per le regionali e per la Campania? Ma non eravamo un partito dell’1,6 per cento?»
Il loro orientamento sarebbe quello di presentare candidature autonome. Ed è un avvertimento per fronteggiare il veto contro di loro annunciato dal capo del Carroccio. Quanto alla Campania, «usciamo da una giunta con Caldoro, ma lì molto dipenderà dalla coalizione, dalla presenza della lista Salvini – ragiona Alfano – e da quel che accadrà in Veneto, per esempio ».
Perchè, per dirla con Quagliariello, Campania e Veneto per l’Ncd «camminano insieme ».
E dunque, o l’intesa di centrodestra si farà in quelle due regioni, oppure non si farà da nessuna parte.
A quel punto, addio al loro 8-9 per cento in Campania, decisivo per Caldoro.
Così, Berlusconi si ritrova stretto fra tre fuochi: Salvini e Alfano agli antipodi e Fitto sul fronte interno.
Ieri, prima di imbarcarsi per Milano, si mostrava fiducioso coi fedelissimi: «Convincerò Salvini ad accettare l’intesa con l’Ncd in Campania. Del resto, Zaia in Veneto ha bisogno dei nostri voti».
Ma è tutto appeso a un filo.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile LA PROCURA INDAGA SUI MOVIMENTI ANOMALI DEI TITOLI A RIDOSSO DEL SàŒ AL DECRETO
Dopo la Consob, anche la Procura di Roma vuole fare chiarezza sulle presunte operazioni anomale avvenute prima del 16 gennaio, data dei primi rumors sulla riforma delle banche popolari, ma anche sulla fuga di notizie che ha preceduto l’approvazione del decreto dello scorso 20 gennaio.
La norma prevede l’obbligo per le banche popolari, con un attivo superiore agli 8 miliardi di euro, di trasformarsi in spa.
Tra gli istituti coinvolti c’è anche la ormai commissariata Banca d’Etruria, di cui il ministro Maria Elena Boschi è azionista e suo padre Pier Luigi vicepresidente.
Prima che la bozza del governo sulle popolari fosse approvata, però, la stampa più volte si era occupata della riforma, con parecchie indiscrezioni.
È intervenuta la Consob, il cui presidente Giuseppe Vegas è stato chiamato in audizione alla Camera lo scorso 11 febbraio.
Proprio questa audizione adesso diventa fondamentale per le indagini della Procura di Roma, che ha aperto un fascicolo di cui sono titolari direttamente il Procuratore capo Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Nello Rossi.
La magistratura capitolina partirà da un elemento rivelato dallo stesso Vegas: prima dell’approvazione del decreto — ma quando già circolavano indiscrezioni — una serie di “soggetti hanno effettuato acquisti prima del 16 gennaio, eventualmente accompagnati da vendite nella settimana successiva”, creando così “plusvalenze effettive o potenziali di tale operatività stimabili in 10 milioni di euro”.
La presunta soffiata sul decreto, oltre far arricchire qualcuno, avrebbe fatto anche impennare il valore delle azioni di alcune banche: “Dal 3 gennaio al 9 febbraio — continua Vegas alla Camera — i corsi delle banche popolari sono saliti da un minimo dell’8 per cento per Ubi a un massimo del 57 per cento per Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio”.
Così le indagini della Procura di Roma partiranno proprio dalla Banca d’Etruria, che da tempo si trova in serie difficoltà , tanto che la riforma delle popolari per alcuni è stata vista come un aiuto del governo a papà Boschi.
Intanto ieri, in una nota, la banca aretina fa sapere che “Sulla base di tali dati risulta ampliata la situazione di insufficienza patrimoniale del gruppo rispetto ai requisiti prudenziali” anche se al momento è impossibile “dare dettagli sulla situazione”.
Per adesso l’inchiesta romana quindi è contro ignoti ma, spiega un investigatore, “le ipotesi di reato ravvisabili potrebbero essere quelle di insider trading”.
La Procura ha chiesto documenti alla Consob e farà la stessa richiesta a Bankitalia. La magistratura potrebbe anche chiarire la vicenda che si intreccia con i rumors che hanno anticipato l’approvazione del decreto e che ha come protagonista Davide Serra, il finanziere amico del premier Matteo Renzi.
Vegas la ripropone in audizione alla Camera, basandosi soprattutto sugli articoli di giornale che ne hanno dato conto. Il presidente della Consob parte dal 3 gennaio, quando uscirono “indiscrezioni più precise relative alla possibile riforma delle Banche Popolari e della loro trasformazioni in spa”.
Da quel momento sono stati scritti diversi articoli sul decreto, fino al 24 gennaio quando è stata pubblicata la notizia di presunte speculazioni sulle popolari da parte di intermediari con base a Londra che per conto dei propri clienti avevano effettuato consistenti acquisti di azioni delle banche popolari.
Azioni che poi sono state cedute sul mercato nei giorni successivi all’annuncio della riforma, “beneficiando — sottolinea Vegas — sia dei rialzi sia degli elevati volumi di scambio.”
Poi il presidente Consob, riportando un articolo di Libero del 20 gennaio, aggiunge: “L’indiscrezione, ripresa anche da altri articoli di stampa fa riferimento al Fondo Speculativo Algebris, fondato da Davide Serra. Alcuni articoli di stampa danno risalto a un workshop avente ad oggetto il cambiamento della normativa italiana sul credito cooperativo, che si sarebbe tenuto negli studi londinesi del Fondo Algebris, nei giorni precedenti l’annuncio (16 gennaio 2015) da parte del governo della volontà di voler riformare il sistema delle Banche Popolari, rilanciando indiscrezioni sulla operatività sospetta sulle azioni popolari che sarebbe stata registrata proprio con ordini di acquisto, poi seguiti da decise vendite, sulle azioni delle popolari nella City”.
Nei giorni successivi Davide Serra ha precisato di non aver fatto acquisti sulle Popolari nel 2015 con il Fondo Algebris.
Poi, con un tweet, ha commentato spiegando che “Algebris Investments, ha investito sin dalla sua nascita, nel 2006, nel settore bancario e assicurativo italiano, in particolare dal marzo 2014 ha una posizione importante, inferiore al 2%, in una banca popolare italiana (in aumento di capitale) incluse le Banche Popolari”.
Adesso però a fare chiarezza su tutto ciò che è avvenuto prima dell’approvazione del decreto, ancora non trasformato in legge, sarà la magistratura.
Valeria Pacelli
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile DAL RESOCONTO DEI LAVORI PARLAMENTARI RISULTA CHE NON SI È VISTA Nà‰ ALLA CAMERA Nà‰ AL SENATO
Dove era Maria Elena Boschi il 20 gennaio, mentre il Consiglio dei ministri approvava la trasformazione
delle banche popolari in società per azioni?
Non ai lavori della Camera nè a quelli del Senato, come risulta dai resoconti stenografici delle rispettive aule.
Il decreto approvato durante la riunione dell’esecutivo, va ricordato, ha coinvolto la banca dell’Etruria di cui il ministro è azionista, il padre Pier Luigi è vicepresidente e il fratello Emanuele è dipendente.
Nei giorni precedenti l’approvazione del decreto, le popolari e in particolar modo l’Etruria furono interessate da forti acquisti anche dall’estero.
Con plusvalenze potenziali quantificate dal presidente Consob Giuseppe Vegas in 10 milioni di euro che hanno spinto l’autorità che vigila sulla Borsa e la Procura di Roma ad aprire un’indagine.
Il Fatto diede notizia degli acquisti anomali che interessarono le popolari, sollevò il dubbio che qualcuno dai Palazzi avesse confidato all’esterno l’approssimarsi del via libera del governo al decreto e sottolineò il possibile conflitto di interessi di Boschi. Dopo aver più volte tentato di contattare il ministro, il 27 gennaio abbiamo ricevuto e pubblicato una sua lettera: “Caro direttore, il suo quotidiano si rammarica del fatto che io non mi sia astenuta durante il voto in Cdm sul decreto legge che riguarda la trasformazione delle Banche Popolari in Spa. Non mi sono astenuta, è vero, ma prima di gridare allo scandalo basterebbe capire il perchè: non mi sono astenuta semplicemente perchè non ero presente a quella riunione. E non ho partecipato perchè ero impegnata in Parlamento nel percorso di riforme costituzionali e sulla legge elettorale”.
Nel frattempo Camera e Senato hanno pubblicato i resoconti stenografici dei lavori del 20 gennaio 2015.
A Montecitorio il ministro Boschi non si è vista. Tanto che alcuni deputati di opposizione si lamentarono dell’assenza.
Arturo Scotto, capogruppo dei deputati di Sinistra ecologia e libertà , commentò: “Il governo ci dica, visto che sono due giorni che non vediamo da queste parti Boschi, se si stia già ragionando sul Renzi-bis”.
Erano giorni in cui il patto del Nazareno traballava, ma si rinsaldò rapidamente visto che proprio grazie ai voti di Forza Italia passarono alcuni emendamenti all’Italicum.
E Palazzo Madama? La seduta si è aperta alle 16:31 e, sempre da quanto risulta dal resoconto stenografico pubblicato sul sito, è stata immediatamente sospesa dalle 16:34 e aggiornata alle 17:34.
Boschi è intervenuta pochi minuti dopo l’apertura, intorno alle 17:40.
Nel frattempo il Consiglio dei ministri, che si è svolto a Palazzo Chigi , a breve distanza dal Senato, si è aperto alle 15:45 e chiuso alle 17:20.
Il ministro era sicuramente impegnato in altre riunioni.
Nel primo pomeriggio, a quanto riportato dalle agenzie di stampa, si trovava a Palazzo Madama insieme al premier Matteo Renzi per incontrare i parlamentari del Pd in vista del voto sull’Italicum.
Poi ha rilasciato due brevi interviste a Sky e a Rai News.
Contattata telefonicamente dal Fatto, per conto del ministro ieri ha risposto il suo portavoce che ha confermato che nonostante non fosse in aula Boschi era comunque in una stanza di Palazzo Madama e qui è rimasta fino alla ripresa dei lavori.
Dunque non ha preso parte al Consiglio dei ministri.
Il commissariamento della popolare dell’Etruria — deciso mercoledì da Banca d’Italia per il “grave deterioramento del patrimonio” dell’istituto di credito che vede ai vertici Pier Luigi Boschi — ha legittimato ulteriori dubbi: il provvedimento, che ha preso la forma del decreto legge soltanto pochi giorni prima del Consiglio dei ministri, può rivelarsi infatti un aiuto prezioso per la popolare.
Fratelli d’Italia ha chiesto le dimissioni del ministro, Forza Italia minaccia barricate, i deputati della Lega Nord hanno presentato un’interrogazione chiedendo di conoscere con urgenza “le ragioni del commissariamento, anche in funzione di possibili incompatibilità , o conflitti di interesse, che esistevano, per questioni parentali, tra un componente del consiglio di amministrazione di Banca Etruria e un componente del governo”.
Insomma: sarebbe utile rendere noto il verbale delle presenze al Cdm del 20 gennaio così da cancellare ogni dubbio sulla totale estraneità del ministro Boschi.
Verbale che stranamente finora non è stato reso pubblico.
Davide Vecchi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile RINUNCIA AL RECUPERO DEI FONDI
L’aula del consiglio regionale della Toscana ha bocciato la risoluzione proposta dall’opposizione per impegnare la giunta guidata da Enrico Rossi ad attivarsi anche in sede legale per recuperare “le somme irregolarmente riscosse” da Chil Post, l’azienda del padre di Matteo Renzi, nella quale il premier è stato dirigente per dieci anni, dal 2004 al 2014.
La vicenda è nota. L’azienda di famiglia ha beneficiato del fondo per le Pmi attraverso Fidi Toscana, la finanziaria della Regione, a garanzia di un mutuo da 496 mila euro acceso nel 2009 con la banca Cooperativa di Pontassieve.
La proprietà di Chil poi passa di mano due volte. E cambia anche sede, lasciando la Toscana e trasferendosi a Genova.
Comunicazioni che non sono state fornite a Fidi e per questo, stando da quanto la stessa finanziaria ha accertato, avrebbe perso i benefici della garanzia.
Ma quando nel 2013 viene dichiarata fallita (Tiziano Renzi è indagato per bancarotta fraudolenta) la banca batte cassa e ottiene da Fidi il versamento di 263.114,70 euro. Fidi a sua volta si rivolge al Tesoro che stanzia dal fondo centrale di garanzia 236 mila euro.
Ma come ha ricostruito a gennaio il Fatto Chil non aveva i requisiti.
Lo stesso avvocato di Fidi ha inviato alla Regione un documento in cui invita la giunta “ad agire” per recuperare i fondi.
Il capogruppo di Fratelli d’Italia e candidato governatore, Giovanni Donzelli, ha fatto sua la causa e presentato la risoluzione in consiglio regionale che però è stata bocciata dai consiglieri del Pd: 17 voti contrari.
Eppure l’assessore al credito e al lavoro Gianfranco Simoncini ha annunciato di aver scritto a Fidi affinchè sia la finanziaria a valutare cosa fare.
Quasi scontato il commento di Donzelli, che annuncia: “Ognuno deve assumersi la responsabilità delle scelte che compie: invieremo il dossier Fidi-Chil alla Corte dei Conti, comprese le singole votazioni di ogni consigliere”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 13th, 2015 Riccardo Fucile L’AZIENDA POTRA’ ATTUARE L’80% DELLE PRESCRIZIONI SCEGLIENDO QUELLE MENO RILEVANTI…. I CREDITI VENGONO TUTTI CONGELATI, L’INDOTTO IN GINOCCHIO NON VEDRA’ UN EURO
È stata la giovane senatrice marchigiana Camilla Fabbri, renziana di ferro con più di un pensiero alla
candidatura per la presidenza della regione alle elezioni di primavera, a risolvere al governo lo spinoso problema.
È lei infatti la prima firmataria dell’emendamento al decreto sull’Ilva che chiarisce l’incerto articolo 2, formulato da estensori poco avvezzi alla scrittura di leggi.
E adesso, dopo che la commissione Industria del Senato ha approvato l’emendamento Fabbri, i senatori M5S notano che “il governo ha ottenuto l’avallo all’ennesima porcata”.
Il testo originario del decreto diceva che il piano di prescrizioni ambientali per la grande acciaieria inquinante di Taranto “si intende attuato se entro il 31 luglio 2015 sono realizzate, almeno nella misura dell’80 per cento, le prescrizioni in scadenza a quella data”.
Non si capiva l’80 per cento di che cosa, visto che le prescrizioni dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) sono oltre 400, ma solo alcune delle quali decisive, complesse e costose.
L’emendamento Fabbri aggiunge la parola “numero”, così è chiaro che si intende l’80 per cento di prescrizioni delle quali una vale l’altra.
L’Ilva potrà attuare l’80 per cento delle prescrizioni scegliendo quelle meno rilevanti e lasciando indietro quelle più importanti e costose.
“Apporre un cartello di pericolo diventa equivalente a coprire i parchi dei minerali”, dicono i senatori grillini.
Per farsi un’idea basterà sapere che coprire i parchi minerali (quelli da cui si diffondono le polveri cancerogene che stanno martoriando Taranto) costerebbe almeno un miliardo di euro.
In pratica, con l’emendamento approvato due sere fa, l’attuazione delle prescrizioni ambientali dell’Aia diventa per l’Ilva sostanzialmente facoltativa, e questo indica con precisione in che modo il governo vuole perseguire la compatibilità tra siderurgia e ambiente, lavoro e salute.
L’altro nodo delicato del decreto Ilva è quello delle fattura non pagate alle imprese dell’indotto .
Si tratta, solo per l’area tarantina, di circa 150 milioni di euro che stanno mettendo in ginocchio decine di imprese e in pericolo 4-5 mila posti di lavoro.
Con la partenza dell’amministrazione straordinaria, scattata lo scorso 21 gennaio, i crediti vengono tutti congelati nella cosiddetta procedura concorsuale, cioè nello stato d’insolvenza gestito sotto la supervisione del Tribunale di Milano.
In questo modo i crediti delle aziende dell’indotto saranno forse pagati tra qualche anno.
Questa è la regola fissata dalla legge Marzano a cui si è fatto ricorso, e adesso si cerca un modo per concedere alle imprese dell’indotto una sorta di deroga che eviti il loro quasi automatico fallimento.
Tra i più arrabbiati ci sono gli autotrasportatori di Taranto, che vantano crediti per 15 milioni di euro e sono decisivi per la vita dell’Ilva visto che con i loro camion consegnano circa un terzo della produzione ai clienti dell’azienda.
Indietro di sei mesi con i pagamenti e con la prospettiva di non essere pagati per anni, gli autotrasportatori sbarcano oggi a Roma per una rumorosa protesta a piedi davanti a palazzo Chigi, visto il prevedibile divieto di presentarsi nella capitale al volante dei loro Tir.
La speranza degli autotrasportatori di Taranto è di essere ricevuti da Matteo Renzi.
Vedremo.
Giorgio Meletti
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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