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GUERRA ALLE SLOT MACHINE: L’ESEMPIO DI VIENNA

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

IL LAND DELLA CAPITALE NON HA RINNOVATO LE LICENZE DI 2.600 APPARECCHI DI BAR E CASINO’

Una legge promossa dai Verdi e dal Partito Socialdemocratico d’Austria (SPà–) – al governo nel land di Vienna – ha portato da gennaio scorso all’eliminazione di tutte le slot machine in funzione nel territorio, con l’eccezione di quelle presenti nel Casinò nazionale di proprietà  dei Monopoli di Stato.
Il divieto porterà  ad un mancato introito per il land di una cifra superiore ai 43 milioni di euro, provenienti dalla tassazione mensile degli apparecchi, a cui si va ad aggiungere il mancato incasso dell’Iva sui proventi realizzati dai proprietari delle licenze.
Tanti soldi, ma il presidente dei Verdi David Ellensohn sottolinea come nel calcolo non si possano dimenticare le risorse che lo Stato investe per aiutare i giocatori diventati dipendenti, a cui si va ad aggiungere il coinvolgimento di forze dell’ordine, tribunali e prigioni: secondo la polizia di Vienna infatti il 98% dei rapinatori di banche ha problemi di debiti di gioco.
Di tutt’altro avviso è invece l’associazione austriaca degli esercenti di slot machine, che ha anche minacciato di impugnare la legge di fronte alla corte di giustizia del Lussemburgo accusandola di essere contraria alle normative europee in materia di antitrust.
Il risultato di Vienna arriva dopo molti anni di lotte del partito dei Verdi, a cui si sono affiancati un piccolo gruppo di iscritti dell’SPà–, Sektion Acht, e la newsroom di giornalismo investigativo Dossier.at, che ha pubblicato la mappa di tutte le slot machine presenti nella capitale.
In Italia, oggi il secondo paese al mondo per spesa per abitante adulto relativa all’azzardo da slot machine, venerdì prossimo dovrebbe arrivare sul tavolo del Consiglio dei Ministri la bozza del nuovo decreto sui giochi nel quale, tra le altre cose, si prevede per il 2017 un taglio di 80-100mila macchinette rispetto alle attuali 350mila.
Numeri che comunque restano molto alti se si considera che solo a Roma sono attive circa 50.000 slot, contro le 2.578 presenti nella capitale austriaca.

Giorgio Simonetti

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LIBIA: A CHI GIOVEREBBE UN INTERVENTO ARMATO?

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

I TAGLIAGOLA DELL’ISIS CERCANO CONSENSO, IL PREMIER AL THANI VUOLE SALVARE LA POLTRONA

La corda è ormai tesa. Bisogna aspettare.
Le reazioni sono comprensibilmente sopra le righe. La Libia sbanda paurosamente, è sull’orlo della guerra.
Non più solo civile ma anche con il coinvolgimento di attori internazionali. Giustificata la reazione dell’Egitto, con i bombardamenti sulle postazioni sull’Isis a Derna, a Sirte, dopo la decapitazione di 21 lavoratori egiziani copti, «miscredenti».
Ma la corda sta per spezzarsi.
Ci sono forze contrapposte, anche all’interno della Libia, che hanno interesse a far precipitare la situazione.
Paradossalmente oggi un intervento armato internazionale sotto l’egida o con il consenso delle Nazioni Unite, farebbe comodo ai tagliagola dell’Isis.
Che non vedono l’ora di imitare la stagione tragica della Somalia.
Anche il premier di un governo fantasma indicato da un Parlamento che si è ritirato sull’Aventino di Tobruk, Al Thani, chiede un intervento militare internazionale.
Forse sperando così di salvare la sua poltrona.
Chi prova a invertire questa corsa alla guerra oggi è il premier Renzi. Colpisce il silenzio del delegato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, che giovedì dovrebbe incontrare a Ginevra forze politiche e personalità  libiche.
In queste settimane Leon ha incontrato a Ginevra ma anche in Libia i diversi protagonisti della crisi libica.
Oggi a La Stampa, i delegati della città  di Misurata all’incontro di Ginevra, hanno rilanciato la proposta dei colloqui di pace con le controparti (Milizie di Zintan, generale Haftar e parlamento di Tobruk).
Non c’è molto tempo da perdere, per evitare il peggio.

Guido Ruotolo
(da “La Stampa“)

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PERCHE’ LA LIBIA E’ UN CASO DISPERATO

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

UN PAESE SPACCATO TRA IL “LEGITTIMO” GOVERNO DI TOBRUK E LE MILIZIE RIVOLUZIONARIE DI MISURATA CHE CONTROLLANO TRIPOLI… LA COMPETIZIONE TRA LE MONARCHIE DEL GOLFO… IN PALIO I POZZI E I PETRODOLLARI

In Libia, a soli 350 kilometri dalle nostre coste, infuria un conflitto che sembra non avere più freni.
È dai tempi delle carneficine nei Balcani che non avevamo una guerra civile così vicino a casa, eppure la nostra stampa ne parla saltuariamente e i funzionari che se ne occupano attivamente non superano la decina.
Nei Balcani non avevamo tutti gli interessi che abbiamo in Libia: il gas e il petrolio, sì, ma anche le commesse per le nostre imprese e gli investimenti nel nostro sistema economico che la Libia assicurava fino a ieri.
Dai Balcani non dovevamo temere tutto ciò che dovremmo temere dalla Libia: uno Stato fallito a due passi da casa, potenziale rifugio per organizzazioni criminali e terroristiche (spesso i due aspetti si confondono), un potenziale buco nero.
Al momento, nel paese si confrontano due coalizioni militari, ognuna con il rispettivo governo e parlamento.
A est opera il governo di ‘Abdullah al-Thinni, insediato nelle città  di al-Bayda e Tobruk, vicine al confine con l’Egitto.
Questo è il governo internazionalmente riconosciuto, perchè scaturito dalle elezioni parlamentari dello scorso 25 giugno. Il governo di Tobruk/al-Bayda appoggia l’Operazione Dignità  lanciata dall’ex generale dell’Esercito Halifa Haftar.
Nel giorno di San Valentino e poi, con più successo, a metà  maggio dell’anno passato, Haftar aveva lanciato proclami per combattere le milizie da lui definite islamiste.
Il governo di Tobruk rappresenta le forze autodefinitesi antislamiste, che riuniscono diversi soggetti: politici e membri dell’Esercito che, pur avendo lavorato per il regime in passato, sono stati alla guida della rivolta contro Gheddafi nel 2011; le milizie della città  di Zintan, che hanno svolto un ruolo importante nella conquista di Tripoli; parte della minoranza tibu nel Sud; i gruppi cosiddetti «federalisti», che invocano di fatto la separazione della Libia orientale (Cirenaica) dal resto del paese.
Questa coalizione molto variegata controlla oggi il parlamento, dove tuttavia siede una notevole rappresentanza di esponenti delle diverse tribù, soprattutto dell’Est.
Alle elezioni per la Camera dei rappresentanti del 25 giugno, svoltesi in un paese di fatto già  in guerra e caratterizzate da una bassa affluenza, le forze «rivoluzionarie» (parte delle milizie che hanno combattuto contro Gheddafi e che non accettano alcun compromesso con chiunque abbia anche solo lavorato per lo Stato durante il regime) hanno ottenuto un risultato peggiore del previsto.
Del fronte «rivoluzionario» fanno parte le milizie della città  di Misurata, anch’essa cruciale nella caduta di Tripoli; forze più o meno islamiste, ma formalmente integrate nel ministero dell’Interno; parte della minoranza berbera.
Il fronte «rivoluzionario » si definisce tale perchè ritiene di dover difendere la «rivoluzione» del 2011 contro il ritorno del vecchio regime rappresentato dagli uomini di Tobruk.

Mattia Toaldo
(da “L’Espresso”)

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MASSIMO FINI, IN UN LIBRO LA CARRIERA DI UN GIORNALISTA “PER TUTTI E PER NESSUNO”

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

NELLA SUA AUTOBIOGRAFIA “UNA VITA” RACCONTA EPISODI DELLA SUA ESPERIENZA GIORNALISTICA: LE INTERVISTE AD AGNELLI, CATHERINE SPAAK E SILVIO BERLUSCONI

Pubblichiamo alcuni stralci del saggio di Massimo Fini “Una vita — un libro per tutti o per nessuno”, appena uscito per Marsilio.

La mia vita, che qui racconto, ha attraversato questa terra di nessuno.
Anche se ha qualche peculiarità  (sono figlio di tre culture, italiana, russa, francese e ho fatto un mestiere, quello del giornalista, che mi ha permesso, forse, di avere un angolo di visuale privilegiato e più ravvicinato su certi protagonisti e su alcune situazioni, sociali, antropologiche e, in misura minore, politiche) non si differenzia da quelle degli uomini e delle donne delle generazioni che si sono susseguite nel dopoguerra”. (…)
La lettera ad Agnelli mai spedita da De Bortoli.
Un giorno di dicembre del 1987 Ferruccio de Bortoli, capo delle pagine economiche del Corriere della Sera, mi telefonò: voleva propormi una serie di servizi e desiderava vedermi. Andai a trovarlo al giornale.
Mi disse che sotto le feste aveva intenzione di pubblicare una serie di lettere di auguri di Natale ad alcuni dei più importanti imprenditori italiani.
“Naturalmente mi spiegò la lettera dovrà  essere un pretesto per fare dei ritratti polemici, dissacranti, come sai fare tu”.
“Non hai bisogno di incoraggiarmi su questa strada”, dissi io, tetro. “Insomma voglio che tu scriva come sai, ti ho chiamato per questo”.
Mi disse di buttar giù una lista di cinque, sei nomi e di portargliela. Io ci misi Ligresti, Lucchini, De Benedetti, Gardini e un altro di cui ora non ricordo il nome.
De Bortoli approvò, ma sostituì Gardini con Gianni Agnelli.
“Agnelli? Ma sei sicuro? — dissi io— È il padrone del Corriere…”. “Non ti preoccupare, io e Anselmi vogliamo dare una maggior aggressività  alle pagine economiche e in una lista come questa Agnelli non puo mancare”.
Poi mi porto da Anselmi che era condirettore (direttore era l’ultrasettantenne Ugo Stille, il mitico ‘ Misha’) e con lui mettemmo a punto gli ultimi dettagli.
Io che ero un po’ stupito di questi improvvisi coraggi che non erano mai appartenuti alla storia del Corriere chiesi timidamente ad Anselmi: “Ma Stille è d’accordo?”.
“Il giornale lo gestisco io” rispose lui, gelido.
La prima ‘lettera’ la mandai a Ligresti e non ci furono problemi, venne pubblicata con bella evidenza il 20 dicembre 1987. (…) La ‘lettera’ a Lucchini fu pubblicata il 22 dicembre. Quelle a De Benedetti e ad Agnelli avrebbero dovuto uscire nei due giorni successivi.
Preparai il pezzo sul presidente dell’Olivetti e lo portai a De Bortoli (il fax non si usava ancora) poi me ne tornai a casa per scrivere quello su Agnelli.
Mentre ero lì che battevo sui tasti, scervellandomi su come cavarmela senza scrivere un soffietto ma anche senza toccare nervi troppo scoperti, mi telefonò De Bortoli: la ‘lettera’ a De Benedetti era troppo hard.
“Bisogna fare dei ritocchi, degli aggiustamenti, ammorbidire, smussare. Vieni domani mattina al giornale”.
Ci andai portando, già  che c’ero, anche il pezzo su Agnelli. Ferruccio mi segnalò i punti a suo dire scabrosi, mi indicò una scrivania e una macchina da scrivere e mi misi al lavoro. Quando finii consegnai il tutto a De Bortoli che lesse con molta attenzione, approvò e scrisse di suo pugno in testa al pezzo le indicazioni per mandarlo in tipografia.
Ma prima lo fece vedere ad Anselmi. Che a sua volta lesse, rilesse e diede l’ok.
“Però — disse — bisogna farlo vedere a Stille. E anche l’articolo su Agnelli”.
Prese i due pezzi e sparì nella stanza del direttore del Corriere che era poco più in là . Ritornò dopo una ventina di minuti. “Stille dice che è troppo duro, che non è da Corriere, che bisogna aggiustare, ritoccare, ammorbidire, smussare”. “Se è così — risposi io — non facciamone nulla e non se ne parli più”. “No, no — disse spaventato Anselmi — abbiamo annunciato una serie, che figura ci facciamo? Gli deve essere saltata la mosca al naso, a Stille, prima o poi gli passa. Tu aspetta qui, tra poco ci torno e lo convinco”.
Da quel momento nei severi e austeri corridoi del Corriere, onusti di gloria e di prestigiosi fantasmi, in un’atmosfera ovattata, gallonata e quasi surreale, insomma in mezzo a quella paccottiglia retorica che tende a occultare che questo giornale è da sempre schierato col Potere, quale che sia, cominciò un penoso deambulare, un andirivieni sempre più frenetico e imbarazzante di Anselmi e De Bortoli e poi del solo Anselmi con la stanza che era stata di Albertini, ora occupata da Stille. Io guardavo e rabbrividivo. (…)
La cosa durò quattro ore. Ritornando affranto dall’ennesima sosta nella stanza di Stille, Anselmi (che, come De Bortoli, è una bravissima persona, cosa rara in giornalismo dove i gaglioffi, oggi più di ieri, abbondano) mi disse, allargando le braccia: “Mi spiace, Stille in genere controlla un pezzo su quattrocento, purtroppo è toccato al tuo”.
“Pazienza — risposi — sarà  per un’altra volta”, sapendo che non ci sarebbe stata. Naturalmente della ‘serie’ sugli imprenditori non si parlò più nè tantomeno del pezzo su Agnelli di cui però feci in tempo a vedere che avevano tagliato il passo sulle concentrazioni editoriali in cui la Fiat, allora più di oggi, era implicata in prima linea. (…)
L’alcool, la depressione e Catherine Spaak.
Nel novembre 1981, a due anni circa dall’inizio della depressione, il direttore di Penthouse italiano, Gian Franco Vene, che voleva dare un po’ di spessore a quel giornale, mi chiese di fare un’intervista jusqu’au bout a Catherine Spaak.
Per me prendere un aereo per Roma era ancora un grande sforzo.
Incontrare la Spaak, che era stata un mito della mia generazione, aggravava le cose. Arrivai in via dell’Anima dove aveva una bellissima casa che, da un lato, dava su piazza Navona.
Nei suoi 38 anni, con i biondi capelli raccolti da un nastrino rosso, era bellissima e affascinante, molto più dell’implume ragazzina che fa impazzire Ugo Tognazzi ne La voglia matta. Io mi sentivo svenire. Temevo di morire davanti a lei.
L’ignominia assoluta. Catherine si accorse quasi subito che c’era qualcosa che non andava. “Non si sente bene?”. “Sì, non mi sento bene”, ebbi il coraggio di confessarle. Lei fu molto comprensiva, accuditiva, quasi materna, caratteristiche che, avendola conosciuta meglio in seguito, non direi che facessero proprio parte del suo carattere.
Era rigida. Incasellava ogni cosa in certe cellette del suo cervello, ben ordinate e separate come quelle dell’alveare di un apicultore.
Questo bisogno d’ordine, quasi maniacale, si notava anche nella sua casa, non c’era incartamento, plico, mazzo di matite che non fosse accuratamente avvolto in un vezzoso nastrino, ognuno di diverso colore. Io la chiamavo ‘la tedesca’.
A quell’età , non più ninfetta, aveva il fascino e l’eleganza di una donna della grande borghesia europea.
Suo zio, Henry Spaak, era stato, con Adenauer e De Gasperi, uno dei padri dell’idea di un’Europa unita. In quel periodo si era messa a fare la giornalista e lavorava con impegno e diligenza per pochi soldi, lei ricchissima. “Venga, andiamo di là , in cucina, a farci un caffè”.
Chiacchierammo per un po’ e poi, tornati in sala, facemmo l’intervista.
Rientrato a Milano scrissi, di notte, l’articolo di 15 cartelle che mi era stato richiesto, cui Vene diede il titolo Catherine Spaak — Una donna dell’Europa borghese (Penthouse, novembre 1981).
Quella confessione fu liberatoria. La depressione si affievolì fino a sparire del tutto. In seguito capii cosa era successo.
Per vent’anni l’alcol mi aveva protetto come una seconda pelle. Dopo mi ritrovai come se al posto della pelle ci fosse la carne viva, allo scoperto.
Nei due anni di depressione avevo dovuto ricostruire la mia personalità , senza la difesa dell’alcol. Giurai a me stesso che non avrei piu toccato una goccia di liquore. Ero stato troppo male. (…)
Le tre domandine che spaventarono B.
Il terzo incontro con Silvio Berlusconi fu un non-incontro. C’erano le elezioni del 1996. Mi telefonò la direttrice di Annabella: “Vogliamo fare due interviste, una a Prodi e una a Berlusconi. Ma vogliamo che chi li intervista non sia un giornalista compiacente, ma che sia anzi un antagonista. Per Prodi abbiamo pensato a Giordano Bruno Guerri, quella a Berlusconi vorremmo che la facessi tu”.
“Ma guarda che a me l’intervista non la dà ”.
“Figurati, siamo sotto elezioni e Berlusconi ha tutto l’interesse a parlare su un giornale ‘femminile’ come il nostro. Eppoi siamo già  d’accordo. Devi solo telefonare all’ufficio stampa di Milano di Forza Italia”.
Telefonai. L’accordo era che avrei fatto delle domande scritte cui Berlusconi avrebbe risposto e poi ci saremmo visti per un vis-à -vis di 45 minuti ad Arcore. Mandai le domande all’Ufficio Stampa di Milano che le trasmise a quello di Roma per un vaglio definitivo. Dovevo quindi telefonare a Roma.
Mi rispose Paolo Bonaiuti. “Ah, sei tu?” domandai un po’ sorpreso.
Quando eravamo stati colleghi al Giorno negli anni Ottanta Bonaiuti era di sinistra, per lui io ero un mezzo fascista.
“Ma qui ci sono delle domande…”. “Paolo, sono domande scritte, lui, o chi per lui, ha tutto il tempo di rifletterci sopra e di rispondere a tono”. “Ma ci sono queste domande sulla mafia…”.
Avevo posto la questione più o meno in questi termini: “Lei dà  molta importanza ai valori di lealtà  e di fedeltà . Ma questi sono anche i valori omertosi della mafia. In che modo i suoi concetti di lealtà  e fedeltà  si differenziano da un legame mafioso?”.
All’interno delle tre domande che vertevano su questo argomento davo naturalmente per scontato che per Berlusconi i valori di lealtà  e di fedeltà  fossero interpretati in modo molto diverso da quello dell’omertà  mafiosa.
Ma questo a Bonaiuti non bastava. “Non potresti togliere quelle tre domande? Eppoi ce ne sono anche un altro paio…”. “No”. “Fammici riflettere. Ne parlerò col Presidente. Ti richiamo io”. Non richiamò. Quell’intervista non si fece.
Mandai a Berlusconi un biglietto: “Egregio Cavaliere, io l’ho sempre criticata ma non le ho mai negato il coraggio. Vederla fuggire, come una lepre impaurita davanti a tre domandine scritte non mi pare degno di lei. Massimo Fini”.
Il biglietto glielo avevo mandato brevi manu spedendo ad Arcore un fattorino dell’Indipendente.
Dopo nemmeno tre ore suonano alla mia porta. È un gigantesco valet gallonato che mi consegna una lettera.
È di Berlusconi che mi copre di insulti di ogni genere. Ma, come scrive Nietzsche, “anche la lettera più villana lo è meno del silenzio”.
Anche questo, a suo modo, era un segno di attenzione.
Che poteva importargli di una zanzara, sia pur molesta, quale ero io ai suoi occhi? Considero Silvio Berlusconi deleterio nella storia del nostro Paese, perchè, col supporto dei suoi ‘ servi liberi’, ha contribuito a togliere agli italiani quel poco di senso della legalità , e oserei dire anche della dignità , che gli era restato.
Massimo Fini
(da “il Fatto Quotidiano”)

Una vita. Un libro per tutti o per nessuno
di Massimo Fini
casa editrice “Marsilio”
2015 pp. 252   17 euro

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IL BIRRAIO, LE COOP, IL RE DELLE FARMACIE: SOCI E MISTERI DEGLI AFFARI DELLA BANCA ETRURIA

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

L’OPERAZIONE “PALAZZO DELLA FONTE”, SOCIETA’ CHE HA COMPRATO GLI IMMOBILI DELLA BANCA… TRA I SOCI ANCHE IL PRODUTTORE DELA BIRRA “AMATA” DA RENZI

Cinquantanove immobili, una banca e sei investitori: il farmacista di Piazza di Spagna, una società  romana di consulenza finanziaria, il manager che produce la birra preferita da Matteo Renzi, il palermitano re delle scommesse, la grande cooperativa quotata in Borsa, il mister x «coperto» da una barriera di fiduciarie.
L’affare «Palazzo della Fonte»
L’operazione «Palazzo della Fonte» era già  finita nel mirino della Banca d’Italia durante le ispezioni (2012-2013) alla Banca Popolare dell’Etruria.
Poi le carte sono state girate a Roberto Rossi, capo della Procura di Arezzo che a marzo dell’anno scorso ha fatto perquisire dalla Guardia di finanza anche gli uffici di Palazzo della Fonte oltre che le filiali di Roma, Civitavecchia, Firenze e Gualdo Tadino.
È uno degli affari più oscuri e controversi della banca appena commissariata. E l’inchiesta dovrebbe essere alle battute conclusive.
Obiettivo liquidità 
La complessa manovra si chiuse a fine 2012 con il principale obiettivo per l’Etruria di raccogliere liquidità  e migliorare i parametri patrimoniali (i cosiddetti ratios). La banca allora guidata da Giuseppe Fornasari (indagato ad Arezzo con altri due dirigenti, gli unici di cui si abbia notizia ad oggi) già  arrancava, inchiodata da Bankitalia alla precarietà  di un portafoglio crediti gonfio di sofferenze.
Viene creata così una società  consortile, «Palazzo della Fonte», a cui l’Etruria conferisce un pacchetto di 59 immobili (gestione e debito ipotecario compresi) per un valore di mercato di 82 milioni. Il 90% delle azioni ordinarie va a «selezionati partner industriali e finanziari», secondo la definizione della banca.
Alla fine l’istituto di Arezzo si trova ancora in tasca il 27% del capitale in azioni privilegiate e l’8% in ordinarie oltre a 75 milioni di liquidità .
Così può annunciare «un impatto molto positivo sui ratios patrimoniali (37 punti base)».
Ma il presupposto è che effettivamente il «pacchetto immobili» sia uscito dal gruppo, dunque deconsolidato.
E infatti gli ispettori di Bankitalia, che ormai hanno piantato le tende ad Arezzo, costringono nel 2014 la banca a escludere dal computo del patrimonio di vigilanza gli effetti dello spin off immobiliare del 2012.
Non è solo una questione di semplice maquillage «stanato» perchè le carte di «Palazzo della Fonte» finiscono in cima al fascicolo aperto in Procura. Tra l’altro l’Etruria è quotata a Piazza Affari.
Farmacie, birra e scommesse
Ma chi sono gli investitori che hanno preso la maggioranza (tutta in pegno a un pool di banche) del consorzio? Manutencoop, un gigante nei servizi agli immobili, e Methorios, consulenza finanziaria, entrambi quotati in Borsa, i due nomi noti. Poi privati, tutti azionisti tramite le loro holding più o meno schermate da fiduciarie.
Come la Finnat intestataria indiretta per conto di Vincenzo Crimi, un impero in farmacie a Roma e provincia compresa quella all’angolo di Piazza di Spagna.
Oppure Matteo Minelli, giovane (34 anni) imprenditore con il centro degli affari a Gualdo Tadino nelle energie rinnovabili.
E una passione per la birra che produce con il birrificio Flea. Le cronache locali raccontano che alla cena di autofinanziamento del Pd a Roma lo scorso novembre la birra ufficiale (800 bottiglie) fosse proprio quella di Minelli, «scelta personalmente da Matteo Renzi».
Orgoglio locale, forse un po’ esagerato. Da notare che Minelli è stato finanziato dall’Etruria proprio in concomitanza con il suo ingresso nell’operazione Palazzo della Fonte.
L’eco dell’affare è arrivata anche a Palermo e una quota del 9% circa è stata rilevata da Francesco Ginestra, ex numero uno di Snai, titolare di sale da gioco in Sicilia e presidente dell’Associazione giochi e scommesse.
Resta il mistero sull’ultimo investitore, il titolare della Findi una finanziaria con asset per 75 milioni ma totalmente blindata da fiduciarie.
Quattro soggetti apparentemente lontani anni luce dalla realtà  locale dell’Etruria, dei suoi immobili e delle sue sofferenze.

Mario Gerevini

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IL PD CERCA FORZA ITALIA: “SI PUO’ RICUCIRE”

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

L’IPOTESI DI NUOVE TRATTATIVE SENZA VERDINI… TOTI: “NOI RAGIONEVOLI”

Profumo di tregua da Pd e Forza Italia.
Dietro le sparate a pallettoni di Brunetta, che ancora ieri è andato a Skytg24 a parlare di una «ferita mortale alla nostra democrazia», le diplomazie sono al lavoro per ricucire.
La prova la si avrà  alla direzione del partito democratico.
Dai toni del discorso di Renzi si capirà  quanto sia grande l’interesse del premier a non balcanizzare ulteriormente il Parlamento. Gli indizi convergono tutti nella stessa direzione.
Lorenzo Guerini confida che gli piacerebbe «provare a riannodare i fili con Forza Italia, anche perchè la riforma costituzionale non solo è stata solo votata da loro sia in Senato che in commissione alla Camera, ma è stata anche scritta insieme a loro».
E dunque ora si tratterà  di scontare qualche giorno di fuochi d’artificio «comprensibili», ma poi tutto si dovrebbe normalizzare.
In vista del voto finale previsto per il 10 marzo.
Parole felpate, le stesse che si ascoltano a palazzo Chigi. Dove viene valutata l’idea di riaprire le trattative ma con un’altra delegazione forzista: via Denis Verdini, ormai bruciato, e sotto con Giovanni Toti e – udite udite – lo stesso sulfureo Brunetta.
Tutti al vertice del Pd si spendono per il rientro di una parte delle opposizioni al tavolo da gioco.
Non il Movimento cinque stelle, considerato un’opposizione antisistema e inaffidabile. Ma gli altri sì.
«Ci sono tutte le condizioni – spiega il presidente Matteo Orfini – per riaprire un dialogo. Forza Italia ha rotto sulle riforme perchè si è… rotta. Ora si sono posizionati su una linea oltranzista, ma lì già  c’è Salvini che rischia di fagocitarli».
Anche perchè, è il sottotesto di tutto il ragionamento di Orfini, «in Parlamento a occhio e croce i numeri per le riforme ci sono, quindi noi andremo avanti comunque».
Dal campo berlusconiano si alzano speculari segnali di fumo.
Giovanni Toti, consigliere dell’ex Cavaliere, ha smussato parecchio la battuta di Brunetta sui «sorci verdi» da far vedere a Renzi: «I sorci di Forza Italia sono sempre ragionevoli. Se ci propongono cose ragionevoli, noi ragioniamo».
E Renzi ha considerato come un primo gesto di distensione – meglio, come un tentativo di rientrare in partita – la dichiarazione di Berlusconi sulla Libia. Smentendo la linea dura espressa dal Mattinale di Brunetta la mattina – «È tipico dei regimi compattare intorno a sè il Paese in una avventura» – nel pomeriggio il leader da Arcore ha annunciato infatti il sostegno di Forza Italia a un’eventuale missione.
E lo strappo della seduta-fiume? Ettore Rosato, vicecapogruppo dem, sparge balsamo sull’orgoglio ferito dei forzisti: «Dopo che loro sono usciti siamo stati attenti a non stravolgere i contenuti del testo che avevamo concordato con loro al 100%. Anche i pochi subemendamenti, approvati dopo l’uscita di Fi, sono stati quelli che avevamo concordato con loro».
Su questa linea buonista, in fondo, sarà  più facile per Renzi anche placare il malumore della sua minoranza interna.
Con i suoi ieri si è fatto sentire Pierluigi Bersani, che oggi potrebbe ripetere gli stessi concetti in direzione: «Il problema non è Boccia, ma di chi ha la responsabilità  del partito. Ci si mette pure Orfini con quei tweet irritanti come punture di spillo. In direzione dovremmo raffreddarci la testa tutti quanti».
Sul merito, l’ex segretario non cambia idea: «È la maggioranza del partito che deve “cambiare verso”.
Se il patto del Nazareno non esiste più, allora perchè andare avanti come se ci fosse ancora? E questo vale sia per il metodo sia per i contenuti ».
Secondo Bersani, Renzi dovrebbe in- vertire l’ordine degli interlocutori: «Prima dovrebbe parlare con il Pd, poi con la coalizione, e infine con quelli che il Pd dovrebbe sentire più vicini». Ovvero Sel, un partito «con cui dovremmo allearci alle regionali».
Anche il bersaniano Andrea Giorgis, pur rivendicando il lavoro della minoranza Pd per migliorare la riforma, invoca una «parlamentarizzazione del confronto con le opposizioni Con questo schema in mente il premier lavora sia al prossimo Consiglio dei ministri (lavoro e fisco) che al “format” del suo tour in giro per l’Italia «nei luoghi della ripartenza possibile».

Francesco Bei
(da “La Repubblica“)

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IN UN ANNO CON RENZI FALLITE 15.000 IMPRESE, DAL 2008 PERSO UN MILIONE DI OCCUPATI

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

NEL 2014 RECORD DI CHIUSURE AZIENDALE, SONO 82.000 DALL’INIZIO DELLA CRISI…AUMENTO DEL 10,7% RISPETTO AL 2013

Dall’inizio della crisi, nel 2008, oltre 82mila imprese italiane sono fallite.
Di queste, 15mila solo l’anno scorso.
Si tratta del dato peggiore da oltre un decennio e superiore del 10,7% rispetto al 2013. Per di più, sommando le procedure concorsuali non fallimentari e le liquidazione volontarie, il dato sale a 104mila. I numeri arrivano dall’osservatorio del Cerved su fallimenti, procedure concorsuali e chiusure, in base al quale 4.479 aziende, il 7% in più in confronto con l’anno precedente, sono state dichiarate fallite nel solo quarto trimestre 2014.
E’ il massimo osservato in un singolo trimestre dall’inizio della serie storica, nel 2001.
L’unico fronte positivo è quello delle liquidazioni volontarie, in calo per la prima volta da quattro anni: nel 2014 sono 86mila, il 5,3% in meno rispetto alle 91mila del 2013.
A livello geografico, la diminuzione è particolarmente visibile nel Centro-Sud dove le società  liquidate sono scese del 16,1% attestandosi a circa 10mila, mentre al Centro il calo è del 12%.
Per quanto riguarda i posti di lavoro persi, la serie storica dei dati “mostra chiaramente come i costi occupazionali siano stati elevatissimi, fino a raggiungere il picco nel 2013 quando 176mila lavoratori hanno perso il posto”.
Il dato 2014, in questo senso, rappresenta un miglioramento visto che i posti sono calati “solo” di 175mila unità .
Ma solo perchè si è ridotta la dimensione media delle imprese che hanno portato i libri in tribunale.
In ogni caso si tratta di un numero più che doppio rispetto ai 74mila contratti “cancellati” nel 2008.
A livello geografico l’area più colpita l’anno scorso è stata il Nord Ovest, con oltre 59mila impieghi persi (314mila tra 2008 e 2014), di cui 40mila solo in Lombardia (220 mila nei sei anni di crisi).
Dal punto di vista settoriale, le aziende del terziario risultano quelle più coinvolte, con 29mila posti persi nei servizi non finanziari e 27mila nella distribuzione.
In ambito manifatturiero è stato particolarmente colpito il sistema moda, con un’emorragia occupazionale di 9mila posti.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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GARANZIA GIOVANI, L’ENNESIMO FLOP DI RENZI: 1,5 MILIARDI DELLA UE SPRECATI PER CREARE IL NULLA

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

SU 2 MILIONI DI INTERESSATI, SI SONO REGISTRATI SOLO 412.000 E APPENA 12.000 HANNO RICEVUTO UN’OFFERTA DI LAVORO O DI FORMAZIONE

“Una novità  straordinaria” con “un bacino potenziale di 900mila giovani che nell’arco dei 24 mesi riceveranno un’opportunità  di inserimento” nel mondo del lavoro.
Il 5 aprile 2014 il ministro del Welfare Giuliano Poletti annunciava così il lancio di “Garanzia Giovani” (Youth Guarantee), partita in Italia il 1° maggio dello scorso anno.
Un progetto di respiro europeo, rivolto a quei Paesi con una percentuale di giovani senza lavoro superiore al 25% (in Italia è al 42%), su cui Bruxelles ha investito 6 miliardi di euro: 1,5 solo per il nostro Paese.
I fondi in Italia sono stati distribuiti in base al tasso di disoccupazione delle diverse aree geografiche, affidando alle Regioni, che controllano il sistema dei servizi per il lavoro, la definizione e la realizzazione delle misure da adottare.
Sono stati coinvolti i giovani che non studiano nè lavorano, i cosiddetti Neet, di età  compresa fra 15 e 29 anni (nello schema comunitario il meccanismo è previsto per gli under 25).
Per sensibilizzare gli Stati coinvolti nel piano, il 22 aprile 2013 il Consiglio della Ue ha inviato loro una “Raccomandazione” che prevede, ad esempio, l’identificazione di un’autorità  pubblica incaricata di istituire e gestire il sistema di garanzia, lo sviluppo di partnership tra servizi per l’impiego pubblici e privati e il potenziamento dell’apprendistato come forma contrattuale.
Peccato che in Italia il meccanismo non ha funzionato.
Complici i ritardi nell’attuazione del piano da parte degli enti locali e l’assenza di un’efficace struttura di coordinamento, fino a questo momento la “Garanzia Giovani” si è rivelata un vero e proprio flop.
Solo una minima parte dei giovani iscritti al piano (tramite un portale dedicato), che entro 4 mesi dall’inizio della disoccupazione o dal termine degli studi avrebbero dovuto iniziare un’esperienza lavorativa, un tirocinio o uno stage, ha tratto reale beneficio dalla Youth Guarantee.
Fallimento all’italiana
A sancire l’insuccesso della “Garanzia Giovani” in Italia ci ha pensato Adapt (il centro studi sul lavoro fondato nel 2000 da Marco Biagi) con un rapporto inviato al vicepresidente della Commissione europea Jyrki Katainen.
Un’analisi che il commissario finlandese, considerato un “falco” e desideroso di capire cosa non ha funzionato finora in casa nostra, ha richiesto al direttore di Adapt Michele Tiraboschi. Non al governo.
“I risultati — esordisce il report — non sono allo stato lusinghieri e anzi è percezione diffusa, tra i giovani prima ancora che tra gli esperti e l’opinione pubblica, che si tratti dell’ennesimo fallimento delle politiche del lavoro in Italia”.
Una doccia gelata accompagnata dalle cifre.
Come ad esempio la percentuale dei giovani che, una volta presi in carico dai servizi competenti, ha ricevuto una qualche forma di risposta in termini di lavoro o di stage: un misero 3%.
“Su un bacino stimato dal governo di 2.254.000 giovani italiani che non studiano e che non lavorano, 1.565.000 se consideriamo il target scelto per il piano, solo 412.015 hanno infatti aderito al piano ‘Garanzia Giovani’”, è scritto nel documento.
Di questi “solo 160.178 risultano essere stati effettivamente contattati per un primo colloquio.
Mancano dunque all’appello ancora 251.837 giovani, la stragrande maggioranza dei quali iscritti da oltre 4 mesi al programma”.
Quindi dei 160.178 giovani contattati dopo la registrazione al progetto “solo 12.273 hanno poi effettivamente ricevuto un’offerta di lavoro, di stage o di formazione”.
Il 3%, appunto.
Guida pericolosa
Insomma un disastro su tutta la linea, che affonda le proprie radici nel fatto che l’Italia non ha rispettato le linee guida della “Raccomandazione” dell’Unione europea.
A partire dalla mancata creazione dell’autorità  pubblica di coordinamento.
“In attesa di una annunciata riforma dei servizi pubblici per il lavoro”, spiega Adapt, l’Italia “ha affidato il compito di coordinamento delle azioni di “Garanzia Giovani” ad una tecnostruttura pubblicistica denominata “struttura di missione” che “ha cessato le sue funzioni il 31 dicembre 2014 senza che l’annunciata riforma dei servizi per il lavoro abbia preso effettivamente avvio e senza che siano stati nominati ad interim altri soggetti”.
Di conseguenza, rivela l’associazione, allo stato attuale nel nostro Paese “il ruolo di coordinamento del programma è scoperto”. Non è finita.
L’altro problema, come detto, è rappresentato dalle Regioni. In molte di queste, soprattutto “in quelle con i più alti tassi di disoccupazione e dispersione giovanile”, la “Garanzia Giovani” “non è ancora neppure partita rivelandosi al più occasione per convegni e per l’apertura di nuovi siti internet pubblici che non funzionano e non mettono in contatto domanda e offerta di lavoro”.
Regioni al bando
In Sicilia, addirittura, il bando è stato aperto e poi subito ritirato sollevando dubbi sulla trasparenza delle procedure adottate nell’erogazione dei finanziamenti.
E anche nei casi “virtuosi” non mancano le criticità .
“In Veneto, la Regione che si distingue per la migliore performance sulla “Garanzia Giovani”, si registrano importanti ritardi. Penso solo ai tirocini: i ragazzi che hanno iniziato a settembre attendono ancora la liquidazione della prima indennità  mensile”, spiega a ilfattoquotidiano.it Giulia Rosolen, ricercatrice Adapt e responsabile del gruppo di ricerca sul piano.
Per Rosolen, in sostanza, “stiamo sprecando il miliardo e mezzo stanziato dall’Europa”.
Anche perchè “sull’apprendistato, individuato come principale leva di placement dalla Raccomandazione europea, viene investita solo una percentuale residuale delle risorse a disposizione e le procedure previste per il finanziamento di questa tipologia contrattuale sono spesso molto lunghe e burocratiche“.
Numeri alla mano, il contratto a tempo determinato è la tipologia maggiormente ricorrente tra le offerte caricate nel portale (74%)   — la stragrande maggioranza delle quali non incide sui settori indicati come prioritari dall’Europa — mentre tirocinio e apprendistato occupano le ultime due posizioni (8% e 2%).
Garanzia fuori posto
Inoltre il 40% dei giovani intervistati per un sondaggio riguardante il piano, effettuato da Adapt e dalla testata online la “Repubblica degli stagisti”, ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna proposta dopo il colloquio.
Non è un caso, dunque, se il voto medio dato dai ragazzi è stato 4. Una sonora insufficienza.
Ora, per cercare di raddrizzare la situazione, il governo ha deciso di intervenire con due decreti.
Il primo per correggere l’attuale sistema di “profilazione” dei giovani, il secondo per allargare il bonus anche ai contratti a termine (di durata inferiore a 6 mesi) e a quelli di apprendistato.
“Il ministero del Lavoro ha dunque preso atto del fallimento del piano”, dice Rosolen, peccato che “i correttivi, così come previsti, non porteranno alcun beneficio”.
Nei giorni scorsi, in un’intervista al Quotidiano Nazionale, Poletti ha spiegato che “il primo equivoco” della Youth Guarantee “riguarda il nome. Dall’inglese andava tradotto correttamente in patto, e non garanzia, perchè così si è indotto a pensare che garantisse posti di lavoro”.
Il problema, insomma, è tutto lì. In una parola.
Peccato non esserci arrivati prima.

Giorgio Velardi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LE CASE DEL CAMPIDOGLIO IN AFFITTO A 52 EURO

Febbraio 16th, 2015 Riccardo Fucile

SPRECHI: E’ QUESTO IL CANONE MENSILE MEDIO DEI 43.000 IMMOBILI DI PROPRIETA’ DEL COMUNE DI ROMA… CHE POI SPENDE 21 MILIONI L’ANNO PER UTILIZZARE 5.000 ABITAZIONI PRIVATE

Le dimensioni del problema sono in tre numeri.
Per affittare uffici e appartamenti destinati alle carenze abitative, nonchè per gestire il patrimonio immobiliare comunale, il Campidoglio ha speso lo scorso anno 138,9 milioni di euro: incassando 27,1 milioni (dato 2013) di canoni per i propri beni affittati ai privati. Perdita secca, 111,8 milioni l’anno.
Quaranta euro per ogni cittadino, neonati e vegliardi compresi.
Sono le cifre impressionati di un pozzo senza fondo, ma che non dicono neppure tutto del modo assurdo con cui è stato gestito dalla notte dei tempi l’immenso patrimonio immobiliare della Capitale.
Le maxi-spese del Comune
Per capire le difficoltà  che si parano davanti a chiunque voglia invertire la rotta facendo cessare innanzitutto lo scandalo indicibile degli affitti irrisori, come ha promesso l’attuale amministrazione, bisogna infatti scendere nelle profondità  di questo abisso.
Quei 27,1 milioni sono il rendimento di 43.053 beni immobili: ognuno dei quali frutta al Comune in media 52 euro e 46 centesimi al mese.
Fermo restando che è persino difficile dire quanto davvero rimanga nelle casse comunali. Nei 138,9 milioni di spesa sono compresi i cinque sborsati per la manutenzione degli ascensori e i nove che incassava la società  Romeo per altre manutenzioni e gestioni amministrative tramite due diversi contratti, uno dei quali ora cessato e l’altro in attesa di gara.
Non ci sono invece nel conto i molti milioni spesi per le bollette dell’acqua, nè l’Imu seconda casa che il Campidoglio paga per sue diverse proprietà  in centri extracomunali come Albano Laziale o Guidonia.
Parliamo in questo caso di almeno sei milioni l’anno.
Il caso Armellini
In compenso per 4.801 abitazioni affittate dai privati, 1.042 dei quali riconducibili a quell’Angiola Armellini che secondo le Fiamme Gialle invece l’Ici non la pagava, il Campidoglio ha tirato fuori nel 2013 la bellezza di 21 milioni 349.652 euro.
Mediamente, 370 euro e 57 centesimi al mese per ciascuna di esse: sette volte quello che incassa per i propri appartamenti.
Ed è ancora niente, tuttavia, in confronto a certe vette raggiunte dai Centri di assistenza abitativa temporanea, ossia l’emergenza dell’emergenza, per cui il Comune era arrivato a pagare, tenetevi forte, anche quattromila euro al mese per appartamento. Una follia.
Tanto più, stanno facendo scoprire i controlli avviati per stroncare gli abusi, che gran parte degli assegnatari non ha neppure i requisiti per stare lì.
Gli immobili commerciali
Il problema, poi, non riguarda soltanto le case.
Roma ha 598 immobili non residenziali e spende 50,9 milioni per affittare uffici.
Il sito comunale informa che nel 2014 sono stati risparmiati 2,1 milioni.
E che molti contratti sono stati rimessi in discussione, come del resto quelli relativi agli usi residenziali: operazione che dovrebbe portare da 42 a 27 milioni l’esborso per l’emergenza abitativa più emergenziale.
Il Comune dice che la spesa complessiva per il patrimonio immobiliare dovrebbe scendere dai 138,9 milioni del 2014 a 99,5 nel 2015, a 83 nel 2016,a 72 nel 2017.
Auguri.
Poi c’è il piano di dismissioni avviato dall’amministrazione guidata da Ignazio Marino. Che sta facendo discutere non poco in consiglio comunale soprattutto a causa dello sconto previsto per gli inquilini che decidessero di comprare.
La legge fantasma
Il Comune argomentava l’esistenza di una legge, che però non si è mai trovata.
L’unico riferimento erano le modalità  utilizzate dieci anni fa per le disastrose dismissioni degli enti previdenziali. E il consigliere radicale Riccardo Magi non si è fatto scappare l’occasione per proporre con suoi emendamenti di abolire quel beneficio, riservando agli inquilini solo il diritto di prelazione sul prezzo risultante da una gara.
Anche perchè fra i 600 immobili da mettere in vendita ce ne sono parecchi assai appetitosi, in strade prestigiose del centro storico come Via dei Coronari, e quartieri dove le quotazioni non sono proprio modeste come Trastevere o Prati.
La storia spesso poco edificante delle cessioni di immobili pubblici deve consigliare estrema prudenza.
Auguri bis.

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)

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