Destra di Popolo.net

LA CORRENTE DI DAVIGO: “IL GOVERNO SPACCA LE TOGHE PER CONTROLLARLE”

Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile

“DIFESA ISTITUZIONALE E LOTTA SINDACALE”….NASCE NELL’ANM IL GRUPPO “AUTONOMIA E INDIPENDENZA”: 6 MEMBRI ANTI-FERRI

Brutte notizie per Renzi anche dal fronte togato.
La corrente conservatrice, ultimamente filogovernativa, di Magistratura indipendente perde alcuni dei suoi uomini migliori che fondano un nuovo gruppo al comitato direttivo centrale (Cdc) dell’Anm.
Sei i componenti del Cdc che lasciano Mi: i cosiddetti antiferriani, duramente critici sulla commistione fra politica e magistratura creata dall’ex segretario di Mi Cosimo Ferri quando accettò l’incarico di sottosegretario alla Giustizia del governo Letta (in quota Berlusconi) e ora del governo Renzi (in veste di “tecnico”).
Così Mi resta con soli 5 componenti e quindi per chiedere una riunione del Cdc deve appoggiarsi ad almeno un membro esterno (sono necessarie 6 firme) come ha fatto per l’assemblea di ieri in cui ha chiesto lo sciopero, perdendo, contro la nuova legge sulla responsabilità  civile.
Sergio Amato, pm antimafia di Napoli; Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina; Giuseppe Ferrando procuratore di Ivrea; Anna Giorgetti, giudice del tribunale di Varese, Gianni Pipeschi, pm di Vicenza e Stefano Schirò, consigliere alla corte d’Appello dell’Aquila, sono i magistrati che hanno costituito il nuovo gruppo Autonomia e Indipendenza.
Nel documento si legge che “all’esito dell’ultima assemblea nazionale di Mi ci è parso evidente che il processo di mutazione genetica del gruppo si era irreversibilmente realizzato. Nonostante i nostri richiami, da vario tempo, alla necessità  di rispettare i valori fondanti di Mi, abbiamo purtroppo preso atto che nata proprio per tutelare l’indipendenza della magistratura dalla politica, ha modificato il suo stesso Dna, accreditandosi ormai nel panorama associativo e politico come gruppo il cui leader ricopre un incarico di governo e le cui ingerenze nelle scelte strategiche di maggiore rilevanza di Mi sono state evidenti”.
La premessa, esplicita nel criticare la condotta di Ferri, pur mai nominato, porta a una considerazione inevitabile: “In questa prospettiva, qualunque battaglia a tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura è poco credibile”.
Secondo i fuoriusciti, Mi ha bersagliato l’Anm provocando o cercando di provocare un indebolimento: “Invece, mai come oggi deve essere forte ed autorevole per contrastare con efficacia le inutili e umilianti riforme proposte della politica non nell’interesse della giustizia ma solo in danno dei magistrati”.
Un indebolimento che Autonomia e indipendenza vede come obiettivo comune con “la politica”. E rilevano che “non a caso negli ultimi tempi da parte di Mi si inizia a discutere di forme di sindacato alternativo”.
La contrarietà  all’alternativa all’Anm viene spiegata nel documento: “Nessuno più di noi può volere più sindacato nell’attività  associativa… ma, fermo restando le ragioni della nostra attuale opposizione ad una linea associativa ritenuta insufficiente per l’adeguata tutela delle prerogative professionali dei magistrati, non possiamo accettare che questo patrimonio culturale comune, questa risorsa fondamentale possano essere strumentalizzati”.
Ed ecco un altro passaggio dedicato alla politica: “Vuole normalizzare la magistratura anche alimentando le divisioni interne all’Anm… e ciò persino dentro l’organo di autogoverno (il Csm). Tale tentativo della politica di trovare alleati tra i magistrati contro la magistratura non va sottovalutato”.
Il quadro politico attuale deve portare, secondo i firmatari, ad “ esprimere contrarietà  a un confronto meramente apparente con il governo e portare avanti un impegno sindacale che vada solo nella direzione della reale tutela professionale dei magistrati nell’interesse del più efficiente funzionamento della giustizia”.
Infine, i valori dichiarati che hanno spinto alla costituzione del nuovo gruppo all’interno dell’Anm: “Proprio per portare avanti realmente e lealmente i valori dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, per agire in piena libertà  rispondendo alla nostra coscienza e avendo solo i colleghi come i nostri unici interlocutori, ci costituiamo all’interno del Cdc, quindi lasciamo il gruppo di Magistratura Indipendente”.
Nel fine settimana si costituirà  la nuova corrente durante un’assemblea, chiamata con due parole scelte non certo per caso, come ci spiega il leader di Autonomia e Indipendenza Piercamillo Davigo, consigliere di Cassazione: “Venerdì ci sarà  un convegno a Roma dal titolo ‘Rottamare anche la giustizia?’
Il giorno dopo si svolgerà  un’assemblea per dare vita a questo nuovo gruppo di Autonomia e Indipendenza.
Due parole scelte perchè si trovano nella Costituzione.
C’è una caratteristica rispetto agli altri gruppi: indipendenza dell’ordine e dei singoli magistrati non implica affatto alla rinuncia, o alla messa in secondo piano, della funzione sindacale dell’associazione, altrettanto importante della difesa politica istituzionale.
Rispetto a Mi, non tratteremo l’Anm come un nemico, perchè è la casa di tutti i magistrati. Cosa diversa è chiedere, invece, un cambio di atteggiamento sulla difesa sindacale”.

Antonella Mascali
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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LA SCOMMESSA DI LANDINI

Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile

IL LEADER DELLA FIOM E’ UN MOLTIPLICATORE DI SHARE E RENZI LO TEME

Maurizio Landini, possibile leader carismatico di una sinistra anti-renziana (che già  oggi senza di lui somma quasi il 5% nei sondaggi) sarebbe un avversario da non sottovalutare.
Se lo stesso Renzi ammette che «questa uscita di Landini è importante», motivando l’eventuale intenzione di buttarsi in politica del capo della Fiom come conseguenza della «sconfitta sindacale» poichè grazie al jobs act la Fiat sta tornando ad assumere, il primo segnale che se ne ricava è che il premier mette in conto di doversi misurare con un possibile concorrente alla sua sinistra.
Anche se questo accenno alla “sconfitta” dimostra quanto Renzi sia convinto che perfino con un leader legittimato quelle posizioni più radicali non riscuoterebbero largo consenso nella larga base dei militanti.
Ma un Landini dotato di capacità  di leadership e popolarità  presso un vasto pubblico, magari in grado di aggregare diverse componenti della sinistra che si rifanno all’esperienza greca di Tsipras, può essere una variabile con cui fare i conti di qui a venire.
Senza contare che un nuovo movimento da mettere in piedi su nuove basi avrebbe tutto il tempo per consolidarsi se davvero le prossime elezioni politiche si tenessero nel 2018.
In uno scenario politico molto fluido e in continua evoluzione come dimostrano i movimenti in atto anche nel campo del centrodestra, una formazione che aggreghi i vendoliani di Sel, i delusi del Pd e altre personalità  della sinistra sotto l’ombrello di una personalità  come Landini potrebbe creare una piccola grande rivoluzione nel panorama politico.
Con contraccolpi tutti da verificare nel mondo sempre turbolento del Partito Democratico, dove una possibile scissione dei più radicali contestatori della linea Renzi è sempre dietro l’angolo.
Del resto, che Landini sia divenuto «un personaggio dopo essersi messo contro Marchionne», come dice Renzi è vero, e non è un caso che ormai tutti i talk show facciano a gara per averlo ospite: determinato e aggressivo nel confronto diretto, sempre capace di reggere lo scontro verbale, il leader della Fiom è un moltiplicatore di share e per chi è attento al valore della comunicazione politica come Renzi queste caratteristiche non sono affatto da sottovalutare. Anche se il primo a dubitare che sarà  questo l’epilogo è proprio Renzi, «non credo che abbandonerà  il sindacato e comunque se davvero si butta in politica il sospetto che tutte le manifestazioni di questi mesi fossero propedeutiche a un ingresso in politica si dimostrerebbe legittimo».

Carlo Bertini

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IL PIANO DI ATENE: ADDIO PROMESSE ELETTORALI

Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile

DEREGULATION, RIFORMA DELLO STATO E APERTURA AI PRIVATI

La Grecia di Alexis Tsipras, con buona pace delle promesse elettorali, riparte dalla Troika.
«à‰ un’istituzione che non riconosciamo e non metterà  più piede ad Atene», aveva garantito il leader di Syriza la sera del 25 gennaio, dopo la vittoria alle elezioni.
La realpolitik e la drammatica fuga di capitali dalle banche hanno però avuto la meglio.
Il premier è stato costretto a raggiungere un compromesso al ribasso all’Eurogruppo («senza un accordo, da oggi avremmo dovuto imporre controlli alla circolazione di denaro e il paese sarebbe collassato », racconta uno dei negoziatori del Partenone).
E stamattina formalizzerà  la retromarcia “forzata” inviando per approvazione a Ue, Bce e Fmi – alias la vecchia Troika – il piano di riforme del governo, l’ultima carta per tenere Atene in Europa.
«à‰ la prima volta dal 2010 che siamo in grado di decidere noi come salvare il paese senza farci imporre la ricetta da altri. Non taglieremo le pensioni e non alzeremo l’Iva», è il mantra soddisfatto del Presidente del consiglio.
Le sei pagine di documento in partenza per Bruxelles sono però una lista di buoni propositi: lotta alla corruzione, deregulation, riforma del pubblico impiego, guerra totale a oligarchi, burocrazia, cartelli ed evasori fiscali e persino un impegno a non bloccare le privatizzazioni.
Una lista che ricalca a grandi linee i capisaldi del vecchio memorandum e dove brillano per assenza molte delle promesse elettorali di Syriza.
Se le “istituzioni” – nuovo nome del trio dei controllori – daranno dare l’ok, Bruxelles formalizzerà  la proroga di 4 mesi al piano di salvataggio della Grecia, avviando l’iter dell’approvazione parlamentare in Germania, Olanda, Estonia e Finlandia. In caso contrario si riaccenderà  l’allarme rosso sul Partenone: domani verrebbe convocato un nuovo Eurogruppo che – a quel punto – rischierebbe di avere all’ordine del giorno la gestione ordinata dell’uscita di Atene dall’euro.
Tsipras e i suoi tecnici stavano lavorando nella serata di ieri per provare a infilare nel pacchetto una minima parte dei provvedimenti umanitari previsti nel programma del partito.
Uno “scalpo” necessario per placare il malumore dell’ala più radicale di Syriza e della parte più ideologica del suo elettorato.
«L’idea allo stato è provare a strappare il via libera per bloccare la confisca della prima casa di chi non riesce più a pagare le rate dei mutui», racconta uno dei negoziatori. Sperando che Ue, Bce e Fmi – comprendendo le ragioni di politica interna – non si mettano di traverso.
L’appuntamento di oggi, a Bruxelles lo sperano tutti, dovrebbe andare via liscio.
Il vero esame della Grecia – dicono – sarà  ad aprile quando il premier e il ministro Yanis Varoufakis presenteranno il piano targato Syriza – comprensivo di cifre e coperture al centesimo – per portare il paese fuori dall’emergenza.
Lì si giocherà  la partita finale: se il premier riuscirà  a convincere i creditori che il suo governo è davvero in grado di attaccare alla radice i problemi appena intaccati da Samaras & C. – corruzione, burocrazia ed evasione su tutti – Ue, Bce e Fmi potrebbero non solo sborsare l’ultima tranche di finanziamenti, ma mettersi al tavolo per ragionare su come rendere sostenibile a lungo termine il debito ellenico.
Si vedrà . Il vero problema di Tsipras oggi è convincere la Grecia che le tante promesse fatte pri-ma del voto non si potranno materializzare dalla sera alla mattina. «Appena eletti vareremo l’aumento dello stipendio minimo, la luce gratis alle 300mila famiglie più povere, il ritorno alla contrattazione collettiva, il ripristino della tredicesima alle pensioni sotto i 700 euro, l’assistenza sanitaria gratuita per il milione di persone che ne ha perso il diritti», recitava il Programma di Salonicco “venduto” da Tsipras prima del 25 gennaio.
«Ci arriveremo un passo per volta – provano a consolarsi a Syriza – Quando a un tavolo si è in due bisogna scendere a patti, Quando sei uno contro 18 come all’Eurogruppo e non hai un euro in tasca il compromesso può essere ancor più difficile da digerire».
La maretta tra le file del partito è già  montata e il premier dovrà  lavorare per evitare che diventi una bufera.
Con il rischio paradossale, dopo tutte le pillole amare mandate giù in questi giorni a Bruxelles, che il salvataggio del paese venga silurato dal fuoco amico.

(da “La Repubblica”)

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MANCANO 37 MILIARDI E RENZI SI DA’ DEL BUFFONE DA SOLO

Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile

LE IMPRESE NON INCASSANO: “SE NON SALDO TUTTO ENTRO L’AUTUNNO 2014 CHIAMATEMI BUFFONE”… A TUTT’OGGI PAGATI MENO DELLA META’

Alla fine al monte Senario non c’è andato nessuno e ai “Servi di Maria”, nel senso dei frati a cui appartiene il relativo convento, non è restato altro che continuare a pregare, lavorare e distillare il liquore “Gemma d’Abeto” come fanno dal 1865.
Può sembrare strano, ma il tema di cui si parla è il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione.
Breve antefatto. È il 13 marzo 2014 e Matteo Renzi è comodamente assiso sulle poltroncine di Porta a Porta. Bruno Vespa lo titilla sui soldi che lo Stato deve alle imprese, gli propone un suo contratto con gli italiani.
Il premier rifiuta, ma s’abbandona alla promessa circostanziata: “Se entro la fine dell’estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei (nel senso di Vespa, ndr) andrà  a piedi da Firenze a Monte Senario”.
E se lei perde? Chiede speranzoso il conduttore.
“So dove mi mandano gli italiani… ”, toscaneggia l’ex sindaco: “Il minimo che mi aspetto è che mi chiamino buffone”.
Ecco il 21 settembre è arrivato e Vespa e Renzi non sono riusciti a mettersi d’accordo su chi aveva vinto e chi perso.
Geniale la soluzione svelata dall’uomo della Rai via Twitter il 22 settembre scorso: “Matteo Renzi ha accettato sportivamente di salire con me e altre persone in data da destinarsi al santuario di Monte Senario. Entrambi siamo infatti convinti di aver vinto la scommessa”.
La carovana, però, non è ancora partita: entrambi forse sono convinti di aver già  fatto la scampagnata.
La vita, nell’anno secondo dell’era renziana, è soprattutto una questione di opinioni e pure i frati dovranno farsene una ragione. Resta una domanda: è lecito per gli italiani, col permesso dell’interessato, definire Renzi “buffone”?
Insomma, li ha pagati o no questi debiti della Pubblica amministrazione?
I numeri, si sa, sono un po’ freddi, ma lasciano poco spazio a quel tipo di dibattito in cui ci si mette d’accordo sul fatto di non essere d’accordo.
Tradotto: la risposta è no, non li ha pagati tutti.
Per affermarlo basta prendere per buoni i numeri presenti sul sito del ministero del Tesoro.
La cifra da cui partire è la stima fornita da Banca d’Italia sui debiti di Stato e enti locali: 91 miliardi al 31 dicembre 2012, oltre la metà  dei quali considerati un picco anomalo dovuto a enormi ritardi nei pagamenti delle fatture (invece di 30 giorni la P. A. pagava a 170 e a volte non lo faceva proprio).
Com’è la situazione oggi?
A dati aggiornati al 30 gennaio 2015, i soldi stanziati per pagare il dovuto maturato entro il 2012 – che risalgono quasi tutti ai governi di Monti e Letta – sono complessivamente 56 miliardi. Questa cifra, però, esiste solo sulla carta: le risorse effettivamente messe a disposizione degli enti debitori (ministeri, Asl, regioni, enti locali e chi più ne ha più ne metta) ammontano a 42,81 miliardi, vale a dire il 76% dello stanziamento.
E non è finita. Non tutti i soldi esistenti sono già  finiti nelle tasche delle imprese: di quei quasi 43 miliardi sono stati pagati davvero 36,483 miliardi, cioè il 65% del totale (a ottobre si era fermi a 32,5 miliardi).
Ne mancano insomma almeno una ventina persino rispetto a quanto pianificato dal governo.
Nel dettaglio, lo Stato centrale ha pagato 5,7 miliardi su sette totali stanziati; le regioni 21,6 su 33; province e comuni 9 su 16,1 miliardi.
I settori più colpiti sono quello della sanità  e dell’edilizia: recentemente l’associazione dei costruttori (Ance) ha parlato di 10 miliardi di debiti ancora da pagare alle imprese del settore. Poi c’è l’operazione lanciata dal governo Renzi nell’aprile 2014: la certificazione dei crediti maturati entro il 31 dicembre 2013 con apposito modulo sul sito del Tesoro scontabili in banca grazie a una garanzia statale e, in alcuni casi, all’intervento di Cdp.
Anche qui la situazione è in chiaroscuro: a fine 2014 risultano registrate alla piattaforma di certificazione dei crediti 20.945 imprese che hanno presentato 91.423 istanze di certificazione per un valore di quasi 9,8 miliardi di euro.
Non tutte le istanze digitali, però, risultano già  evase dagli enti debitori: esiste, sempre sul sito del Tesoro, una lista di “istanze senza risposta” che ne elenca a migliaia per cifre superiori al miliardo di euro.
Ecco il riassunto di un report realizzato da ImpresaLavoro su dati Eurostat: “Meno della metà  di quanto dovuto è stato pagato: i debiti commerciali maturati dalla P. A. nel 2013 ammontano a 74,2 miliardi di euro, quindi rimangono fuori dall’intervento del governo altri 37,7 miliardi”.
La brutta notizia è questa: “Sbaglia, in ogni caso, chi pensa che questi interventi contribuiscano a ridurre sensibilmente lo stock di debito complessivo che lo Stato ha nei confronti delle imprese private. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza: liquidare i debiti pregressi di per sè non riduce pertanto lo stock complessivo”.
Già  nel 2014, dice il report, “stimiamo che nel 2014 siano già  stati consegnati alla P. A. beni e servizi per un valore di circa 158 miliardi di euro e che, in forza dei tempi medi di pagamento, lo stock complessivo del debitorimane fermo a circa 75 miliardi”.
Insomma, se il pubblico non comincia a rispettare i tempi di pagamento delle fatture, il traffico a Monte Senario – almeno quello mentale – aumenterà  esponenzialmente.

Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)

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PROFESSIONISTI GRATIS: LO STATO NON LI PAGA

Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile

DAL GRATUITO PATROCINIO, AI CORSI UNIVERSITARI: MIGLIAIA DI LAVORATORI IN ATTESA DEL COMPENSO, ANCHE PER ANNI

Avvocati d’ufficio, docenti, revisori dei conti, custodi giudiziari, architetti, ingegneri, maestri di scuola: tutti in attesa di essere pagati dallo Stato.
Dimenticate il capitolo, già  doloroso, delle imprese.
La coda dei creditori della Pa è anche e soprattutto un fiume di carne, volti e professioni: una coda virtuale talmente lunga che messi in fila i nomi formerebbero un serpente lungo chilometri, con cifre stellari.
I numeri dei tempi d’attesa sono a tre zeri, e la crisi economica gonfia il contatore, tanto che nell’ultimo anno in molti hanno gettato la spugna: 180 giorni per i commercialisti; 217 per gli architetti; 90 per i docenti a contratto; da sei mesi a quattro anni per gli avocati.
Gli ultimi, in ordine di tempo a chiedere un intervento urgente.
“Volete cedere come si viola la Costituzione ogni giorno? Fatevi un giro nei tribunali”, spiega Mirella Casiello, presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura.
Formalmente si chiama “patrocinio a spese dello Stato”, semplificando è l’avvocato d’ufficio concesso a chi non può permettersi un legale.
Funziona così: sotto un livello minimo di reddito — e condizioni effettive — sia l’imputato che l’offeso possono farne richiesta, e la parcella è a spese dello Stato.
“Solo che di fatto, si lavora gratis per anni”, spiega Roberto, avvocato del foro di Torino: “Qui i tempi di attesa sono di 36 mesi. E non dal momento in cui vieni scelto, ma da quando finisce la causa”.
L’onorario, infatti, viene saldato solo alla fine del procedimento.
“In media 3-4 anni, durante i quali devi sostenere da solo tutte le spese, poi inizia la trafila vera e propria: devi fare istanza al giudice, che decide da solo quanto devi essere pagato, dopodichè si passa all’ufficio pagamenti, e da lì altro tempo in attesa che arrivino i soldi”.
Ad attenderli sono a migliaia.
La cassa forense stima in 180 milioni l’arretrato nei confronti di una marea di avvocati, soprattutto i più giovani.
“È il primo sbocco di chi entra nella professione”, continua Roberto. La cifra è destinata a salire. “La crisi ha fatto esplodere il fenomeno”, spiega Casiello.
Stando ai dati della direzione della giustizia penale dal 2007 a oggi il numero di persone a cui è stato concesso un avvocato d’ufficio sono aumentate del 32 per cento, solo nel 2013 sono stai 129 mila, mentre gli onorari sono scesi notevolmente: oggi un patrocinante prende in media 600 euro per una causa.
Non esistono minimi, e tutto è lasciato alla discrezionalità  dei giudici. Un decreto del 2012 ha imposto di tagliare del 50 per cento i parametri di riferimento.
Dopo le proteste, nel 2013 la legge di stabilità  ha ridotto il taglio ad un quarto.
“Solo che non ha abolito il precedente — continua Roberto — e così adesso ti applicano prima il 50 e poi il 25 per cento”.
L’Oua ha chiesto al ministro di intervenire per evitare il collasso . Stando ai dati, infatti, negli ultimi tre anni, mentre le richieste aumentavano, i costi fatturati sono rimasti fermi.
La differenza ce l’hanno messa gli avvocati.
“Il paradosso — spiega Elenora, del Foro di Roma — è che abbiamo la legge più evoluta d’Europa, quella che ti permette di sceglierti l’avvocato, e non vedertelo imporre dallo Stato, anche se non puoi permettertelo: è una conquista enorme. Poi però nessuno ti paga e così diventa impossibile lavorare, con buona pace dell’articolo 24 della Costituzione , che garantisce ai non abbienti ‘i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione’”.
“Io difendo senza tetto, tossici e categorie in difficoltà , e mi pagano meno di un muratore”, spiega Luca, del Foro di Milano.
La cassa forense ha chiesto al governo di poter anticipare allo Stato i soldi degli arretrati, scontandoli dalle ritenute da versare all’Erario, ma il progetto è rimasto sulla carta, così come i tentativi di trovare un accordo con le banche.
Come se non bastasse, nei giorni scorsi è diventata obbligatoria la negoziazione assistita     — cioè il tentativo di mediazione prima del processo — dove per legge l’onorario dell’avvocato d’ufficio non è previsto.
Nel caos succede anche che a Torino la corte d’appello chieda all’Agenzia delle Entrate se deve versare l’Iva direttamente all’Erario (lo split Payement), e nell’attesa blocchi tutti i pagamenti.
Il Ministero non ha voluto commentare, eppure il 20 per cento di tutti i debiti non pagati è contratto con chi ha prestato assistenza ai non abbienti.
I pratrocinanti a spese dello Stato non sono soli.
I Tribunali, per dire, hanno dimenticato anche i commercialisti: loro attendono centinaia di milioni.
Tralasciando i ricchi studi, sono centinaia i professionisti che lavorano per la Pa: revisori dei conti in migliaia di Comuni, province e società  partecipate, e ancora.
“La situazione peggiore è negli incarichi giudiziari”, spiega Raffele Marcello, del Consiglio nazionale dei commercialisti.
Ogni anno i tribunali siglano contratti di consulenza o affidano la custodia giudiziaria di aziende infiltrate dalla criminalità  a esperti commercialisti, salvo poi pagarli con enorme ritardo: 180 giorni per gli ausiliari di giustizia, altri 90 se la posta è a carico delle parti del processo, fino ad arrivare a quattro anni per i custodi giudiziari, se a dover pagare è l’Erario.
“Persone a cui viene richiesto un lavoro delicatissimo per conto della giustizia — spiega Domenico Posca, presidente dell’Unione italiana dei commercialisti — e ricevono la parcella dopo 48 mesi.
Intanto vengono tassati per cassa, quindi sono spesso in perdita considerati i costi”.
Peggio ancora va negli Enti locali, dove c’è l’obbligo di avere un revisore ma le parcelle sono crollate.
“Ho lavorato per numerosi comuni — spiega Alberto, commercialista di Viterbo — l’onorario è di 1500-2000 euro l’anno, e ti pagano quello dopo perchè a ottobre bloccano le operazioni per poter poi chiudere i conti a novembre. La mole di lavoro è impressionante, mi creda, non ce la si fa”.
La crisi ha ingolfato gli albi a disposizione degli Enti e il patto di stabilità  gli ha costretti a complicate operazioni per comprimere i costi e dilazionare i pagamenti: “Se il dirigente fa una cazzata che magari ti sfugge rischi una condanna per danno erariale, la beffa oltre il danno”. Peggio ancora va nelle centinaia di società  di servizi pubblici Inhouse, formalmente fuori dal perimetro, ma controllate al 100 per cento dagli enti locali.
Nel suo studio (Commercialisti 2.0, Giuffre) Posca ha provato a fornire dei numeri: solo un terzo dei commercialisti viene pagato regolarmente (cioè 60-120 giorni), il restante è ampiamente fuori (24-36 mesi).
La stima più attendibile supera i 300 milioni di euro di arretrati storici verso la sola Pa.
I vincolo di bilancio stanno mettendo in ginocchio anche gli architetti.
Qui i tempi di attesa superano i 200 giorni (erano 129 nel 2010 e 90 nel 2006); e, stando ai dati, il 32 per cento degli studi è creditore dello Stato.
Il meccanismo è semplice: il Comune chiede un progetto, salvo poi bloccarlo per non sforare il patto di stabilità . E così gli arretrati sono cresciuti a dismisura.
Nel variegato bestiario dei creditori la menzione di merito va però ai docenti a contratto nelle università  italiane: un esercito di 26 mila persone (dati 2013, ma i numeri sono in crescita), asse portante di un sistema che ne abusa da anni.
Per aggirare i vincoli al turn over gli atenei di tutta Italia ricorrono sempre più spesso ai contratti precari: sei mesi o un anno, cioè la durata di un corso, esami compresi.
Il costo si aggira tra i 50 euro lordi orari della Sapienza e i 25 di Pescara, il minimo legale per corsi che in media non superano le 75 ore l’anno (900 euro netti).
“In molte università , soprattutto private — spiega Luisa Paternicò, docente a contratto di Cinese alla Unint di Roma — rappresentano l’80 per cento dei docenti. Purtroppo in quelle pubbliche i ritardi arrivano fino a un anno. A volte non pagano proprio o bandiscono contratti gratis”. “Visto che devi fare il pendolare     — spiega Oliviero, contrattista a Milano — in pratica ci perdi solo soldi, perchè non hai rimborso spese: lo fai per la gloria e il curriculum”.
Se decidessero di incrociare le braccia per riavere indietro decine di milioni — calcolano le associazioni — gli atenei non potrebbero neanche aprire.
Stesso discorso per la scuola, dove le supplenze vengono pagate con ritardi fino a sei mesi (500 milioni l’arretrato), e la Cgil Toscana, esasperata, ha chiesto agli insegnanti di mandare le bollette direttamente a Matteo Renzi.

Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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