Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
MORETTI E LA PORNOSTAR, ACCOSTATI DUE MANIFESTI: “INVOLONTARIE SIMMETRIE”
La foto di un manifesto elettorale di Alessandra Moretti con a fianco ragazze mezze nude che pubblicizzano serate hard in un locale.
L’immagine è stata ‘postata’ su uno dei profili ufficiali di Matteo Salvini.
“Involontarie simmetrie, io scelgo Zaia”, commenta Luca Morisi, con riferimento all’accostamento tra il manifesto della candidata del centro-sinistra alle regionali venete e la foto delle “pornostar”.
Morisi è lo spin doctor che gestisce la comunicazione del segretario federale della Lega Nord e il ‘post’ è stato pubblicato sulla pagina ‘Matteo Salvini leader’.
Il post ha avuto anche l’apprezzamento del senatore della Lega Nord Gian Marco Centinaio, che ha messo “mi piace”.
Ma hanno scatenato polemiche gli insulti sessisti a corredo del post: ” Almeno si guadagnerebbe il pane se facesse quel lavoro”,
“Dai che forse ha trovato la sua vera vocazione….”.
E via peggiorando.
Pura classe padagna da maschilisti frustrati
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
PER ADESSO LA FOLLA È QUELLA DEGLI OPERAI, RADDOPPIATI DA TRE A SEI MILA
Niente collaudi, per le strutture di Expo: non c’è tempo. 
Il programma prevedeva che i progetti dei padiglioni fossero presentati entro marzo 2014 e che la loro costruzione fosse ultimata per fine marzo 2015.
Poi l’ultimo mese prima dell’apertura dei cancelli avrebbe dovuto essere dedicato ai collaudi finali.
Invece il programma è saltato, gran parte dei padiglioni sono ancora in costruzione e i lavori finiranno, nel migliore dei casi, a fine aprile 2015.
Dunque, per i collaudi non c’è tempo.
Il segnale d’allarme lo ha dato Susanna Cantoni, direttore del dipartimento prevenzione dell’Asl di Milano: “Faremo i collaudi tramite autocertificazione, poi procederemo con verifiche a campione”.
Bisognerà insomma fidarsi delle dichiarazioni dei progettisti, i quali dovranno certificare che il loro lavoro è fatto bene: come chiedere all’oste se il vino è buono.
Il commissario Expo Giuseppe Sala è ottimista: “Per il 1° maggio tutti i Paesi avranno terminato la costruzione. Ci saranno quattro o cinque casi in cui si continuerà a lavorare per qualche giorno alle finiture interne”.
Salteranno però i collaudi. Servono a certificare l’idoneità delle strutture e la loro corrispondenza al progetto.
Lo straordinario ritardo con cui sono partiti i lavori ha però reso necessarie molte modifiche in corsa: che cosa succederà se nei controlli a campione che verranno fatti si riscontreranno discrepanze tra progetto e opera terminata?
Verrà chiuso il padiglione?
“A questo punti tutte le responsabilità ricadranno sui progettisti”, spiega Antonio Lareno, responsabile del progetto Expo per la Cgil.
“Va considerato”, spiega il sindacalista, “che qui dovrebbero essere fatti non soltanto i collaudi statici, quelli sull’abitabilità delle strutture. Ci saranno anche 200 ristoranti, con acqua, scarichi, elettricità , fuochi, condizionatori, problemi di conservazione e smaltimento degli alimenti”
Se c’è però un aspetto dell’Expo a cui va riconosciuta una buona gestione, è quello della sicurezza sul lavoro.
L’Inail, l’Istituto nazionale per la sicurezza contro gli infortuni, aveva calcolato che per un evento come Expo si rischiavano 20 mila infortuni.
Grazie alla collaborazione tra Expo spa e sindacato, il numero e l’entità degli incidenti, che pure non sono mancati, sono stati molto al di sotto delle medie statistiche: finora 93 infortuni sul lavoro, di cui solo sette gravi.
Ora però il rischio è che, nel finale, per evitare brutte figure, si sorvoli sulla sicurezza dell’esposizione.
Anche se Susanna Cantoni della Asl, come riportato ieri da Repubblica, esibisce tranquillità : “Le autocertificazioni sono un atto serio, chi firma si prende la responsabilità ”.
E poi i controlli sono stati continui, durante i lavori: “Proprio per garantire una maggiore sicurezza, i progetti sono stati esaminati da una commissione di vigilanza integrata che ha riunito tutti i protagonisti, dai Comuni ai vigili del fuoco fino ai tecnici Expo”.
Ora nel sito i lavoratori sono raddoppiati, passando nell’ultima settimana da 3 mila a 6 mila, attivi su 200 cantieri in cui oggi operano 112 auto-gru.
Intanto è stata avviata un’ennesima operazione di retorica buonista, sul fronte della comunicazione: quella sulla “Carta di Milano”.
È, per ora, la bozza di un “Protocollo di Milano” sulla nutrizione, catalogo di buoni propositi da sottoporre alla firma dei visitatori di Expo e dei rappresentanti dei Paesi partecipanti, con l’obiettivo di farlo sottoscrivere da 20 milioni di persone per poi consegnarlo all’Onu.
È, in realtà , un testo uscito dagli uffici del Barilla Center for Food & Nutrition, ora all’esame del Comitato scientifico di Expo.
Vi si legge che “le Parti si impegnano a eliminare la fame e la malnutrizione”.
Proposito impegnativo. L’accordo comunque non è vincolante.
La bozza sarà presentata oggi a Palazzo Vecchio di Firenze e punta a riuscire là dove hanno fallito i “Millenium Development Goals”, impegni assunti dalle Nazioni Unite che scadono proprio nel 2015.
Gianni Barbacetto e Marco Maroni
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
ENTRO FINE ANNO BISOGNERA’ TROVARE 16 MILIARDI PER EVITARE GLI AUMENTI DI TASSE PREVISTE DALLA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA
Sarà che il capitolo più facile da tagliare, il welfare, è il più impopolare.
Mentre far calare la scure su quelli più difficili causerebbe troppe resistenze.
E, come il premier Matteo Renzi non manca mai di ricordare, la spending review è una scelta politica.
Fatto sta che da una trentina d’anni i governi italiani tentano di ridurre la spesa pubblica, ma i risultati parlano da soli: nel 1990 le uscite complessive dello Stato, contando anche gli interessi sul debito, ammontavano (in euro e al cambio attuale) a circa 340 miliardi, nel 2000 sono salite a 549 e nel 2014 sono lievitate a 825 miliardi.
“Colpa”, stando ai dati della ragioneria generale dello Stato, di pensioni e altre prestazioni sociali ma soprattutto della voce “amministrazione generale, vale a dire il costo sostenuto per beni e servizi acquistati dalla pubblica amministrazione.
Ora, dopo il ritorno di Carlo Cottarelli al Fondo monetario internazionale, Renzi ci riprova nominando un altro commissario ad hoc.
Il prescelto è Yoram Gutgeld, deputato Pd e consigliere della prima ora del premier. Da adesso in poi sarà l’ex partner della società di consulenza McKinsey, che dall’anno scorso siede nella “cabina di regia economica” di Palazzo Chigi, a proporre dove utilizzare le forbici per limare le uscite di ministeri, amministrazioni locali ed enti previdenziali. Un’impresa da far tremare le vene dei polsi, visto l’esito dell’azione dei predecessori.
Da Giarda a Cottarelli una lunga sequenza di tentativi falliti
In principio furono le Commissioni tecniche per la spesa pubblica, la prima in attività dal 1986 al 2005 ​sotto la guida di Piero Giarda ​e la seconda operativa ​dal 2007 al 2008​ per volere dell’allora ministro Tommaso Padoa Schioppa.​
Mario Monti nel 2012 ha provato a mettere in campo, a fianco dello stesso Giarda nominato nel frattempo ministro per i rapporti con il Parlamento, addirittura il tridente Giuliano Amato – Enrico Bondi – Francesco Giavazzi: l’ex premier e giudice costituzionale si è occupato di analizzare i finanziamenti ai partiti, l’ex commissario straordinario di Parmalat e dell’Ilva ha proposto un piano di razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi e l’economista della Bocconi ha messo a punto raccomandazioni sui contributi alle imprese.
Ma solo sul primo aspetto è intervenuta una legge ad hoc che elimina in maniera graduale i contributi pubblici, pur continuando a prevedere corpose agevolazioni fiscali.
Dimessosi Bondi, è stata la volta del ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, rimasto in carica solo cinque mesi a cavallo dell’avvicendamento tra Monti ed Enrico Letta.
Quest’ultimo per affrontare il problema ha chiamato in Italia da Washington Cottarelli, che ha finito il lavoro sotto il nuovo esecutivo.
Giusto il tempo di presentare il piano per disboscare la “giungla” delle società partecipate, ancora inattuato, e l’economista ha avuto il benservito da Renzi e se ne è tornato all’Fmi.
Intanto le spese dello Stato continuano a lievitare
Ed ecco gli esiti: in base agli ultimi Documenti di economia e finanza (Def) le spese correnti, al netto di quelle in conto capitale e degli interessi passivi sul debito pubblico, si sono impennate dai 661 miliardi del 2009 ai 681 del 2014.
In mezzo, nel 2011 e 2012, c’è stato un lieve calo, ma l’illusione è durata poco.
E per il 2015 è previsto un altro aumento a 689,8 miliardi.
Per di più, stando alle stime del governo, non andrà meglio nemmeno negli anni successivi, quelli che dovrebbero segnare il decollo della ripresa produttiva e di conseguenza essere caratterizzati da un minor ricorso agli ammortizzatori, sgonfiando così il capitolo prestazioni sociali.
Nel 2016 l’esborso complessivo è visto in salita a 699 miliardi, per toccare i 711 nel 2017. In quell’anno l’impatto sul pil dovrebbe calare dal 42,9% del 2014 al 41,1%, ma solo grazie al previsto aumento del prodotto.
Sempre che il governo non riesca a mettere a segno i risparmi indicati nel Def dello scorso anno: fino a 17 miliardi quest’anno e 32 nel 2016.
Il nuovo Documento è atteso entro dieci giorni e sarà la cartina di tornasole delle intenzioni dell’esecutivo.
Indispensabili 16 miliardi di tagli per evitare aumento dell’Iva
Intervenire è urgente. Perchè entro fine anno la “priorità assoluta”, come confermato da Gutgeld in un’intervista a Repubblica subito dopo la nomina, è togliere di mezzo la spada di Damocle che incombe sulle prospettive di ripartenza dell’economia: le clausole di salvaguardia con cui, come ricordato di recente dalla Corte dei Conti, le ultime manovre finanziarie hanno sostituito i tagli di spesa, rinviandoli al futuro.
Si tratta di postille che dispongono aumenti automatici di accise e aliquote nel caso in cui le previsioni dell’esecutivo sul gettito o, appunto, sui risparmi da razionalizzazioni della spesa si rivelino troppo ottimistiche. In mancanza di interventi, nel 2016 sommando le clausole delle leggi di Stabilità di Letta e di Renzi scatteranno ritocchi all’insù dell’Iva e delle accise sui carburanti per un ammontare di oltre 16 miliardi.
Occorre dunque trovarne altrettanti con misure sostitutive.
E l’esecutivo conta di poter inserire un capitolo ad hoc nel prossimo Def, atteso per aprile. Poi l’impresa promette di diventare ancora più difficile: per il 2017 e 2018 dovranno essere reperiti rispettivamente 25,5 e 28,2 miliardi.
Al via sulla carta i tagli alle partecipate. Interventi timidi su prefetture e polizia –
Gutgeld non partirà da zero. Il deputato di origini israeliane ha ribadito quel che il ministro Pier Carlo Padoan assicura da un mese: i dossier fantasma di Cottarelli “saranno presto resi pubblici” e anche da lì verranno tratte indicazioni. Diverse proposte dell’ex commissario sono state già archiviate (vedi il piano “città buie“) ma l’intervento sulle partecipate, almeno sulla carta, procede.
Alcune misure di riordino, come il commissariamento di quelle in rosso, sono state inserite nella riforma della Pa di Marianna Madia, attesa in aula al Senato il 2 aprile dopo mesi di stallo in Commissione.
Entro fine mese governatori, presidenti delle province, sindaci e vertici di università e Camere di Commercio dovranno approvare un piano con i dettagli del programma di razionalizzazione che intendono portare avanti e i risparmi previsti. Sempre nel ddl pa sono poi entrati la razionalizzazione delle Prefetture, che da 110 scenderanno a 40-70 e verranno in parte assorbite dai nuovi Uffici territoriali dello Stato, e dei corpi di polizia, che scenderanno da cinque a quattro (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Penitenziaria) in seguito all’abolizione della Forestale.
Stop poi alle sovrapposizioni tra ministeri e authority indipendenti.
E il Consiglio dei ministri di venerdì ha varato un nuovo decreto sui costi e fabbisogni standard di Comuni e Regioni in una serie di settori (dall’istruzione alla gestione del territorio) con l’obiettivo di ridurre l’eccessiva variabilità delle uscite.
Nel Def dovrebbe infine essere messo nero su bianco l’ammontare delle risorse che il governo punta a recuperare con la dismissione degli immobili pubblici.
E’ invece in un ddl ad hoc la razionalizzazione del trasporto pubblico locale, con l’obbligo di gare per l’affidamento del servizio e un taglio delle risorse alle Regioni che non lo rispettano.
Pensioni e sanità di nuovo nel mirino
Sulle pensioni, come confermato dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti e dal presidente dell’Inps Tito Boeri, si attende a breve un nuovo intervento per dare la possibilità a chi lo vuole di lasciare il lavoro in anticipo accettando un assegno ridotto.
Gutgeld e lo stesso Boeri hanno anche auspicato il ricalcolo con il metodo contributivo delle “vecchie” pensioni retributive e una pesante tassazione della parte non dovuta sulla base dei contributi versati.
Parlando con il quotidiano di Largo Fochetti, il deputato Pd spiega che “la decisione politica è stata di non riaprire” la questione, ma sembra propenso a intervenire sulla “frammentazione” dell’assistenza sociale tra Inps, Comuni e aziende sanitarie locali, perchè oggi “finisce che alcuni godono di tre prestazioni, altri di nessuna”.
Un altro capitolo di spesa nel mirino è quello della sanità : anche qui secondo Gutgeld la parola d’ordine è “costi standard”.
La titolare Beatrice Lorenzin ha detto che “gli esami diagnostici inutili legati alla medicina difensiva costano all’Italia 13 miliardi di euro l’anno” e il ministero sta lavorando a “protocolli stringenti che evitino gli sprechi”.
Secondo Lorenzin ci sono poi spazi di intervento anche nell’ambito dei ricoveri, spesso troppo lunghi. Come evidenziato dalla Corte dei Conti, però, la distanza tra una riduzione virtuosa della spesa e un peggioramento dei servizi ai cittadini è breve. Infine, è noto che Gutgeld è scettico sulle grandi opere come il Tav.
“Di fatto comportano una redistribuzione di risorse da chi ha pagato le tasse ai costruttori”, ha detto poche settimane fa durante un convegno a Milano.
Aprendo all’idea di imporre al Cipe un’analisi costi-benefici per verificare l’opportunità di investire miliardi in quel progetto.
Chiara Brusini
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
I CASI DELLA CAMPANIA, DI ENNA E DI AGRIGENTO
Prima scena: Campania, primarie del Pd per il candidato governatore.
Il primo sfidante è il
bassoliniano Andrea Cozzolino, che nel 2011 da candidato sindaco aveva causato l’annullamento delle primarie del Pd per la massiccia presenza di cinesi al seggio, con conseguente dèbà¢cle del partito e vittoria di De Magistris: dunque merita un’altra chance. L’altro è il sindaco (per quattro volte) di Salerno, il deluchiano Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio, prescritto per smaltimento abusivo di rifiuti, imputato in altri processi per associazione a delinquere, truffa, peculato e abusi vari, decaduto per la legge Severino ma reintegrato dal Tar, però di nuovo decaduto perchè da sindaco faceva pure il sottosegretario di Letta: l’uomo giusto al posto giusto per sfidare Caldoro che l’aveva già trombato quattro anni fa.
Stravince, almeno alle primarie, De Luca. A quel punto nel Pd scoprono all’improvviso ciò che sapevano tutti anche prima: e cioè che, se De Luca fosse eletto governatore, appena poggerà il culetto sulla poltrona dovrebbe sloggiarne per la decadenza ex legge Severino.
Qualcuno pensa di cambiare la Severino ad hoc, escludendo l’abuso d’ufficio dalla lista dei reati causa di decadenza, ma non si fa a tempo.
Così ora i cervelloni del Nazareno stanno confabulando su altre soluzioni, una più geniale dell’altra: convincere De Luca a “fare un passo indietro” candidare un altro, senza primarie, contro il vincitore delle primarie (tipo il magistrato Cantone, che però ha declinato, o il ministro Orlando, che è come le piante grasse: dove lo metti sta); oppure non fare campagna elettorale a De Luca, lasciandolo al suo destino per la gioia di Caldoro.
La vicesegretaria Serracchiani spiega che, in fondo, “alle primarie hanno votato in 140 mila persone che conoscevano la condizione di De Luca”.
Già , per questo esistono i partiti: per selezionare le candidature migliori, possibilmente escludendo condannati, decaduti e incompatibili, per evitare che venga eletto uno che non può ricoprire la carica a cui concorre.
Ma — udite udite — il codice etico del Pd va “allineato alla legge Severino”: che è stata approvata nel novembre 2012, ma il Pd in due anni e mezzo s’è scordato di stabilire che i condannati in primo grado non possono candidarsi.
Complimenti vivissimi.
Seconda scena: Enna, elezioni comunali.
Il Pd, che per statuto si è imposto di selezionare i propri candidati con le primarie, decide che lì non è il caso.
Isuoi massimi dirigenti nell’isola, Fausto Raciti e Marco Zambuto, rispettivamente segretario e presidente regionale, che con l’uomo forte e sottosegretario di Renzi Davide Faraone hanno appena imbarcato una vagonata di forzisti, cuffariani e lombardiani, si recano in pellegrinaggio a Enna per implorare il segretario provinciale Mirello Crisafulli di candidarsi a sindaco.
“Le eventuali opposizioni dovranno essere solo sul piano politico, su altri piani non potranno essere accettate”, dichiara Raciti.
E pazienza se alle ultime elezioni politiche, nel 2013, la commissione di garanzia presieduta da Luigi Berlinguer aveva escluso Crisafulli dalle liste in quanto impresentabile per le frequentazioni (celebre l’abbraccio con l’amico boss Raffaele Bevilacqua) e per i guai giudiziari: l’ultimo un’accusa di abuso d’ufficio per aver fatto asfaltare con fondi della Provincia la strada per casa sua, appena caduta in prescrizione. “A Enna vinco col proporzionale, col maggioritario e anche col sorteggio”, dice sempre Mirello.
Il quale, lusingato dal corteggiamento, accetta: “Mi candido”.
A quel punto i geni del Nazareno scoprono ciò che tutti sanno benissimo e, siccome i giornali ne parlano, fanno la faccia malmostosa.
La soluzione è strepitosa: il vicesegretario Guerini gli dice “dai, fai il bravo”, la vicesegretaria Serracchiani auspica “che decida di non presentarsi”, ma nessuno gli spiega il perchè, visto che è perfettamente in linea con la Severino e persino con il codice etico (quello “non aggiornato”), e soprattutto nessuno fece un plissè un anno fa, quando fu eletto segretario provinciale a Enna col voto del 90% degli iscritti.
In che senso Mirello è perfetto come segretario e impresentabile come sindaco?
Lui infatti manda tutti a quel paese: “Faccio un passo indietro solo se mi fanno ministro o sottosegretario, tanto c’è chi è peggio di me”.
Tipo i cinque sottosegretari indagati, fra cui il suo allievo Faraone. Fantastico.
Terza scena: Agrigento, elezioni comunali.
Qui il Pd le primarie le fa, ma aperte a una lista di Forza Italia sotto mentite spoglie.
Si chiama “Patto per il Territorio”, fondata e guidata da Riccardo Gallo, parlamentare forzista e vice coordinatore siciliano del partito fondato da B. & Dell’Utri.
Il candidato forza-renziano è un suo fedelissimo, Silvio Alessi. Il presidente regionale del Pd Zambuto, ex sindaco agrigentino, cresciuto nella Dc e poi nell’Udc di Cuffaro, due anni fa folgorato sulla via di Renzi e, con la casacca del Pd, candidato (invano) dal Pd alle Europee 2014 ed eletto presidente del partito, non fa una piega.
Poi però i giornali titolano “Forza Italia vince le primarie del Pd” e a Roma qualcuno si sveglia fuori tempo massimo: allora i renziani di Agrigento (fra cui Zambuto) chiedono di annullare le primarie, anche se nessuno ha denunciato irregolarità . ù
La Serracchiani ordina di “cercare una nuova candidatura” e chissenefrega delle primarie: si parla di un tal Calogero Firetto, deputato regionale Udc: di bene in meglio.
Fabrizio Barca, data un’occhiata al Pd romano dopo Mafia Capitale, lo definisce “cattivo, dannoso e pericoloso” perchè “lavora per gli eletti e non per gli elettori”.
E nel resto d’Italia?
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
“ABBIAMO GIA’ PIU’ CONSENSO DEL GOVERNO”… PRESENTE TUTTA LA SEGRETERIA CGIL COMPRESA LA CAMUSSO E PEZZI DELLA SINISTRA PD, DA CUPERLO A FASSINA A CIVATI
“Oggi inizia una nuova primavera: Renzi stia tranquillo che noi abbiamo più consensi del governo”. Sono le parole pronunciate dal segretario della Fiom Maurizio Landini arrivando alla manifestazione organizzata da Coalizione sociale nel centro di Roma. E’ partita da piazza della Repubblica a Roma la manifestazione nazionale indetta dalla Fiom contro il Jobs act, per “i diritti, il lavoro, la democrazia”.
Si stima che le presenze siano circa 50mila.
Ci sono tra gli altri Pippo Civati, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Stefano Fassina e Nichi Vendola. In piazza anche la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, che chiede “un piano per il lavoro”.
Il leader dei metalmeccanici della Cgil insiste nel ribadire l’intenzione di mettere insieme tutti i lavoratori: lo slogan per oggi infatti è “Unions”, “perchè noi vogliamo unire — dice Landini — tutto quello che il governo sta dividendo”.
Manifestazione politica? “Si, certo”, risponde lui. “La novità vera e importante di questa manifestazione è che c’è tutta la segreteria della Cgil”, ha annotato Landini.
“Pensiamo di avere più consenso di quello che ha il governo”, ha detto in apertura del corteo Landini, lanciando il guanto di sfida a Renzi su un terreno a lui molto sensibile come il gradimento popolare.
“Vogliamo davvero cambiare questo paese ma rappresentando gli interessi di chi lavora: oggi è una nuova primavera”, ha dichiarato.
Landini preme il gas e lo rilascia, strappa e ricuce. “Non siamo in piazza per difendere cose che non ci sono più, anche perchè ci hanno tolto tutto. E Renzi stia tranquillo, non siamo qui contro di lui, ma abbiamo l’ambizione di proporre idee per il futuro dell’Italia”.
A stretto giro, poi, ripartono gli attacchi all’esecutivo e a chi lo sostiene: “Il governo e Confindustria vogliono solo rendere il lavoro una merce, come era nell’800″, afferma il leader della Fiom.
E si registra la risposta, a tratti sprezzante, dello stesso Renzi: “La Fiom in piazza? E’ l’ennesimo corteo”.
La replica però arriva proprio dalle fila della sinistra critica presente alla manifestazione. “Sono qui come parlamentare di una parte del Pd — risponde Stefano Fassina — c’è un pezzo importante di popolo che dobbiamo rappresentare. Del Pd siamo pochi ma il Pd non è fatto solo dai gruppi parlamentari e da Matteo Renzi e dispiace che Renzi tratti questa manifestazione con disinvoltura, come l’ennesima parata”.
“Se vuoi risolvere i problemi, devi fare milioni di assunzioni. Il problema non sono quelle di gennaio e febbraio”. Sono state queste le prime parole di Maurizio Landini, arrivando a piazza della Repubblica di Roma per la manifestazione della Fiom.
Intenso l’intervento di Stefano Rodotà .
“Oggi è una giornata diversa dalle altre, un fatto che inquieta. Qui non stiamo disturbando un manovratore ma va riconosciuta la dignità dei lavoratori, garantire l’esistenza dignitosa è un obbligo costituzionale. Ai lavoratori va bene che venga riconosciuto diritto di presenza e parola in tutte le situazioni. Ciò che va bene per i lavoratori va bene per l’Italia. Questa è la frase che dobbiamo dire oggi” dice dal palco di piazza del Popolo.
“Se oggi c’è una frase che dovrebbe inquietare tutti è ‘Non ci sono alternative’ perchè vuol dire che la democrazia è mutilata. Oggi insieme stiamo cercando di costruire un futuro che non è quello che ci viene promesso in questo momento” continua.
“E sul premier, ancora: “Renzi che respinge con una certa sufficienza parlando di ‘pigrizia del professorone’ dico che io sono così poco pigro che sono qui con le stampelle. E’ un segno di inferiorità l’uso di questo termine”.
Parole anche sul Jobs Act: “Se la Costituzione dice che il lavoro è il fondamento della democrazia, anche le risorse devono essere distribuite con questa gerarchia costituzionale”.
“La passività – conclude – è l’anticamera della resa e non mi pare che qui ci siano persone disposte ad arrendersi”.
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
E TRA SILVIO E SALVINI ALLEANZA A LORO INSAPUTA
Correranno insieme, ma finora non si sono mai fatti vedere insieme. 
Berlusconi e Salvini sembrano alleati a loro insaputa.
È una trovata elettorale? Un esperimento politico? Di sicuro non è una novità .
Quando Monti scese in campo con Scelta civica, si negò persino alla foto con Fini e con Casini. Tutti sapevano cosa pensasse a quei tempi il professore dei suoi compagni di strada (ricambiato), e tutti sanno cosa pensano oggi l’uno dell’altro il leader di Forza Italia e il segretario della Lega.
Per Berlusconi «Salvini è un problema». Per Salvini «Berlusconi è cotto». Tuttavia troveranno un’intesa in vista delle Regionali, sebbene proprio l’ossessione di vedersi come carbonari, di smentire incontri realmente avvenuti, di scivolare via dai luoghi dove sono stati appena colti insieme, rende manifesta la distanza tra i due.
Anche ieri, appena si è sparsa la voce di un loro rendez vous serale, in tanti si sono affannati a spiegare che non era vero. Quasi a voler preservare entrambi dall’idea di una possibile mescolanza.
C’era una volta il centrodestra, oggi non c’è nemmeno una posa sorridente da offrire alla stampa.
D’altronde non c’è sorriso sul volto di Berlusconi, che impreca all’oltraggiosa fortuna riservatagli dagli eventi, e deve convivere con gli sbalzi d’umore.
Infatti non è per farsi desiderare se prende tempo quando lo invitano alle manifestazioni: «Purtroppo ho la febbre», ripeteva ancora ieri sera.
Nel 2006 aveva il colpo della strega, eppure alla fine andò a Vicenza a sfidare i vertici di Confindustria, e il suo famoso balzo sulla sedia mandò in visibilio la platea degli imprenditori.
Fu l’inizio di una clamorosa rimonta elettorale su Prodi, quasi completata. «Lasciatelo in pace quell’uomo», replica ogni volta in sua difesa Confalonieri, a chi gli chiede che l’amico faccia un altro scatto.
Lo specchio magico che Berlusconi aveva costruito, e in cui ogni giorno si rimirava per sentirsi dire che era il più forte, si è frantumato.
E oggi sono in tanti a specchiarsi in quei mille frammenti, pensando di poter ascoltare di se stessi la stessa cosa.
Nella sede di Forza Italia non c’è nemmeno più il centralinista, nei gruppi di Forza Italia si attende una nuova diaspora.
Resta da capire – e non è cosa da poco – se sono i parlamentari a volersene andare o se è il leader che se ne vuole andare.
Con Fitto, per esempio, il capo fa mostra di volerlo «fuori dalle scatole», così ha detto: «Per i suoi candidati assicuriamo dei posti alle Regionali. Si accontenti, se crede».
È una mossa dettata da un disegno o un segno di sconforto?
E siccome Berlusconi resta (ancora) Berlusconi, i dirigenti azzurri continuano ad analizzare i suoi comportamenti, come un tempo: forse vuol costringere Fitto a rompere per farlo contare nelle urne, addebitargli le cause della sconfitta alle elezioni, e non permettergli di lucrare dall’interno del partito sul (quasi certo) risultato negativo di Forza Italia.
Quanto al possibile gruppo autonomo di Verdini, c’è chi la considera una diabolica trovata, per mantenersi un tramite con Renzi e un surrogato del vecchio patto nazareno.
«Ma se si fanno andar via tutti questi parlamentari, poi chi rimane?», si è domandato Romani, chiedendo urgentemente udienza al capo.
Per il capo vige oggi il motto «meglio pochi ma fedeli», e tra quei pochi c’è la Carfagna, che Berlusconi medita di porre al vertice del partito per offrire il segno tangibile del cambio generazionale.
Si vedrà se il visionario avrà una nuova visione, e cosa ne sarà – per esempio – del rapporto con il Partito popolare europeo che Tajani riunisce nella capitale per discutere sulla «capacità di aggregare» del centrodestra italiano.
Per il momento è in atto un processo di scomposizione. È vero, da qualche parte bisogna pur ricominciare, il punto è che molti si ritrovano dopo essersi appena divisi.
Al centro Ncd e Udc – pronti a fondersi in Area popolare – discutono con Tosi, che ha appena divorziato da Salvini, su come costruire un rassemblement di moderati, mentre la destra che fu An riunisce oggi dieci sigle a discutere di «Terza Repubblica»…
La verità è che Renzi li ha fatti tutti prigionieri, e la politica è stremata al punto tale che, con la sola voce contraria di Brunetta, al premier è consentito «meditare» – senza che la cosa meni tanto scandalo – se porre o meno la fiducia in Parlamento addirittura sulla legge elettorale. «L’avessi detto io, sarebbe scoppiata la guerra mondiale», dice Berlusconi.
È vero, ma il premier gli ha strappato le sue parole d’ordine: ha portato il suo Pd a sinistra con l’ingresso nel Pse, e ha spostato a destra il suo governo con il Jobs act, la responsabilità civile dei magistrati e ora pure con la riforma delle intercettazioni.
Al leader di Forza Italia non resta che aggrapparsi a Salvini, che ancora ieri però lo insolentiva: «Chi mi ama mi segua». Ed è chiaro a cosa miri il segretario del Carroccio, ed è per questo che agli occhi di Berlusconi resta insopportabile.
Perciò finora non si sono mai fatti vedere insieme, anche se correranno insieme: alleati a loro insaputa.
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
LARGHE INTESE IN DUE GIORNI TRA IL RESPONSABILE DELL’UFFICIO DI DIRIGENZA DI FORZA ITALIA E IL PRESIDENTE PD DEL CONSIGLIO REGIONALE CALABRESE
Da dirigente berlusconiano a megafono del Pd, in due giorni.
Nella stagione delle larghe intese, quella di Giampaolo Latella è una vicenda esemplare: è stato dirigente di Forza Italia per circa un anno e subito dopo portavoce del Partito democratico.
Siamo in Calabria, dove il 36enne di Reggio, a gennaio scorso dopo la vittoria del Pd in Regione, viene incaricato, dal neo presidente del consiglio Antonio Scalzo, di diffondere la sua attività politica.
È lo stesso Latella che, da marzo 2014, è anche capo della comunicazione di Forza Italia Calabria.
È un ragazzo fortunato il neo comunicatore dei democrat calabresi: se da una parte diffonde il verbo di Scalzo, dall’altra risulta tutt’ora dirigente del partito di opposizione guidato dalla berlusconiana Jole Santelli.
Infatti, stando all’organigramma azzurro regionale, compare ancora membro dell’ufficio di presidenza.
“Ho sciolto ogni contratto con Fi due giorni prima di firmare quello con il Pd”, precisa Latella. E sul ruolo di dirigente del partito calabrese dice: “Sono stato inserito formalmente nell’organigramma politico ma ho solo elaborato comunicati stampa”.
Ma questa è soltanto l’ultima di una serie di anomalie, trasversalità e casualità che riguardano la brillante carriera del giovane Latella.
Lui, il ruolo di portavoce lo ha già ricoperto.
La prima volta è nel 2005, in Calabria vince il centrosinistra di Agazio Loiero e il nuovo presidente del consiglio, Giuseppe Bova, cugino della madre di Giampaolo, lo sceglie appena trentenne, per il delicato ruolo di portavoce.
Delicato e ben remunerato: 600mila euro per tutta la legislatura.
Nel 2010, la vittoria del centrodestra di Giuseppe Scopelliti, impone a Latella una temporanea battuta d’arresto dall’incarico pubblico di portavoce.
Un periodo di tempo durante il quale fonda la sua società , la Labecom, un’agenzia giornalistica locale, di cui è direttore responsabile.
Nel 2014, la Santelli lo chiama, per dirla con le parole di Latella, come “spin doctor” della costola calabrese di Forza Italia. “Un grande riconoscimento e una grande responsabilità ”, commentava il giovane reggino fresco di nomina. Ringraziava anche il suo epigone, Silvio Berlusconi da lui riconosciuto come grande comunicatore: “Silvio Berlusconi ha rivoluzionato la comunicazione politica in Italia — affermava il neo forzista Latella — e con essa le dinamiche di questa professione e del Paese”.
Ma, soltanto dieci mesi dopo aver cantato le lodi dell’ex cavaliere, lascia Forza Italia per tornare in casa Pd, di nuovo come portavoce, alle dirette dipendenze di Scalzo e con una retribuzione sempre di 117mila euro l’anno.
Ma chi è questo giovane professionista che, a soli 36 anni ha già maturato un curriculum così notevole?
La passione giornalistica Latella ce l’ha nel sangue: è figlio d’arte. Suo padre Antonio è stato per anni ufficio stampa del Comune di Reggio Calabria, poi portavoce del Presidente della provincia di Reggio Calabria Giuseppe Raffa, quota Forza Italia.
I Latella contano negli enti pubblici un altro membro stretto della famiglia: Angela, figlia di Antonio quindi, sorella di Giampaolo.
Durante il governo Loiero, entra in Regione con il cosiddetto concorsone che assume a tempo indeterminato un centinaio di nuovi dipendenti.
Anche Angela è giornalista e occupa una casella nell’ufficio stampa del consiglio. Al pari di suo fratello, risulta nella gerenza di Labecom, l’agenzia di comunicazione e marketing creata dal fratello Giampaolo nel 2011 che vanta clienti importanti tra i quali, per citarne qualcuno, compaiono Confindustria, Ance e Coni.
Giampaolo, a tre mesi dal prestigioso incarico di portavoce di Scalzo è ancora direttore responsabile di Labecom.
“A breve rassegnerò le dimissioni. Il tempo di chiudere il bilancio della società ”, assicura.
C’è un conflitto tra i due ruoli che deve sanare. Infatti, secondo quanto dispone la legge 150 del 2000 che disciplina le attività d’informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, i due incarichi sono incompatibili: chi svolge l’attività di portavoce — si legge nell’articolo 7 — “non può, per tutta la durata del relativo incarico, esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche”.
Latella sostiene che il core business della Labecom è il “marketing e la comunicazione per le aziende”, ma la sua creatura è a tutti gli effetti una testata giornalistica registrata.
Loredana Di Cesare
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
BENEDETTA TOBAGI, CONSIGLIERA RAI: “COSI’ SI PASSA DALLA PADELLA ALLA BRACE, L’AD NOMINATO DALL’ECONOMIA SARA’ UNA SORTA DI FIDUCIARIO”
«Non è una riforma, è un ritocco. Che per di piu, fa passare la Rai dalla padella nella brace ».
Benedetta Tobagi non nasconde i suoi dubbi sul ddl di riforma della televisione pubblica: «Sul sito internet del governo trovo quattro paginette generiche e non le linee guida della legge. Non c’e neanche una parola sul quadro di sistema e sui conflitti di interessi. E dal comunicato di Palazzo Chigi, quel che emerge e una Gasparri con il rafforzamento della mano dell’esecutivo » .
Matteo Renzi ha detto che se avesse voluto che il governo mettesse le mani sulla Rai, gli sarebbe bastato lasciar tutto cosi com’e . E che invece, ha voluto liberarla dalle pressioni dei partiti. Non crede sia cosi?
«Vedo le agenzie che dicono ‘via i partiti via i partiti’. Forse mi sono persa qualcosa: in Parlamento ci sono i partiti, il governo e espressione di un partito o di una coalizione. Non solo resta il controllo politico, ma si rafforza il ruolo del governo».
Ma la maggioranza del cda è eletta dal Parlamento . Non basta a bilanciare l’indicazione dell’ amministratore delegato, che — spiegano a Palazzo Chigi — non può che essere in carico all’azionista?
«Provi a immaginare: 7 membri, tra cui 2 dell’esecutivo e 4 di emanazione parlamentare. In questo quadro, alle opposizioni ne andranno al massimo due. Poi ci sara quello nominato dai dipendenti, che mi chiedo cosa possa fare in un consiglio formulato in questo modo».
Non lo considera un passo avanti?
«Chiunque abbia lavorato in Rai sarebbe d’accordo con me nel dire che la cosa piu sana che si potrebbe fare sarebbe attenuare il controllo politico, in modo che dipendenti e dirigenti non si trovino piu a essere penalizzati dal fatto che troppe persone entrano in Rai e fanno carriera grazie a sponsor o padrini politici».
La preoccupa il. legame tra ad con pieni poteri e governo?
«Si parla di un amministratore delegato nominato dal consiglio sentendo il Ministero dell’Economia, una sorta di fiduciario del governo. Dovremmo ricordarci che la Rai ha avuto gia in passato direttori gener ali che avevano rapporti molto stretti con il premier. Basta citare Agostino Sacca e Mauro Masi: quello dell’editto bulgaro e colui che telefonava in trasmissione a Santoro e che e poi riuscito a tappargli la bocca. Chiedo a tutti di fare un piccolo esercizio mentale: se questa proposta l’avesse proposta Berlusconi cosa avremmo detto? Non sarebbe stato meglio cercare di offrire garanzie tali da mettere in sicurezza la Rai rispetto alle interferenze della politica?».
Ma non bisognava mettere chi dirige la Rai in condizione di decidere davvero ?
«So bene che c’e un problema di governance farraginosa. Nel cda ho potuto vedere di persona la difficolta di gestire un ibrido, al tempo stesso societa soggetta al diritto pubblico e spa. Ma perche e passata l’idea che una governance efficiente debba per forza andare a braccetto con un piu forte controllo del governo? Perche nessuno parla piu del modello di governance della Bbc?».
Pensa che sia applicable?
«Bbc Trust e una fondazione che fa da filtro tra potere politico e servizio pubblico. Le persone che ne f anno parte — basta andare a vedere i curricola sul sito — hanno un profilo altissimo e non provengono dal mondo della politica. Questo modello il governo lo ha escluso. Matteo Renzi ha praticamente detto: o cosi o la Gasparri. Non mi sembra il massimo dell’ apertura. Ed e una clamorosa occasione persa. Una vera riforma avrebbe dovuto mettere dei filtri tra la politica e la Rai. E avrebbe dovuto indicare requisiti e incompatibilita. Proprio non capisco, sulla base di quanto dicono, come si possa passare dalla Rai dei partiti alia Rai dei professionisti. Non solo il cda resta di nomina politica, ma oltretutto c’e silenzio su come verranno nominati i dirigenti».
Servono criteri stringenti per la scelta dei consiglieri?
«Sono essenziali. Se metti dei requisiti precisi magari il Parlamento pud nominare persone con competenze elevate. Vale per qualsiasi posto di lavoro: perche un free lance chiamato da un’azienda deve passare attraverso colloqui di selezione e una persona chiamata ad amministrare la Rai no? Sarebbe interessante prevedere audizioni pubbliche. Invece, in questo ddl, manca qualsiasi riferimento all’introduzione di metodo e trasparenza nei criteri di nomina.
Annalisa Cuzzocrea
(da “La Repubblica“)
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Marzo 28th, 2015 Riccardo Fucile
“RENZI E’ UN BLUFF, E’ IL NUOVO LEADER DELLA DESTRA”… “E’ ARROGANTE E DISPREZZA CHI NON LA PENSA COME LUI: E’ UN PAROLAIO BIANCO”
Anche i nonni hanno dei nonni. E dunque questa storia comincia molto tempo fa, in un mondo piccolo e povero, con il bracciante Giovanni Eusebio Pansa, che aveva avuto l’infelice idea di crepare a 38 anni mentre zappava un campo.
Lasciando sua moglie Caterina, la leonessa, vedova con sei bambini da tirare su.
“La più grande, mia zia Carolina, aveva dodici anni. E poi è diventata la ragazza con le tette più belle della città . Mia madre, che faceva la modista, diceva sempre: non c’è nessuna donna, nessuna ragazza che ha delle tette come quelle di zia Carolina. A onor del vero anche mia madre aveva delle gran tette”.
Giampaolo Pansa — sull’uscio degli ottanta — ama definirsi un qualunquista qualunque, uno che al contrario della Perpetua manzoniana “non sa nè ubbidire nè comandare”.
Di sicuro sa farsi odiare, da più parti: da destra per le radici, da sinistra per il tradimento. Di seguito ci saranno più incontri che scontri, “perchè ho già detto tanto di tanti: non è bello ripetersi”.
E siccome le grandi storie parlano sempre delle stesse cose — di madri e di padri, di amori e di odi — partiamo dai natali.
Dalla fortuna di essere nato nel ’35, “perchè così ho visto la guerra”. E di esser nato lì, a “Casale Monferrato, una città di provincia tutta affacciata sul Po”.
Da che famiglia viene?
Mio padre Ernesto Pansa era un socialista non iscritto al partito, impiegato alle Poste telegrafi. Mio zio Francesco era l’unico comunista dei fratelli: sono cresciuti nella miseria più nera. Per dirti il carattere di Ernesto Pansa che aveva fatto la Grande guerra, quando tanti anni dopo gli ho chiesto ‘ma come ti sei trovato sotto le armi?’, mi ha risposto così: ‘Benissimo: l’esercito mi ha dato per la prima volta un cappotto e finalmente un paio di scarponi nuovi. Per la prima volta, sotto l’esercito, ho mangiato due volte al giorno, e c’era sempre un pezzo di carne oppure il baccalà . Ho mangiato il cioccolato, ho bevuto il cognac. E poi, per la prima volta, sono andato a donne nei bordelli militari della Terza armata. La prima volta è stato con una donna di quarant’anni, io ero un ragazzo. Però meglio che niente, mi ha svezzato’.
La mamma?
Te lo dico con un episodio, che donna era. Una domenica mattina, nel maggio del ’44, stavo sulla ringhiera di casa mia a giocare con mia sorella. Sentiamo il rombo delle bombe e ci spaventiamo a morte. Dico a mia madre: ‘Adesso dobbiamo morire’. Mia madre Giovanna aveva un senso dell’ottimismo fantastico, e mi risponde: ‘No, no Giampa — mi chiamava così — non dobbiamo morire, adesso dobbiamo mangiare le frittelle che ho appena cucinato’. La mamma era una donna pazzesca, forte, energica. Quando Passera è diventato amministratore delegato delle Poste, gli ho chiesto di avere il foglio stipendi di mio padre.
E com’era?
Diciamo che mia madre, con il suo negozio, guadagnava tre volte mio padre… Davanti alla boutique c’era un albergo, il Leon d’Oro: quando le prostitute avevano finito di scopare i contadini ricchi dei dintorni, uscivano dall’hotel con il portafoglio pieno e andavano subito a farsi un regalino nel negozio di mia madre. Così ho potuto studiare. Tornando alla guerra: ho visto le distruzioni dei bombardamenti, le case ormai senza muri, tutto a cielo aperto, si vedevano delle cucine pericolanti, delle camere da letto sfasciate. C’erano i feriti. Ma soprattutto facevano impressione i morti.
Quando ha deciso di fare il giornalista?
Quando ho fatto l’esame di terza media, con un anno di anticipo perchè il magico maestro Dondero, padre di una delle più belle ragazze di Casale, era una specie di santo in terra e qualunque cosa lui dicesse veniva eseguita: una volta ha detto ai miei che ero talmente bravo che bisognava farmi saltare la quinta elementare. Quando ho fatto l’esame della terza media mio padre mi ha regalato una macchina per scrivere, una Underwood. Come il protagonista di House of cards. Ho imparato a scrivere subito. Ho cominciato sul giornale della mia città , Il Monferrato…
Però è arrivato molto giovane a La Stampa.
Nel ’59, dopo l’università . Mi sono laureato in Scienze politiche, con una tesi di 800 pagine, “Guerra partigiana tra Genova e il Po”. Ho preso 110, la lode e la dignità di stampa. Nel ’60 mi son messo a lavorare subito all’Istituto Feltrinelli per la storia del movimento operaio e socialista: c’era Laura Conti, che era un medico, ma stava facendo il censimento della stampa clandestina della Resistenza. Soprattutto ho vinto il premio Einaudi, ex aequo con Massimo Salvadori. C’è stata una grande cerimonia a Dogliani con un Luigi Einaudi ormai ex presidente, un signore piccolino, molto anziano, molto lucido. È stato l’ultimo discorso della sua vita. Escono, sull’evento, molti articoli, anche su La Stampa naturalmente. Con grande rilievo: c’era un fondo di Alessandro Galante Garrone, che era stato il primo dei miei professori a occuparsi della mia tesi. Così ho ricevuto un invito a presentarmi al direttore de La Stampa, Giulio De Benedetti, nel novembre del ’60.
Il colloquio andò bene.
De Benedetti aveva settant’anni, un signore ebreo. Mi ricordo che raccontava sempre: ‘Quando ho intervistato Hitler alla fine degli anni Trenta, era così coglione che non si è accorto nemmeno che a intervistarlo c’era un ebreo’. Quella prima volta mi disse: ‘Ho deciso di assumerla. Quanto guadagna oggi?’. E io: ‘Guadagno 59 mila lire al mese’. Lui cercò di convincermi: ‘Venire a Torino con moglie al seguito per 59 mila lire al mese è un po’ poco. Facciamo 100 mila’. Io ho fatto una smorfia che De Benedetti ha interpretato come una smorfia di scontento. Mi ha ringhiato contro: ‘Questi giovani non sono mai soddisfatti! Vabbè, facciamo 120’. Essere molto giovane all’inizio degli anni Sessanta e anche Settanta mi ha regalato una cosa che voi giovani di oggi non avete più. I giornali, i quotidiani, soprattutto i grandi quotidiani andavano a gonfie vele. Non esisteva la televisione. La pubblicità — era cominciato già il boom nel ’55 — affluiva tutta sui quotidiani. E il risultato era che i quotidiani pagavano ottimi stipendi. Veramente ottimi stipendi. Non solo, ma se vedevano che in un altro giornale più grosso del loro c’era qualche ragazzo, qualche pulèn, qualche giovane sveglio, lo cercavano per assumerlo.
Ha cambiato molti giornali, dopo.
Otto testate. Come dicevamo ho cominciato a La Stampa. Poi sono andato al Giorno, poi ancora a La Stampa. Poi al Messaggero, al Corriere della Sera, a Repubblica, all’Espresso, al Riformista e a Libero. Però mi sono sempre divertito. Nel ’64 ricevo una telefonata di Giorgio Bocca — non eravamo ancora alle rotture cosmiche, dovute a Il Sangue dei vinti — che mi dice, con quella sua aria da cuneese burbero: ‘Guarda che Pietra ti vuole prendere per fare l’inviato in Lombardia’. Pietra l’avevo conosciuto al Premio Einaudi. Quando mi riceve mi dice: ‘Ti faccio inviato speciale . Preferisci essere mandato a Voghera, perchè la banca di Varzi è fallita, o nel Golfo del Tonchino?’, dove è cominciata poi la guerra in Vietnam. Non sono mai stato furbo, però ho avuto fortuna e ho detto: ‘Direttore dove vuole lei. Ma se fosse per me io andrei a Voghera’. Pietra, soddisfatto: ‘Se tu mi avessi detto nel Golfo del Tonchino non ti avrei assunto’. Sono sbiancato, perchè ho pensato che per un pelo non mi ero giocato il posto. Quindi sono andato lì, ho fatto l’inviato. Mi hanno messo al seguito di Guido Nozzoli, che era un inviato solido, sperimentato, partigiano della Garibaldi in Romagna. Poi sono tornato a La Stampa, perchè aveva cambiato direttore e Ronchey mi voleva a tutti i costi, sfidando la legge.
Quale legge?
C’era una legge non scritta, che chi andava via volontariamente da La Stampa non poteva più tornarci.
Poi c’è stato un intermezzo al Messaggero
Meno di un anno: Giorgio Fattori, che era un inviato di grande rango de La Stampa era andato lì a fare il condirettore. Ci eravamo trovati in una situazione assurda: uno dei proprietari, Ferdinando Perrone, aveva la figlia in Potere operaio e dicevano che era coinvolta nel delitto dei fratelli Mattei… Una vita pazzesca! Uno dice: hai fatto la vita dell’impiegato. No, cazzo, non ho fatto la vita dell’impiegato. Mi sono divertito anche. Abbiamo fatto il Messaggero, poi entrambi abbiamo preso altre strade. Lui è tornato a La Stampa e poi è diventato direttore prima di Arrigo Levi. E io, uscito di lì, sono approdato al Corriere. Sono andato in via Solferino nel ’73 e lì sono rimasto fino al ’77, quando Piero Ottone, con cui avevo un patto, se ne è andato via. Da due anni Barbapapà Scalfari e Caracciolo volevano che passassi a Repubblica e ho detto sì: per quasi un anno ho fatto l’inviato, per le faccende interne, poi sono diventato uno dei vicedirettori. Ci sono stato la bellezza di 16 anni. Dopodichè ne ho fatti altri 17 all’Espresso: 33 anni con quelli lì.
Intanto ha scritto un sacco di libri anche.
Quando era ancora vivo Mario Formenton, che grazie al matrimonio con Cristina era diventato un manager importante della Mondadori, una volta alla settimana invitava i giornalisti alla Pantera Rosa, un ristorante che oggi non c’è più, davanti alla Statale. Lì io ho incontrato Erich Linder, che era il numero uno degli agenti letterari italiani. Mi ha detto: ‘Vedo, Pansa, che lei pubblica molti libri. Posso darle un suggerimento? Non prenda mai un agente, perchè le porta via il 10 per cento e serve a poco. Ma soprattutto il mio consiglio è di pubblicare sempre, tanto, perchè la costruzione di un autore di libri è una cosa impegnativa, richiede continuità . Bisogna scrivere tutti gli anni, un libro almeno ogni anno’. E questo ho fatto, ne ho pubblicati circa 60.
Veniamo al sodo: nel 2003 esce Il sangue dei vinti e succede un gran casino. Il tema però non era inedito. Per dire: Cassola scrive La ragazza di Bube alla fine degli anni Cinquanta. Giorgio Pisanò negli anni Sessanta pubblica la Storia della guerra civile. Perchè all’alba del millennio s’infiamma di nuovo il dibattito, volano parole grosse e le danno del traditore?
Non ero un romanziere e non appartenevo alla destra. Ero un signore che lavorava per dei giornali, si sarebbe detto allora, democratici. Perchè La Stampa era un giornale di laici democratici antifascisti. La Stampa era così, Il Messaggero è stato così, Il Giorno era così, Repubblica era così. L’Espresso era così. E invece io no, non ero così. Io non ero nessuno. Cioè, io ancora oggi non mi ritengo nessuno. Perchè ho fatto quel libro? Vuoi saperlo?
Naturalmente.
L’anno precedente, sempre per la Sperling & Kupfer, avevo pubblicato I figli dell’aquila. Ero partito da una considerazione: per fare una guerra civile bisogna essere in due. E se sono due, c’è uno che ragiona rosso e l’altro che ragiona nero. Uno vince e l’altro perde. Possibile? Sono stato molto incoraggiato dalla mia compagna, Adele Grisendi, ex dirigente della Cgil, autrice di libri sulle ragazze degli anni Sessanta e Settanta. Quindi una signora di sinistra: oggi non oso nemmeno più domandarle se lo sia ancora. Volevo raccontare la storia di un ragazzo che invece di andare a fare il partigiano, è andato a fare il repubblicano. No no, non fare quella faccia: non il repubblichino, repubblichino è una parola dispregiativa. È come dire partigianino. Il libro non era piaciuto agli editor democratici, anche se aveva pagato le loro tredicesime, però aveva avuto un gran successo. Da lì è venuta l’idea del Sangue dei vinti, che in tutto ha venduto quasi un milione di copie. Da allora non posso uscire di casa senza incontrare persone che mi avvicinino. Penso sempre: speriamo che non mi tirino un cazzotto in faccia. La maggior parte però mi dice grazie.
La Resistenza, combattuta da pochissimi, è stata usata da molti dopo in maniera del tutto strumentale, come bandierina per far finta di aver vinto la guerra. La colpa è del Duce e del Re.
Tutto il racconto della guerra civile italiana, della Resistenza, del partigianato, chiamiamolo della guerra interna, chiamiamola come ci piace, era monco, perchè finiva il 25 aprile. Ma è come se la storia del Terzo Reich non prevedesse il racconto del processo di Norimberga. Le verità vengono fuori dopo, così come le magagne di un evento storico. Renzi, per esempio, si capirà bene che cosa ha fatto quando cadrà . Perchè prima o poi cadrà .
Torniamo un attimo ai giornali: molti quotidiani, molti direttori.
Tanti che non si occupavano affatto del giornale… La grande lezione di Scalfari è che il direttore di un giornale, specie di un giornale che ha bisogno di crescere, deve pensare al giornale 24 ore al giorno. E deve viverci dentro almeno 12 o 13.
Avrebbe voluto fare il direttore?
Ho sempre rifiutato, non me ne importava nulla. Fare il direttore oggi è il mestiere più terribile del mondo perchè sei alle prese con una crisi terribile, la crisi delle edicole e della carta stampata. Non li invidio, poverini.
I suoi giudizi sul giornalismo di sinistra, penso al gruppo Espresso, sono stati molto duri.
Conosco bene i polli di quel pollaio, perchè ci sono stato dentro più di trent’anni: attenzione, qui siamo al servizio militare portato all’estremo… Però ci sono dei giornalisti eccellenti: Ezio Mauro è il primo di tutti, grande cronista, grande inviato, uomo pronto. Sono stato a Repubblica e in parte anche all’Espresso nella cosiddetta fase libertina di Scalfari. Eugenio sosteneva che tutti — i quotidiani, ma soprattutto i settimanali — devono essere ‘libertini’. Che devono essere pronti a smentirsi, non deve valere il pensiero unico.
È ancora così a Repubblica, secondo lei?
Certo che no, è diventata una caserma. Basta vedere queste manifestazioni che fa in giro per l’Italia, l’ultima l’ha fatta a Udine. Siamo al partito della nazione come vuole Renzi? Anche Renzi vorrebbe ridurci al pensiero unico, ma non ci riuscirà perchè gli italiani sono anarchici, e gli piace essere comandati da un uomo dal polso duro. Però poi si stufano.
Renzi ci vuole portare al suo non-pensiero politico, che è un’altra cosa.
Il premier è un bluff: purtroppo nella palude, nel vero senso della parola, della politica italiana di oggi lui giganteggia. È il nuovo leader della destra, lo dico in questo ultimo libro che è uscito per Rizzoli, La destra siamo noi. Deve solo imparare a fare i discorsi da un balcone… È arrogante, disprezza chi non la pensa come lui. Renzi è un parolaio bianco, speriamo non diventi nero. Circondato da troppe persone inesperte, amici degli amici degli amici. In politica la forma è sostanza.
Mi ricorda una vecchia battuta su cui Forattini aveva costruito una vignetta, che diceva ‘Quando il sole è al tramonto anche l’ombra del nano si allunga’: il disegno riguardava Fanfani. Però pensaci un po’ bene: quando il sole è al tramonto anche l’ombra del nano si allunga…
Tutto cambia o tutto resta uguale?
Guardiamo il risultato delle elezioni in Francia. Le Pen ha vinto o perso non si sa, forse non ha vinto, o forse non ha perso. Chi avrebbe detto però che Sarkozy, con tutta la Carlà e ‘ste balle qua e i soldi e gli scandali, sarebbe uscito primo partito? Cambia tutto, e quindi è cambiata anche la politica. La politica dalle nostre parti, con le sue varie declinazioni — sinistra, centro, destra — ci racconta una cosa: sostanzialmente l’Italia è un Paese moderato. Sennò non avrebbe accettato per vent’anni la balena bianca democristiana. È vero anche che gli italiani sono un popolo un po’ anarchico, non amano ubbidire, gli piace essere comandati e possono anche fingere di obbedire, però in fondo non gli va: è una cosa che Renzi non ha ancora capito. La gente è stufa dei politici ganassa, vedremo cosa succederà quando gli italiani si renderanno conto che la grande ripresa non c’è, che soprattutto sta nascendo un modo di far politica accentratore… Ma scusa, questo è andato dal presidente della Repubblica a dire: adesso tengo io l’interim del ministero delle Infrastrutture. Ma siamo pazzi?
E il giornalismo è peggiorato?
Come la scuola, la politica, i costumi, i caratteri. L’Italia è un Paese in declino. Noi siamo cresciuti in un Paese in ascesa, dove tutti venivamo da posizioni di partenza più o meno difficili.
Le imputano di essere un voltagabbana.
Per voltarla, bisogna avercela una gabbana. Non ne ho mai avute. Un giorno Salvemini, parlando dei giudici della sua generazione, ha detto: se mi accusassero di aver rubato il Duomo di Milano scapperei in Svizzera. Se accusassero Pansa di aver rubato il duomo di Milano, ecco io aspetterei che mi venissero a prendere.
In quest’intervista non ha sparato contro nessuno. Come mai? Redento?
Ho già detto quello che dovevo, e spesso. Scrivo un Bestiario tutte le settimane. Mica posso fare il ganassa, ci pensa già Renzi. Sono diventato una vecchia tartaruga, possono tirarmi tutte le sassate che vogliono. Quando è uscito Il sangue dei vinti, a cominciare dall’illustre compagno Giorgio Bocca, hanno detto perfino che volevo fare un piacere a Berlusconi che così mi avrebbe fatto direttore del Corriere. Figuriamoci.
In una delle sue ultime interviste, parlando a questo giornale, Giorgio Bocca ha detto che stava diventando sempre più cristiano. Lei è credente?
Ogni volta che comincio un libro, mi dico: speriamo che il Padreterno me lo faccia finire. Sono stato battezzato, cresimato, ho fatto il chierichetto. Ma non sono credente. Però non sono nemmeno ateo. Te lo ripeto: non sono nessuno.
Silvia Truzzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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