Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
SETTE ANNI DI TEMPO PERSI IN LITIGI, LOTTE DI POTERE E GUERRE DI POLTRONE… PER L’EXPO DI MILANO DEL 1906 FU INAUGURATO IL TRAFORO DEL SEMPIONE, COSTRUITO IN SEI ANNI
I vertici di Expo 2015 giurano che siamo al rush finale. Ma è chiaro che per completare in tempo
Padiglione Italia servirebbe qualche cosa di più.
Un miracolo, dice qualcuno.
Dobbiamo dunque sperare nell’intervento divino, che comunque non abbiamo meritato. Sono sette anni precisi dal fatidico giorno in cui l’allora sindaco Letizia Moratti annunciò trionfante che la città di Milano aveva vinto la sfida con Smirne.
Era ancora in carica il governo Prodi e il presidente della Provincia Filippo Penati rimarcava orgoglioso come gli ispettori del Bureau International des Expositions fossero rimasti impressionati dalla «coesione istituzionale».
Non c’è che dire: nelle apparenze i nostri politici sono sempre stati bravissimi. Peccato che quando si deve passare dalle parole ai fatti la «coesione istituzionale» vada regolarmente a farsi friggere.
Come nel caso dell’Expo. Dove le cose sarebbero andate ancora peggio se dopo gli scandali non fosse intervenuta tempestivamente l’Autorità anticorruzione, con modalità tali da meritare il riconoscimento dell’Ocse.
Pur fra mille difficoltà forse anche sorprendenti.
Si duole il presidente dell’Anac Raffaele Cantone nel libro Il Male italiano scritto con Gianluca Di Feo di «aver incontrato i problemi maggiori proprio in due cantieri simbolo dell’Expo, i due progetti che più di ogni altro dovrebbero rappresentare il nostro Paese agli occhi del mondo: il Padiglione Italia e il cosiddetto Albero della Vita.
In entrambi i casi i lavori erano in ritardo sulla tabella di marcia e pian piano sono emersi non pochi problemi». Cantone parla di insofferenze verso i controlli, superficialità nell’affidamento dei contratti, anomalie nelle procedure.
Il tutto giustificato evidentemente con la necessità di fare in fretta per recuperare il troppo tempo perduto, anche se ormai irrecuperabile.
Dei sette anni passati dal 31 marzo 2008 più di metà se ne sono evaporati in contrasti fra i partiti, lotte di potere interne, guerre di poltrone.
Prima lo scontro sull’amministratore delegato della società .
Poi la battaglia per i terreni, in vista delle future appetitose speculazioni immobiliari. Quindi commissari generali che si sovrapponevano ai commissari straordinari e gli inevitabili conflitti.
Per non citare le deroghe infinite (e sospette) al codice degli appalti, con i lavori dell’Expo esentati da ben 78 articoli di quel monumentale regolamento.
Una corsia preferenziale tanto larga da provocare le proteste dell’Associazione dei costruttori proprio a proposito dell’appalto da 25 milioni per il solito Padiglione Italia: subito rintuzzate da uno stizzito Antonio Acerbo, il direttore di quell’opera che avrebbe poi patteggiato una condanna a tre anni. E intanto i giorni passavano. Mentre la corruzione dilagava, come fosse il capitolo conclusivo, e naturale, di questo incredibile copione.
Adesso che manca un mese al 1° maggio, la memoria non può che andare all’altra Esposizione universale milanese, quella di oltre un secolo fa.
Fu un successo senza smagliature, preceduto dalla costruzione del traforo del Sempione: realizzato in poco più di sei anni, era il più lungo del mondo e permetteva il collegamento ferroviario diretto con Parigi.
L’Expo del 1906 viene ricordato come l’evento che certificò l’ingresso della giovane Italia unita nel novero delle nazioni industrializzate e l’investitura di Milano come città simbolo di quella svolta.
Non vorremmo che l’Expo del 2015 passasse invece alla storia quale prova della italica incapacità a rispettare gli impegni.
Anche i più banali, per esempio finire in tempo di arredare casa nostra.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
DOPO 32 ANNI CESSANO I VINCOLI UE E L’ITALIA E’ COSTRETTA A FARE I CONTI CON AGRICOLTURE PIU’ FORTI… L’EREDITA’ DI MULTE PER 4,4 MILIARDI, PRODUTTORI RIDOTTI AD UN SESTO RISPETTO AGLI ANNI ’90
Finisce il 31 marzo una storia cominciata nel 1983, fatta di latte e stalle, di camion di liquami rovesciati in autostrada e di contadini arrabbiati, di agricoltori che si indebitano e pagano tutto quello che serve e anche di più e di altri che invece, forse più cinici, sulla violazione delle norme speculano, vendendo quote, sforando limiti e lasciando scadere multe e sanzioni, sicuri che, tanto, prima o poi, qualcun altro avrebbe pagato.
Il regime delle quote latte se ne va in soffitta dopo 32 anni, 22 avvicendamenti al ministero delle Politiche Agricole e, soprattutto, 4,4 miliardi di multe comminate all’Italia, in parte pagate, in parte no.
Al suo posto arriva il libero mercato sul cui campo, d’ora in poi, dovranno giocarsela allevatori italiani contro allevatori stranieri, in uno scenario che forse fa persino più paura di quello di multe e sanzioni.
Sì, perchè all’addio all’ultimo grande regime protezionistico ancora in vigore l’Italia e i suoi allevatori si presentano particolarmente deboli.
A spossarli, dagli anni ’80 a oggi, non c’è stata solo la recente crisi, che ha decimato i consumi e reso inaccessibili le banche, ma anche un sistema dei prezzi mai tanto basso e, forse, persino lo stesso sistema delle quote latte.
Molte stalle sono state costrette a sotto produrre (pena salatissime multe) e, in alcuni casi, la compravendita delle quote si è rivelata più redditizia della produzione stessa.
Così, nell’Europa senza quote, l’Italia si presenta oggi come un paese che importa circa metà del suo fabbisogno (produciamo, quote permettendo, circa 11 milioni di tonnellate di latte, e ne importiamo poco meno di 9): questo, in teoria, dovrebbe lasciare ben sperare e fare intravvedere, almeno sul mercato interno, ampi margini di crescita.
Ma la cosa non è così scontata: gran parte (circa il 50%) del nostro latte viene usato per fare formaggi Dop, Denominazione origine protetta, come Parmigiano, Grana, Gorgonzola, Asiago, ecc, o viene venduto come latte fresco, mentre il resto si scontra con il latte in arrivo dall’estero e non di rado, nonostante i suoi alti standard di qualità , ne esce con le ossa rotte. La ragione? Facile: costa di più.
Per quanto gli allevatori italiani lamentino il fatto che oggi, venduto in stalla a 35 centesimi al litro, il latte non ripaghi neppure i costi di produzione, resta il fatto che è comunque più costoso di quello che viene da fuori e, soprattutto, più di cagliate e caseine che possono essere comunque usati per fare formaggi vari.
Per i produttori di latte italiano, appena usciti dalla caienna di quote, limiti e regolamenti, l’apertura del mercato si presenta più come un pericolo che come un’opportunità .
“Il nostro latte è migliore, lo sanno tutti – dicono le associazioni di categoria Cia, Coldiretti e Confagricoltura – solo che produrlo costa tanto e i trasformatori fanno quattro conti e, a meno che non si tratti di produrre formaggi Dop o latte fresco, non ci impiegano molto a capire che conviene comprare quello straniero”.
Ad oggi, stando ai dati pubblicati sul sito del Clal il latte Italiano costa 35 centesimi, quello francese 31, quello tedesco 32, quello ceco 30, quello polacco 28, quello lettone 22, quello estone 24 e quello lituano 19.
Cifre che non possono che piacere ai trasformatori, visto che ad oggi non esiste ancora nessun obbligo di etichettatura che indichi la provenienza delle materie prime impiegate per formaggi, latte a lunga conservazione e prodotti finiti.
Secondo le stime fornite da Coldiretti, “oggi tre cartoni su quattro di latte a lunga conservazione venduti in Italia sono fatti con latte straniero e lo stesso dicasi per buona parte delle mozzarelle e dei formaggi non garantiti, spesso fatti con latte o addirittura cagliate provenienti dall’estero, soprattutto dai aesi dell’Est Europa, anche se di tutto questo non c’è traccia in etichetta”.
Una concorrenza che già oggi, con il mercato imbrigliato dalle quote, l’Italia fa fatica a reggere e il cui urto da domani sarà ancora più pesante, perchè tutti potranno produrre e vendere quanto vogliono.
Il nostro paese rischia di non avere, anche volendo, gli strumenti per reagire.
All’inizio degli anni ’90 in Italia si contavano circa 180mila stalle, mentre ora superiamo a stento le 30 mila e su molte di loro incombe la spada di Damocle delle multe: rimandate per trent’anni, ora sono in arrivo con il loro carico milionario.
Insomma, ora che comincia la guerra vera, l’esercito dei nostri allevatori si presenta al fronte stanco, disarmato e, in alcuni casi, persino indebitato.
Luciana Grosso
(da “la Repubblica“)
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
“RAPPORTO OSSERVASALUTE”: IL PESO DELLE DIFFICOLTA’ ECONOMICHE SULL’ASSISTENZA SANITARIA E I TAGLI ALLE RISORSE… AL SUD VENGONO SOSTITUITI SOLO UN QUARTO DI COLORO CHE VANNO IN PENSIONE
La salute degli italiani è sempre più a rischio a causa della “precarietà economica che, divenuta ormai
una condizione strutturale del Paese, incide sia sull’offerta dei servizi, sempre più sotto l’attacco della spending review, sia sul benessere psicofisico dell’individuo”.
E’ quanto emerge dalla dodicesima edizione del Rapporto Osservasalute (2014), l’analisi dello stato di salute della popolazione e della qualità dell’assistenza sanitaria nelle Regioni italiane, presentata oggi a Roma all’università Cattolica.
La ricerca è stata pubblicata dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, coordinato da Walter Ricciardi, direttore del Dipartimento di Sanità pubblica dell’università Cattolica – Policlinico Gemelli di Roma.
La situazione di difficoltà legata alla crisi ed ai tagli di risorse e servizi sanitari influisce particolarmente nell’aumento dei casi di tumori prevenibili: tra le donne, ad esempio, i nuovi casi di tumore al polmone, tra il 2003 e il 2013, sono aumentati del 17,7%, così come quello alla mammella che registra un incremento del 10,5%.
Tra gli uomini l’incidenza del tumore al colon retto, nello stesso periodo, è aumentata del 6,5%. Mentre gli stili di vita sbagliati fanno aumentare il numero di italiani in sovrappeso, con il 45,8% degli over 18 in eccesso ponderale.
A fare le spese di questo peggioramento del quadro epidemiologico sono soprattutto le regioni del Mezzogiorno.
“Il deficit di risorse destinate alla prevenzione rischia di far vacillare la salute degli italiani – si legge nel Rapporto – già sotto l’attacco della congiuntura economica negativa che sta colpendo ormai da anni anche il nostro paese: la precarietà che sta ormai divenendo una condizione strutturale mette a rischio la tenuta dei servizi sanitari offerti ai cittadini e anche la salute reale e percepita degli individui (sempre più numerosi sono gli studi che dimostrano ad esempio che essere lavoratori precari mina il benessere psicofisico della persona)”.
Per il Rapporto 2014, i punti deboli della salute degli italiani sono sempre gli stessi, a partire dai cattivi stili di vita che restano tali o persino, a causa della crisi, peggiorano. “Un dato esemplificativo tra tutti – si legge -, la sedentarietà che aumenta in maniera significativa per entrambi i generi: da 34,6% a 36,2% negli uomini e da 43,5% a 45,8% nelle donne”
Il servizio sanitario nazionale è alle prese con una rivoluzione a due facce destinata a cambiare presto la sanità pubblica. Da un lato, il percorso di innovazione e digitalizzazione dei servizi; dall’altro, la riduzione generale dei costi e del personale. Guardando al processo di modernizzazione delle Asl, il Rapporto ha preso in considerazione l’utilizzo di internet per la comunicazione e i servizi per il cittadini.
L’altra grande modificazione in corso nel Servizio Sanitario Nazionale è l’emorragia dei dipendenti conseguente alla riduzione delle risorse.
A livello nazionale i dati mostrano come il tasso di compensazione del turnover negli ultimi 4 anni sia sempre stato inferiore a 100.
Analizzando il trend 2009-2012, tale tasso è arrivato a segnare 68,9 punti percentuali nel 2012, circa 10 punti percentuali in meno rispetto all’anno precedente (78,2% nel 2011). Anche qui, la realtà cambia da regione a regione e solo Val D’Aosta e Trentino-Alto Adige, nel 2012, hanno completamente rimpiazzato i dipendenti usciti per limite d’età .
In generale il divario Nord-Sud ed Isole è meno marcato rispetto agli anni precedenti. “Particolarmente critica – si legge però nel rapporto – è la situazione di Lazio, Puglia, Campania, Molise e Calabria che mostrano tutte valori inferiori al 25%”.
Il sistema, spiegano gli autori del Rapporto, sconta una diminuzione delle risorse: “Nel 2013 – scrivono – la spesa sanitaria pubblica pro capite è di 1.816 euro. Tale valore del 2013 è il risultato di un trend in diminuzione della spesa sanitaria nazionale che si riduce del 2,36% fra il 2010 e il 2013 con un tasso medio annuo composto di -0,79% e con un decremento dell’1,50% solo nell’ultimo anno”.
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
A LIVORNO, CREMONA E LA SPEZIA IL TASSO PIU’ ALTO DI “PRECARIETA’ SOCIALE”…AL SUD VA MEGLIO
Cioma l’ha scritto sulla sua pagina Facebook: «Fiera di essere una livornese nera».
Alla faccia dei razzisti. Uno e ottantacinque, gambe mozzafiato, sorriso tenero da sedicenne.
Molti non hanno digerito l’anno scorso l’elezione a Miss cittadina d’una figlia di immigrati nigeriani (papà disoccupato, mamma dipendente di una casa di riposo).
E hanno infiammato il web col solito mantra truffaldino, «l’Italia agli italiani», sparso come veleno da mille manine solerti.
Il sindaco Filippo Nogarin s’è schierato con Cioma, ammonendo: «Questo episodio gravissimo non rappresenta Livorno». Certo.
Città di mare a misura d’uomo, difficile immaginare nelle sue strade cappucci del KKK. Ma su 116 capoluoghi di provincia, Livorno è anche in testa alla classifica della «precarietà sociale», quella dei comuni italiani dove l’integrazione è più in pericolo. Seguita da Cremona (teatro a gennaio di pesanti tafferugli tra antagonisti e fascisti) e da La Spezia.
Ecco dunque l’ultima graduatoria elaborata dalla Fondazione Leone Moressa, che già nel 2014 aveva preso in considerazione i capoluoghi di regione, rivelando il paradosso secondo cui il «rischio banlieue» è più elevato nella ricca Bologna che nella povera Reggio Calabria (in realtà il capoluogo calabrese sarebbe Catanzaro), a testimoniare un modello di sviluppo metropolitano miope ed egoista.
Meno integrazione al Centro-Nord che al Sud
Adesso, per il Corriere , la Fondazione mette sotto esame l’intera Penisola con un’indagine molto più capillare e un campione molto più vasto.
Incrociando indicatori come il tasso d’acquisizione della cittadinanza, quello della disoccupazione straniera, il differenziale Irpef tra autoctoni e non, le percentuali straniere sui delitti e sui detenuti, i livelli di servizi e interventi dedicati, si delineano quattro aree: inclusione sociale, integrazione economica, criminalità , spesa pubblica per l’immigrazione.
Elaborandone i valori ne deriva un numero-spia: il tasso di precarietà sociale, appunto. Fatta 100 la media d’Italia, Livorno è a 130,9. Bologna a 124 e Reggio Emilia a 122. Trieste e Trento a 123. Napoli a 76,7. Reggio Calabria, ancora in coda, a 65,3.
La classifica delinea picchi di mancata integrazione al centro-nord e nelle cittadine medio piccole.
Il modello emiliano e la retorica dei mille campanili sono da rivedere, forse, ammoniscono i sociologi cui chiediamo di commentare la ricerca.
La “sorpresa” di Bologna, Trento e Trieste
«Il dato strutturale dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria», premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane: «Ma c’è un secondo dato di rilievo. Fino a tutti gli anni Ottanta venivano dall’estero a studiare l’Emilia Romagna, rossa e aperta. Ora scopriamo che lì c’è il conflitto. L’abitudine all’integrazione sociale è tutta interna. Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione, questo mondo diventa chiuso e conservatore. Il terzo dato è che le città più “smart”, come Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale».
Città «smart», intelligenti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque. «Queste città sono molto “densificate” – spiega Abis – molto legate alla cultura d’appartenenza. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolitane il fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolitismo di necessità e, spesso, un’immigrazione già di seconda o terza generazione, già in parte assorbita: questo spiega perchè Milano, con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica».
Più integrazione dove ci sono più donne
«Significativo, e confortante, è che c’è più integrazione dove più alta è la percentuale delle donne», dice il sociologo Domenico De Masi: «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud si integra non perchè sta meglio ma perchè i meridionali stanno peggio, è povero fra i poveri. In un’economia marginale lo sfruttamento diventa poi la sua integrazione, come a Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagioni razziste».
Al centro colpisce Rieti, «l’ombelico d’Italia», cinquantamila anime nel cuore della paciosa Sabina, eppure al quarto posto nella classifica di precarietà sociale a causa degli alti tassi di disoccupazione degli stranieri (16 per cento contro il 13,9 nazionale) e della loro forte incidenza sul numero dei detenuti (67,2 contro il 32,6 di media nazionale).
«La ricerca è fatta bene e prende anche le “isole” – sostiene De Masi – nessuna microarea può dirsi immune. Il paradosso è che le zone più rischiose sono spesso quelle più civiche. L’egoismo nazionale taglia le spese sui migranti, decurtate anche dai vari Buzzi, perchè abbiamo visto a Roma che quei pochi soldi spesso vengono rubati. Già si sapeva che i ricchi sono più escludenti dei poveri. Ci illudevamo che, essendoci formati su matrici cristiane e marxiste, fossimo più accoglienti: ma spesso è l’opposto».
Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione
Abis ci sta lavorando su. Collabora col governo a una delibera-cornice per i piani strategici delle nostre dodici città metropolitane (a Londra esiste da tempo un piano che guarda fino al 2065, noi fatichiamo a immaginare il futuro): «Se questa precarietà sociale non la inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già . Noi dobbiamo prevedere, prevenire».
Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta De Masi. «Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione», dice Abis.
Spesa pubblica di questi tempi è una parolaccia. Ma in ballo ci sono fondi europei, a saperseli guadagnare. E c’è l’onore d’Italia.
Perchè italiani come Cioma non debbano vergognarsi della loro patria.
Goffredo Buccini
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
I PARTITI DI CENTROSINISTRA NON DIFENDONO PIU’ I CETI POPOLARI
Perchè le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo
E perchè voltano le spalle in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perchè i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.
Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta.
I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.
Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze.
Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà , pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati.
Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi).
Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le èlite contro abbandono di scuole e università , e via discorrendo.
E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze.
Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società , che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80.
Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks.
In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali.
Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate.
Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia).
Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari.
La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.
L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle.
La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perchè gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali.
E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro.
Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università .
Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli.
Thomas Piketty
(da “La Repubblica“)
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
“SERVE UNA POLIZIA AMBIENTALE E AGROALIMENTARE”
Un assedio pacifico ai palazzi del Potere per dire no ai tagli sulla sicurezza ambientale, perchè penalizza soltanto il Corpo forestale dello Stato.
Sì alla trasformazione del Corpo in una nuova e moderna Polizia ambientale ed agroalimentare, come dice Marco Moroni, Segretario Generale del Sapaf ad AgenParl.
Domani a Roma, dalle 9.30 alle 13 in piazza delle Cinque Lune nei pressi del Senato e dalle 14.30 alle 18 in piazza Montecitorio, sei sigle sindacali del Corpo Forestale dello Stato si riuniranno per protestare contro il progetto di accorpamento di varie forze di polizia.
Oltre ai sindacati del corpo forestale dello stato Ugl, Sapaf, Snf, Cisl, Cgil, Uil-Dirfor e Unione Piloti Forestale, hanno manifestato apertamente la condivisione della protesta e parteciperanno ai sit-in, rappresentanti del personale dei Corpi Forestali regionali di Sicilia, Sardegna e Friuli, delle polizie provinciali, l’associazione Libera, Federparchi, Greenpeace, Lipu, Wwf, Legambiente, Lav, Leidaa, Enpa, Fare Verde, le principali associazioni venatorie Fidc, Arcicaccia, Anuu Migratoristi, Eps e Cncn, oltre a numerosi esponenti politici di maggioranza e opposizione, tra i quali gli ex ministri delle Politiche agricole Pecoraro Scanio, Mario Catania e Paolo de Castro, attuale presidente della Commissione Agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento europeo.
Nel volantino che accompagna la manifestazione si chiede una vera riforma e non semplici scorciatoie mediatiche governative.
Spiega Danilo Scipio, segretario Ugl Cfs: “Le ipotesi di accorpamenti sono di fatto semplificazioni che non vanno nella direzione di valorizzare i servizi e creare chiare sinergie tra i vari corpi e amministrazioni, ma avranno invece il solo effetto di eliminare funzioni ed abbassare il livello e la diffusione dei controlli di legalità sul territorio del paese”.
L’appello è a tutti i cittadini e alle associazioni ambientaliste a far sentire la propria voce in difesa della Forestale.
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA NATA DAL SACCHEGGIO DELLA STRUTTURA DEI GIROLAMINI DI NAPOLI
Ventimila libri antichi e documenti datati tra il 1400 e il 1800. 
Ancora una volta la passione per i volumi storici mette nei guai Marcello Dell’Utri, ex senatore del Pdl e ora in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.
Il patrimonio è stato sequestrato dai carabinieri del nucleo di tutela del patrimonio culturale di Monza.
Dell’Utri è ora indagato per ricettazione e esportazione illecita all’estero di opere d’arte.
Il sequestro è avvenuto in parte nella biblioteca della sua Fondazione, in via Senato, attualmente chiusa, e in parte in un magazzino di deposito, l’Opencare in via Piranesi. Dei ventimila volumi, circa 3mila farebbero parte del “Sancta Sanctorum”, la collezione privata di Dell’Utri, tenuta nelle sue pertinenze con libri rari anche del XV secolo.
Le indagini, tuttora in corso, hanno consentito di accertare la presenza “di opere asportate, in epoca e con modalità ancora ignote, da biblioteche pubbliche ed ecclesiastiche insistenti sull’intero territorio nazionale”.
L’operazione parte da un’indagine condotta oltre un anno fa dai carabinieri che in questi mesi hanno compiuto accertamenti sulla provenienza dei volumi.
L’indagine è nata dalla vicenda del saccheggio della storica biblioteca dei Girolamini, nel centro antico di Napoli, dalla quale furono sottratti migliaia di libri, molti dei quali di inestimabile valore.
Secondo il pm di Milano che ha coordinato l’inchiesta, Luigi Luzi, non sono però stati trovati collegamenti con i volumi sequestrati all’ex senatore.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
LI AVEVA ACCUDITI CON AMORE: RICONOSCENTI, NON L’HANNO ABBANDONATA IL GIORNO DEL SUO FUNERALE
Per anni, ogni mattina, Margarita Suarez ha aperto la porta della sua casa a Merida, in Messico, per dare da mangiare ai cani randagi che pazientemente l’aspettavano fuori.
Riconoscenti per essersi presa cura di loro, gli animali hanno deciso di non abbandonarla il giorno del funerale e si sono presentati, in massa, alla camera ardente, per vegliare il corpo.
Sono stati i parenti della donna, pur sorpresi della loro comparsa, a farli entrare nella stanza: gli animali sono stati per molto tempo sdraiati e accovacciati sul pavimento, senza far rumore. Quando il carro funebre è partito poi i cani lo hanno seguito formando una specie di “processione”: hanno abbandonato la loro amata Margarita solo quando è stata portata via per essere cremata.
“È stato inspiegabile e meraviglioso – ha raccontato la figlia Patricia Urritia – quando il corpo è stato cremato si sono riattivati e quasi saltavano dalla gioia. Sembrava una festa”.
Il giornale locale “Misiones Online” ricorda la generosità della donna verso tutti gli animali: non usciva mai di casa senza una busta piena di cibo che distribuiva ai tanti cani e gatti randagi incontrati durante il suo tragitto quotidiano.
Gesti che le hanno fatto guadagnare un affetto incondizionato.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile
SILVIO VUOLE LA ROTTAMAZIONE E ALZA LA POSTA CON SALVINI… LA ROSSI: “BASTA CON CHI E’ IN PARLAMENTO DA 20 ANNI”
Spira il vento della rottamazione, dentro Forza Italia. La calma apparente non illude la vecchia
guardia che infatti dà segni di grande nervosismo.
In un partito per altro dilaniato dalle minacce di scissione (Fitto, Verdini) e dalle tensioni ancora irrisolte con la Lega, è bastata una circolare (della tesoriera Maria Rosaria Rossi), che imponesse il limite di 65 anni e delle tre legislature o consiliature, per far scattare una mezza insurrezione.
In ballo ci sono le ricandidature, ma soprattutto la gestione del potere sulle liste e sul simbolo, ormai delegato da Arcore alla Rossi e davvero pochi altri.
L’ora X scatterà dopo le regionali del 31 maggio, Silvio Berlusconi non si fa illusioni sul risultato – Campania a parte – e all’indomani si prepara a mettere mano al partito in cui, dice, «deve cambiare tutto».
Non si sa ancora se il nome – magari anche quello, per lasciare la vecchia sigla e il suo cumulo di debiti – di certo, ci saranno altri volti da mandare in tv, dirigenti fidati per i ruoli chiave, aperture ai giovani.
Per il repulisti definitivo invece, quello della squadra parlamentare, bisognerà attendere le prossime politiche.
Al duro j’accuse di Paolo Romani («Non c’è nulla che vada bene»), che ha incassato il sostegno di Altero Matteoli, Daniela Santanchè e tanti altri, l’ex Cavaliere non ha fatto nemmeno cenno nella telefonata di ieri alla manifestazione dell’Ergife organizzata da Tajani.
Ma le fibrillazioni non sono piaciute affatto, ad Arcore.
La sala dell’hotel Ergife è gremita, nonostante la domenica delle Palme, età media piuttosto alta, Maria Rosaria Rossi in prima fila, tra un selfie e una battuta al veleno sui veterani, Giovanni Toti e Deborah Bergamini a dettare la linea dal palco. Berlusconi prende le distanze da «partiti che fanno della protesta, dell’estremismo, dello sfascio e dell’antieuropeismo la loro bandiera », con chiaro riferimento alla Lega, pur non citandola.
«Noi invece rappresentiamo quella maggioranza di buon senso e tranquilla, ma coraggiosa, che non è portatrice di estremismi e disfattismi».
È la conferma della nuova filosofia in salsa Ump francese.
Linea alla Sarkozy (vincente) anti Le Pen.
Quel che è certo è che nonostante le aperture di sabato di Salvini («Con Fi nessun problema»), fino a ieri sera i due leader non si sono nemmeno risentiti.
La spiegazione data dall’ex Cavaliere ai suoi è semplice: «Matteo ha il vento in poppa e pensa che gli sia tutto dovuto, ma se vorrà fare l’accordo con noi dovrà mettersi in testa che deve cedere qualcosa».
Sottinteso, rinunci ai suoi uomini in Toscana e Liguria, se vuole il sostegno in Veneto, per esempio. Partita ancora aperta.
L’attacco a Renzi dal collegamento audio è più scontato: «Dopo tre governi non eletti dal popolo, ci troviamo di fronte a una non democrazia, che ci sottopone a una oppressione giudiziaria, fiscale e burocratica e che porta a dire al 51 per cento degli italiani che preferirebbero cambiare Paese. Noi invece vogliamo cambiarlo». Applausi in sala.
Ma giù dal palco è dello sfogo di Romani, della richiesta di «cessione di sovranità », del rischio scissioni che si parla. Toti lo sa e alza il tiro.
«Romani è un amico e ha posto temi rilevanti, ma sto assistendo a un dibattito surreale nel partito – dice dalla tribunetta – Circa un anno e mezzo fa, Berlusconi ha chiesto ai dirigenti di aprire le porte al nuovo e sono cominciate le barricate. Oggi amministratori e dirigenti che per vent’anni hanno fatto da tappo si ergono a paladini del cambiamento ».
Poi l’affondo con chiaro riferimento a Fitto: «dirigenti che hanno governato e spesso devastato le regioni, come satrapi orientali, ora si ergono a paladini della democrazia: cercano l’ultimo giro di giostra, ma se continua così gli elettori chiuderanno il Luna Park».
Fitto? Di lui viene chiesto sottopalco all’amministratrice Rossi, e lei: «Si candidasse, del resto la candidatura gliel’avevamo proposta noi tempo fa. Se ora si candida saremmo contenti».
Ma è sulla vecchia guardia che l’amministratrice non lesina fendenti. «Il limite delle tre legislature? Forse sono poche, di certo nove sono troppe. Vuol dire che c’è qualcuno che sta in Parlamento da oltre trent’anni, Se tutti facessero così, non ci sarebbe più rinnovamento».
Riferimento non tanto a Romani (capogruppo, con sei legislature, la prima nel ’94), ma per esempio ad Altero Matteoli, che ne ha proprio nove, la prima nell’83, da 32 anni in Parlamento. La rottamazione insomma è cominciata.
Per il momento la vera grana resta la Puglia.
Fitto non parla e ordina ai suoi di «non replicare alle provocazioni». Ma parla il candidato ufficiale di Fi Francesco Schittulli che pretende di sapere entro pochi giorni dai vertici del partito se i fittiani saranno epurati o troveranno spazio nelle liste: «Ho diritto di sapere subito se qualcuno gioca a perdere», avverte.
Se non avverrà , lui getterà la spugna. E la candidatura di Fitto sarà conseguente.
Ma è un territorio in cui il partito è in guerra, si moltiplicano assemblee autoconvocate di forzisti (tutti vicini all’eurodeputato) e da Roma una nota del partito fa sapere che «non hanno alcun valore”.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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