Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
OGGI IN CITTà€ CON UNA PIOGGIA DI MILIONI: SERVONO A SBLOCCARE I CANTIERI E RILANCIARE LA SUA CANDIDATA…E NELLA NOTTE VENGONO CANCELLATE SCRITTE CHE LO CONTESTANO
“Quando c’era il fango di Renzi manco l’ombra. Adesso che ci sono le elezioni va sul Bisagno”. ![](http://s29.postimg.org/94bpt2qnb/PAITA.jpg)
Le parole di Anna Pietri e di tanti altri abitanti della Val Bisagno: oggi la visita di Renzi a Genova non sarà una passeggiata.
Non basterà quella manina anonima, stile Ventennio, che ha cancellato dai muri le scritte di contestazione al premier.
I sondaggi delle regionali non sono rassicuranti se Renzi ha deciso di venire due volte in una settimana per sostenere Raffaella Paita.
Che dai manifesti sorride sempre, ma non ha conquistato i liguri.
In Liguria il Pd è arrivato alla scissione dell’atomo. Così oggi Renzi piomberà in città con una pioggia di milioni: 379 per il Bisagno e poi, pare, 15 per gli Erzelli; progetto privato per una cittadella della tecnologia che sta rischiando di trasformarsi in operazione immobiliare. Targata Pd.
Risultato: un guaio che poteva portare a fondo la banca Carige. Così ecco il salvataggio con soldi pubblici.
Paita non la vede così: “Macchè visita elettorale. Renzi aveva promesso che sarebbe venuto a Genova solo con risultati concreti. Oggi li vedremo”.
Ma saranno sufficienti soldi e promesse per ricompattare il Pd? Basta visitare la storica sezione di Rivarolo, nel Ponente operaio di Genova — quella al centro dello scandalo brogli per le primarie — per capire che sarà dura.
“Tra i giovani prevalgono i sostenitori di Pastorino”, racconta Walter Rapetti, promessa del Pd locale. Qui i sostenitori della Paita sono minoranza. Poi ci sono i civatiani, divisi a loro volta in due: chi sostiene apertamente Pastorino e chi preferisce un appoggio ufficioso. I cofferatiani sembrano orientati per il voto disgiunto: presidente Pastorino, ma per il consiglio un candidato Pd.
Anche la posizione dei pezzi grossi democratici è tutt’altro che chiara.
Ufficialmente sostengono tiepidamente Paita, ma nel segreto dell’urna, chissà …
Alessandro Terrile, segretario genovese, è uno dei pochi a parlare chiaro: “Sosterrò Paita, ma vedo limiti e problemi. Dovremo scegliere candidati al consiglio che abbiano una visione anche didiversa dal Presidente”.
Una sorta di opposizione interna.
“Il punto”, sintetizza Christian Abbondanza della Casa della Legalità , “è che Paita rappresenta la continuità con il sistema di potere che dura da 25 anni e che ha portato la Liguria al record di disoccupazione (14%) nel Nord Italia. Per non parlare della cementificazione, delle inchieste, delle infiltrazioni mafiose, dello stillicidio di industrie che chiudono”.
Paita nei sondaggi è più debole del suo partito, ma è il cavallo su cui punta la Liguria del potere.
Si parla dei Malacalza (che hanno subito ricevuto la benedizione di Paita all’ingresso nella banca Carige), degli eterni protagonisti della scena economica locale come il terminalista Aldo Spinelli.
E di Carlo Castellano, imprenditore Pd degli Erzelli.
La calata su Genova dei vertici del Pd ieri è stata completata dal vice-segretario Lorenzo Guerini, chiamato a sbrogliare il nodo Ncd.
Difficile per ora che si formalizzi l’alleanza con Area Popolare. Intanto figure come Pierluigi Vinai — ex Forza Italia gradito al cardinale Angelo Bagnasco — stanno con Paita. C’è poi il centrodestra, che i maligni definiscono “un’altra corrente Pd”.
Nei sondaggi è incollato a Paita, ma ha candidato un marziano come Giovanni Toti che pare scelto per perdere e di ligure ha solo la residenza.
Non basta: nelle ultime ore è apparsa un’altra lista di centrodestra, guidata da Enrico Musso, ex senatore Pdl (dissidente) già candidato due volte in comune e una alle europee. Potrebbe togliere a Toti punti decisivi.
E gli altri? Il M5S candida Alice Salvatore. Giovane, entusiasta, dottoranda all’università : “Era mio dovere provare. Prima di lasciare Genova come tanti miei coetanei”, racconta.
I critici temono la sua inesperienza, ricordano che si era già candidata alle europee.
Ma il punto è un altro: tanti nel M5S volevano una coalizione con la sinistra.
“Mi sembra di avere in mano il biglietto vincente della lotteria per salvare la Liguria e di buttarlo nel cesso”, aveva detto Paolo Putti, capogruppo in Comune. Stando ai sondaggi avrebbero vinto. Ma Grillo ha detto no.
Ora la bandiera della sinistra è in mano a Pastorino, sindaco di un piccolo comune e deputato. “Sono l’unico rappresentante del centrosinistra, la Paita sta dall’altra parte”, sorride, ma non scherza.
I sondaggi lo danno leggermente indietro, ma se gli elettori del Pd puntassero sul voto disgiunto potrebbe essere la sorpresa.
Qualcuno sussurra che, in caso di sconfitta, potrebbe appoggiare Paita. Lui giura: “No”. Basta? No, c’è un altro schieramento a sinistra della sinistra.
Resta il sistema elettorale ligure, che pare ideato dall’inventore del Sudoku.
Se il vincitore non prende il 37% è costretto a un’alleanza. Ma un’affluenza bassa favorirebbe Paita.
L’arrivo di Renzi carico di milioni salverà la nave o sarà un boomerang in una Genova che fischiò anche il “suo” Grillo?
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
L’ITALIA CHE SI SBRICIOLA
Stavolta la colpa è – lo dice il sindaco di Ostuni, lo ribadisce il ministero dell’Istruzione, lo temono i vigili del fuoco di Brindisi che hanno controllato anche le altre classi – delle due ditte che hanno fatto lavori degni di far crollare cinque metri quadrati di intonaco sulle teste di bambini di sette anni.
Responsabilità delle due ditte e, s’accalora il sottosegretario Davide Faraone travolto dal fuoco delle accuse come responsabile politico della missione di governo sull’edilizia scolastica, di chi non ha fatto i controlli su quei lavori.
Questa volta l’edificio era stato sverniciato, reso energeticamente efficiente. Risistemato apparentemente, come quello che si aprì a Messina nel novembre 2008.
Le altre tragedie sfiorate che hanno seguito la tragedia compiuta di Rivoli – un ragazzo morto, diciassette feriti, uno paralizzato – si sono consumate invece dentro scuole vecchie.
Perlopiù degli anni Settanta e Ottanta che, lo si certifica tutti i giorni, sono state tirate su con mattoni malcotti, foratini malforati, eternit a infrastrutturarle: «Materiali scadenti», li definisce Pierluigi Saggese della struttura di missione in carica.
Trentasei incidenti solo nell’anno solare 2014, molti accaduti la domenica o durante la pausa mensa.
Ventisei a rischio vita nelle ultime quattro stagioni. Le aule italiane continuano a crollare, vengono giù soprattutto i soffitti instabili inseriti come sono su solai fradici e ammalorati. Ci sono 40 milioni del ministero solo per questa voce: “Soffitti e solai”. Sono pochi, come il resto.
Il sottosegretario Faraone nell’ultimo briefing al ministero ha parlato di 3,9 miliardi nella disponibilità del piano scuole “belle- sicure-nuove”, ma dopo faticose ricostruzioni – tra governo, unità di missione e Miur ognuno ha un suo sito con un suo punto di vista sulle cifre – si comprende che nei primi dieci mesi del 2014 di miliardi se ne è speso uno: 1.044 milioni, per la precisione. Uno su quattro, fin qui
L’accelerazione dell’ultimo governo non è travolgente se è vero che il governo Berlusconi – fonte Maria Stella Gelmini – tra il 2008 e il 2009 finanziò risistemazioni scolastiche per 1,620 miliardi e Maria Chiara Carrozza sotto Letta (che durò trecento giorni in tutto) sbloccò 450 milioni.
All’inizio del suo governo Matteo Renzi parlava di 10 miliardi da trovare in tre anni, ma l’Europa dei burocrati lo gelò – come ha rivelato il sottosegretario Roberto Reggi, poi sostituito – sulla possibilità di recuperarli in deroga al Patto di stabilità . Ancora nel 2009 la Protezione civile diceva che per rifare gli edifici scolastici d’Italia servivano tredici miliardi
La distanza tra le necessità , le promesse e le spese sul campo la si può leggere nel mattinale da questura del 2015.
Racconta degli ultimi sette crolli.
Otto gennaio, sei bambini feriti in una scuola materna di Sesto San Giovanni, nel Milanese: cadono intonaco e pignatte, l’istituto viene evacuato.
Diciassette gennaio: un controsoffitto crolla al liceo scientifico Guglielmo Marconi di Sassari in seguito alle infiltrazioni dell’acqua.
Diciotto febbraio: in una classe di un istituto alberghiero di Pescara si stacca l’intonaco dalla parete e ferisce, lievemente, due studenti alla testa.
Lo stesso giorno il bis a Villa Santa Maria in Chieti: nell’istituto Benedetto Croce, elementari e medie, esplode il vano caldaia dell’edificio per una perdita di gas, muri interni ed esterni sventrati.
Il 3 marzo la tragedia sfiorata è a Bagheria, otto chilometri da Palermo: scuola Cirincione, un bimbo ferito.
E l’uno aprile, infine, gli ultimi due eventi: si stacca una finestra a Campi Bisenzio, Firenze, e vien giù l’intonaco a Lucca. Dell’Alberghiero di Pescara, per dire, l’insegnante di educazione fisica ora dice: «Qui rischiamo ogni giorno l’incolumità , ci sono mille studenti e mille non ci dovrebbero stare».
Tra una settimana, questo è un risultato dopo diciott’anni di rilevazioni e dodici milioni spesi, il ministero dell’Istruzione presenterà l’anagrafe scolastica, istituto fino a ieri mitologico, come i dati sugli insegnanti precari.
L’aggiornamento necessario ci dirà , però, che a censire e mappare per bene la situazione si complica.
Non sono più un terzo gli istituti bisognosi di cure, ma oltre il 50 per cento: 21.230. Una scuola su due, in Italia, o è specialmente brutta o è davvero insicura.
«Abbiamo preso in mano cantieri partiti nel 2006», si giustificano alla missione, «rifar partire la macchina è stata dura».
L’ultimo monitoraggio del ministero dell’Istruzione – anche questo parziale, realizzato due anni fa – aveva fatto emergere che 15 scuole su cento erano accatastate come negozi, ex seminari, appartamenti ed edifici industriali.
Oltre metà dei plessi scolastici – 23 mila, quindi – ricadevano (e ricadono) in zone ad altissimo o ad alto rischio di terremoto.
Solo uno su sette è stato progettato rispettando norme antisismiche.
Corrado Zunino
(da “La Repubblica“)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
NEL DOCUMENTO ECONOMICO IL GOVERNO SCRIVE CHE LE “SPESE PER L’ISTRUZIONE ” CALERANNO DA QUI AL 2020… E I SOLDI PER L’EDILIZIA RESTANO QUELLI DI LETTA
Non c’è solo il crollo di Ostuni ad agitare il fronte della scuola, ma pure i soldi. L’istruzione doveva
essere una priorità , ma dai numeri del Def non si direbbe, anzi: il futuro è tutt’altro che roseo, almeno sul fronte delle risorse. Partiamo da qui.
Ieri la Rete della conoscenza ha attaccato il governo: “Matteo Renzi ha sempre detto di considerarla una priorità , e ora smentisce se stesso”.
La conferma è in una tabella del Documento di economia e finanza appena licenziato: vi si legge che nei prossimi 15 anni la spesa per l’istruzione — già ridotta al lumicino — è prevista in discesa in rapporto al Pil.
Secondo il Tesoro, resterà sostanzialmente stabile nel 2016, per poi scendere gradualmente.
Nel dettaglio: quest’anno dovrebbe attestarsi attorno al 3,7per cento del Pil per scendere al 3,5 nel 2020 e poi ancora giù fino al 3,3 per cento del 2030.
Dopo il 2035, quando i bambini di oggi avranno bambini, ricomincerà leggermente a salire (3,5 per cento nel 2060).
Secondo il governo, però, il calo vero e proprio si verificherà fino al 2020, perchè da lì in poi “sarà essenzialmente trainato da quello degli studenti indotto dalle dinamiche demografiche”.
Molto semplice: il paese invecchia, quindi ci saranno meno iscritti e meno risorse. Magra consolazione, tanto più che non è previsto nessun incremento.
Peggio ancora va nei prossimi anni nonostante un Pil stimato in crescita.
E qui è il paradosso.
Se questo sale — potrebbe giustificarsi il governo — è normale che in percentuale la spesa per l’istruzione diminuisca.
Vediamo come. In numeri assoluti, nei prossimi cinque anni, si passa da 60,6 a 64,4 miliardi. Sembra un aumento, ma non lo è.
Nello stesso periodo, infatti, il Tesoro stima un’inflazione che procede al ritmo dell’1,7-1,8% l’anno.
Tradotto: i fondi a disposizione di scuole e università non solo non cresceranno, come promesso, ma caleranno in termini reali.
Quei 3,8 miliardi in più in un quinquennio, infatti, non coprono nemmeno l’aumento dei prezzi. Visto il punto di partenza non è un bel segnale.
Secondo l’Istat, l’Italia è già il Paese che spende meno di tutti in Europa per l’istruzione in rapporto al Pil: nel 2012 era al 4,6 per cento , mentre la Spagna, per dire, spendeva il 5,5 per cento e Francia, Inghilterra, Svezia e Olanda erano sopra il 6 (la Danimarca è al 7,6).
Secondo l’Ocse, il think thank dei paesi ricchi, l’Italia è bel al di sotto della media: è l’unico Paese che registra una diminuzione della spesa tra il 2000 e il 2011 (-3 per cento, la media Ocse registra +38).
Ed è la seconda ad aver tagliato di più dal 2008, primo anno della crisi economica (-11 per cento, dietro la sola Ungheria).
Da allora alla scuola sono stati tolti oltre 8 miliardi.
Il triste primato riguarda anche l’Università , come ha spiegato la Commissione Ue: “Dal 2009 le risorse sono calate del 20%, ma per migliorare i risultati servono finanziamenti adeguati”, cioè più corposi. Il crollo del soffitto della scuola Pessina di Ostuni ha poi riacceso la polemica sui fondi destinati all’edilizia. Non è un mistero che Matteo Renzi abbia puntato sul capitolo buona parte delle sue carte.
Ieri, da Palazzo Chigi, è arrivato il consueto diluvio di risorse promesse e stanziate: “Abbiamo messo 3,9 miliardi”, comprensivi delle operazioni “scuole belle” (450 milioni per le piccole manutenzioni), “scuole sicure” (400 milioni per la messa in sicurezza) e “scuole nuove”(244 milioni).
Le risorse sono state incrementate, ma solo una parte è arrivata, cioè quella stanziata dal governo Letta con il “decreto del Fare” del giugno 2013 (794 milioni).
Per il resto — compresi gli 800 milioni del “decreto Mutui” — bisognerà attendere i prossimi mesi, se non proprio il 2016.
Ieri, poi, Sel ha denunciato la scomparsa dal Def di 489 milioni destinati alle scuole dal ministero delle Infrastrutture.
Soldi apparsi nelle bozze e poi scomparsi dal testo definitivo. “Sono stati semplicemente messi a bilzancio, nessun taglio”, spiega al Fatto Laura Galimberti, responsabile dell’unità tecnica di Palazzo Chigi.
Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
IL FILM DELICATO E AUTENTICO DI NANNI MORETTI
Se è vero —e lo è — che i grandi film sono quelli in cui si ride e si piange molto, Mia madre di Nanni Moretti è un grande film.
Perchè fa ridere con le lacrime agli occhi e fa piangere col sorriso sulle labbra.
Ci voleva del coraggio a cimentarsi in una storia così vera e così drammatica come quella della regista che perde a poco a poco la mamma mentre gira una pellicola sulle proteste operaie in una fabbrica, visto soprattutto quel che si vede di solito nei cinema made in Italy.
Ma soprattutto ci voleva del talento, vero e maturo, per riuscirci come ci è riuscito Moretti in quello che forse è il suo film, se non più bello, senz’altro più completo e compiuto.
Anni fa, in una lunga e famosa polemica, Dino Risi gli aveva suggerito beffardo: “Quando vedo un lavoro di Nanni, mi viene sempre voglia di dirgli: spòstati e fammi vedere il film”.
Stavolta Nanni si è scansato, eccome se si è scansato.
Ancor più che in Habemus Papam, dove il papa era lui ma aveva il volto e il corpo di Michel Piccoli, e Nanni interpretava lo psicologo.
Qui la perdita della madre durante la lavorazione proprio di quel film è capitata a lui, che però ha ceduto se stesso a una splendida Margherita Buy.
Così, per la prima volta, Moretti non fa Moretti. E la Buy non fa la Buy.
Fanno l’uno il personaggio dell’altro.
Lei protagonista, nei panni della regista un po’ stronza, astrusa e capricciosa.
Lui deuteragonista, il fratello borghese nevrotico, depresso e buono.
Così, oltre a sorprendere tutti, infilano le loro rispettive, migliori interpretazioni. Aiutati dalla scrittura di Valia Santella e Francesco Piccolo e dall’immensa attrice Giulia Lazzarini, la madre malata, sempre in perfetto equilibrio e senza mai scadere nella retorica del patetico; e da un pirotecnico John Turturro, a cui è affidata la parte comica dell’attore americano smargiasso e smemorato, che parla come Stanlio e Ollio e blocca tutti i ciak perchè si scorda il copione oppure gli prudono i baffi posticci.
E soprattutto non capisce quando la regista Buy (alias Moretti) ripete in continuazione sul set “voglio vedere l’attore accanto al personaggio”, terrorizzando gli attori con una frase-supercazzola che alla fine anche lei (alias lui) confessa di non aver mai capito che diavolo significhi. Però suona bene.
Lei che appare così decisa, solida e sicura di sè, mentre in realtà nasconde turbamenti, incertezze, inadeguatezze, visioni e incubi inquietanti.
Alla fine la vita prende il sopravvento a tal punto, che Turturro si ribella e si mette a urlare: “Basta cinema, fatemi uscire dalla finzione, ridatemi la realtà !”.
O qualcosa del genere.
“Di solito faccio passare parecchio tempo tra un film e l’altro. Ho bisogno di lasciarmi alle spalle l’investimento psicologico, emotivo del film appena fatto. Ci metto sempre un bel po’ di tempo per ricaricarmi. Stavolta invece, appena uscito Habemus Papam, ho cominciato subito a pensare a Mia madre . Ho iniziato a scrivere quando nella mia vita erano appena successe le cose che poi ho raccontato nel film. Dopo la prima stesura della sceneggiatura, sono andato a rileggermi i miei diari scritti durante la malattia di mia madre perchè immaginavo che quei dialoghi, quelle battute, avrebbero potuto aggiungere peso e verità alle scene tra Margherita e la madre. Ecco, rileggere quei quaderni è stato doloroso”.
Il dolore, la malattia, la morte, per chi se ne va e per chi resta, ma anche l’allegria quotidiana che strappa sane risate, sono raccontati con una delicatezza e un’autenticità e una laicità che possono arrivare soltanto dalla vita vera.
La vita di una famiglia borghese con la mamma prof di latino che ha fatto dell’insegnamento non un mestiere, ma una missione, e infatti gli ex alunni continuano ad andarla a trovare per prendere un caffè e parlare di politica, e infatti lei anche con la maschera di ossigeno continua a dare ripetizioni alla nipote, e infatti lei si accorge degli amori e dei disamori della ragazza molto più dei genitori distratti. Tutto questo fa di Mia madre un film talmente semplice, disarmante e soprattutto serio (specialmente quando fa ridere) da non sembrare neppure italiano.
Italiano nel senso dell’Italia di oggi, e del cinema di oggi.
Un film straniero in patria, ma piuttosto raro anche per un film straniero.
Un film “politico”, come l’ha definito Moretti proprio per quello che, al primo impatto, sembrerebbe il meno politico.
Invece ha ragione: è il suo film più politico, anche se non parla della “politica” politicante, cioè di quella robaccia che siamo abituati a chiamare politica e invece è tutto fuorchè politica.
Politica è occuparsi della vita, della morte, della malattia, della sofferenza, degli ospedali, delle fabbriche, delle cariche della polizia, dei ragazzi a scuola e delle donne (che sono le protagoniste assolute del film).
E portar da mangiare la pasta corta nella scatola di plastica alla madre malata in corsia, perchè la pasta lunga della clinica diventa una colla.
Politica è mostrare la regista alle prese con le solite domande stanche dei giornalisti impegnati che partono da “questo momento così delicato per la società ” e dalla “coscienza del Paese reale”, e costretta prima a rispondere in automatico con le eterne frasi fatte, prima di accorgersi che “ripeto le stesse cose da anni perchè tutti pensano che io, in quanto regista, sappia interpretare la realtà , ma io non capisco più niente”. Nessuno, neppure noi, aveva capito perchè Moretti, dopo la stagione dei Girotondi, si fosse assentato dalla politica attiva.
Questo film è la sua risposta a tutti: per lui, oggi, la politica attiva è questa.
Purtroppo, solo per lui.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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