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RENZI SI TIENE ALLA LARGA DAGLI IMPRESENTABILI DI DE LUCA E DA EMILIANO CHE LO ATTACCA SULLA SCUOLA

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

LA BOSCHI ANNULLA LA VISITA A BARI… RENZI TEME DI PERDERE IL CONTROLLO DEL SUD E FA IL TIPO PER CALDORO, PIU’ FUNZIONALE AL SUO PROGETTO DI PARTITO DELLA NAZIONE

Il primo indizio è nell’agenda di Matteo Renzi dove, al momento, non sono ancora state fissate le date delle sue discese nel Sud, a sostegno di Vincenzo De Luca e di Michele Emiliano.
E anzi, complice la tragedia di Secondigliano e il lutto cittadino, qualche giorno fa il premier non è andato a Napoli dove aveva in programma un solo appuntamento “istituzionale”, l’inaugurazione della metro napoletana.
Su De Luca ormai l’imbarazzo, complice la vicenda degli impresentabili in lista, è palpabile, al punto che un osservatore molto attento, come il filosofo ed ex parlamentare Biagio De Giovanni in un’intervista al Mattino (a cui non ha replicato nessuno dei big del Pd) dice: “L’impressione che si ha è che De Luca non sia completamente gradito a Renzi. Una sua eventuale sconfitta gli toglierebbe il problema della destituzione e del reintegro. La neutralità  del premier nasce anche dalla voglia di non sentirsi responsabile del caos che deriverebbe dal successo dell’ex sindaco di Salerno. Per questo un 5 a 2 potrebbe andargli bene”.
E se in Campania — paradossalmente ma non troppo — nell’ottica di Renzi il male minore sarebbe la vittoria di Caldoro, in Puglia non è in discussione che il premier sia contento della vittoria annunciata di Emiliano, ma i segnali dicono che la storia è assai più complicata.
Il secondo indizio è l’annullamento della visita del ministro Boschi, previsto per sabato scorso a Bari, alla manifestazione faraonica a sostegno di Emiliano prevista al Cus Bari.
E se più indizi fanno una prova, non è difficile intravedere dietro la formula di rito degli “appuntamenti istituzionali” (usata per giustificare l’assenza dalla ministra, che al suo posto ha spedito il sottosegretario Scalfarotto), la prova.
Già , la prova di quello che Lello Parise sulla Repubblica di Bari chiama il “grande freddo” tra Emiliano e Renzi.
Un grande freddo che, andando a scavare, ha motivazioni profonde. Politiche.
Il fatto che Emiliano e Renzi si rispettino ma non si amino è chiaro sin da quando, un anno fa, il premier inventandosi le capolista donne, negò a Emiliano di guidare la lista del Pd al Sud e l’altro rinunciò al seggio alle Europee.
Ed è chiaro sin da quando il potente sindaco di Bari, il cui nome girava per un incarico di peso nel governo Renzi, non fu coinvolto nel nuovo esecutivo.
Ma negli ultimi giorni si sono consumati strappi tutti politici culminati con l’annullamento della visita della Boschi.
La fotografia della tensione tra Emiliano e Renzi sta nella fascetta nera al braccio, esibita in segno di lutto, che i consiglieri comunali del Pd al Comune di Bari portavano al braccio.
Il lutto lo spiega il capogruppo del Pd Marco Bronzini: “È la nostra protesta contro la riforma della scuola. Il disegno di legge non è emendabile: il governo Renzi non può passare alla storia per la distruzione della scuola pubblica. Il mondo della cultura è indignato”.
Parole da opposizione (e pure dura).
Come parole da opposizione (e pure dura) sono quelle che ha messo nero su bianco in un ordine del giorno, qualche giorno prima, la direzione regionale del Pd di Emiliano (che ricopre anche la carica di segretario regionale).
Il documento approvato impegna “i parlamentari pugliesi del Pd a mettere in campo tutte le azioni possibili perchè il ddl sulla “Buona Scuola” venga ritirato dal governo” perchè prefigura “un modello di scuola-azienda in profondo contrasto con l’idea da sempre vincente della scuola comunità  educante fondata sull’inderogabile principio della libertà  di insegnamento”.
Ecco, il Pd pugliese di Emiliano, nel pieno delle contestazioni al governo e con i sindacati in piazza, si schiera apertamente contro palazzo Chigi sulla scuola.
Un profilo gauchistes che secondo i più maliziosi della cerchia ristretta di Renzi lascia già  intravedere le ambizioni (o le velleità ) di leadership nazionale di Emiliano nel ruolo futuro di anti-Renzi: “La sua partita — dice un renziano di ferro — è chiara.
Renzi non controlla più di tanto il partito al Sud. In Sicilia c’è Crocetta, in Calabria Oliverio che si definisce comunista, in Campania rischia di vincere De Luca e in Puglia Emiliano. Emiliano vuole mettersi a capo di questo partito del Sud e puntare al prossimo congresso”.
Sia come sia è certo che più volte l’ex sindaco di Bari ha intonato il controcanto al governo, come sul caso dell’infrastruttura Tap – il gasdotto trans-adriatico – che a Renzi (e a Blair) sta molto a cuore: “Tutta la Puglia — ha detto Emiliano — non ci sta”. E pure sulle pensioni ha detto: “Se pensano di rimediare toccando i fondi per il Mezzogiorno, avranno a che fare con me”.
A conferma che il “caso” non è banale le parole di Lorenzo Guerini, il mediatore, arrivato a Bisceglie proprio per provare a stemperare il clima: “Emiliano ha la caratteristica di essere diretto, poco incline a usare la diplomazia… Nessuno gli chiede di iscriversi al pensiero unico. Non inventiamo polemiche. Ci sarà  occasione in futuro per misurarsi col presidente del Consiglio. Al momento mi sento di escludere che ci sia tensione fra i due, al massimo diversità  di vedute”.
E se la colomba Guerini parla di diversità  di vedute, significa che la tensione non è ricomposta.
Come non è ricomposta con Vincenzo De Luca, al punto che inizia a circolare in ambienti informati del Pd la tesi che “per come si è messa, Renzi auspica una vittoria di Caldoro”.
Per il partito della Nazione in fondo è meglio lui dell’indomabile De Luca.
Con lui, sotto la linea Gotica palazzo Chigi avrebbe un “nemico” in meno.

(da “Huffingtonpost”)

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IL CAVALIERE PREPARA LA SUA EXIT STRATEGY: “MA COME NEGLI ANNI ’80 SOSTERRÒ QUALCUNO”

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

UN PARTITO TRASFORMATO IN GUARDIANO DEGLI INTERESSI DI ARCORE

La grande fuga è pronta. Di più: è già  iniziata.
Cessioni importanti, aziende e capitali freschi da dividere tra figli e nuovi investimenti, un partito da mantenere in vita soltanto come lobby istituzionale.
Da offrire al miglior offerente. «Prima pensavo Renzi, ora non credo ».
Nel declino triste di un impero, prende forma l’exit strategy di Silvio Berlusconi.
Fuga dal palcoscenico, naturalmente, non significa solo salpare per Antigua. Piuttosto dare ascolto agli uomini-azienda come Fedele Confalonieri ed Ennio Doris, governativi a prescindere. «Metti tutto in sicurezza, Silvio ».
Si intravede così, dietro la polvere di una campagna elettorale pasticciata, un “nuovo Silvio”. Identico al “vecchio Silvio”, che manovrava dietro le quinte del potere.
«Come ai tempi di Bettino».Un partito trasformato in guardiano degli interessi di Arcore.
Alla soglia degli ottant’anni, incandidabile fino al 2019 a meno di un miracolo della Corte di Strasburgo, indebolito nella voce e costretto a ostacolare un delfino dietro l’altro, Berlusconi si immagina “regista”.
«Sostiene di voler essere il padre nobile del centrodestra — ragionava pochi giorni fa Angelino Alfano — Non è la prima volta, bisogna vedere se stavolta è vero».
Molto dipenderà  dal voto amministrativo di fine mese.
Se restassero solo le macerie, la prima opzione — anche se pubblicamente smentita — diventerebbe il soccorso azzurro a Palazzo Chigi.
Limitato alle riforme, per tornare centrali e difendere le aziende. Non è detto che finisca così.
Perchè Berlusconi è disposto a spendere quel che resta della sua creatura nella missione politica più conveniente. «Mi piacerebbe aggregare i moderati », è il ritornello.
Oppure, in assenza di leader emergenti (i test sulla figlia Marina non offrono riscontri soddisfacenti), sostenere a tempo debito la cavalcata dell’alleato Matteo Salvini.
A chiunque, d’altra parte, farebbero comodo le molteplici risorse dell’ex premier.
Un passo dietro i riflettori, come ai tempi di Bettino.
E Forza Italia? Magari con un restyling, resterebbe una filiale del cerchio magico di Francesca Pascale e Maria Rosaria Rossi, Deborah Bergamini e Giovanni Toti.
Neanche l’imbarazzante 4% in Trentino ha stravolto gli equilibri, semplicemente perchè la batosta politica lascia indifferente il capo.
«Giocherà  dietro le quinte — sussurra Raffaele Fitto, che questa dinamica l’ha capita prima di altri — Oggi si è lasciato scappare la verità , quando ha detto di essere ormai fuori dalla politica. E quindi è normale che quando gli parlo di primarie e di politica, lui giustamente si scoccia: si sta occupando di Milan e aziende… ».
Aziende e Milan, si diceva. Lo schema è sempre più chiaro.
E i segnali si moltiplicano, nonostante i continui stop and go. Una quota della società  rossonera finirà  in mani cinesi, ma un ruolo di primo piano — e probabilmente di controllo — sarà  occupato dalla figlia Barbara.
Marina governa e continuerà  a governare Mondadori, mentre la posizione di Pier Silvio in Mediaset è stata rafforzata solo due settimane fa: confermato vicepresidente, ha aggiunto anche l’incarico di amministratore delegato.
La “promozione” del secondogenito si consuma mentre si ragiona di una cessione a Sky di Mediaset Premium e di un riassetto complessivo delle partecipazioni, che coinvolgerebbe anche i francesi di Vivendi (è di pochi giorni fa un faccia a faccia parigino tra l’ex premier e Vincent Bollorè).
Anche Luigi ed Eleonora verranno consolidati nelle rispettive posizioni.
Sul fronte politico vanno salvate almeno le apparenze.
Per questo gli ultimi dieci giorni di campagna elettorale condurranno Berlusconi in Campania per l’intero week end. E poi ancora in Veneto, Umbria e Marche.
Difficilmente basterà  a limitare i danni, visto che la frantumazione di Forza Italia è ormai evidente.
Dei centonovantacinque parlamentari eletti nel 2013, ne resteranno meno di cento dopo la scissione di Fitto. Un disastro.
Eppure: «A noi fittiani neanche ci cercano più ammette Pietro Laffranco — perchè tra loro è passata la linea del “meno siamo, meglio stiamo”».
È la stella polare del cerchio magico, in effetti.
E non a caso, adesso, nel mirino c’è Denis Verdini. Meno siamo, meglio stiamo. «Vedremo cosa accadrà  il primo giugno…», si tormenta il verdiniano Ignazio Abrignani. Nulla di buono, ad occhio.

Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)

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BOERI: “IN 6 ANNI I POVERI CRESCIUTI DA 11 A 15 MILIONI, NON ERA INEVITABILE”

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

IL PRESIDENTE DELL’INPS: “DAL 2008 LE FAMIGLIE INDIGENTI SONO PASSATE DAL 18% AL 25% DEL TOTALE”… “SUBITO UN REDDITO MINIMO ALMENO PER GLI OVER 55”

Un aumento di un terzo in sei anni. Le famiglie italiane che vivono sotto la soglia di povertà  sono passate, durante la crisi, dal 18 al 25% del totale.
E le persone coinvolte, che erano 11 milioni, sono salite a 15 milioni.
Lo ha detto Tito Boeri, presidente dell’Inps, in audizione in commissione Affari sociali alla Camera.
“È la povertà  il nodo centrale” per l’Italia, ha avvertito l’economista.
“Il 10% più povero nella distribuzione dei redditi ha subito una riduzione del 27% del proprio reddito disponibile, mentre il 10% più ricco della popolazione ha subito una riduzione del 5%”.
Quanto al ceto medio, “ha subito una riduzione del reddito del 5%”.
A conti fatti, dunque, “i costi della crisi sono sulle persone più povere del Paese”. E sulle più deboli, considerato che la crescita della povertà  ha riguardato soprattutto la fascia dai 55 ai 65 anni, i giovani e le famiglie con figli.
Per altro questo declino, ha attaccato Boeri, “non era inevitabile. Altri Paesi che hanno conosciuto crisi di entità  comparabile alla nostra”.
Qual è il problema, allora? “Noi non abbiamo un sistema di prestazione sociale di trasferimenti alle famiglie che sia in grado di contrastare la povertà ”.
Oggi infatti solo il 3% delle prestazioni sociali erogate in Italia va al 10% più povero della popolazione.
Il quadro italiano degli interventi a favore delle fasce deboli è pessimo: “Gli strumenti di contrasto alla povertà  necessitano di una efficiente amministrazione delle politiche del lavoro e delle politiche attive: oggi questa capacità  in Italia non esiste, in molte regioni non c’è”.
Dopo i dati, la ricetta.
Quella che il cofondatore di lavoce.info ha già  proposto più volte: “Le misure di contrasto alla povertà ”, a partire da quelle per la fascia 55-65 anni perchè “dai 55 anni in su è possibile creare delle misure con le risorse di cui già  oggi l’istituto dispone” e senza che ci siano rischi di “azzardo morale” (cioè accesso al beneficio da parte di chi non ne ha diritto) dato che a quell’età  quando si perde il lavoro lo si ritrova solo nel 10% dei casi.
Questo intervento “non vuole opporsi o essere in contraddizione con quelli di cui necessita la fascia d’età  più giovane”, ha spiegato l’economista.
Anzi, “l’auspicio è che il governo, supportato dal Parlamento, affronti questo problema. A quel punto davvero si potrebbe avere un sistema di reddito minimo che supporti l’intera popolazione italiana”.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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I FONDI DEL JOBS ACT SPOSTATI ALLA VECCHIA CASSA IN DEROGA

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

PALAZZO CHIGI PRELEVA UN MILIARDO DAL FONDO AD HOC ISTITUITO DALLA LEGGE DI STABILITà€… DELLA RIFORMA LAVORO PER ORA RESTA SOLO L’ABOLIZIONE DELL’ARTICOLO 18

La favola dei “carri armati di Mussolini” torna sempre buona nella politica italiana. Almeno a giudicare da quanto deciso dal Consiglio dei ministri e annunciato dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti: “Spostiamo un miliardo di euro dal fondo per il Jobs Act e li mettiamo alla cassa in deroga”.
Il testo diramato dal Consiglio dei ministri è un po’ più vago: “Sono previsti il rifinanziamento per 1 miliardo di euro degli ammortizzatori in deroga per il 2015 (mobilità  e cassa integrazione) e il rifinanziamento dei contratti di solidarietà  per 70 milioni di euro”.
Poletti infatti, spiega da dove viene preso il “rifinanziamento”: dal Jobs Act, che viene depotenziato per poter sostenere la più tradizionale e solida cassa in deroga.
Quella, cioè, che esula dalla cassa integrazione ordinaria e straordinaria — finanziate dai contributi versati da aziende e lavoratori — e che invece è tutta a carico della finanza pubblica.
Questa forma di intervento assistenziale dovrebbe via via sparire per essere sostituita, dal 2016, interamente dal nuovo sussidio di disoccupazione, la Naspi e dai suoi addentellati, Asdi (assegno di disoccupazione) e Dis.Coll. (disoccupazione per i collaboratori).
In realtà , ancora nel 2015 resta una delle misure di più pronto intervento per tamponare crisi, più o meno risolvibili, e dare una risposta ai lavoratori che rischiano di rimanere senza lavoro e senza reddito.
Nonostante sia stata ridotta a cinque mesi nell’arco dell’anno.
Si spiega così la decisione del governo di provvedere con un miliardo fresco fresco che servirà  sia a sostenere le Cig già  deliberate per il 2014 e a finanziare gli accordi che stanno per essere siglati nell’anno in corso.
Solo che i fondi vengono prelevati da un salvadanaio che sarebbe dovuto servire ad altro. “Non è proprio così”, fanno sapere dal ministero, visto che il comma 107 della legge di Stabilità  per il 2015, quello dal quale vengono prelevate le risorse, serve anche a finanziare “l’attuazione dei provvedimenti normativi di riforma degli ammortizzatori sociali, ivi inclusi gli ammortizzatori in deroga”, oltre che “i servizi per il lavoro e delle politiche attive, di quelli in materia di riordino dei rapporti di lavoro e dell’attività  ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, nonchè per far fronte agli oneri derivanti dall’attuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Come si vede, molte voci e molti problemi per i quali la Stabilità  ha stanziato 2,2 miliardi nel 2015 e 2016 e 2 miliardi a decorrere dall’anno 2017.
Possibile che, detratto un miliardo, tutte le altre voci possano restare indenni?     Guglielmo Loy, della segreteria Uil, che plaude alla decisione del governo, pensa che non sarà  così.
“Le risorse — spiega al Fatto — verranno a mancare, magari a settembre o in prossimità  della nuova legge di Stabilità . E allora si procederà  di nuovo a ulteriori interventi, magari spostando risorse da altre voci”.
Loy fa riferimento, ad esempio, a quei fondi di solidarietà  istituiti dalla Fornero nel 2012 che, in prospettiva della sostituzione della cassa in deroga, sono stati finanziati con lo 0,50% degli stipendi da aziende e lavoratori.
“Ci sono dai 200 ai 400 milioni in cassa, presso l’Inps, che però non possono essere spesi perchè il ministero non ha nominato il Comitato di gestione del fondo”.
Altri carri armati, in questa ipotetica scacchiera della guerra per il lavoro.
Anche la Cgil, con Serena Sorrentino, sottolinea di aver avuto “ragione” a chiedere il rifinanziamento di “ammortizzatori in deroga e solidarietà ”, l’altra voce su cui ieri Poletti ha annunciato lo stanziamento di altri 70 milioni.
Ma poi chiede al governo di riorganizzare davvero il comparto con l’utilizzo di “contratti di solidarietà , il finanziamento della cassa in deroga, la correzione del decreto sulla Naspi”.
Il Jobs Act, in effetti, sembra essere un cantiere tutto aperto in cui spicca solo la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Per quanto riguarda l’Aspi e altre forme di sussidio, l’Inps ha diramato solo pochi giorni fa la circolare che consente di fare domanda.
Non è ancora chiaro come sarà  gestita la mobilità  che ancora ieri è stata rifinanziata.
E non è chiaro su quante risorse, davvero, possa contare il Jobs Act.

Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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UN FURTO CHIAMATO BONUS, MA RENZI GUADAGNA DUE ANNI DI TEMPO IN ATTESA DEI RICORSI CHE GLI DARANNO TORTO

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

IL GOVERNO RESTITUIRà€ AI PENSIONATI SOLO LE BRICIOLE DEI SOLDI CHE MONTI GLI AVEVA TOLTO ILLEGALMENTE

Il ministro dell’Economia, ieri nella sala stampa di palazzo Chigi, metteva le mani avanti: “Nessuno perde niente. Il problema è chi ci guadagna e quanto”.
Pier Carlo Padoan si riferiva al decreto appena approvato dal Consiglio dei ministri per “sterilizzare” la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il blocco delle pensioni deciso da Mario Monti per il 2012 e 2013.
In sostanza, ai pensionati vanno le briciole o niente di quel che hanno perso (vedi gli esempi qui accanto): il primo agosto riceveranno un versamento una tantum che sembra un’elemosina ribattezzato “bonus Poletti”, dal nome del ministro del Lavoro.
La comunicazione è importante, però il racconto dei nudi fatti dice altro: ad alcuni milioni di cittadini italiani sono stati sottratti illegittimamente dei soldi, ora si decide di ridargliene una parte e gli si chiede pure di essere felici.
“Nessuno perde niente. Il problema è chi ci guadagna e quanto”, secondo Padoan.
Una forma di “ravvedimento operoso” che farebbe la felicità  di ladri e rapinatori se potessero usufruirne.
Restituiti 2,1 miliardi su 16: 700mila esclusi dal rimborso
I numeri, prima di scappare via, li ha dati Matteo Renzi.
Il “Bonus Poletti” riguarda 3,7 milioni di pensionati su quasi 4,5 interessati dalla sentenza della Consulta e costerà  in tutto 2,1 miliardi per sanare il periodo 2012-2015.
Gli interventi sull’anno prossimo invece — cioè la maggior spesa futura dovuta all’aumento degli assegni da rivalutare — saranno demandati alla Legge di Stabilità . Numeri ufficiali ancora non sono stati considerati, ma secondo Renzi, rispettare la sentenza alla lettera sarebbe costato “18 miliardi” da “togliere ad altri: dagli asili alle infrastrutture”.
Padoan, invece, s’è limitato a dire che il deficit sarebbe schizzato al 3,6%: il costo, insomma, si aggirava sul punto di Pil (poco menodi16miliardi).Inrealtà ,il pregresso dovrebbe valere 10-12 miliardi: anche in questo caso, comunque, lo stanziamento del governo è al massimo il 20% di quanto sottratto ai pensionati in passato e ancor meno se si tiene conto dei mancati introiti futuri.
La mancia: 750 euro in tutto a chi ne prende 1.300 netti
Il governo — per rispettare la “progressività ” chiesta dalla Consulta — ha deciso di individuare varie fasce di reddito da pensione a cui dare i rimborsi: chi ha assegni da 1.700 euro lordi (1.300-1400 netti), ad esempio, avrà  750 euro una tantum e un aumento di 180 euro l’anno. Tutto lordo.
Peccato che secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) gli spettassero circa 3.000 euro di arretrati (2012-2015) e un aumento di reddito annuale di 1.230 euro.
Seconda fascia: chi prende circa 2.200 euro (1.700-1800 netti) avrà  450 euro ad agosto e un aumento di 99 euro l’anno (invece di circa 5mila euro per il pregresso e una pensione più alta di 1.500 euro l’anno).
I pensionati da 2.700 euro lordi (circa duemila netti) potranno folleggiare invece con un “Bonus Poletti” da 278 euro e un aumento da 60 euro: per loro l’Upb ha calcolato un danno subìto di circa seimila euro e una pensione da aumentare di 1.800 e più.
Niente “bonus”, infine, per chi ha assegni sopra i 3.200 euro lordi: la pensione media dei “ricchi” — secondo l’Upb — vale circa 5mila euro lordi al mese e ha avuto perdite per poco meno di diecimila euro per il passato e quasi tremila sul reddito annuo.
Ora nuovi ricorsi, ma Renzi guadagna un paio d’anni
Il decreto del governo sulle pensioni — quando sarà  approvato dalle Camere (per ora non c’è nemmeno il testo) — sarà  oggetto di una nuova ondata di ricorsi. Non senza ragione. Dice Riccardo Troiano, il legale che ha rappresentato Federmanager e Manageritalia alla Consulta: “Si poteva fare molto di più e molto meglio, così il decreto depotenzia la sentenza: se questa norma dovesse arrivare alla Corte Costituzionale, ci arriverà  malconcia. Potenzialmente avrebbero potuto ricevere tutti il rimborso, invece non lo ricevono tutti, non lo ricevono per intero e pure tardi”.
Anche se l’avvocato avesse ragione, il treno della Consulta è lento: male che vada il governo ha comunque guadagnato un paio d’anni.
Sempre che le critiche e le velate minacce arrivate alla Corte in questi giorni non sortiscano effetti riducendola a più miti consigli (una prova si avrà  per le prossime sentenze di peso: blocco degli stipendi degli statali; contributo sulle pensioni d’oro; aggio di Equitalia).
D’altronde, se il governo accetta il modello contabile e le rigidità  ideologiche della Commissione Ue (e lo ha fatto), conculcare i diritti costituzionali in nome del solo articolo 81 sul pareggio di bilancio è l’unica via che gli resta.
Si potrà  andare in pensione prima (con penalizzazioni)
Renzi ieri ha annunciato anche altre novità  sul tema previdenza: intanto la pensione arriverà  il primo del mese, poi — bontà  sua — il governo ha deciso di non decurtare gli assegni nonostante la decrescita del Pil lo autorizzerebbe a farlo (nessuno, però, finora ne ha avuto il coraggio).
Infine, il premier ha fatto sapere che in autunno riformerà  la legge Fornero: “Se una donna a 62 anni preferisce andare in pensione prima e stare col nipotino, rinunciando a 30-50 euro, bisognerà  trovare le modalità  per cui, sempre con attenzione ai denari, questo si possa fare”.
Il problema è che, senza soldi presi dalla fiscalità  generale, la penalizzazione col contributivo è assai più onerosa di 50 euro al mese.

Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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ECCO IL VERO “CETTO LA QUALUNQUE”: LIMOUSINE BIANCA E COMIZI IN DIALETTO PER GERARDO BEVILACQUA

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

IMPRESARIO DI NEOMELODICI IN CORSA A CERIGNOLA, SPOPOLA IN RETE E IN PIAZZA

Il video di un suo comizio ha raggiunto, su YouTube, quasi 60 mila visualizzazioni: più o meno quanti sono gli abitanti di Cerignola. Dove a sentirlo, giovedì, c’era la piazza piena: 7 mila persone. «No, 14 mila», insistono gli organizzatori.
Poco cambia, nessuno avrebbe immaginato, qualche settimana fa, tanto pubblico per Gerardo Bevilacqua, candidato sindaco ribattezzato dalla Rete il «Cetto La Qualunque» di Cerignola grazie alle performance nei suoi comizi, presto diventati un fenomeno, sul web e non solo. Condivisi sui social, ripresi dai siti, mentre sono comparse pure le magliette con la sua faccia e lo slogan: «Io sono Ribbellione», da una sua frase cult.
La sua notorietà  ha varcato i confini di Foggia anche se lui parla solo dialetto.
Dice di essere «alfabete»: «In italiano non so parlare, ho poche scuole, non ci sono andato, sono cresciuto in mezzo alla strada».
Assicuratore, corre a sindaco per la sua città  con la lista Voci Nuove: è il nome dell’associazione di cantanti neomelodici da lui diretta, che organizza spettacoli.
Alla Rete si è presentato a fine aprile con un video diventato virale: picchiava un assistente che aveva organizzato una cena elettorale. I conti non tornavano: e giù schiaffi, un calcio e una sedia tirata contro. «Era di plastica», si scusa
Poi i video dei comizi, dove arriva in limousine bianca, e gli interventi show, con le frasi urlate in cerignolano contro i politici: «Vergogna! Tutti a casa! Basta tasse comunale! ( sic )».
Vendola ed Emiliano? «Lavorano solo per una parte della Puglia: a Bari la ricchezza, a Foggia la monnezza».
Contro l’inceneritore: «Lo butto a terra». E , nella terra di Di Vittorio, si spende contro la povertà  e per i braccianti: «Famiglie che hanno bisogno di mangiare, aiutiamole. Come? Un pezzo di pane, diceva Padre Pio. Le bocche sono sorelle».
Lui, figlio di una bracciante, 6 fratelli, dice di sapere cosa sia la povertà : «Sono cresciuto a pane secco». Racconta di un passato travagliato: «Ho sbagliato qualcosa, ero un ladro per povertà , di galline. E a quelli voglio parlare ora. Qua ci sono tanti ragazzi che vanno a rubare, ma la delinquenza con me finisce. Non li mando in galera, gli do un lavoro».
E dire che il confronto alle Comunali di Cerignola sarà  con un filosofo, Tommaso Sgarro (centrosinistra), e Franco Metta (civica), avvocato dal linguaggio forbito, tra i favoriti. Poi è arrivato lui, parlando solo dialetto: non avendo studiato, non ha «il cervello logoro come avvocati e medici», spiega.
E c’è chi dice che potrebbe arrivare a mille voti ed entrare in consiglio comunale.

Renato Benedetto

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PAGHERETE CARO, PAGHERETE TUTTO

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

RENZI VUOLE DIVIDERE TRA SCIPPATI DI SERIE A E QUELLI DI SERIE B

Il premier e segretario del partito di governo occupa di domenica pomeriggio il primo canale della televisione pubblica per annunciare ciò che il Consiglio dei ministri deve ancora decidere, senz’alcun contraddittorio e in spregio delle regole della par condicio a due settimane esatte dalle elezioni europee, e promette soldi a 4 milioni di elettori pensionati, esattamente come aveva fatto alla vigilia del trionfo elettorale alle Europee dello scorso anno con l’annuncio degli 80 euro.
Intanto la sua ministra favorita trova il modo di comparire nelle dirette televisive e nei servizi sulla finale degli Internazionali di tennis al Foro Italico nelle vesti di premiatrice del vincitore Novak Djokovi›, manco fosse la duchessa di Kent a Wimbledon o Miss Maglietta Bagnata al traguardo della Milano-Sanremo.
Detta così, senza i nomi, pare una cronaca di ordinario regimetto berlusconiano con i verbi al passato.
Invece i verbi vanno coniugati al presente, perchè i nomi sono quelli di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi.
Ma c’è anche una questione di merito: e cioè la disinvolta soluzione escogitata dal premier per aggirare, con l’aria di rispettarla, la sentenza della Corte costituzionale sulla legge Fornero che bloccava l’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo: una mancetta al massimo di 750 euro che dovrebbe essere scucita in agosto ad alcuni dei pensionati rapinati.
Renzi avrebbe voluto temporeggiare ancora, ma il ministro dell’Economia Padoan lo ha spinto ad annunciare subito una soluzione (anzi, una non-soluzione) per tener buona l’Europa, che vuole sapere come il governo pensa di uscire dal vicolo cieco in cui non la Consulta, ma il governo Monti e i partiti che lo sostenevano, ha cacciato l’Italia.
Nel suo ormai conclamato analfabetismo costituzionale, l’esecutivo considera la sentenza della Corte poco più di un suggerimento, di un consiglio amichevole, su cui aprire una trattativa e trovare un’intesa a metà  strada.
Ma le cose stanno molto diversamente: quando la Consulta dichiara incostituzionale una legge, questa cessa immediatamente di esistere, ed è come se non fosse mai stata in vigore.
Dunque non c’è nulla da mediare, nulla da trattare, nulla da interpretare.
La legge Fornero non esiste e tutti i pensionati che ne hanno subìto le conseguenze devono essere risarciti per i soldi perduti fin qui e, per il futuro, devono riavere le loro pensioni con i necessari adeguamenti al costo della vita.
Il che non vuol dire che il governo non possa, per il futuro, approvare una nuova legge sulle pensioni, per esempio mettendo un tetto a quelle “d’oro”, a cominciare dagli assegni sproporzionati rispetto ai contributi versati, senza dunque toccare i diritti acquisiti.
Nel 2008, per esempio, il premier Prodi bloccò le pensioni di importo superiore a otto volte il minimo, e quella decisione passò indenne il vaglio di costituzionalità  della Consulta perchè quella norma — diversamente dalla Fornero — garantiva l’“adeguatezza” e la “proporzionalità ” del trattamento previdenziale, limitandosi a colpire gli assegni “di importo piuttosto elevato” e con “margini di resistenza all’erosione” dell’inflazione.
Ora, il Pd di Renzi dovrebbe fare mea culpa, anzichè prendersela con chi c’era prima.
È vero che Renzi non è mai stato in Parlamento (non ci sta neppure oggi) e non ha mai votato la fiducia ai governi precedenti.
Ma intanto non era mica un passante: era il leader dell’opposizione interna al Pd, e quando la Bce impose all’Italia quelle politiche ingiuste e giugulatorie con la famosa lettera dell’estate 2011, concordata con B. e poi attuata da Monti, elogiò sia la lettera della Bce sia l’azione di Monti-Fornero che la mettevano in pratica.
E quasi tutti i ministri e i sottosegretari del suo governo     — renziani e antirenziani, montiani, centristi e alfaniani — e i parlamentari della sua maggioranza (e pure della cosiddetta opposizione di centrodestra) votarono disciplinatamente la legge incostituzionale delle pensioni.
L’obiezione è nota: la sentenza apre una voragine di almeno 17 miliardi nei conti pubblici, quindi non si possono rimborsare tutti i pensionati.
Ma è falso: è la legge Fornero che apre quella voragine, e ora sappiamo che la legge Fornero non è mai esistita.
Dunque le chiacchiere stanno a zero: se, com’è evidente, non si può restituire subito tutto il maltolto a tutti, non si possono nemmeno dividere i pensionati fra scippati di serie A e di serie B.
Altrimenti chi lo fa espone la finanza pubblica al rischio concreto di un’altra bocciatura e di un altro mega-buco.
L’unica strada è indicare subito un percorso graduale, magari scaglionato nei prossimi mesi o anni, che però alla fine restituisca tutto il dovuto a chiunque ne abbia diritto.
Con quali soldi? Con quelli di una nuova spending review, oltre a quella che doveva assicurare risparmi per 10-15 miliardi per evitare altri aumenti dell’Iva ma di cui si sono perse le tracce.
E con altri risparmi ormai improcrastinabili, anche con i requisiti di necessità  e urgenza tipici del decreto: basta con i miliardi di inutili incentivi alle grandi imprese, stop all’acquisto di F-35, legge sulla confisca immediata dei proventi di corruzione e di evasione sul modello della norma sui patrimoni mafiosi (che inverte l’onere della prova), ritiro delle truppe dalle guerre in giro per il mondo, via le opere pubbliche inutili e dannose come il Tav Torino-Lione, il Terzo Valico, il progetto sotterraneo di Alta velocità  a Firenze, ecc.
Insomma, fine della lunga serie dei governi che rubano ai poveri e agli onesti per dare ai ricchi e ai ladri (che spesso sono sinonimi).

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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(FAR FINTA DI) CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

POLITICA IN MANO ALLE LOBBIES, ANZIANI COSTRETTI A FRUGARE NEI RIFIUTI

Anche con Renzi nulla è cambiato.
Il paese è sempre in mano alle lobbies, ai gruppi di potere più o meno occulti, alla burocrazia. La politica, arte nobilissima, è gestita dai soliti noti corrotti e incapaci, guardati a vista dalla magistratura e quindi paralizzati.
Alle prossime elezioni amministrative il solito boom di impresentabili nelle liste di tutti i partiti. Che dire poi delle riforme di questo governo. Incomprensibili ai più e lontane dalle reali esigenze della gente.
L’agenda di Renzi è lontanissima da quella degli italiani.
Peraltro uno che è vissuto da sempre nel mondo dorato della politica cosa potrà  mai sapere dei nostri problemi quotidiani.
Meglio la riforma della RAI per accontentare qualche amico potente, piuttosto che aggredire il degrado delle città , l’illegalità  diffusa e l’insicurezza che da essa ne deriva, il mancato rispetto delle regole, la povertà  che attanaglia milioni di italiani, la cronica deficienza di asili nidi e di politiche per la famiglia che presto trasformerà  l’Italia in una grande casa di riposo.
E ancora la giustizia lenta e profondamente ingiusta, la sanità  malata e diseguale, l’abbandono in cui versano i disabili, l’assenza di meritocrazia che umilia i nostri giovani perlopiù disoccupati e la conseguente fuga dei cervelli, il dissesto idrogeologico che porta ancora morte di innocenti.
Ma la cosa che mi fa più male, è vedere i nostri nonni, che hanno fatto grande questo paese, frugare negli scarti, al mercato, alla ricerca di una mela non completamente marcia.
Ma vedrete, con la riforma del Senato e la nuova legge elettorale si aggiusterà  tutto.

Giuseppe Melpignano
(coordinatore Altra Destra Puglia)

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CONIGLI MANNARI E LA DUCHESSA DE NOANTRI

Maggio 19th, 2015 Riccardo Fucile

BOSCHI E’ IL VOLTO DOLCE E TELEGENICO DEL NUOVO POTERE

Dev’essere dura fare a vita la bionda della classe.
Se ti invitano al cinema, è per farsi belli con gli amici; se ti chiamano alle feste, è per far venire più gente; se c’è da andare a parlare col preside, mandano sempre te, confidando nella capacità  persuasiva dei tuoi occhioni blu.
Compiangiamo la ministra delle Riforme e dei rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi, che domenica è stata mandata al Foro Italico a premiare il tennista Novak Djokovic, vincitore degli Internazionali Bnl.
Accanto a un phonatissimo presidente del Coni Malagò, la ministra, radiosa come una ragazza dello spot del Campari, ha consegnato con le sue manine il trofeo del Masters 1000 al serbo, che per l’emozione si è poi sparato il tappo dello champagne in faccia.
Fortuna per lei, e per l’Istituzione sui cui più alti scranni siede, non era in bikini (di cui un saggio ci è stato offerto un’estate fa sui giornaletti da sala d’attesa dell’estetista), nè aveva la fascia da miss Parlamento, ma un tailleur pantalone nero e una riga di eye-liner.
Domandare “perchè?” è un puro esercizio di stile.
Forse Renzi sta pensando di riformare costituzionalmente le regole del tennis.
Forse la Boschi dovrà  relazionare il Parlamento sulla regolarità  delle procedure di premiazione al Foro Italico.
Forse da piccola sognava di diventare una tennista.
Non importa: la first lady de facto è il volto dolce del nuovo potere, la sua telegenica tuttofare, perfettamente aderente alla narrativa che vuole il governo come attentissimo nei confronti delle donne anche se le usa come testimonial mute della propaganda.
Infatti: chi inviamo in Parlamento a fare la non popolarissima professione di fede nel garantismo? Chi mandiamo a prendere i bambini adottati in Congo?
Chi buttiamo nell’arena a difendere le peggio riforme della Repubblica contro i professoroni, i sindacati, i magistrati?
Come una battuta di caccia o un torneo di cricket, il trofeo del tennis ha offerto la cornice in cui far rifulgere lo charme di rappresentanza della nostra duchessa di Kent.
Escluso mandare il legittimo titolare delle deleghe allo sport (che è sempre Renzi, visto che le deleghe che erano di Delrio se le è tenute lui), o una donna magari ladylike, ma priva del piglio reclamistico della coniglietta mannara.
Meglio la bionda plenipotenziaria. La quale vedremmo bene anche come madrina di Miss Italia, valletta a Sanremo e giudice di “Amici”, per sabotare le velleità  nazional-popolari del nuovo nemico Saviano.
Il problema, beninteso, non è che la Boschi premi i campioni di tennis o di qualsiasi altra disciplina sportiva; il problema è che faccia il ministro.

Daniela Ranieri
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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