Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
HA TEMPI DA 2 A 4 ANNI, DEVE ESSERE ACCETTATA DALLA CONTROPARTE E LE PROCEDURE VANNO CONDIVISE: ALLA FINE ARRIVERA’ PRIMA LA SENTENZA DELLA GIUSTIZIA INDIANA… RIMANGONO LE RESPONSABILITA’ POLITICHE DELLA VICENDA
Nuovo capitolo del caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò accusati dal governo di Nuova Delhi di aver sparato – il 15 febbraio del 2012 – durante un’operazione antipirateria in acque internazionali uccidendo due pescatori indiani scambiati per pirati.
Con appena tre anni di ritardo L’Italia ha attivato oggi l’arbitrato internazionale nel quadro della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
La decisione, che il Parlamento aveva sollecitato, è stata presa di fronte alla impossibilità di pervenire a una soluzione della controversia che vede al centro i due militari, ha riferito la Farnesina.
L’Italia fa sapere che chiederà l’applicazione di misure che consentano la permanenza di Latorre in Italia e il rientro in patria di Girone nelle more dell’iter della procedura arbitrale.
Richieste che verranno ovviamente respinte dalle autorità indiane.
Quello che Gentiloni non dice è che l’attivazione della corte e delle procedure internazionali richiedono molto tempo.
La procedura poi deve essere accettata dalla controparte, ovverosia dall’India.
Ma soprattutto prevede che per risolvere una controversia internazionale – e questa vede contrapposti due Stati – siano le stesse controparti a dover stabilire procedure, svolgimento e tempi dell’arbitrato.
I tempi previsti ni questi casi vanno da 2 a 4 anni
Una partita complessissima, dunque, e che rischia di avere tempi più lunghi perfino di una corte di giustizia indiana.
Quando sarebbe bastato in primis che il ministro La Russa a suo tempo non avesse promulgato un decreto che non stava nè in cielo nè in terra: ovvero far scortare navi commerciali da nostri militari in porti insicuri, quando sarebbe stato sufficiente disporre di non scalarli.
E successivamente non far rientrare in India i due marò quando erano in Italia: ma allora Monti si piegò alle pressioni degli ambienti imprenditoriali italiani che fanno affari in India e che non potevano permettersi una crisi nelle relazioni tra i due Paesi.
Ma queste verità scomode non lo dice quasi nessuno, nè a destra nè a sinistra.
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
LA DOCENTE ALLA COLUMBIA UNIVERSITY: “LA SINISTRA HA SOTTOVALUTATO IL PROBLEMA”
“Oggi le coste italiane sono diventate il teatro di un evento profondamente diverso rispetto al passato. E basta volgere lo sguardo oltre il bacino del Mediterraneo per capirlo. Siamo di fronte a un grande esodo, che riguarda quasi tutto il pianeta».
Saskia Sassen, economista e sociologa della Columbia University, tra i massimi esperti in tema di globalizzazione, non ha dubbi: «La storia ha già conosciuto fasi di grandi migrazioni, ma mai su questa scala, nello stesso periodo e con una tale rapidità ».
Professoressa Sassen, come si spiega la fatica dell’Unione Europea per elaborare un piano condiviso?
«Negli ultimi decenni i Paesi europei – ma lo stesso vale per gli Stati Uniti – hanno seguito una sola strategia: accogliere i migranti, più o meno legali, finchè hanno avuto bisogno di lavoratori a basso costo. Perchè servivano a risolvere un problema interno all’economia occidentale. Ma non si sono preoccupati nè dei governi dei Paesi da cui i migranti oggi scappano, nè di programmare una politica migratoria sostenibile ed efficace».
Verso quale soluzione si dovrebbe quindi lavorare oggi?
«È difficile dirlo, perchè la situazione sembra ormai sfuggita di mano, al punto che l’Alto commissariato per i rifugiati non sa nemmeno come chiamare le regioni d’origine dei 60 milioni di persone in fuga. Da “terre caotiche”, dice l’ultimo rapporto dell’Onu, visto che in molti casi – Libia inclusa – è impossibile stabilire quale sia il governo legittimo. Io di una cosa sono certa: non bisogna rinunciare a cercare interlocutori credibili in Africa. Senza di loro una politica migratoria resta impraticabile».
L’Europa, invece, si chiude. La Francia respinge i profughi a Ventimiglia, l’Ungheria innalza un muro sul confine con la Serbia. E si fatica a trovare un accordo comune per fronteggiare l’emergenza.
«Repressioni e misure di controllo sono soluzioni temporanee: forse possono tamponare provvisoriamente il flusso dei migranti, ma non incidono sulle ragioni delle migrazioni».
Il progetto di un’Europa unita e solidale rischia di naufragare?
«Spero che l’Unione Europea continui a rafforzarsi, ma penso che possa farcela solo a patto di diventare più democratica e meno neo-liberista. Perchè l’accoglienza è più difficile quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi e anche la classe media viene piano piano espulsa da case e da zone decorose».
Da anni ormai l’estrema destra europea usa la leva della xenofobia. Crede che l’Italia e la Francia si consegneranno presto a Matteo Salvini e a Marine Le Pen?
«L’Europa sarebbe la regione meglio posizionata per opporre alla logica dell’esclusione la cultura dell’inclusione, ma è anche vero che molti elementi lasciano presagire ben altro. Basta pensare alle recenti elezioni in Danimarca (il Partito del popolo danese ha ottenuto il 21,1% dei voti, diventando il secondo partito in Parlamento, ndr ). In un paese che pure è per molti versi illuminato e ragionevole… ».
E la sinistra? Ritiene che debba rimproverarsi di non aver capito l’importanza del problema migratorio per le fasce più deboli della popolazione?
«Stabilire di chi siano le colpe non porta da nessuna parte e non aiuta a trovare soluzioni. Ma penso che la sinistra paghi una certa noncuranza, l’incapacità di mettere a fuoco il problema e riconoscere le caratteristiche più sottili delle migrazioni. C’è stato un atteggiamento di semplicistico laissez faire . E nessuno ha saputo mettere minimamente in luce i nessi tra le guerre fuori dall’Occidente e tutte le tipologie di espulsione perpetrate nell’Occidente stesso».
Il suo ultimo libro, invece, si intitola per l’appunto Espulsioni (a settembre per il Mulino). Oggi le farà un certo effetto osservare come ciò che ogni Paese europeo chiede è esattamente “espellere” gli immigrati irregolari…
«Sì, proprio così. Ma il paradosso è che la maggioranza dei migranti che stanno approdando in Europa vive già in una condizione di espulsione. Direi anzi che gli sbarchi di queste settimane sono probabilmente il primo segnale di un futuro nel quale sempre più persone saranno costrette a muoversi, proprio perchè espulse dall’economia globale. E quando il proprio territorio è devastato dalla guerra, ma anche da desertificazioni, inondazioni, espropriazioni terriere, non si aspira ad altro che alla mera sopravvivenza. Non si fugge in cerca di una vita migliore, ma soltanto per conservare la propria vita».
Giulio Azzolini
(da “La Repubblica“)
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
I NUOVI DEMAGOGHI CHE CAVALCANO LA RABBIA DELLE DIVISE IN PIAZZA
C’ è qualcosa di antico e di osceno nelle piazze che, ieri pomeriggio, a Roma, Milano, Palermo, il secondo sindacato di Polizia, il Sap, ha riempito di agenti per contrabbandare l’imminente primo voto parlamentare sull’introduzione del reato di tortura, come «una vendetta contro le forze dell’ordine».
E nelle parole con cui Matteo Salvini le ha cavalcate ed eccitate.
In una sgangherata e ideologica operazione di manipolazione, il faticoso compromesso raggiunto dalla maggioranza di governo al Senato nel definire una norma che metta il nostro Paese all’onore del mondo con appena 26 anni di ritardo (dal ’90 l’Italia non ha dato seguito alla ratifica al la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite che bandiva la tortura dichiarandolo crimine contro l’umanità ) diventa occasione per una passerella di odio e paura un tanto al chilo.
Dismessa la “felpa” identitaria, Salvini si insacca nel fratino fosforescente dei poliziotti che manifestano ed entusiasti scattano selfie, dimenticando di chiedergli se il partito di cui è segretario, la Lega, non sia lo stesso che, tra il 2009 e il 2011 (governo Berlusconi), tagliò per 3 miliardi e mezzo di euro il bilancio delle Forze dell’Ordine.
E se la Lega non sia lo stesso partito che, nel 2009, ridusse il turn-over del personale al 20 per cento e, un anno dopo, bloccò i fondi per adeguare i “tetti salariali” (quelli che consentono di adeguare le retribuzioni agli scatti di grado e alle indennità di servizio).
Del resto, nel Paese dalla memoria cortissima, la coerenza è un dettaglio.
E nel suo stantio menù della paura, che, senza pudore, recita anche l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, la sbobba “sott’odio” (per parafrasare Leo Longanesi) servita da Salvini è sempre la stessa.
Migranti, Polizia, Rom, Antagonisti, Euro. E identico ne è il sapore.
Perchè Salvini parla di cose che non conosce o che manipola.
Diverso è il discorso per le migliaia di poliziotti cui ha fatto ieri da mosca cocchiera.
Gli agenti che hanno sfilato a Roma, Palermo, Milano, sanno infatti perfettamente che la norma faticosamente scritta e riscritta al Senato, accogliendo le preoccupazioni sollevate da ultimo anche dal capo della Polizia, Alessandro Pansa, definisce la tortura non come reato “proprio” del pubblico ufficiale.
Non è dunque norma pensata per colpire la polizia, ma la tortura, chiunque ne sia autore.
Ed è norma dove la qualità del pubblico ufficiale diventa piuttosto un’aggravante, come è logico che sia.
Quantomeno in una democrazia degna di chiamarsi tale.
Dove il monopolio della forza riconosciuto allo Stato (e dunque alle Forze dell’ordine che ne sono Istituzione) è legittimo solo e soltanto se utilizzato nel perimetro delle garanzie dell’habeas corpus, principio di intangibilità del corpo e della sfera delle libertà individuali — civili, ed ebbene si, persino psicologiche – riconosciuto già nella Magna Charta, anno di grazia 1215.
La pessima notizia non è dunque Salvini. Ma il segnale che arriva da quelle piazze. Ennesima prova, ammesso ce ne fosse bisogno, di cosa si agiti, ormai da tempo, nella pancia della Polizia di Stato.
Che è e resta un corpo democratico ( ed è grottesco e insieme preoccupante l’obbligo pavloviano che si avverte nel doverlo ogni volta ripetere).
Ma che, a 35 anni dalla riforma che lo smilitarizzò, è con ogni evidenza sempre più privo di un sistema immunitario capace di renderlo impermeabile ai rigurgiti della peggiore demagogia, alle tentazioni politicamente eversive di mettere in mora ieri un tribunale della Repubblica, oggi una Corte internazionale di Giustizia, un Parlamento, una Convenzione delle Nazioni Unite.
Come se un pezzo della Polizia, improvvisamente inconsapevole della propria funzione, invocasse un principio di eccezione rispetto alla legge con i modi di una delle mille esasperate corporazioni del Paese.
Non a caso, con i suoi 18mila iscritti, il Sap, sindacato di centro-destra che ha riempito ieri le piazze, è lo stesso che, un anno fa, durante il suo congresso, tributò 5 minuti di standing ovation agli agenti riconosciuti colpevoli dell’omicidio di Federico Aldrovandi, un innocente.
Il suo segretario, Gianni Tonelli, è lo stesso che dopo la lettura della sentenza che mandò assolti tutti gli imputati per la morte dell’innocente Stefano Cucchi, non trovò altre parole che queste: «Se disprezzi la tua salute ne paghi le conseguenze».
Il Sap non è un fungo. Altre sigle, come il Coisp, da tempo lo inseguono sullo stesso terreno di rancore, frustrazione, rabbia per chiunque si eserciti nell’ordinaria manutenzione di una democrazia e nella difesa dei suoi diritti fondamentali.
Carlo Bonini
(da “La Repubblica“)
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
TRE MASSACRI IN UN GIORNO, LA STRATEGIA GEOPOLITICA DELL’ISIS
Turisti falciati sulla spiaggia a colpi di kalashnikov, tra ombrelloni e sedie a sdraio. Un attentato a un impianto del gas vicino a Lione, con il marchio dell’orrore nel cuore dell’Europa.
Dopo le stragi al Charlie Hebdo e al Museo del Bardo, Francia e Tunisia si ritrovano unite da una lunga scia di sangue.
Dietro agli attentati di oggi, come a quelli el recente passato, non c’è nulla di casuale. Le menti del terrore non hanno inteso colpire nel mucchio, il terrore per il terrore, ma hanno scelto con cura i loro obiettivi, i luoghi da colpire, i Paesi in cui rilanciare la loro duplice sfida mortale: all’Occidente e a quella Tunisia rimasta l’unica nazione dove la “Primavera araba” non è sfiorita in un “Inverno” islamista.
Ogni attacco contiene in sè un alto valore simbolico e, insieme, una chiara strategia politico-militare praticata con assoluta determinazione.
In Tunisia, colpire la sorgente primaria dell’economia: il turismo, per alimentare il malessere sociale, già forte soprattutto tra i giovani, e fare opera di reclutamento tra i senza futuro, offrendo loro identità e denaro.
Dopo la strage del Bardo, il turismo è crollato del 20%.
Oggi, dopo il massacro di Sousse, è destinato a precipitare ulteriormente. Ma non c’è solo questo.
La Tunisia è un obiettivo per i jihadisti perchè il governo guidato da Habib Essid è frutto di un accordo multipartito che include degli islamici moderati di Ennahda, rappresentando un esempio più unico che raro di coalizione fra le diverse anime del mondo arabo
Ieri il Museo di Tunisi, oggi i due resort di lusso a Sousse: l’offensiva è scatenata. L’obiettivo è dichiarato: realizzare il “Grande Califfato del Maghreb”, estendere il territorio controllato dalle milizie jihadiste dalla Libia alla Tunisia, dall’Algeria al Marocco.
Ridisegnare la cartina geografica del Nord Africa, proiettando il proprio sistema di alleanze fino alla Nigeria di Boko Haram.
Le stragi fanno parte di una strategia che non lascia nulla al caso, e che prevede anche alleanze tattiche tra fazioni rivali, patti d’azione, e di affari, con le organizzazioni che trafficano esseri umani, armi, droga.
Un disegno che coinvolge anche le tribù dei deserti, da quello libico all’area di confine fra Algeria e Tunisia, estendendosi fino alla polveriera del Sinai.
Un’area vastissima, dove gli eserciti regolari fanno fatica ad avventurarsi, dove le leggi dei governi sono carta straccia.
STRATEGIA D’ATTACCO
In Tunisia, è innanzitutto attiva Ansar al-Sharia, gruppo qaedista fondato nell’aprile 2011da Abu Ayadh al-Tunisi,già fondatore del Gruppo Combattente Tunisino, altra realtà radicale salafita, e liberato dalla carceri tunisine dopo la caduta di Ben Alì nel 2011, così come molti altri appartenenti al gruppo che, oggi, potrebbe contare su oltre 1.000 miliziani.
Ansar al-Sharia, legata all’Ansar al-Sharia libica, è dietro la catena di attentati politici che ha insanguinato il paese nel 2013 e 2014 e all’attacco all’ambasciata americana nel Paese del settembre 2012.
La roccaforte del gruppo è il massiccio del Djebel Chambi, nel governatorato di Kasserine dove a metà febbraio in un attacco terroristico sono state uccise 4 guardie di frontiera tunisine e teatro anche in passato di attacchi come quello costato la vita al deputato Mohamed Ali Nasri, del partito di governo Nidaa Tounes, o quello che ha avuto per obbiettivo la casa dell’ex Ministro dell’Interno Lotfi Ben Jeddou.
Ansar al-Sharia, ma anche altre realtà jihadiste, utilizzano quest’area come santuario e corridoio per il traffico di armi ed il passaggio di miliziani dalla Libia all’Algeria, fino al nord del Mali.
Va inoltre sottolineato come la Tunisia sia uno dei principali esportatori di jihadisti in rapporto alla propria popolazione, 4-5.000 solo in Iraq e Siria (2.500/2.900 tra le fila di Jabhat al-Nusra, costola siriana di al Qaeda, e 1.000/1.500 in Isis) la maggior parte di età inferiore ai 30 anni.
“I jihadisti salafiti hanno fatto la scelta strategica di inviare giovani in Siria, dove addestrarsi ed eventualmente tornare a combattere in Tunisia” , rimarca Slaheddine Jourchi, tra i più accreditati analisti tunisini dell’Islam radicale armato. Inoltre novemila tunisini sarebbero stati fermati dalle autorità di Tunisi nell’intento di andare a combattere in Siria.
Di questi, secondo il ministro degli Interni Lofti Ben Jeddou, tra i 400 e i 500 sono rientrati in patria.
Si tratta soprattutto di diplomati e disoccupati, in un Paese, la Tunisia, che è tra quelli arabi maggiormente istruiti con una popolazione di 11 milioni di persone, dove la disoccupazione resta alta.
LE MIRE DEL CALIFFO
Dalla trincea siro-irachena, la sfida del “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi avanza in Tunisia, raggiunge il Kuwait (un attentato viene rivendicato dall’Isis contro una moschea sciita a Kuwait City.
L’attacco avviene durante la preghiera del venerdì, il secondo di Ramadan, quando il luogo sacro è pieno. Almeno 25 i morti) e si proietta anche in Europa.
E in primo luogo, nei Paesi euromediterranei. Come la Francia.
Stando a fonti di intelligence occidentali, in Europa sono attivi 300-400 “rientrati”, alcuni dei quali anche in Italia.
I “rientrati” — rimarca in proposito Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa (RID) — sono capaci di condurre autonomamente, o in piccoli gruppi, azioni terroristiche di forte impatto come quella condotta contro “Charlie Hedbo”.
Questi profili, sottolinea ancora Batacchi, sono bene inseriti in una rete logistica e di contatti strutturata ed hanno accesso ad armi di diverso tipo od esplosivi provenienti dai mille rivoli del mercato nero che oggi si dipanano soprattutto attraverso la Libia.
Macabra simbologia e caratteristiche dell’impianto colpito: tutto si tiene nella fenomenologia dell’Isis.
Ecco allora la testa di un uomo, decapitato – la pelle con iscrizioni in arabo, appesa a un’inferriata – trovata nei pressi di un impianto di produzione di gas, dove due terroristi erano sono penetrati pochi minuti prima delle dieci.
“Volevano provocare un’esplosione nel sito industriale”, spiega il presidente francese Franà§ois Hollande.
Ma anche qui, come per la Tunisia, dietro l’attentato di oggi all’Air Products a Saint-Quentin-Fallavier, come nella strage al settimanale satirico parigino, c’è un disegno politico: scatenare la “caccia all’arabo”, rafforzando le spinte più xenofobe presenti nel corpo sociale francese.
“La Francia deve armarsi di fronte al terrorismo islamico. Deve combatterlo e cacciare dal suo territorio nazionale ogni comportamento fondamentalista”, scrive in un comunicato ufficiale la presidente del Front National, Marine Le Pen.
Nella stessa nota la leader dell’estrema destra sostiene che “nulla è stato fatto negli ultimi anni contro il fondamentalismo islamico” in Francia e chiede a questo proposito che vengano prese “misure ferme e forti”, tra cui chiudere le frontiere nazionali e espellere dalla Francia “tutti gli stranieri sospettati di essere dei fondamentalisti”.
L’obiettivo del “Califfo” è stato raggiunto: è il tanto peggio tanto meglio in versione jihadista.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
PRIMA AVEVA CHIESTO L’IMMUNITA’ PARLAMENTARE, POI HA CHIESTO SCUSA AI ROM OFFRENDOSI PER OPERE DI VOLONTARIATO E PAGANDOLI PER FAR RITIRARE LA QUERELA…ALLA FINE E’ CONDANNATO A UNA MULTA DI 1.000 EURO… NEANCHE LE PALLE DI ANDARE IN GALERA
L’europarlamentare della Lega Nord Mario Borghezio è stato condannato a pagare una multa di mille euro per le opinioni che aveva espresso durante la trasmissione «La Zanzara» dell’8 aprile 2013 sui Rom.
Il politico del Carroccio era imputato per discriminazione razziale e diffamazione aggravata dalle finalità di odio razziale ed etnico.
Borghezio, durante il programma radiofonico, si era scagliato contro la visita di alcuni giovani rom alla Camera, invitati dalla presidente Laura Boldrini in occasione della Giornaya internazionale de rom e dei sinti.
La richiesta d’immunita’
Tra le frasi offensive pronunciate dall’esponente della Lega: «Mi auguro che non portino via gli arredi della Camera». E ancora: «I rom usano una certa cultura tecnologica nello scassinare gli alloggi della gente onesta».
Ecco alcune delle esternazioni, decisamente poco politically correct: «Non tutti i rom sono ladri, ma molti ladri sono rom».
Oppure : «Penso quello che pensano tutti: mano nella tasca del portafoglio per evitare che te lo portino via».
Dopo le denunce e l’avvio dell’inchiesta, Borghezio aveva chiesto al Parlamento europeo il riconoscimento dell’immunità , ma la richiesta era stata rigettata dalla Commissione affari giuridici con la motivazione che «le dichiarazioni fatte nell’intervista non avevano diretta e ovvia connessione con le attività parlamentari» e che comunque se anche tali dichiarazioni fossero state fatte durante una seduta parlamentare «avrebbero potuto generare sanzioni in base all’art. 153 del codice di procedura».
L’aggravante dell’odio razziale
A processo in corso, Borghezio aveva poi cercato di scusarsi: «Essendo pentito per la sgradevolezza di questo fatto non intendo limitarmi a un impegno risarcitorio, ma mi rendo disponibile nella mia città a fare volontariato», ma poi il risarcimento si è tramutato nella corresponsione di alcune migliaia di euro con conseguente ritiro di querela.
Venerdì, tuttavia, i giudici della decima sezione penale hanno accolto la tesi del pubblico ministero Piero Basilone: in virtù dell’aggravante della finalità di odio etnico e razziale, il reato di diffamazione contestato all’imputato è perseguibile d’ufficio.
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
UNA VITA DA PORTABORSE DEL GOVERNATORE LOMBARDO, DI SANITA’ NON HA ALCUNA ESPERIENZA, FORSE E’ STATA SCELTA PER QUELLO
Il dado è quasi tratto e la partita è ormai chiusa.
Sonia Viale, leghista della primissima ora, fondatrice del Carroccio in Liguria e ora segretario nazionale della Lega Nord Liguria, sarà il nuovo assessore alla Salute della Regione.
Lo ha deciso il governatore della Lombardia Roberto Maroni di cui è stata capo della segreteria tecnica (sic) al ministero dell’Interno. Ovviamente c’è il via libera del “grande capo” Matteo Salvini.
La Liguria ormai è il piedaterre delle regioni lombardo-venete dove saranno inviati anche un paio di tecnici per intervenire sulla Sanità pubblica.
Viale non perderà la poltrona di vicepresidente della giunta, alla destra del governatore Toti, che le era stata promessa subito le elezioni.
Numero due della giunta e numero uno della sanità , tanto per ricalcare i doppi incarichi della giunta Burlando.
Non sarà da sola sul ponte di comando della sanità , anche perchè ne capisce poco: sarà affiancata da un direttore generale di grande esperienza che sarà consigliato ovviamente da Maroni – domani sarà a Bocca di Magra – e che arriverà dalla Lombardia.
Cambia l’ordine, ma non un risultato: sarà una sanità modello-lumbard, con una probabile alleanza tra le due Regioni (oltre al Veneto guidata dal leghista Luca Zaia) e un’apertura alle strutture private (quella politica che ha generato gli scandali del San Raffaele, tra l’altro).
In tutto questo, la presenza o meno di Toti appare irrilevante: ormai siamo alla giunta in punta di ginocchiere.
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
IN UN PAESE DOVE PREVALGONO EGOISMI E OGNUNO PENSA SOLO A SE STESSO, MASSIMILIANO E’ L’EMBLEMA DI UN POPOLO CHE SA ANCORA ESSERE COMUNITA’
«Tutto è cominciato con un forte mal di pancia. Ho pensato «Dai, non è niente, sarà l’aria condizionata. E poi abbiamo fatto colazione da poco».
Ma più guidavo verso Civitavecchia e peggio mi sentivo…».
Massimiliano Ceci, 51 anni ad agosto, è l’eroe del 118: con un infarto in agguato che stava per colpirlo, ha continuato a guidare l’ambulanza pur di far arrivare in ospedale l’anziana paziente appena soccorsa a Cerveteri.
L’infarto lo ha colpito pochi istanti dopo aver fermato l’ambulanza al pronto soccorso del San Paolo di Civitavecchia.
Un attacco forte, profondo, che l’ha quasi ucciso.
«Guido per l’Ares 118 da 27 anni, prima nella postazione a Prati ora a Ladispoli – racconta Ceci, ricoverato in terapia sub-intensiva al Santo Spirito, sul lungotevere, dove è stato sottoposto ad angioplastica.
“Scene come queste le ho viste di frequente, i sintomi li ho riconosciuti quasi subito, ma viverle addosso è un’altra cosa».
La giornata era cominciata con il soccorso a Cerveteri a una pensionata di 91 anni con un problema cerebrale, forse un ictus.
Un soccorso in codice rosso, con Ceci al volante e il collega (da un anno e mezzo) Dario Mastrodonato ad assistere l’anziana sulla lettiga.
«Sull’autostrada ho avvertito un peso sul petto, il braccio sinistro dolente – ricorda l’autista eroe, sposato, con una figlia di 15 anni -, mi sono voltato e ho detto a Dario: «Mi sento male, ma ancora ce la faccio».
Parole che hanno scosso il collega, più forti della sirena dell’ambulanza.
Fra i due lo scambio è stato continuo. Un lungo sostenersi a vicenda.
La direzione dell’Ares ha elogiato la dedizione al lavoro dell’autista che ha messo in primo piano la vita della paziente.
Sull’ambulanza la tensione è salita in un attimo: «Al casello ho cominciato a sudare freddo, ho capito quello che stava accadendo, mancavano ancora quattro chilometri. Stavamo vicini, ero vigile, ma stavo sempre peggio», racconta ancora Ceci.
«E pensare che non ho mai avuto problemi di salute. Fumo, anzi fumavo, ora devo smettere per forza. Ho il colesterolo cattivo normale, nessuna familiarità . Pensavo di stare tranquillo. Certo il lavoro è stressante, soprattutto dopo tanti anni».
Al San Paolo la novantenne è stata assistita subito da un medico.
Nello stesso momento Ceci, sottoposto a trombolisi, è andato in defibrillazione: «Mi hanno raccontato che il cuore si è fermato, poi è ripartito.
Ha sofferto, c’è stata scarsa irrorazione di sangue.
“I medici dicono che posso riprendermi, ma basta stress. L’importante però – conclude l’autista – è che posso raccontare questa storia».
Rinaldo Frignani
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
ATTACCO A RESORT, COLPI DI KALASHNIKOV SUI TURISTI IN SPIAGGIA: ALMENO 27 MORTI
Duplice attentato terroristico a due hotel di Sousse, popolare località turistica della Tunisia.
Un uomo armato di kalashnikov ha fatto irruzione nell’hotel Imperial ad Hammam-Sousse, nella zona turistica di Kentaoui, aprendo il fuoco sui turisti.
Lo riferisce la radio locale Mosaique FM.
La sparatoria sarebbe poi continuata sulla spiaggia davanti all’albergo.
Secondo il ministro dell’Interno di Tunisi i morti sono almeno 27, tra questi anche stranieri.
Il capo del commando è stato eliminato dalle forze dell’ordine, riferisce il sito di al Arabiya.
Sousse, situata sulla costa centro-orientale tunisina, è capoluogo del governatorato omonimo, terza città tunisina per popolazione, uno dei poli turistici pIù importanti del Paese e la sua Medina è stata inserita nel Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Secondo il portavoce del ministero dell’Interno tunisino Mohamed Ali Laroui, citato dai media locali, ci sono diversi feriti tra i residenti dell’albergo e lo scontro è ancora in corso.
La Tunisia è in stato di massima allerta dall’attentato dello scorso marzo al museo del Bardo a Tunisi, costato la vita a 23 turisti stranieri, tra cui quattro italiani.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 26th, 2015 Riccardo Fucile
IL PIANO PER CAMBIARE LA GASPARRI D’INTESA CON FORZA ITALIA… IN CAMBIO L’AIUTINO AL SENATO
Non sarà un patto del Nazareno con tutti crismi, non ci saranno più incontri, strette di mano, fogli protocollati e firmati, e ognuno (Matteo Renzi e Silvio Berlusconi) veleggerà verso il suo destino senza concedere troppo all’altro
Ma una qualche forma di collaborazione, o, quanto meno, di tregua più che disarmata, tra l’ex Cavaliere e il presidente del Consiglio c’è, con buona pace delle smentite che il leader di Forza Italia ha fatto, a dire il vero, senza troppo vigore, o di quelle virulente del capogruppo dei deputati azzurri Renato Brunetta.
O, almeno l’hanno capita così i collaboratori del premier, quando hanno sentito Renzi ripetere per l’ennesima volta, con aria pacata e altrettanto ferma, che «la riforma della Rai si farà ».
Del resto, a sponsorizzare dall’altra parte della barricata un atteggiamento meno ostile nei confronti di Palazzo Chigi sono stati, non a caso, Fedele Confalonieri e Gianni Letta.
E basta pronunciare questi due nomi per essere portati a pensare che in questa intesa una parte importante l’abbia la tv.
E infatti così è.
Raccontano al Nazareno che la sicumera con cui Renzi rassicura i suoi sul fatto che le prossime nomine dei vertici della Rai non verranno fatte con la legge Gasparri derivi proprio da là .
Cioè dall’accordo che si sta costruendo (faticosamente) con Berlusconi per far passare in Parlamento la nuova normativa sulla tv di Stato.
Come in ogni intesa politica, ognuno deve avere il suo.
In questo caso il leader di FI avrebbe il presidente. Anzi, la presidente. Ossia Luisa Todini, che attualmente ricopre un altro incarico importante. È alla presidenza delle Poste italiane.
Sì, è una delle nomine femminili che il premier Renzi volle fare per dimostrare che l’Italia non può essere declinata tutta al maschile.
Ma tutti sanno che Todini ha lasciato il cuore alla Rai. E che con Berlusconi ha mantenuto ottimi rapporti (entrò in Forza Italia nel 1994, proprio alle origini dell’avventura del movimento azzurro).
Per questa ragione nei conversari privati tra gli sherpa che cercano di trovare l’accordo per sbloccare la «questione Rai» è stato fatto il suo nome.
E sia da parte del premier che da parte dell’ex Cavaliere non c’è stata nessuna obiezione.
In questo contesto, ovviamente, Luigi Gubitosi lascerebbe l’attuale incarico per spostarsi altrove. Alle Ferrovie, dicono i più. Alle Poste, suggerisce qualcun altro. Comunque non spetterebbe a lui la poltronissima di Viale Mazzini.
Quella dell’amministratore delegato al quale Renzi vorrebbe affidare tutti i poteri effettivi, quelli che finora nessun direttore generale ha mai avuto nell’azienda della tv pubblica.
Il nome più gettonato per quel posto, al momento, è quello di Vincenzo Novari, genovese, classe ’59, attuale amministratore delegato di 3 Italia, amico di Franco Bernabè e Renato Soru, ha parlato dal palco della Leopolda ed è in buoni rapporti con uno dei più cari amici di Renzi, Marco Carrai.
Certo, viste le turbolenze parlamentari che sono all’ordine del giorno, è ancora presto per dire se questo patto reggerà .
Ma il presidente del Consiglio continua a ripetere ai parlamentari a lui più vicini che «la riforma della Rai si farà ».
Segno evidente che avrà avuto un qualche «affidavit», altrimenti non sarebbe così tranquillo su un argomento di tale delicatezza.
E non spiegherebbe ai fedelissimi: «Non ci possiamo permettere di rinnovare i vertici della televisione di Stato con una legge come la Gasparri».
Quello che è più difficile capire è se questa intesa sulla Rai che si sta faticosamente costruendo (all’insaputa di molti, sia nel centrodestra che nel Pd) possa essere foriera di altre novità .
Certamente non della modifica della legge elettorale, di cui pure si parla tanto in questi ultimi giorni. Su questo punto il presidente del Consiglio è netto: «Non cambio l’Italicum». Lo dice con grande sicurezza.
E allora è sulla riforma costituzionale che potrebbe giungere «un aiutino dal centrodestra» (lo definiscono cosi alcuni autorevoli esponenti del Partito democratico).
Senza però rivelare di che tipo di sostegno si possa trattare. Cioè se di un «via libera ufficiale» (cosa assai difficile, visto che Berlusconi è partito all’inseguimento di Matteo Salvini) o, piuttosto, di un aiuto di un gruppo di forzisti che vengono incontro al premier non seguendo la linea di FI; disobbedendo, ma con l’autorizzazione de l «capo» in tasca.
Maria Teresa Meli
(da “il Corriere della Sera“)
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