Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
ESCLUSIVA DEL TG DI LA7: BUZZI AVREBBE GIA’ SOSTENUTO CINQUE INTERROGATORI…”IL PALAZZO DELLA PROVINCIA ALL’EUR? COMPRATO DA ZINGARETTI PRIMA CHE VENISSE COSTRUITO”
I politici romani? Famelici. Il Pd? “Mai pagato così tanto prima d’ora”.
L’ex amministratore delegato di Ama Franco Pansironi? Famelico e vendicativo. Comincia a parlare Salvatore Buzzi, uno dei massimi esponenti di Mafia capitale, insieme a Massimo Carminati, secondo la procura di Roma.
Secondo l’esclusiva del tg di La 7, Buzzi avrebbe già sostenuto cinque interrogatori in carcere, due a giugno e tre a fine luglio, per difendersi dall’accusa di associazione di stampo mafioso, e raccontare ai magistrati una serie di particolari sulla corruzione ai politici della Capitale.
Il palazzo della provincia all’Eur? “Venne comprato da Zingaretti prima che venisse costruito”, è quello che ha raccontato Buzzi ai pm,.
“L’appalto per il riscaldamento frutto una tangente da un miliardo e duecento milioni — prosegue — presero soldi il capo di gabinetto Maurizio Venafro, il segretario generale Cavicchia e Peppe Cionci per Zingaretti“.
Cionci, è l’imprenditore che aveva raccolto soldi per le campagne elettorali di Zingaretti e di Ignazio Marino.
Ma Buzzi va oltre: racconta di avere dato 22 mila euro all’ex capogruppo del Pd in consiglio comunale Francesco D’Ausilio, ma anche a Gramazio.
L’ex presidente del consiglio comunale Coratti, invece, avrebbe detto a Buzzi: “”Il cda ama è roba nostra ci devi pagare”.
“Erano famelici — spiega Buzzi ai pm — noi non il Pd non l’avevamo mai pagato in questo modo. Sempre finanziato volontariamente in campagna elettorale ma così mai, il capogruppo del Pd Fabrizio Panecaldo era insistente, Nieri ha fatto assumere 4 persone “.
“L’ex presidente del municipio di Ostia, Andrea Tassone — invece — ci ha chiesto 26 mila euro per l’appalto delle potature e 6 mila per la spiaggia”.
L’ex ad di Ama Pansironi, invece, viene descritto da Buzzi non solo come famelico, ma anche “vendicativo”.
“Ci fece togliere l’appalto sui cimiteri che avevamo già vinto: lui raccoglieva anche per la fondazione Nuova Italia di Alemanno“.
A giugno Buzzi voleva patteggiare una condanna a tre anni e sei mesi, ma la procura si era opposta: le ammissioni messe a verbale potrebbero essere sintomo della volontà di trovare un accordo con gli inquirenti.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DEL CENTRO STUDI FONDATO DA MARCO BIAGI: “LA RIFORMA DEL LAVORO E’ UN FALLIMENTO, RENZI HA INIZIATO A LIBERALIZZARE PRIMA DI COSTRUIRE LE NECESSARIE TUTELE”
“Non c’è stata alcuna svolta: di fatto, per ora, il Jobs Act si sta rivelando un fallimento”.
Michele Tiraboschi, docente di Economia all’università di Modena e Reggio Emilia e presidente di Adapt, il centro studi sul lavoro fondato da Marco Biagi, non usa mezzi termini per commentare i nuovi dati sulla disoccupazione diffusi oggi dall’Istat.
Il tasso generale è al 12,7%, la quota di quella giovanile addirittura 44,2%. Il livello più alto dall’inizio delle serie storiche nel primo trimestre del 1977. Insomma, nonostante i trionfalistici annunci del presidente del Consiglio la realtà sembra essere rimasta la stessa.
Il motivo?
“Renzi si è fatto prendere dalla frenesia del fare”, spiega Tiraboschi a ilfattoquotidiano.it. “Il problema sta nel fatto che per ‘cambiare verso’ al mercato del lavoro il suo governo ha iniziato dal tetto e non dalle fondamenta. E su alcuni temi, come quello della ricollocazione, si sta andando avanti improvvisando”.
Professore, i numeri dell’Istat dicono che questa riforma non sta dando i risultati sperati
Tutti i dati di scenario nazionale e internazionale dicono che non avrà alcun effetto. Dopo sei mesi di applicazione del generosissimo esonero contributivo per i nuovi assunti e dopo i primi tre di assunzioni liberalizzate non c’è stata alcuna svolta. Si tratta di interventi che hanno un effetto shock legato alla fiducia delle imprese e del mercato del lavoro, ma neppure con la somma delle misure messe in campo sono stati finora raggiunti risultati tangibili.
Lei è arrivato addirittura a definire il Jobs Act come il “nuovo apartheid”.
Sì, perchè al momento trovo che la riforma sia tutta nel superamento dell’articolo 18 e nient’altro. Ciò ha moltiplicato i dualismi fra Nord e Sud, dove ci sono due mercati del lavoro completamente diversi e paralleli, ma anche fra nuovi e vecchi assunti, lavoro pubblico e privato, lavoratori e lavoratrici. Non si è creato un mercato con opportunità universali. Per invertire la rotta, il governo dovrebbe puntare su politiche attive, ricollocazione e Garanzia Giovani, che non sta funzionando.
A proposito della Garanzia Giovani: anche questo progetto si sta rivelando un fallimento.
Dopo più di un anno dal lancio del progetto crescono la disoccupazione e l’inattività giovanile. Ma basta collegarsi sul sito del ministero del Lavoro per rendersi conto dello scandalo: tirocini “usa e getta” pagati dallo Stato che non permettono in alcun modo ai ragazzi di farsi conoscere e rimanere in azienda. Di fatto sono finti: non rappresentano reali opportunità per migliorare la loro situazione. Lo Youth Guarantee rappresentava l’antipasto del Jobs Act, perchè se fallisci con i giovani è poi evidente che succederà lo stesso con l’intera platea di coloro che cercano un impiego. Un segnale di allarme che il governo ha ignorato.
A questo punto, dunque, cosa dovrebbe fare l’esecutivo?
Renzi si è fatto prendere dalla frenesia del fare, ma il Paese non cambia con leggi che poi rimangono sulla carta. Sul fronte lavoro l’errore è stato quello di partire dal tetto e non dalle fondamenta. Chiunque si occupi un minimo di flexsecurity sa che prima si costruiscono le tutele sul mercato e poi si liberalizza quest’ultimo. Il governo ha cominciato eliminando l’articolo 18, che sarebbe stata l’ultima cosa da fare, e poi in sei mesi ha prodotto otto decreti legislativi, quattro già pubblicati in Gazzetta ufficiale, improvvisando.
Continui.
Fossi in loro prenderei più tempo: il decreto sulle politiche attive e sulla ricollocazione, attualmente in discussione, è disastroso e andrebbe riscritto daccapo. Il secondo tema, la ricollocazione appunto, è passato in questi mesi da un decreto all’altro per poi essere abrogato prima ancora che fosse in funzione. Inoltre l’accordo sulle politiche attive raggiunto giovedì fra Stato e Regioni è semplicemente una spartizione di potere nell’ottica di chi detiene le competenze e non della funzionalità del servizio.
Il rapporto dello Svimez, presentato ieri, è tornato a fare luce sulla disastrosa situazione del Mezzogiorno. Per giovani e donne si parla addirittura di “frattura senza paragoni in Europa”.
Al Sud c’è ormai una desertificazione tale da portare i giovani a cercare lavoro al Nord o negli altri Paesi. Personalmente ho provato più volte a portare un centro di ricerca nel Mezzogiorno trovando però un contesto — rappresentato da istituzioni, politica e università — chiuso, diffidente, rivolto solamente al tornaconto personale che non aiuta a crescere. Tutto è basato sulle clientele politiche. Ed è proprio la cattiva politica che sta uccidendo quel territorio. Le conseguenze di questa situazione, però, le paghiamo tutti.
Giorgio Velardi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
PER IL PARLAMENTARE DI ALFANO E’ STATO RICHIESTO L’ARRESTO PER ESSERSI APPROPRIATO DI 350.000 EURO DI FONDI DELLA REGIONE CALABRIA
Quando si dicono le coincidenze: per un senatore Ncd che si salva dall’arresto, un altro rischia di soccombere.
Nemmeno il tempo di riprendersi dall’“assoluzione” di Antonio Azzollini, con il suo gioco delle parti e la scia di polemiche suscitate , che il Partito democratico si trova di fronte un’altra grana.
Ancora un volta al Senato e ancora una volta a causa del sempre più scomodo alleato di Nuovo centrodestra.
La sera del voto su Azzollini, infatti, la relatrice Stefania Pezzopane (Pd) ha proposto alla Giunta delle immunità di acconsentire alla richiesta d’arresto nei confronti di Giovanni Bilardi, avanzata dal gip di Reggio Calabria nell’ambito della Rimborsopoli regionale.
Secondo la magistratura, da capogruppo della lista Scopelliti, fra il 2010 e il 2012 Bilardi si sarebbe appropriato indebitamente di oltre 350 mila euro di fondi consiliari: 183 mila spesi direttamente, 147 mila tramite un suo collaboratore e altri 25 mila rimborsati per attività non documentate.
Secondo la Pezzopane, nei confronti di Bilardi non c’è alcuna persecuzione della magistratura: l’inchiesta riguarda tutti i partiti presenti in Consiglio in quegli anni, ai domiciliari sono finiti anche altri due ex capigruppo e il tribunale del Riesame ha respinto il ricorso del senatore e confermato la validità dell’arresto.
Insomma, “non emerge un intento persecutorio rivolto in particolare verso un soggetto o una singola forza politica”. E quindi Bilardi va fatto arrestare.
Il risultato è che adesso per il Pd rischia di riaprirsi il tormentone che ha accompagnato il caso Azzollini, col suo contorno di diatribe sull’esistenza del fumus persecutionis e la libertà di coscienza.
Ma con una significativa differenza: stavolta a occuparsi del caso non è “un giustizialista della minoranza” (come il centrodestra rimprovera al presidente della Giunta, il vendoliano Dario Stefano, che finora ha curato tutti i dossier più delicati) ma una senatrice del Partito democratico.
L’unica nota positiva per il Pd è che si andrà per le lunghe: la decisione della Giunta potrebbe arrivare già mercoledì prossimo ma per effetto della pausa estiva il caso arriverà in Aula non prima di settembre.
Di certo la melina ai quali i dem si sono prestati finora è significativa: nella richiesta d’arresto si fa riferimento a “ingenti fondi pubblici” a disposizione del senatore Bilardi, che potrebbe così reiterare il reato di peculato.
Per controbattere a questa tesi, la Giunta (proprio su proposta del Partito democratico) ha chiesto al presidente Piero Grasso di sapere di quali somme soggette a rendicontazione disponga il loro collega.
Domanda praticamente inutile, visto che la percepiscono tutti: 2.090 euro al mese come rimborso spese per l’esercizio del mandato.
Bastava andare sul sito del Senato e cliccare la voce “Trattamento economico” ma in questo modo sono trascorse due settimane.
A volte le vie della politica sono infinite.
Paolo Fantauzzi
(da “L’Espresso”)
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
“IL RIORDINO DEGLI ENTI PREVISTO DALLA RIFORMA DELRIO PROCEDE A RILENTO E SENZA GLI INTERVENTI E LE RISORSE NECESSARIE”
Una “situazione di criticità (per certi versi emergenziale)” relativa alle risorse che mette a rischio “i servizi di primaria importanza“.
Sono gli effetti che la riforma varata dal governo Renzi ha avuto sulle finanze e la funzionalità delle Province italiane, secondo la Corte dei Conti.
Senza l’adozione di “interventi necessari”, “la forbice tra risorse correnti e fabbisogno per l’esercizio delle funzioni fondamentali — si legge nella Relazione sugli andamenti della finanza territoriale inviata nei giorni scorsi al Parlamento — allo stato delle cose, tende ad una profonda divaricazione, difficilmente sostenibile per l’intero comparto”, scrivono i magistrati contabili in merito agli effetti del riordino funzionale e istituzionale della riforma Delrio.
Il governo ne ha fatto uno dei tratti fondamentali della propria narrazione: l’”abolizione delle Province” annunciata con l’approvazione del ddl Delrio approvato in via definitiva il 3 aprile 2014 dalla Camera nella realtà non è mai avvenuta.
Negli enti territoriali, infatti, sono stati ridotti e rimodulati gli organi “politici” ma è rimasto in piedi tutto il corredo di funzioni tecniche delegate in materia di scuola, strade, trasporti pubblici, formazione e ambiente.
Ora, secondo i giudici contabili, molti servizi legati a queste funzioni sono a rischio perchè il riordino previsto dalla legge firmata dall’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio procede a rilento.
Secondo i giudici contabili, “lo stato di precarietà della situazione finanziaria degli enti di area vasta e l’aggravamento ipotizzato, soprattutto nella prospettiva dell’esercizio in corso, stanno avendo progressiva conferma, considerata la fase avanzata della gestione 2015 e la mancanza di novità sul fronte dell’attuazione del riordino” avviato con la legge 56 del 7 aprile 2014.
A cosa si riferisce in particolare la Corte dei Conti?
“Alle ricadute sulle gestioni finanziarie interessate, generate dall’anticipazione degli effetti finanziari relativi ai tagli di spesa disposti dalla legge di stabilità 2015, rispetto all’alleggerimento della spesa corrente che sarebbe dovuto conseguire al trasferimento degli oneri del personale a seguito della riallocazione delle funzioni non fondamentali”, spiegano ancora i magistrati contabili.
A poco sono servite, inoltre, le toppe che il governo ha cercato di mettere qui e lì per riparare alla situazione.
Nel quadro critico in cui si trovano le Province, “di relativa efficacia appaiono le misure” previste nel decreto Enti Locali “in tema di trasferimento del personale appartenente ai ruoli della polizia provinciale e quelle riguardanti la modulazione delle sanzioni per il mancato rispetto dei vincoli del patto di stabilità per il 2014″.
Già all’inizio del 2014, i giudici contabili avevano sottolineato come la riforma non avrebbe prodotto i risultati annunciati dal governo in termini di taglio della spesa.
Il ddl Delrio, produrrà risparmi “di entità contenuta” e allo stesso tempo “è difficile ritenere che una riorganizzazione di così complessa portata sia improduttiva di costi”, affermava la Corte dei Conti il 16 gennaio nel corso di un’audizione presso la Commissione Affari Costituzionali al Senato.
Secondo la Sezione Autonomie dei magistrati contabili, “appare pertanto decisiva la costante verifica dell’andamento dell’attuazione della riforma e dei risultati sotto il profilo del governo delle risorse impiegate e del rispetto di nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
I DATI RUBATI HANNO VANIFICATO LE INTERCETTAZIONI
L’arresto dei due stranieri residenti a Brescia e accusati di terrorismo è scattato il 22 luglio, prima che l’indagine fosse «svelata».
Le intercettazioni sui computer del tunisino Lassad Briki e del pachistano Muhammad Waqase – sospettati di voler colpire la base militare di Ghedi e compiere altre azioni in nome dell’Isis – erano infatti effettuate con le apparecchiature di «Hacking Team srl», l’azienda milanese finita sotto attacco due settimane fa.
E dunque si è deciso di far scattare i provvedimenti prima che fosse troppo tardi e dunque per scongiurare il rischio che potessero scoprire di essere «pedinati» e fuggire. Altre inchieste, «alcune proprio sui fondamentalisti islamici, sono state invece bloccate quando è stato svelato su internet il “codice sorgente” del sistema utilizzato oppure hanno subito gravi danni».
A rivelarlo è stato il capo della polizia Alessandro Pansa al comitato parlamentare di controllo.
E ha così confermato il danno pesantissimo provocato dall’intrusione dei «pirati» nel sistema della società milanese. In realtà le conseguenze rischiano di essere ben più serie – con attacchi che in futuro potrebbero riguardare le reti elettriche e ferroviarie, ma anche possibili ricatti industriali portati avanti grazie ai dati «rubati» -, però quanto emerso già dimostra quali interessi si muovano dietro l’azione, che non ha ancora un colpevole nè un movente preciso.
L’audizione
Il prefetto viene convocato proprio per analizzare che cosa sia accaduto e soprattutto che cosa stia provocando l’attività di hackeraggio contro l’azienda.
Lo accompagna il capo della polizia postale Roberto Di Legami, cui sono delegate le verifiche disposte dalla magistratura di Milano.
Sia pur rispettando il riserbo sugli accertamenti tuttora in corso e soprattutto quello sui fascicoli che si è stati costretti a chiudere,
Pansa lancia l’allarme: «Abbiamo dovuto sospendere l’attività di intercettazione». Il «Remote control system» della «Hacking consentiva di introdursi nei sistemi informativi degli indagati – dunque anche negli smartphone – e in alcuni casi si trasformava in una vera e propria microspia per captare le conversazioni ambientali. Un’attività investigativa preziosa che si è stati costretti ad interrompere perchè con il codice sorgente i sospettati avrebbero potuto facilmente scoprire di essere sotto controllo. E in effetti sembra che qualcuno lo abbia appreso proprio azionando l’antivirus, dunque sarebbe stato inutile continuare, se non addirittura dannoso perchè sapendo di essere «ascoltati» gli indagati avrebbero anche potuto fornire false piste. Oltre alle inchieste per terrorismo, le intercettazioni in corso riguardavano reati contro la pubblica amministrazione e relativi alla criminalità organizzata.
La prevenzione
In tema di fondamentalismo il grave danno riguarda soprattutto le attività di prevenzione.
I controlli vengono infatti effettuati monitorando ciò che gli stranieri residenti tra Roma, Milano, Torino e altre importanti città postano via web, i siti che frequentano, i contatti che hanno, con un’attenzione particolare a quelli nelle zone di guerra o comunque dominate dall’Isis.
L’azzeramento del software «Galileo» ha di fatto annullato questa possibilità di intervento e i timori del capo della polizia – condiviso dagli inquirenti – adesso si concentrano su quanto potrà accadere in futuro.
Il prefetto ha infatti ribadito che «al momento nessuna azienda italiana è in grado di fornire un servizio simile a quello che “Hacking Team” metteva a disposizione della polizia e delle altre forze dell’ordine». Non solo.
E sarà il ministro della Giustizia Andrea Orlando, convocato per la prossima settimana, a dover chiarire quali Procure e quante inchieste abbiano subito danni.
Il movente
Pansa ha rassicurato i parlamentari escludendo che «i computer della polizia possano essere stati violati, perchè l’azienda non aveva accesso diretto, ci forniva i suoi programmi sin dal 2004, quando fu firmato un contratto in esclusiva della durata di tre anni.
Accordo che fu poi rinnovato senza però prevedere l’esclusiva».
E infatti «Hacking Team» lavorava anche con i carabinieri e con l’Aise, il servizio segreto che si occupa di estero.
Le verifiche per stabilire quanti e quali dati siano stati trafugati sono tuttora in corso. Rimane privilegiata la pista che qualcuno sia riuscito a rubare i «codici» grazie a complicità interne, ma la convinzione è che si tratti di un’organizzazione legata a uno Stato estero, non necessariamente «nemico».
Qualcuno che potrebbe usarli in futuro contro enti, istituzioni o grandi aziende private.
Fiorenza Sarzanini
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
LA ROTTAMAZIONE INCOMPIUTA DI RENZI
Secondo alcuni l’inizio di ogni guaio data ancora lì, alla grande delusione per il voto di primavera, la batosta in Veneto, la sconfitta in Liguria, ad Arezzo, a Venezia…
Un colpo secco e inatteso, insomma, a quell’alone di invincibilità che circondava Matteo Renzi e che ha messo in crisi progetti, strategie e certezze del segretario-premier.
Per altri, invece, non avrebbe potuto che finire così: con la crisi dell’«uomo solo al comando» e con la sua squadra – il partito, il Pd insomma – prima sfiancata dagli strappi del leader e poi arrabbiata e confusa da una direzione di marcia che non ama e non capisce.
Una direzione di marcia – per altro – che ormai nemmeno i sondaggi premiano più.
Per Matteo Renzi non sono giorni facili, e dal fortino di palazzo Chigi non gli sfuggono i segnali che testimoniano un evidente appesantimento della situazione.
Ma non sono giorni facili nemmeno per il Pd, una comunità in via di «trasformazione coatta» e che, dopo tanto inutile discutere di partiti «solidi» oppure «liquidi», ha scoperto che – proprio come in fisica – esiste un terzo stato cui potersi ridurre: quello gassoso. Un partito gassoso, sì: cioè impalpabile. E talvolta addirittura invisibile.
La libertà di coscienza lasciata nel voto sull’arresto del senatore Azzollini ha seminato sconcerto tra iscritti ed elettori Pd, rimasti poi sgomenti di fronte al siparietto delle tesi contrapposte espresse dai due vicesegretari – Guerini e Serracchiani – circa l’opportunità di quella scelta. «Non vi voto più – hanno scritto molti -. Siete come gli altri».
Nè meno doloroso, per sostenitori e militanti, è stato assistere – nella stessa giornata – alla nascita del gruppo di senatori verdiniani, col corollario di voci che lo accompagna: entreranno nel Pd, si farà il Partito della Nazione, serviranno a liquidare la minoranza interna…
Dulcis in fundo, la decisione di procedere alla nomina del nuovo Cda Rai ancora con la famigerata legge Gasparri: uno dei bersagli preferiti di Matteo Renzi al tempo della sua ascesa garibaldina.
Già , dov’è finito il «rottamatore»?
L’interrogativo aleggia ormai con preoccupazione tra le stesse fila dei «fedelissimi». Il Renzi che ingaggia e perde un braccio di ferro con Ignazio Marino, non è il Renzi che conoscevano.
E non somiglia certo all’«uomo della Leopolda» il premier-segretario che benedice il voto su Azzollini, che nello scontro tra Crocetta e Lucia Borsellino resta in silenzio e che riporta in auge la legge Gasparri: ritrovandosi senza maggioranza al Senato per i «no» della minoranza Pd.
Nel pieno del processo di scongelamento dopo il ribaltone che nel febbraio 2014 gli costò il governo, ieri Enrico Letta ha affidato queste parole a «Il Fatto quotidiano»: «C’è una mutazione genetica del sistema dei partiti che, anche nel campo del centrosinistra, si traduce nella personalizzazione esasperata della leadership, nell’egotismo, nell’ossessione per il consenso immediato, nell’umiliazione dei corpi intermedi».
Oggetto della polemica, naturalmente, è Matteo Renzi. Si tratta di obiezioni che conosce a memoria: ma alle quali – da molti sondaggi in qua – non può più rispondere «sarà , ma vinco e ho portato il Pd al 40%…».
Dov’è finito, dunque, il «rottamatore» che tanti entusiasmi e speranze aveva suscitato anche fuori dal Pd?
E cosa sta diventando il Partito democratico, la creatura così fortemente voluta dal tandem Prodi-Veltroni?
Alla seconda domanda ieri ha mestamente risposto Matteo Orfini, presidente del Pd, commentando la sconfitta del governo al Senato sulla Rai: «Se il voto in dissenso dal gruppo diventa una consuetudine, significa che si è scelto un terreno improprio per la battaglia politica: così non si lavora per rafforzare il partito ma per smontarlo».
Smontare il Pd. Qualcuno ci pensa, forse; qualcun altro (da Civati a Fassina a Cofferati) ha avviato i lavori: un partito gassoso, infatti, con una «leadership egotista e ossessionata dal consenso», non era precisamente il modello immaginato dai «padri fondatori».
E mentre iscritti ed elettori cercano di capire se è Renzi ad aver sbagliato partito o il Pd ad aver sbagliato leader, la crisi si avvita e rischia di produrre danni irreparabili anche sul piano elettorale.
Possibile uscirne? E come?
Difficile dirlo: ma vista l’aria che si respira nel Pd, il confronto e il dialogo non sembrano più una via per raggiungere l’obiettivo.
E infatti, così come qualcuno disse che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, così oggi qualcun altro teorizza che potrebbero essere le elezioni anticipate, in questo caso, la prosecuzione del confronto: ma per chiuderlo definitivamente.
«Mi chiedo per quanto ancora si debba sopportare questo atteggiamento da parte della minoranza bersaniana – ha minacciato ieri Roberto Giachetti, renziano e vicepresidente della Camera -. In queste condizioni meglio andare al voto, e fare una volta per tutte chiarezza dentro al partito».
Dove per chiarezza s’intende, evidentemente, ridurre a uno stato ancor più gassoso gli oppositori interni: nella convinzione – in questo caso temiamo fallace – che liquidazione sia uguale a soluzione…
Federico Geremicca
(da “La Stampa“)
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
“IL TENTATIVO DELLA POLITICA DI SMINUIRE L’INCHIESTA: MA HANNO FATTO SPARIRE 500 MILIONI”
C’è quasi un sottinteso nel voto con cui il Senato ha evitato l’arresto di Antonio Azzollini.
Non solo la Procura e il gip di Trani sono implicitamente accusati di “perseguitare” il senatore di Ncd (il famoso fumus persecutionis), ma la politica pare ansiosa di sminuire l’intera inchiesta sul crac della Casa divina provvidenza: “E invece là c’è una bancarotta da mezzo miliardo su cui Procura e Tribunale hanno fatto un ottimo lavoro. Anzi, chiedendo il fallimento nel 2013 hanno evitato che il buco diventasse ancora più grande”.
Chi parla è Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, deputato Pd eletto in quelle zone e da anni avversario della gestione della clinica su cui — dicono i pm — regnava Azzollini: “Io ho chiesto per la prima volta l’amministrazione controllata nel 2007, invece si è andati avanti come se nulla fosse. Di fatto, ancora una volta, i pm hanno supplito all’incapacità della politica”.
Il Senato reagisce dicendo no ai domiciliari per Azzollini.
“Guardi, io non auguro la galera a nessuno e con Azzollini ho rapporti persino cordiali, ma la politica ancora una volta ha deciso di girarsi dall’altra parte. I senatori del Pd si assumono una grossa responsabilità davanti all’opinione pubblica, specialmente perchè sembra che qualche garantista interessato, salvando Azzollini, voglia screditare tutta l’inchiesta di Trani.
A chi si riferisce?
Ad esempio Giorgio Tonini e Pietro Ichino.
Sono senatori del suo partito.
E questo mi dà da pensare, ma a loro e agli altri che si sono nascosti dietro al voto segreto chiarisco una cosa che non è in discussione: dalla Casa divina provvidenza sono spariti 500 milioni in un decennio. Non solo: dal 2005 al 2013 i manager di un’azienda a cui erano stati concessi pre-pensionamenti e cassa integrazione hanno assunto 670 persone senza motivo.
Lei dice in sostanza che i manager del“buco”erano uomini di Azzollini, il quale usava Cdp a fini clientelari.
Questo, veramente, lo dice la Procura. Io auguro ad Azzollini di dimostrare la sua innocenza, ma insisto: c’è un buco da mezzo miliardo che per 400 milioni riguarda l’erario, tasse non pagate che peseranno su tutti i contribuenti. Mi piacerebbe che i colleghi senatori, primo il capogruppo Luigi Zanda, dopo aver avuto questa crisi di coscienza, si occupino anche di questo. Questi sono numeri certificati dal ministero dello Sviluppo economico.
Sono i numeri della relazione del commissario governativo Bartolo Cozzoli, che fu nominato da Enrico Letta ed è suo amico.
E allora? Il commissario è di nomina governativa e, com’è evidente dal curriculum, è un eccellente professionista e sta lavorando in simbiosi con magistrati e ministero: il punto d’arrivo del suo lavoro è tenere aperta la clinica trovando un gruppo che la gestisca bene, non certo creare un’altra struttura clientelare. Quanto a me, fa fede il mio lavoro da commissario liquidatore a Taranto e l’approccio rigoroso che ho sempre avuto con la Divina provvidenza.
Torniamo ad Azzollini. Il Pd stavolta sceglie la libertà di coscienza, ma per Francantonio Genovese il premier impose il sì all’arresto.
Personalmente mi suona come una beffa. Io sogno una sinistra garantista, ma vedo che appare e scompare in funzione del momento: la libertà di coscienza deve valere sempre o mai, la corrente alternata è un problema.
Al Senato i numeri sono ballerini e il partito di Azzollini, Ncd, serve a tenere in piedi il governo
Spero che non sia questo il motivo, comunque il Pd non può pensare che questa scelta, per di più episodica, non abbia effetto su come ci guarda l’opinione pubblica. Soprattutto se continua a non occuparsi del vero problema.
Cioè?
La sanità gestita da alcune Congregazioni cattoliche ha accumulato in questi anni buchi enormi in più di un caso. È vero che con Papa Francesco le cose sono cambiate e c’è più collaborazione, ma il problema resta. Ecco, se uno scopre che le suore della clinica pugliese hanno conti schermati da una fiduciaria con decine di milioni di euro, più che lo spirito di Bergoglio sembra vigere ancora quello di Marcinkus…
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
L’EPISODIO RISALE AL 10 LUGLIO, UN PICCOLO CESSNA PER UN GUASTO COSTRETTO AD ATTERRARE A ROMA: NESSUNA SEGNALAZIONE DAI RADAR E DAI CONTROLLORI DI VOLI… APERTA UN’INCHIESTA
Un aereo “fantasma” ha abbandonato la sua rotta, ha puntato sulle piste di Fiumicino ed è atterrato senza che nessuno lo avesse visto.
Oltretutto su una pista sbagliata, la 25 chiusa al traffico.
E’ accaduto nel pomeriggio del 10 luglio, ma su tutta la faccenda è stata messa la sordina.
Perchè si tratta di un episodio estremamente imbarazzante per tutti. Se ci fosse stato un terrorista al posto del pilota dell’aereo in questione, un sessantenne terrorizzato perchè il suo aereo, un Cessna, era finito in guai seri, quel terrorista avrebbe potuto con la stessa facilità arrivare indisturbato sullo scalo romano e forse anche più in là dove voleva: il Vaticano? Palazzo Chigi? Il Quirinale?
L’aereo in questione era un piccolo Cessna 172 marche D-EGTB partito da Marina di Campo (Isola d’Elba) e diretto a Salerno con un piano di volo che per i piccoli aerei di quel tipo prevede una rotta che passa a circa 12 miglia dalla costa.
A un certo punto su quell’aereo è cominciato a saltare di tutto: prima l’impianto elettrico, poi i sistemi radio.
Il pilota aveva con sè il cellulare, ma probabilmente preso dal panico per quel che gli stava capitando, non l’ha usato, quasi sicuramente non ci ha pensato e sentendosi perso ha fatto quello che al suo posto avrebbero fatto tutti: ha provveduto a mettersi in salvo.
Ha visto che era vicino a Roma e non ha esitato a puntare sulle piste di Fiumicino.
La cosa stupefacente è che mentre stava eseguendo queste manovre al di fuori di qualsiasi regola ed estremamente pericolose, per minuti e minuti nessuno l’abbia visto.
Non l’ha visto il radar dell’area terminale di Fiumicino, non l’ha seguito il centro che di solito segue gli aerei di quel tipo e anche quelli speciali della polizia o dei carabinieri oppure i Canadair antincendio.
E non l’hanno visto neppure i controllori di volo che in quel momento stavano regolando il traffico dalla torre di Fiumicino.
A un certo punto hanno intravisto il Cessna sbucare tra i teloni e le impalcature della torre (ci sono i lavori in corso) e sono restati di sale pregando non succedesse la catastrofe.
Neanche la difesa aerea si è accorta di nulla. Confermano a ilfattoquotidiano.it i responsabili dell’Aeronautica: «Non siamo stati attivati da nessuno».
Una volta atterrato l’aereo è stato circondato da uno spiegamento di forze eccezionale, come se su quel piccolo velivolo ci fosse davvero un terrorista: macchine della polizia e agenti con i mitra spianati e auto di servizio dell’aeroporto di Fiumicino piene di addetti alla sicurezza.
Spaventatissimo per il pericolo corso e terrorizzato pure da tutta quella gente e quelle armi puntate, il pilota è sceso e dopo interrogatori serrati e tre giorni di attesa per effettuare tutti i controlli lo hanno fatto ripartire.
All’Enav (l’ente del controllo aereo) confermano l’episodio mentre all’Ansv (l’Agenzia per la sicurezza dei voli guidata da Bruno Franchi) dopo aver qualificato la faccenda come «inconveniente grave», hanno aperto un’inchiesta per capire come sia potuto succedere.
A memoria di chi lavora da decenni a Fiumicino un caso simile si è verificato una volta sola nell’oltre mezzo secolo di attività dello scalo.
E quella volta, comunque, la faccenda andò in maniera assai diversa, senza che il velivolo procedesse per minuti e minuti e per svariate miglia come un aereo fantasma e potesse atterrare senza che nessuno se ne accorgesse.
In quel caso successe che durante una tempesta un aereo non appartenente a nessuna compagnia e quindi non autorizzato di regola ad atterrare a Fiumicino, fu fatto scendere per emergenza dopo che le piste erano state opportunamente sgomberate e dopo che tutto l’aeroporto era stato messo in allarme.
Daniele Martini
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 31st, 2015 Riccardo Fucile
QUINDICI ANNI FA LA PRIVATIZZAZIONE DELL’AEROPORTO, MA SENZA CAPITALI FRESCHI
Mercoledì l’incendio della pineta, ieri il blackout elettrico. L’aeroporto di Fiumicino forse non è nato sotto una buona stella.
Lo dice la storia: per il nuovo scalo della Capitale, era il 1949, si scelsero i paludosi (e inadatti) terreni della duchessa Torlonia nella bonifica di Porto.
Si partì nel 1950, ma dopo otto anni e 24 miliardi di lire spesi, a Fiumicino non c’era nulla. Dopo, per asciugare l’acqua si presero tonnellate di terra scavate da una valle vicina: la futura discarica di Malagrotta.
I primi aeroplani decollarono finalmente il 15 gennaio del 1961. Ma neanche tre mesi dopo l’inaugurazione il fondo della pista cominciò a sgretolarsi.
Nulla trovarono nè una Commissione d’inchiesta parlamentare nè la Procura di Roma.
Sul «Corriere» Indro Montanelli commentò così: «Il caso dell’aeroporto di Fiumicino è molto peggio di un furto, di una rapina a mano armata o di una incursione di briganti. Chissà quanti altri Fiumicini ci aspettano». Aveva ragione.
Quel che Montanelli non poteva prevedere è che dopo la privatizzazione (partita nel 1997 e chiusa nel 2000) per tre lustri sull’aeroporto non è stato investito un euro da parte degli azionisti principali della società di gestione, Adr: Cesare Romiti con Gemina (tra il 2002 e il 2007 in cogestione con il fondo australiano Macquarie), e poi, dal 2007 Benetton, oggi presente attraverso la holding Atlantia.
Fino al 2012 a Fiumicino, dicono i numeri, i proprietari hanno investito un terzo di quanto in media si investiva negli altri aeroporti europei. 60, 70 milioni l’anno: il minimo per garantire la manutenzione ordinaria.
Ecco le prove. L’ultima grande realizzazione a Fiumicino, il Terminale 1 fu inaugurato da Adr privata, ma i soldi ce li aveva messi l’Adr pubblica, dell’Iri.
Il riscatto di Fiumicino doveva passare dal nuovo molo C, 78 mila metri quadri di strutture e 16 «finger» per lavorare 5 milioni di passeggeri l’anno.
La prima pietra fu posta nel marzo del 2008, dovevano finire nel 2011. Ma i soldi finirono, i lavori si bloccarono.
E il molo C verrà aperto (forse) solo nel 2016.
Adesso la situazione è cambiata: a fine 2012, la nuova gestione di Adr a guida Benetton – presidente Fabrizio Palenzona, ad Lorenzo Lo Presti, nelle scorse settimane impegnati in trattative per la cessione di una quota del 30% a investitori di Abu Dhabi – ha ottenuto dal governo Monti il quasi raddoppio delle tariffe pagate dalle compagnie e prelevate dalle tasche dei passeggeri.
Prima ogni passeggero valeva 16 euro, con il nuovo Contratto di Programma Adr ne incassa 26,50. «Sempre troppo poco rispetto ai concorrenti», dicono in Adr.
Fatto sta che con i nuovi incassi i ricavi sono saliti nel 2014 del 10%, e l’azienda ha sbloccato un vasto piano di investimenti.
Nel 2014 sono stati spesi 170 milioni, 350 quest’anno. Sono state rifatte le piste, tutti i bagni, tutti i controsoffitti, tutte le illuminazioni a Led, tutti i «finger». E c’è persino il wifi gratuito.
Sullo sfondo, c’è il grande progetto (sempre presentato nel 2012) di «Fiumicino Nord»: una mega espansione con nuove piste e una nuova aerostazione per poter arrivare a gestire 100 milioni di passeggeri l’anno.
Peccato che bisognerebbe cementificare 1.300 ettari, tra riserva naturale e terreni coltivati. Campi della «Maccarese» di proprietà Benetton, e dunque da espropriare a caro prezzo.
Per adesso è tutto fermo: manca il via libera ambientale.
Il nuovo piano di investimenti sarà anche importante. Ma secondo molti addetti ai lavori non basterà per rimediare presto ai problemi di un aeroporto rimasto fermo agli Anni ’80.
Ha una struttura dilatata, che tiene insieme tanti edifici disparati, con un fronte di ben cinque chilometri. È pieno di scale, e dunque scomodo per i passeggeri.
Non è molto efficiente dal punto di vista del turnaround, il tempo impiegato per rimettere un aereo appena atterrato in grado di decollare con un nuovo carico.
Ha una pista, quella verso il mare, limitata dalla presenza di 300 alberi. Tante strutture sono decrepite, dopo anni di politica della lesina.
La dimostrazione di questa fragilità è stata l’incendio del 7 maggio 2015, che ha costretto per settimane Fiumicino a funzionare a regime ridotto (e forse anche ad operare con rischi per la salute di personale e passeggeri).
Le fiamme, pare, si sarebbero sprigionate in un vano cavi dove, per raffreddare un quadro elettrico, era stato astutamente posto un condizionatore.
Prove certe non ce ne sono. Ma di sicuro tutto l’aeroporto funziona con mille deroghe alle norme di sicurezza.
Deroghe concesse dai Vigili del Fuoco, senza le quali Fiumicino non potrebbe operare.
Roberto Giovannini
(da “La Stampa”)
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