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GLI SCHIAVI DELLE FAVELAS ITALIA MUOIONO AL SOLE COME BESTIE

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

PUGLIA: BUSTE PAGA FALSE, BRACCIANTI AMMASSATI NELLE BARACCHE… E I CAPORALI SI ARRICCHISCONO

Trentasette gradi. Il sole brucia l’asfalto, la terra rossa del Salento e le sue lunghe file di ulivi. Nardò, provincia di Lecce, è una delle capitali del lavoro nero.
Un bacino inesauribile di schiavi contemporanei.
L’estate salentina non appartiene solo ai turisti. Le notti sono dei caporali.
Escono all’alba, riempiono le loro auto come scatole di sardine e portano i braccianti nei campi, dove raccolgono le angurie e i pomodori che finiscono nei supermercati, nelle industrie di trasformazione e sulle tavole italiane.
Nove, dieci, dodici ore di lavoro per una manciata di monete.
Tre euro e mezzo per riempire una cassetta da tre quintali.
Yvan e il primo sciopero dei migranti di Nardò
Yvan Sagnet cammina sul confine della vecchia masseria Boncuri. È nato a Douala, in Camerun, trent’anni fa. Ama l’Italia dai mondiali del ’90, quelli in cui i “leoni indomabili” di Roger Milla e Oman Biyik fecero impazzire di gioia tutto il continente.
Ha attraversato il mare per studiare a Torino, quando ha perso la borsa di studio si è trovato a raccogliere pomodori a Nardò. Era il 2011.
Yvan, africano colto e cresciuto in una famiglia benestante, non sopportava le ingiustizie colossali, spudorate nei confronti dei lavoratori dei campi.
La masseria Boncuri, quell’anno, era un suq di tende e baracche. Si trasformò nel quartier generale di un inedito sciopero dei braccianti.
Yvan era il portavoce della protesta. Giornate esaltanti: gli schiavi alzavano la testa, parlavano di diritti, guardavano negli occhi gli sfruttatori.
Dopo pochi mesi fu introdotto il “reato di caporalato” e l’inchiesta “Sabr” portò all’arresto di 16 persone: 9 padroni dei campi, italiani, e 7 caporali africani.
I processi sono in corso.
Dopo un anno è tornato tutto come prima. Oggi la macchina del lavoro nero è florida e forte come non mai. La masseria Boncuri ha chiuso, è deserta.
“Non c’è più nulla — sussurra Sagnet — Hanno cancellato il simbolo di quel movimento. Si vede che avevano paura che qualcosa cambiasse davvero. La filiera agricola si arricchisce sul nostro sangue, questa economia è fondata sulla schiavitù. Allo Stato sta bene così: nei processi contro gli sfruttatori, il comune di Nardò non si è costituito parte civile. Per il sindaco danneggiamo l’immagine della città ”.
La vittoria     degli schiavisti
Rispetto al 2011 la situazione è persino peggiorata. I braccianti si sono spostati di cento metri. Nel campo autorizzato del comune ci sono appena 17 tende blu e sei bagni chimici. In ogni tenda dormono quattro persone. Fuori due ragazzi africani si riposano sotto l’ombra delle palme, su un materasso lacero.
Abraham viene da Dakar, Senegal. È in Italia dal 1995. Lavorava a Lecco, all’Electro Adda: “Mi hanno mandato via quando hanno spostato il lavoro in Polonia. Ora seguo le colture e mi muovo con le stagioni. L’estate si fa il pomodoro a Nardò. Tra un paio di settimane mi sposto verso Foggia. Che ci faccio qui a farmi sfruttare? Dammi 2 mila euro e torno subito a casa”.
Il grosso dell’esercito industriale di riserva di Nardò dorme tra gli ulivi, in un grande campo lungo la strada .
In una ex falegnameria — e nei suoi dintorni — vivono in 150: soprattutto tunisini e sudanesi; senegalesi, burkinabè, gambiani.
La struttura     — sotto costante minaccia di sfratto — sembra sul punto di venire giù. I muri squarciati, la terrazza col balcone rotto. I materassi sono gettati ovunque.
Qui Yvan da solo non potrebbe entrare. I caporali lo conoscono bene. Ha subito aggressioni e minacce di morte.
Sagnet dopo la protesta non è andato via. Lavora con la Flai Cgil. Qui è quasi un reietto: i braccianti sono dalla parte dei loro sfruttatori. Sembra un paradosso, ma è naturale: sono i caporali che decidono chi lavora e chi no. Controllano tutto. Gestiscono le cucine e i “ristoranti” del campo. Sfruttano un gruppo di prostitute nigeriane.
Da qui, martedì mattina, è partita la salma di Mohamed, il bracciante ammazzato dalla fatica e dal caldo nelle campagne di Nardò il 21 luglio.
Il suo corpo è tornato in Sudan, dopo una battaglia diplomatica e una colletta per pagare le spese (a cui hanno contribuito sindacato e Regione).
Quando sua moglie è venuta a vedere ha avuto un brivido: “Neanche gli animali vengono trattati così. Qui non c’è posto per l’umanità .”
Le donne invisibili     di Francavilla
Saliamo la costa, cambiamo provincia. Le braccianti del brindisino sono soprattutto donne, quasi tutte italiane.
A Francavilla, di notte, scivolano via come fantasmi. Si riuniscono in silenzio sotto la luce dei lampioni. I primi camioncini passano a prenderle verso le due e mezza.
In mezzo c’è un donnone che si sbraccia e smista la manodopera tra i pullman. È la “fattora”, fa parte pure lei della squadra del caporale.
Il viaggio può durare anche due ore: bisogna raggiungere i campi del barese e del metapontino. Il caporale trattiene soldi per il trasporto , per l’acqua, per un panino.
Per qualsiasi cosa: dopo 10 ore nelle vigne, da una busta paga fasulla di 50 euro al giorno, le schiave ne portano a casa meno di 30.
Ecco i “contratti” con cui i proprietari dei campi si mettono la coscienza a posto.     Trenta euro è il prezzo di mercato della vita di Paola, 49 anni, morta il 13 luglio in un’azienda agricola di Andria , qualche giorno prima di Mohamed a Nardò.
Per quella stessa cifra si fa sfruttare un esercito di 12 mila donne solo nella provincia di Brindisi — spiega Michela Almiento, segretaria confederale della Cgil nel capoluogo.
Le braccianti brindisine non vogliono parlare. L’unica che accetta di farlo si chiama Piera. “Massimo 35 euro per sette, otto o nove ore di fatica. Ne vale la pena? No. Ma se non lavoro io, lo fa un’altra e altre scelte non ne ho. Mia figlia? È per lei che lo faccio, ma non riesco a vederla quasi mai. Mio marito non può chiedermi di smettere, sa che abbiamo bisogno di quei soldi”.
Il lager-dormitorio     di Brindisi
Anche a Brindisi c’è un ghetto “nero”. Era un macello, ora è un dormitorio di proprietà  del Comune, affidato a una cooperativa.
Ci potrebbero stare in 80, sono circa 200. Dormono ammassati ovunque. Per terra, su stuoie improvvisate di cartone o di stracci.
Sui materassi laceri, gettati in ogni pertugio nei cubicoli, separati da file di panni e vestiti. Le pareti e il pavimento erano bianche, sono annerite, lerce. I bagni alla turca non sono più di una dozzina, le docce ancora meno.
Il percorso che porta alle latrine è segnalato da una lunga scia gialla sulle piastrelle. Duecento persone compresse in una struttura abbandonata sulla strada provinciale per San Vito, non lontana dal centro di Brindisi.
Un altro serbatoio di braccia da sfruttare quasi gratis per le fortune degli imprenditori locali.
Il grande ghetto di Rignano Garganico
Yvan ci porta ancora a nord, verso Foggia. La città  dell’oro rosso, prima in Italia per produzione di pomodoro: in questi campi ogni anno se ne raccolgono circa 800 mila tonnellate.
A meno di dieci chilometri c’è il ghetto di Rignano Garganico. Chi ci vive lo chiama le grand ghetto. D’estate, nei giorni più intensi della raccolta, ci vivono tra le 1.500 e le 2.000 persone: una città  rimossa da tutte le cartine geografiche.
Sono tutti braccianti africani, da Mali, Gambia, Senegal e Burkina Faso.
Il ghetto sorge su tre diverse proprietà  terriere: per “costruirci” sopra le baracche si paga un affitto stagionale.
Non è comparso all’improvviso: è qui da oltre 15 anni e ogni estate diventa più grande.
Il confine è segnato da una discarica a cielo aperto, si supera una vecchia masseria cadente occupata dai caporali, poi iniziano le file di baracche.
Decine e decine di case di cartone, coperte da teli di plastica. Il vento alza la polvere e la distribuisce ovunque.
I bagni sono buche nel terreno, separate a in un metro quadro da pareti improvvisate.

Tommaso Rodano
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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WELFARE AL CONTRARIO: COSI’ LO STATO AIUTA PIU’ I RICCHI CHE I POVERI

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

PARADOSSO SPESE ASSISTENZA: AL 40% PIU’ POVERO DELLE FAMIGLIE VA MENO DI UN QUARTO DEL TOTALE

Tra i tanti paradossi della spesa pubblica italiana ce n’è uno particolarmente fastidioso, quello che vede la spesa assistenziale andare a favore più dei ricchi che dei poveri.
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, lo sospettava già  da economista, ma ora che ha una visione diretta dei dati ne ha avuto la conferma
Prendendo la spesa per prestazioni assistenziali gestita dall’Inps e legata anche a requisiti di reddito e suddividendo le famiglie che ne beneficiano in dieci decili secondo l’Isee (misura reddito e patrimonio) si osserva che essa va per meno di un quarto (il 23%, per la precisione) agli ultimi 4 decili, cioè al 40% delle famiglie più povere.
In particolare, solo il 4% della spesa va all’ultimo decile, mentre il 10% delle famiglie più ricche beneficia del 14% della spesa e al secondo decile dei più ricchi va, in proporzione, la fetta maggiore dell’assistenza, il 19%.
Insomma, un terzo della spesa si rivolge al 20% più ricco.
La spesa
Il totale delle uscite considerate vale circa 20 miliardi l’anno, di cui la metà  per le integrazioni delle pensioni al minimo, quasi 5 miliardi per pensioni e assegni sociali e il resto per maggiorazioni varie delle pensioni, sempre legate al reddito.
Ma allora come è possibile che la spesa si addensi verso i decili di famiglie più ricche?
Per due ragioni.
La prima è che una parte delle prestazioni in pagamento sono ancora quelle liquidate quando i requisiti di reddito non erano previsti dalle norme o erano meno severi.
Per esempio, l’integrazione al minimo, che lo Stato dà  a 3,5 milioni di pensionati che hanno meno di 15 anni di contributi versati e non raggiungono l’importo minimo fissato per legge ogni anno (502,38 euro al mese nel 2015), fino al 1983 era concessa indipendentemente dal reddito e dall’83 al 1992 sulla base dei redditi del solo pensionato, mentre solo dal 1992 si considera anche quello del coniuge.
La seconda ragione che spiega il paradosso è che un conto è considerare come requisito per la prestazione il solo reddito Irpef, come si fa ora, un altro l’Isee, che include anche la ricchezza patrimoniale immobiliare e mobiliare (conti correnti, depositi, titoli, azioni e altri investimenti finanziari) e il possesso di veicoli e che lo fa non solo per il beneficiario, ma anche per il coniuge e i figli, cioè per tutti i tutti i componenti del nucleo familiare.
Il metodo
È evidente che se si applicasse l’Isee, soprattutto quello riformato nel 2013 che è abbastanza sofisticato e può contare sull’incrocio delle banche dati, non solo si scoverebbero più facilmente prestazioni erogate a evasori fiscali, ma si potrebbe anche risparmiare qualche miliardo di euro all’anno che oggi va a famiglie che non hanno bisogno di assistenza.
Un’operazione che potrebbe servire alla spending review, la revisione della spesa pubblica, oppure a finanziare l’introduzione del Reis, il reddito di inclusione sociale, contro la povertà , ma che si scontra col tema dei cosiddetti diritti acquisiti. Altri risparmi sarebbero possibili se l’Isee si applicasse anche ad altre voci importanti di spesa, come per esempio l’indennità  di accompagnamento per gli invalidi totali non autosufficienti (13,6 miliardi nel 2014 per circa 2 milioni di persone) e che sono state sempre slegate dal reddito.
Ma quest’ultimo, come è facilmente intuibile, è un capitolo ancora più difficile da toccare.

Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera”)

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NIENTE SOLDI AGLI ALLUVIONATI, IL BLUFF DELLA CENA CON IL PRINCIPE ALBERTO DI MONACO

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

NON SOLO CENA A SCROCCO E CATERING NON PAGATO, MA NESSUNO DEI VIP INVITATI HA VERSATO UN EURO AGLI ALLUVIONATI

La questione si complica, e pure parecchio.
Perchè si scopre oggi che il gala pseudo-benefico del 24 ottobre scorso a Palazzo San Giorgio, quando il principe Alberto di Monaco visitò Genova per ricevere la laurea honoris causa a poche settimane dall’alluvione, per gli alluvionati non ha raccolto nulla, a parte un assegno da diecimila euro staccato da Domenico Pallavicino, che del Principato è console a Genova. Nonostante le (confuse) assicurazioni di quella sera; e nonostante l’appuntamento sia passato (anche) come un’occasione di ristoro per la città  segnata dall’ondata di fango.
Rewind, allora.
È di ieri la notizia che l’emanazione italiana della Fondation Prince Albert II di Monaco non ha saldato la fattura per chi quella sera fornì il rinfresco, ovvero il ristorante “Manuelina” di Recco . Al punto che Cristina Carbone, patròn della medesima Manuelina, ha presentato una denuncia alla Procura.
Di più: nelle ultime ore si è scoperto che il debito è perlomeno duplice, poichè anche i professionisti che curarono l’allestimento della serata – lo studio di architettura “Ottino” con base a Genova – non è mai stati pagato.
Scatta allora una domanda: ma alla fine qualcosa è andato pure agli alluvionati, dopo le foto del principe vicino alle magliette “Non c’è fango che tenga?”.
Il Secolo XIX ha provato a chiederlo a Maurizio Codurri, che dell’ufficio italiano della Fondation è presidente.
«L’evento era stato organizzato per raccogliere fondi a favore della fondazione stessa, che a sua volta finanzia progetti importanti».
Ma qualcosa su Genova alluvionata è stato fatto o no?
«Al momento non direi, ma non si può escludere per il futuro».
Codurri prende tempo sulle fatture non saldate: «Non ricordo di aver ricevuto solleciti, verificherò al mio rientro, ora sono all’estero….».
Nel frattempo insorgono gli alti protagonisti della giornata.
Claudio Senzioni, cancelliere del generale del consolato monegasco in Liguria: «Poichè la serata di gala andò in scena a poche settimane dall’alluvione, ricevemmo da più parti la proposta di devolvere qualcosa a favore di Genova.
Il consolato lo fece e Domenico Pallavicino contribuì con 10mila euro.
Poi non so se la Fondazione ha fatto altro».
E parrebbe proprio di no. Un bluff o un più spiacevole equivoco?

(da “il Secolo XIX“)

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ALLARME ISTAT: CALANO LE AZIENDE CHE CREANO LAVORO

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

LA SOCIETA’ CON DIPENDENTI SONO UN TERZO DEL TOTALE MA IMPIEGANO L’80% DEGLI ADDETTI E SONO DIMINUITE DEL 3%

In Italia diminuisce ancora il numero delle imprese che creano lavoro, reale motore dell’economia.
L’Istat, che parla di aziende attive con dipendenti (escluse la pubblica amministrazione e l’agricoltura), stima un calo del 3% nel 2014 sul 2013, con il totale sceso a 1 milione 540 mila. Cala anche, ma con ritmo meno accentuato, l’occupazione: 13 milioni di addetti (-1,4%).
Nella nota metodologica che accompagna il dossier dell’Istituto di statistica, si sottolinea, infatti, come le imprese attive con dipendenti siano “il core del sistema produttivo nazionale”.
Come è noto le imprese con dipendenti sono solo una parte, circa un terzo, del totale, fatto per lo più di realtà  condotte da un unico soggetto, che magari si avvale della collaborazione di lavoratori autonomi.
Ma la gran parte dell’occupazione si deve alle imprese con dipendenti, che da sole spiegano l’80% del totale degli addetti (appunto poco più di 13 milioni, di cui oltre 11 milioni dipendenti).
Guadando alla dimensione d’impresa, la riduzione maggiore si registra per la classe 1-9 addetti (-3,2%).
In particolare l’Istat evidenzia “il forte calo” del numero delle imprese con 100-249 addetti nelle costruzioni: -8,8%.
L’Istituto, che ha pubblicato i dati sul sui sito, tiene a precisare come le cifre siano il risultato di una stima anticipata e ricorda che la rilevazione non comprende i settori dell’agricoltura, della Pubblica Amministrazione e del non profit. Gli ultimi dati consolidati, relativi al 2013, sono stati diffusi a dicembre dello scorso anno e mostravano un calo nel numero delle imprese attive con dipendenti ancora più forte, pari al 3,7%.

(da agenzie)

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LA LISTA NERA DEGLI ESAMI MEDICI CHE LO STATO NON PAGHERA’ PIU’: DAI TEST GENETICI ALLE TAC

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

CIRCA 180 LE PRESTAZIONI SANITARIE CHE SARANNO INTERAMENTE A CARICO DEI CITTADINI

Cure dentistiche ospedaliere solo ai ragazzi sotto i 14 anni e ai pazienti economicamente disagiati, stretta sui test genetici, su alcuni esami di laboratorio e sulle prestazioni ad alto costo: in particolare Tac e risonanze magnetiche agli arti, oltre che l’Rmn con mezzo di contrasto per la colonna vertebrale.
Sarebbero in tutto 180 le prestazioni, soprattutto diagnostiche, che il ministero della Sanità  sta per inserire nella lista nera degli esami “inappropriati” previsti nel decreto sugli enti locali appena convertito dal Parlamento: l’obiettivo del governo è tagliare le spese, dunque queste prestazioni passeranno a totale carico del cittadino.
Una spending review che ridisegna le regole che i camici bianchi dovranno seguire prima di prescrivere visite o esami sulla ricetta rossa.
La lista dettagliata sarà  contenuta nel decreto che il ministero della Salute dovrà  adottare entro 30 giorni dall’entrata in vigore del Dl enti locali.
Il ministro Beatrice Lorenzin ha detto che le misure saranno “condivise con i medici” e i sindacati di categoria.
Per quanto riguarda i tipi di vincolo, le condizioni di erogabilità  prevedono che la prestazione a carico del Ssn sia “limitata a specifiche categorie di destinatari, e/o per particolari finalità , condizioni o indicazioni cliniche”.
Per conoscere nel dettaglio i criteri prescrittivi per le 180 prestazioni sanitarie bisogna ancora attendere, ma esiste già  un documento con “le condizioni di erogabilità  e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva”. Inoltre, il dl enti locali prevede che la prescrizione non appropriata possa essere contestata al medico dipendente che rischia sanzioni sul salario accessorio.
Odontoiatria.
Nello specifico, per quanto riguarda l’odontoiatria, verranno tutelati soprattutto i ragazzi fino a 14 anni e le persone economicamente disagiate.
Le Regioni già  da tempo applicano programmi di tutela nell’età  evolutiva e l’assistenza odontoiatrica e protesica a determinate categorie vulnerabili. La bozza del documento “si limita a omogeneizzare le condizioni già  applicate definendo esplicitamente i criteri utilizzati e specificando per ciascuna prestazione quali sono i soggetti beneficiari (minori fino a 14 anni, vulnerabili per motivi sanitari, vulnerabili per motivi sociali), lasciando comunque alle Regioni il compito di fissare le soglie di reddito o di Isee che discriminano la vulnerabilità  sociale”. Le prestazioni di odontoiatria interessate sono 35 su 180 (20% circa).
Genetica.
Anche per quanto riguarda i test genetici sono previsti tagli. “Si tratta di prestazioni molto onerose – si legge nella bozza – che vengono prescritte da specialisti ed eseguite una sola volta nella vita. Nel decreto saranno riservate alla diagnosi di specifiche malattie genetiche definite in un elenco a parte”
Non sarà  più possibile prescriverle per una generica mappatura del genoma o a fini di ricerca. Le prestazioni di genetica interessate sono 53 su 180 (30% circa) e alla loro individuazione hanno contribuito esponenti di rilievo della Società  italiana di genetica umana (Sigu).
Allergologia.
Fra le voci che verranno sottoposte a controlli più rigidi anche l’allergologia. Alcuni test allergologici e le immunizzazioni (cosiddetti vaccini) dovranno essere prescritti solo a seguito di visita specialistica allergologica.
Esami di laboratorio.
In tema di esami di laboratorio il provvedimento riguarda: alcune prestazioni di basso costo (il cui importo spesso è già  coperto dall’assistito non esente col ticket), per le quali vengono descritte condizioni di erogabilità  (non si possono prescrivere per generici follow-up, ma solo in base a precise indicazioni cliniche).
In particolare, si prevede che in assenza di qualsiasi fattore di rischio (familiarità , ipertensione, obesità , diabete, cardiopatie, iperlipemie eccetera) il colesterolo e i trigliceridi siano ripetuti ogni 3 anni.
Infine prestazioni specifiche potranno essere erogate per la diagnosi e il monitoraggio di specifiche patologie (ad esempio test del sudore per la fibrosi cistica).
Tac e Rmn.
Per la diagnostica per immagini il provvedimento si è concentrato solo su Tac e Rmn degli arti e la Rmn della colonna con mezzo di contrasto, per un totale di 9 prestazioni. Il ministero ritiene che la prescrizione di queste prestazioni secondo i livelli di appropriatezza proposti possa contribuire anche a ridurre le liste di attesa.
Dialisi.
Per quanto riguarda la dialisi, “le condizioni di erogabilità  sono riservate alle metodiche di base (domiciliari e ad assistenza limitata) che risultano appropriate solo per pazienti che non presentano complicanze da intolleranza al trattamento e/o che non necessitano di correzione metabolica intensa. Si tratta di 2 prestazioni”.
Medicina nucleare.
Infine, per la medicina nucleare le indicazioni di appropriatezza sono limitate a “4 prestazioni di interesse assolutamente specialistico (prescritte dallo specialista), per le quali vengono definite condizioni di erogabilità  e indicazioni prioritarie legate a patologie gravi di tipo neoplastico”.
Le liste d’attesa.
Resta sul tavolo il problema delle liste d’attesa, che secondo i più critici potrebbe con questi tagli. Un punto sul quale interviene il Tribunale dei diritti del malato (Tdm). “Colpisce come all’interno delle misure annunciate dal ministero sulla inappropriatezza non venga affrontato il nodo delle liste di attesa interminabili, anche di oltre 1 anno – ha detto Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tdm-Cittadinanzattiva – . Questa agli occhi dei cittadini è la peggiore forma di inappropriatezza vissuta ogni giorno sulla propria pelle, insieme alla necessità  di ricorre al privato o all’ intramoenia per aggirare le stesse liste di attesa, così come vedersi rifiutare una prescrizione dal medico per far quadrare i conti”.
Medicina difensiva.
In questo contesto il ministero della Salute cercherà  di contrastare anche la questione della medicina difensiva che costa caro al Sistema sanitario nazionale e incide fortemente sull’appropriatezza prescrittiva.
Alcuni medici infatti, per paura di eventuali cause legali, tendono a richiedere esami spesso superflui.
Nei prossimi giorni il dicastero consegnerà  un dossier   alla Commissione Affari sociali della Camera, che da tempo lavora sulla responsabilità  professionale. L’idea è che le misure sull’appropriatezza viaggino insieme alle norme sulla malpractice.
Tra le indicazioni c’è la distinzione tra medico dipendente e libero professionista in caso di presunto errore. La responsabilità  civile del camice bianco dipendente del Ssn dovrà  essere di natura extracontrattuale con tempi di prescrizione di 5 anni e non di 10 anni come avviene oggi. Inoltre è prevista la definizione nei codici di una fattispecie ad hoc per la colpa medica.
Verrà  limitata la rivalsa da parte dell’azienda nei confronti del medico. Ci dovrebbe essere infine l’obbligo di una preventiva conciliazione con il cittadino per le strutture pubbliche.

Valeria Pini
(da “La Repubblica”)

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COME I CARRI ARMATI DEL DUCE: IL GOVERNO ANNUNCIA 1,3 MILIARDI PER IL DISSESTO AMBIENTALE, MA SONO GLI STESSI GIA’ PROMESSI DOPO L’ALLUVIONE DI GENOVA

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

IL CIPE HA FINANZIATO 654 MILIONI “MA GLI ALTRI NON CI SONO” AMMETTONO AL MINISTERO

Questa volta l’annuncio è arrivato all’indomani della frana che il 5 agosto ha colpito la zona di San Vito di Cadore, in provincia di Belluno, causando tre morti, tra cui una ragazzina di 14 anni.
Risorse per “1,303 miliardi per avviare cantieri nelle principali città  — ha promesso il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti come fosse una novità  dirompente — un piano “vero, con risorse spendibili da domani”.
Obiettivo: combattere il dissesto idrogeologico.
Ma il governo aveva già  presentato un piano identico — stesse cifre e stessi destinatari — già  il 20 novembre 2014.
E la promessa di questi 1,2 miliardi è stata reiterata come cosa fatta negli ultimi 7 mesi almeno 10 volte in occasioni pubbliche, intervallate dal mantra secondo cui la lotta a smottamenti e alluvioni è una “priorità  assoluta del governo”.
“Il piano nazionale 2015-2020” per la messa in sicurezza delle città  metropolitane contro il dissesto idrogeologico “ammonta a 1,303 miliardi ” con “654,3 milioni già  deliberati dal Cipe per i lavori nelle principali città ”, ha spiegato giovedì il ministro Galletti in conferenza stampa a Palazzo Chigi.
Il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica aveva stanziato la cifra il 20 febbraio con la delibera 32/2015, tanto che il giorno seguente il ministro annunciò per la prima volta al Sestriere che erano stati “stanziati dal Cipe 600 milioni per il dissesto idrogeologico. Queste risorse andranno per le grandi opere nelle aree metropolitane, come per esempio Genova” (Ansa, 21 febbraio).
Tempi tecnici, si dirà : la delibera è passata al vaglio di Corte dei Conti e Ragioneria dello Stato e ora possono partire le gare.
Vero, ma giovedì, a 24 ore dalla tragedia del Cadore, il governo ha ripresentato per nuovi fondi di cui parla ormai da mesi.
Il miliardo e 300 milioni di cui parla Galletti, infatti, era già  stato annunciato dal governo a novembre: “E’ stato presentato questa mattina a Palazzo Chigi il primo stralcio del piano nazionale 2014-20: oltre un miliardo di euro per 69 interventi già  cantierabili per la sicurezza nelle dieci città  metropolitane e in altre città  delle regioni a statuto speciale”, si legge in un comunicato della Presidenza del consiglio dei ministri datato 20 novembre 2014, giusto 5 giorni dopo l’alluvione che mise in ginocchio Genova il 15 novembre.
Soldi a disposizione dei “cantieri, che sono già  pronti a partire — spiegava Erasmo D’Angelis, allora capo della task force di Palazzo Chigi ‘Italia Sicura’ e oggi direttore de L’Unità  — entro il 4 dicembre, quando i presidenti delle Regioni consegneranno al governo l’elenco delle opere, indicando le priorità  faremo partire il piano”.
Sono gli stessi fondi annunciati da Galletti giovedì: “Sì, perfetto, sono quelli. Ma questa volta ci sono i 654 milioni finanziati dal Cipe — spiega Mauro Grassi, direttore della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico della Presidenza del Consiglio dei Ministri — a ottobre i soldi arriveranno alle Regioni, a inizio 2016 partiranno le prime gare”.
Gli stessi 650 milioni di cui Galletti parla da febbraio.
E gli altri 650? “Quelli ancora non ci sono, dobbiamo trovare i finanziamenti — continua Grassi — cercheremo di farli stanziare con la legge di Stabilità ”.
Poi dice che il governo Renzi viene accusato di ‘annuncite’: “Noi vogliamo lavorare su piani di lungo periodo, creare un contenitore in cui vengano dirottate le risorse non appena vengono trovate, indipendentemente dal collegio elettorale del parlamentare che le trova. Gli annunci servono a questo: è stato questo battage continuo che costringe noi, il governo, il Mef a far sì che i soldi vengano trovati e i progetti realizzati”.
Così di questo miliardo l’esecutivo parla da inizio anno.
Già  il 5 febbraio, infatti, il governo annunciava come fosse una novità  assoluta di aver trovato “1-1,2 miliardi che serviranno per gli interventi più urgenti tra cui Genova, l’Arno, il Seveso e il Sarno”, scandiva ancora Erasmo D’Angelis in occasione di un convegno dell’Anbi, Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (Ansa, 5 febbraio).
A seguire l’annuncio di Galletti al Sestriere il 21 febbraio e il 6 marzo a margine della riunione del Consiglio Ue a Bruxelles, il ministro ripeteva: “Abbiamo stanziato i primi 600 milioni” (Ansa, 6 marzo).
Il 24 aprile a Rimini Galletti tirava fuori dalla borsa lo stesso discorso dei 600 milioni perchè “il contrasto al dissesto idrogeologico è una priorità  per questo Governo.” (Ansa, 24 aprile).
Il copione rimane lo stesso anche l’11 maggio, quando a Cuneo il ministro alzava il tiro: “Il governo è pronto a stanziare 7 miliardi in 7 anni. I primi 600 milioni, già  finanziati, sono destinati alle grandi aree metropolitane del centro nord. Altri 600 milioni saranno disponibili per fine anno” (Ansa, 11 maggio).
Concetto ribadito il 9 maggio a Monghidoro, sulla montagna bolognese: “Il primo miliardo e 200 milioni è già  stato messo a disposizione per l’anno 2015. Seicento milioni ci sono già , mentre altri 600 verranno stanziati entro fine anno”. (Ansa, 9 maggio).
Due settimane dopo, il 25 maggio, durante un incontro elettorale a Monselice (Padova), Galletti fissava addirittura una scadenza: “Il problema del dissesto idrogeologico è prioritario. Entro giugno firmerò con tutte le Regioni del centro nord un accordo di programma molto importante che prevede 600 milioni di euro già  disponibili per le grandi aree metropolitane e altri 600 milioni che verranno dati entro fine anno” (Ansa, 25 maggio).
Neanche un mese più tardi, il 22 giugno, D’Angelis tornava a promettere: ”Nei prossimi giorni”, il premier Matteo Renzi, il ministro dell’Ambiente Galletti e il ministro delle Infrastrutture Delrio firmeranno ”la prima spesa stralcio per 1,2 miliardi per le città  metropolitane per interventi anti-dissesto suolo” (Ansa, 22 giugno).
Ma anche il 23 luglio a Milano, durante una visita a Expo, il ministro annunciava che il governo stanzierà  “nelle prossime settimane 1,2 miliardi per il dissesto idrogeologico”.
Ovviamente “di questa somma, 600 milioni sono già  disponibili. Gli altri 600 milioni saranno utilizzabili da fine anno” (Ansa, 23 luglio).
E poi il 3 agosto, giusto 48 ore prima che una bomba d’acqua causasse la frana nel bellunese, Galletti annunciava a Roncade, nel trevigiano: “Nelle prossime settimane firmerò degli accordi di programma con tutte le Regioni d’Italia, compreso il Veneto, per l’erogazione di finanziamenti ingenti, si parla di 1,2 miliardi, di cui 600 milioni già  disponibili per intervenire contro il dissesto idrogeologico” (Ansa, 3 agosto 2015). Gli accordi di programma ancora non ci sono però, vista la nuova frana, il ministro ha preferito annunciare di nuovo il miliardo e due.
“Nell’ultimo anno abbiamo messo in cantiere 870 lavori per un miliardo e 90 milioni di euro — continua Grassi —   e restano a disposizione un miliardo e 600 milioni del piano 2000-2014″.
“E’ stato fatto un passo in avanti — spiega Massimo Gargano, direttore generale dell’Anbi — il governo ha avuto il merito di semplificare le procedure affidando ai governatori il ruolo di commissari e gestori delle risorse: ora le Regioni hanno i soldi e possono gestirli, senza chiedere al governo gli stati di emergenza o di calamità  naturale. Quello che però deve cambiare è l’approccio alla questione, che da emergenziale deve diventare di tipo preventivo. Per questo occorre che veda la luce la legge sul consumo del suolo“.
Che giace in Parlamento dal 2013 nonostante il mantra ripetuto dopo ogni tragedia: “Il dissesto idrogeologico è una priorità  assoluta di questo governo”.

Marco Pasciuti
(da “il Fatto Quotidiano“)

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VIALE RENZINI

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

IN RAI SONO ARRIVATI PROPRIO I PIU’ COMPETENTI

Una volta tanto, siamo perfettamente d’accordo con Matteo Renzi: “Intorno a me ci sono i migliori con qualità  e risultati sotto gli occhi di tutti”, ha detto l’altro giorno.
Giusto, giustissimo.
Quanto al nuovo Cda Rai, è formato interamente da “persone che hanno professionalità  e competenze tali da giustificare la loro presenza in Consiglio di amministrazione. Persone che vengono da esperienze come quella giornalistica e televisiva, esperti della comunicazione, anzichè astrofisici”.
Un libro stampato. È vero, sulle prime i curricula di alcuni dei prescelti non ci parevano proprio all’altezza, ma poi abbiamo letto le loro prime interviste e abbiamo dovuto ricrederci.
Sono proprio i più competenti, di meglio era impossibile trovare.
Antonio Campo Dall’Orto è fuori concorso: lui nel ’94 era un fervente berlusconiano perchè “pensavo che Berlusconi potesse portare una discontinuità ”, quindi ha una perspicacia unica al mondo.
Tolto lui, la più esperta è senz’altro la pidina Rita Borioni, che associa alla sfavillante laurea in Storia dell’arte e alla senz’altro folgorante esperienza al fianco di Matteo Orfini una robusta conoscenza del mezzo televisivo.
Non a caso, respingendo qualunque sospetto di lottizzazione e di manuale Cencelli (ammesso che sappia cos’è), risponde perentoria: “Io sono un tecnico”.
E ho detto tutto.
“Mi sono occupata — rivela al Corriere — della normativa che riguarda la tv, in particolar modo della delocalizzazione delle produzioni televisive” che, incredibile ma vero, “per ragioni economiche venivano girate in altri Paesi”. Roba forte.
Ma non solo: “Sono 20 anni che mi occupo di cultura nel mio partito, il Pd. Ho lavorato anche a Cinecittà  Holding come consulente”.
E, non bastasse, “ho insegnato anche legislazione dei beni culturali all’Università  della Calabria”, con “un ruolo precario”, l’ideale per “occuparmi subito dei precari Rai” i quali, essendo precari, “portano avanti il loro lavoro con contratti rinnovati di anno in anno”.
E anche questo arcano, grazie a lei, l’abbiamo assodato.
Senza contare che le capitò per qualche giorno di condurre “un programma delizioso: s’intitolava Stendhal” sulla RedTv, l’emittente del Pd in clandestinità .
Una volta ha pure “visto il bilancio dello Stato e della Finanziaria”, ma è stato un attimo, di sfuggita.
Che Rai ha in mente? “Una Rai che “racconta l’Italia”, risponde all’Unità , ed è una cosa che non era venuta ancora in mente a nessuno.
Più complicato arguire i suoi propositi sulle politiche da adottare contro la concorrenza di Sky.
Su questo Orfini non le ha ancora detto niente e lei, da buona tecnica, risponde al Messaggero: “Io non ce l’ho Sky. Non ho la parabola. Ha anche un costo l’abbonamento a Sky… in tempi di ristrettezze economiche per tutti…”.
Però lo vede “ogni tanto, a casa di mio fratello”. E “comunque ora l’abbonamento lo farò”.
L’intervistatore azzarda un’altra domanda trabocchetto, fuori dal programma: e il digitale terrestre lo sa che cos’è?. “Io mi occupo di cultura”. Ah ecco.
E della digitalizzazione della Rai,che dice? “Lei mi sta facendo la domanda dalle mille pistole. Questo della digitalizzazione è un tema da saggio scientifico, non da domanda al telefono”.
Semmai al citofono, caso mai ce l’abbia.
Fermo restando che “la complessità  del mondo contemporaneo non ti permette di essere competente su tutto”.
Ma questi son problemi risolvibili: appena le mandano a casa l’antennista, va tutto a posto.
Per questo Renzi e Orfini l’hanno preferita a quell’incompetente di Ferruccio de Bortoli. Perchè   —spiega Orfini— De Bortoli viene dai “salotti del capitalismo bene” e porta con sè “il fascino discreto della borghesia”, del tutto incompatibile con un partito proletario che prende i soldi dai compagni Buzzi & Carminati, salva l’operaio Azzollini e candida De Luca, noto terzinternazionalista.
L’altro asso nella manica del Pd è Guelfo Guelfi, amico del padre di Renzi e ghostwriter delle sue campagne elettorali, ma anche la smentita vivente a chi accusa Renzi di nominare solo fiorentini: infatti è pisano.
“Mi ha chiamato, mentre andavo dal dentista, la ministra Boschi”. Che è aretina. E lui ha subito accettato, dall’alto della sua “esperienza di pubblicitario prestato alla comunicazione pubblica”. Roba forte.
“Dirigo il Puccini e il teatro la Rai non lo trasmette mai”. Non è vero, ma fa lo stesso. “Stimo Matteo, ho fatto parte del suo laboratorio politico”
Ecco, il teatro, Matteo e il laboratorio.
Poi? “La tv moderna non può esser fatta solo di talk show”. Ecco, meno talk.
Altro? “Prima di aprire bocca, voglio aprire la porta. Entrare, vedere, conoscere, capire i problemi. Sarà  importante per prima cosa trovare il bandolo della matassa”.
Il bandolo, come no.
Anche il simpatico forzista Giancarlo Mazzuca vuole “una Rai efficiente e moderna”. Infatti il suo ultimo ricordo nitido risale appena agli anni 50: “Ogni giovedì sera con i miei genitori andavamo in casa di amici a seguire Lascia o raddoppia?.
Al cinema veniva interrotta la programmazione dei film e nell’intervallo in sala si seguiva in diretta la trasmissione di Mike Bongiorno.
Ma soprattutto oggi mi tornano in mente lo stupore e l’incredulità  con cui da bambino, piccolo telespettatore, seguivo i quiz show Rai”.
Ora vorrebbe “che tornassero negli occhi di tutti noi lo stesso stupore e la stessa incredulità  di quei giorni”.
E torneranno, oh se torneranno: soprattutto l’incredulità .
Casomai fosse utile ai neoconsiglieri, rammentiamo che purtroppo Febo Conti, Nunzio Filogamo, il Duo Fasano e il Trio Lescano sono prematuramente scomparsi.

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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VENEZIA IN RIVOLTA CONTRO “IL CUBO” DI SANTA CHIARA

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

GLI ALBERGATORI E I CITTADINI SI DISSOCIANO GIUDICANDOLO “ORRIBILE”

Il «cubo» di Santa Chiara, la sua forma tozza e squadrata, non piace proprio a nessuno e il giorno dopo che la nuova ala dell’omonimo albergo di proprietà  di Elio Dazzo è stata interamente scoperta, mostrando anche la facciata che dà  su Piazzale Roma – dopo quella sul Canal Grande, fioccano – anche sulla “rete” – i commenti negativi e le dissociazioni sulla tormenta «nascita» di questo edificio, che con la sua forma squadrata in pietra bianca e la sua imponenza – pure approvate dalla Soprintendente uscente ai Beni architettonici e Paesaggistici di Venezia Renata Codello – cambia comunque profondamente l’immagine e l’aspetto della porta di ingresso di Venezia.
È esplicito l’attuale rettore di Architettura Amerigo Restucci, storico dell’Architettura del paesaggio.
«La volumetria dell’edificio è eccessiva» spiega «e la dissonanza con l’altra ala dell’hotel Santa Chiara, pure non memorabile, ma in linea con l’architettura veneziana, è stridente. Se la scelta, invece, è stata quella di realizzare un’opera di nuova architettura, bisognava evidentemente affidarsi ad altri interpreti e ad altre sensibilità , per forme e materiali. Quelli qui adoperati, andrebbero bene per l’ampliamento di una scuola media dell’hinterland milanese. Mi chiedo cosa avrebbe detto uno stimato soprintendente veneziano del paesaggio come Guglielmo Monti di un intervento come questo. Ci toccherà  tenercelo e forse bisognerebbe suggerire alla prossima Biennale Architettura l’idea di lanciare un concorso di idee tra giovani progettisti per chiedere come “mimetizzarlo”».
Anche l’Associazione veneziana albergatori, con il suo direttore Claudio Scarpa – anche su Facebook – prende le distanze dal «nuovo» hotel Santa Chiara.
«È orribile» commenta Scarpa «Se penso ai nostri alberghi a cui la Soprintendenza contesta piccole violazioni fatte anche per abbellimento, rimango “basito”.
Progettare la modernità  nei luoghi antichi è difficile, ma Hundertwasser, ad esempio, o Carlo Scarpa hanno dimostrato che è possibile.
Alla cittadinanza e alla stampa sottolineo che l’Associazione veneziana albergatori nulla a che vedere con l’hotel Santa Chiara».
Si dissocia anche l’ex assessore ai Lavori Pubblici Alessandro Maggioni, che pure delle vicende del «cubo» di Santa Chiara ha dovuto necessariamente occuparsi.
Maggioni scrive su Facebook che «il cubo fa schifo», ma ricorda che la giunta precedente non ha avuto alcuna responsabilità  sul suo via libera, sottolineando invece il ruolo, da questo punto di vista, della Soprintendenza che lo ha autorizzato.
Non c’è solo il «cubo» di Santa Chiara.
Sono diversi negli ultimi anni gli interventi di nuova architettura autorizzati e spesso strettamente seguiti dalla Soprintendenza veneziana che hanno suscitato aspre critiche
Il via libera al nuovo hotel Santa Chiara richiama la nuova filosofia autorizzativa impostasi negli ultimi anni, anche sotto il profilo della tutela, per gli interventi in città , – come riferiamo a parte – anche per altri progetti ammessi dalla Soprintendenza come quelli che riguardano la ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi, la nuova pensilina per il tram di Piazzale Roma e i nuovi imbarcaderi «panoramici» dell’Actv.
Sul cubo di Santa Chiara in particolare Italia Nostra aveva lanciato anche una raccolta di firme contro la realizzazione del progetto.

(da “Huffingtonpost“)

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TWITTER NON CINGUETTA PIU’: IL SOCIAL NETWORK PERDE IL 17% DEL SUO VALORE IN BORSA

Agosto 8th, 2015 Riccardo Fucile

I SOLDI ARRIVANO, QUELLO CHE MANCA SONO GLI UTENTI

Una crisi nera e un po’ atipica.
L’uccellino di twitter, il social network creato dalla Obvious Corporation di San Francisco, non cinguetta più.
Il sito di microblogging ha perso il 17% del suo valore al Nasdaq nell’ultimo mese, un trend che non riesce ad invertire.
In un’analisi del Sole 24 Ore sono spiegate le ragioni di una crisi che ha fatto precipitare il valore in borsa del titolo.
Non si tratta di una questione di soldi.
Scrive il Sole che “la trimestrale diffusa qualche giorno fa sfoggia ricavi a 502 milioni di dollari (+64% rispetto all’anno scorso), molti più dei 481 milioni attesi dagli analisti”.
I soldi arrivano, quello che manca sono gli utenti. Non quelli che già  usano il social network, ma quelli che ancora non lo utilizzano e difficilmente lo faranno.
Insomma la difficoltà  di conquistare nuove fette di mercato.
Negli ultimi tre mesi twitter ha raggiunto solo due milioni di nuovi utenti. Il direttore finanziario Anthony Noto ha fatto intendere che il trend difficilmente sarà  invertito, sottolineando che non si attende una significativa crescita degli utenti per un “considerevole lasso di tempo”.
Le ragioni sono le seguenti:
Il fondatore di Twitter non ha dubbi: tutti conoscono il sito di microblogging ma il servizio risulta ancora troppo complicato, e la maggior parte della gente si chiede come, e soprattutto perchè, dovrebbe usarlo.
Twitter viene utilizzato dalle celebrità , dai marchi, dal marketing e dagli attivisti inquieti ma — a differenza di Facebook — non dalla gente comune.
Inoltre il social di Zuckerberg crea legami molto più forti, che si estendono a cerchie ancora più esterne di amici, mentre delle migliaia di account Twitter aperti ogni giorno molti vengono abbandonati e solo pochi diventano attivi con regolarità .
Come ha rilevato DataMediaHub, inoltre, il flusso pubblicitario su twitter non funziona, ovvero i messaggi pubblicitari sono irrilevanti e gli utenti difficilmente cliccano o utilizzano i tweet per accedere ad altri siti.
Per questo l’unica soluzione per uscire dalla crisi sembra essere il mercato delle notizie.
Buzzfeed ha anticipato che Twitter sta sperimentando nelle app per iOS e Android una sezione dedicata alle notizie con i titoli d’attualità  in primo piano, seguiti dai tweet a tema.

(da “Huffingtonpost)

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