Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
NUOVO VOTO SU BARBERA, PITRUZZELLA E SISTO…MA I NUMERI NON CI SONO
Già si intravede una nube di fumo nero sull’ennesima votazione — la numero 29 — per la nomina di tre giudici della Consulta, prevista per domani: “Proviamo a far passare Barbera — dice una fonte del Pd alle prese con l’organizzazione del voto — almeno ne eleggiamo uno, ma è complicato. Su Sisto e Pitruzzella è ancora più difficile invece ma ci proviamo”.
Eppure Matteo Renzi ha diramato l’ordine che non si cambia schema, magari aprendo la trattativa coi Cinque Stelle, i quali sarebbero disposti a scongelare i loro 130 voti. Danilo Toninelli, colui che si occupa della trattativa per l’M5S, ha fatto sapere a qualche ambasciatore del Pd che loro voterebbero, oltre al professor Modugno (il loro candidato) anche il costituzionalista Massimo Luciani e il professor Guzzetta (al posto di Barbera e Sisto), ma il premier ha fatto rispondere che non se ne parla nemmeno.
Perchè la verità è che la vera posta in gioco non è solo la sostituzione dei giudici mancanti, ma è tutta politica.
E riguarda il “verdetto” che la Corte dovrà emettere quando dovrà dare il parere preventivo sull’Italicum.
Non è un dettaglio, è un obbligo: nella riforma costituzionale è scritto, nero su bianco, che prima di entrare in vigore la nuova legge elettorale sarà sottoposta al vaglio della Consulta che dovrà dire se la nuova legge è costituzionale o meno.
Ecco il passaggio, all’articolo 13 del ddl Boschi che modifica l’articolo 73 e 34 della Costituzione:
Le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale su ricorso motivato presentato da almeno un terzo dei componenti di una Camera, recante l’indicazione degli specifici profili di incostituzionalità . La Corte si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata.
Detta in modo grezzo, per Renzi, che considera l’Italicum la pistola perfetta per le elezioni, la corte ha la funzione di chi concede il porto d’armi.
Si capisce dunque perchè, ancora oggi, il capogruppo del Pd Ettore Rosato dice all’HuffPost: “I nostri candidati restano Barbera, Pitruzzella e Sisto. Partiamo da un consenso parlamentare ampio, auspichiamo una fumata bianca”.
Il premier vorrebbe vincere tre a zero, provando a portare alla Corte tre giudici costituzionali che siano ai suoi occhi in primo luogo avvocati difensori dell’Italicum.
I tre candidati, stando ai sondaggi di palazzo Chigi, darebbero garanzie assolute in tal senso, tali da far guardare con ottimismo alla Corte costituzionale, dove — al momento — in materia di verdetto sull’Italicum non ci sono garanzie. Dice un giudice costituzionale all’HuffPost: “Sull’Italicum può succedere di tutto. Nessun pronunciamento è scontato”.
E dà garanzie assolute (al premier) Augusto Barbera, l’unico che ha concrete chance di passare visto che Paolo Sisto ha una fronda dentro Forza Italia e Pitruzzella viene vissuto con imbarazzo da parecchi, in quanto tra quattro giorni a Catania il Gip deciderà se rinviarlo o meno a giudizio.
Nè hanno aiutato, nella sua corsa verso la Consulta, nè l’attivismo del suo sponsor Renato Schifani, nè i suoi rapporti politico-professionali con Totò Cuffaro anni fa.
Almeno, è il ragionamento di Renzi, se passa Barbera si mette la Corte nelle condizioni di funzionare.
Perchè questo è l’aspetto ancor più inquietante della vicenda, considerando anche che stiamo parlando di un organo di garanzie, peraltro in tempo di guerra.
Su 15 componenti, attualmente ce ne sono 12, sulla carta. Nei fatti ce ne sono 11, visto che, come noto agli addetti ai lavori, un giudice per problemi di salute sono più le volte che non partecipa che quelle che partecipa.
Dunque, basta un’influenza e la corte è paralizzata visto che, se non sono presenti almeno in 11 giudici, la corte non si può riunire.
Proprio questo rischio paralisi è stato evocato dal presidente del Senato Piero Grasso nella conversazione con Liana Milella di due giorni fa. Questo il passaggio delicato: “Essendo la Corte al limite del numero legale per poter funzionare, basta un qualsiasi imprevisto o malanno di due giudici per bloccare un imprescindibile organo costituzionale”.
Un rischio che il premier ha ben presente. Ma che, nelle sue priorità , non è inferiore a quello di bloccare l’Italicum.
Se passasse un solo giudice sarebbe una piccola riduzione di entrambi i rischi.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
CALANO I BENEFICIARI DELLE POLITICHE ATTIVE: 5,2% IN MENO
Nel 2014 sono calati i beneficiari delle politiche attive, quelle misure pubbliche che aiutano chi non ce l’ha a trovare un lavoro. A partire dai centri per l’impiego.
Lo riporta l’Inps, che spiega come l’anno scorso gli utenti di questi servizi siano stati 936.640: un calo del 5,2% rispetto al 2013 e addirittura del 21% rispetto al 2010.
Ma quindi, meno gente ai centri per l’impiego significa un aumento del lavoro? “No. Il fatto è che in Italia le politiche attive non funzionano, sono inefficienti“, spiega Alessandro Rosina, professore di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano, coordinatore dell’indagine Rapporto giovani. Il tutto mentre la riforma di questo settore, annunciata con il Jobs act, è rimasta sulla carta.
“L’asse portante delle politiche attive sono i servizi per l’impiego — prosegue il docente — Ma il problema è che in Italia sono caratterizzati da bassa copertura del territorio, bassa qualità e scarsi investimenti”.
Per trovare una conferma a questa tesi, basta guardare il confronto con l’estero.
A dare un quadro della situazione ci ha pensato Giovanni Alleva, presidente Istat, in audizione al Senato: “Nel 2013, l’Italia ha speso lo 0,03% del Pil in servizi per il lavoro rispetto allo 0,36% della Germania, allo 0,25% della Francia (dato al 2012) e allo 0,08% della Spagna (dato al 2012). In termini di spesa per disoccupato e forze lavoro potenziali, si va dai circa 2.800 euro pro-capite spesi dalla Germania, ai 1.500 della Francia, ai 122 della Spagna e gli 84 dell’Italia (dati 2012)”.
La stessa Istat rileva come gli italiani preferiscano affidarsi ad altri canali, come le conoscenze personali, anzichè varcare la soglia dei centri per l’impiego.
La ricerca del lavoro, secondo l’istituto, è demandata soprattutto a vie informali: nel secondo trimestre del 2015, l’88,9% delle persone si è rivolta ad amici, parenti e conoscenti, una quota in aumento del 2,3% in un anno. In un passaggio del suo libro Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, Rosina spiega che “la carenza di strumenti istituzionali adeguati consolida il ricorso ai canali informali come strumento principale nella ricerca di lavoro”.
A confermare il ragionamento del docente ci sono i numeri dei senza impiego: il calo dei beneficiari delle politiche attive non può essere legato a una flessione dei disoccupati. Semplicemente perchè il loro numero è stato in costante aumento, almeno fino al 2014. Secondo i dati Istat, a partire dal primo trimestre del 2011, quando il tasso di disoccupazione era al 7,9%, questo dato è sempre salito verso l’alto (con l’eccezione di un solo trimestre) fino al 12,8% dell’ultima fetta di 2014.
Per risolvere questa situazione, il Jobs act ha dedicato un intero decreto alla riforma dei servizi per l’impiego.
Peccato che, di fatto, non sia ancora stata attuata. La norma, entrata in vigore nel giugno 2015, prevede l’istituzione dell’Anpal, Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro.
Questo organismo deve riportare allo Stato le competenze sui centri per l’impiego che prima erano in capo alle Regioni.
E soprattutto deve dare il via a quel “patto di servizio personalizzato” che delinei il percorso del disoccupato nella riqualificazione e nella ricerca di una nuova occupazione.
Per gestire la nuova mole di dati, è prevista la creazione di un sistema informativo unico. Eppure, a cinque mesi dal varo del provvedimento, manca lo strumento telematico, mancano i patti di servizio e manca anche l’Anpal, in attesa di nuovi decreti attuativi.
“Le politiche attive non sono ancora state realizzate, per ora siamo fermi agli annunci — commenta il professor Rosina — Siamo pieni di leggi annunciate con contenuti anche giusti, ma che poi cadono al momento dell’implementazione pratica”.
Stefano De Agostini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
“IL GOVERNO CONTINUA A DARE NUOVI PERMESSI PER TRIVELLARE”
“L’Italia sta facendo la sua parte? Non mi pare proprio. La strategia energetica nazionale prevede sì un capitolo rinnovabili ma si basa ancora sul petrolio. Nell’ultimo anno, il governo sta facendo fioccare i decreti di compatibilità ambientale per nuovi permessi di ricerca ed estrazione petrolifera. Sono i fatti che parlano. Ed è per questo che abbiamo pensato ad un referendum anti-trivelle: chiediamo un election day, consultazione e amministrative insieme nell’interesse dell’ambiente e degli italiani”.
Enzo Di Salvatore, professore di diritto costituzionale a Teramo, è la mano che ha scritto i quesiti referendari anti-trivelle che abrogano alcuni articoli del decreto Sblocca Italia.
I quesiti hanno appena ricevuto l’ok della Cassazione.
A gennaio sarà la Corte Costituzionale a dire la sua. Ma intorno all’idea di consultazione popolare — da tenersi nella prossima primavera – si è già raccolto un fronte largo che comprende ben 10 amministrazioni regionali, forze politiche dal M5s, alla sinistra italiana, a pezzi di Lega (il Veneto di Luca Zaia è tra le Regioni che appoggiano l’iniziativa).
E poi, presente in massa, è il mondo cattolico, particolarmente sollecitato da Papa Francesco alla cura delle questioni ambientali.
“Noi parliamo con tutti, anche con il Pd se vuole: non abbiamo e non vogliamo steccati politici, stiamo al merito delle questioni”, ci dice Di Salvatore in questa intervista.
All’inaugurazione di Cop21, la conferenza Onu sul clima in corso a Parigi, Renzi difende l’impegno italiano in materia di riduzione delle emissioni inquinanti e per quanto riguarda gli investimenti in energie rinnovabili. “L’Italia fa la sua parte”, dice il premier. E’ così?
Dico di no. La Tap (Trans Adriatic Pipeline, corridoio meridionale del gas dal Mar Caspio al Salento, passando per Azerbaijan, Georgia, Turchia, Grecia e Albania, ndr.) è in dirittura d’arrivo e pone grandi problemi di ordine ambientale. ‘Ombrina mare’, progetto di estrazioni petrolifere nell’Adriatico al largo dell’Abruzzo, è alle battute finali: la concessione dovrebbe arrivare a giorni. L’attuazione della strategia energetica nazionale prevede sì un capitolo sulle rinnovabili, ma si basa ancora sul petrolio: i nuovi progetti petroliferi si stanno concludendo. Cito il ‘Vega b’ nel Canale di Sicilia, che è quasi fatto. Tempa Rossa che sicuramente arriverà a conclusione e che comporterà il raddoppio delle estrazioni petrolifere in Basilicata. In questo caso, il primo trattamento di raffineria sarà a Taranto: ciò comporterà la costruzione di un oleodotto, non si sa poi dove questo petrolio verrà invece ulteriormente raffinato e dunque è lecito presupporre un notevole incremento del traffico di navi nel golfo di Taranto. Tutte questioni che pongono notevoli problemi di ordine ambientale.
Dunque non ci siamo.
No. Le dico che nell’ultimo anno stanno fioccando i decreti di compatibilità ambientale per nuovi progetti di ricerca ed estrazione petrolifera. Ultimamente ne sono arrivati due per la Shell nel Golfo di Taranto che si aggiungono a quelli che già ci sono. Solo la Puglia è stata interessata ultimamente da 4-5 decreti di compatibilità ambientale e da qui alla conferenza di servizio e quindi alla concessione vera e propria il passo è breve. Posso andare avanti con gli esempi.
Prego.
Lo Spectrum nel Mare Adriatico è il più grande in assoluto. Va dall’Emilia Romagna fino alla Puglia, riguarda ben 5 regioni. Per ora prevede solo la ricerca di idrocarburi. Ma, se la ricerca va a buon fine, lo Spectrum prevede l’estrazione in alcuni casi entro le 12 miglia dalla costa e in altri casi addirittura entro le 5 miglia dalla costa. Non mi pare che stiamo andando nella riduzione delle emissioni inquinanti: perchè questo tipo di strategia energetica incide anche in questo senso.
E’ di oggi la notizia che l’Italia è il primo tra i paesi Ue per morti per inquinamento atmosferico. Un triste primato.
Sì, è il rapporto dell’Agenzia europea dell’Ambiente (Aea). Nel 2012 in Italia ci sono stati 84.400 decessi su un totale di 491mila vittime a livello Ue. Dati alla mano, questi sono i fatti che parlano.
Quanto ai referendum, la Cassazione ha accolto i quesiti. Una decisione che depone bene in vista della sentenza della Corte Costituzionale, secondo lei?
E’ un buon segno non solo perchè la Cassazione ha detto sì, ma perchè ha mantenuto distinti i sei quesiti. Io spero che la Consulta li dichiari ammissibili tutti e sei, ma allo stesso tempo penso che sia altamente improbabile che vengano bocciati tutti. Comunque la Corte Costituzionale dovrà esprimersi entro la metà di gennaio ed entro il 10 febbraio ci sarà la sentenza. Quindi, il consiglio dei ministri dovrà deliberare e il capo dello Stato dovrà emettere il decreto che fissa la data della consultazione popolare nel periodo tra il 15 aprile e il 15 giugno, come dice la Costituzione. E su questo noi avanziamo una richiesta al governo
Quale?
Che indica un election day: amministrative e referendum insieme nello stesso giorno. Per il bene dell’ambiente, degli italiani e della spending review. Perchè accorpare le elezioni significa anche risparmiare soldi pubblici.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
TRA IMPRENDITORI E MONDO DELLA CULTURA C’E’ CHI PENSA A UNA LISTA CIVICA
«Il Partito della nazione? Ma se io, come tutti gli italiani, non so neppure cosa sia….». Giuseppe Sala si ritrova a fare i conti con i giochi complicati della politica, ma cerca di leggere gli eventi con il pragmatismo del manager.
Che sia disponibile a candidarsi ormai lo ha fatto capire in diversi modi, anche se prima dell’annuncio della discesa in campo devono succedere ancora molte cose, fra cui il chiarimento con il premier Matteo Renzi (e l’incontro da più parti annunciato per questa settimana non è ancora nell’agenda dell’uno nè dell’altro).
Ma prima ancora che le cose siano definite, l’ad di Expo si trova a rispondere a chi lo accusava prima di essere «divisivo» e ora di essere parte di una strategia che da Milano prenderebbe forza per imporre appunto il fantomatico Partito della nazione di impronta renziana.
Alla prima accusa, Sala ha risposto direttamente e conferma il pensiero: «Sicuramente c’è una sola persona che potrebbe far proseguire il progetto di Giuliano Pisapia, garantendo la totale continuità , ed è lui stesso».
Una sfida ma anche una considerazione oggettiva, dal momento che l’attuale sindaco era riuscito intorno alla sua persona e alla sua esperienza a far convogliare tutto il mondo di centrosinistra, attivando anche il movimento arancione che ora teme di essere spazzato via.
Forse però si tratta di un timore infondato anche perchè, si chiedono i sostenitori del commissario Expo, in cosa potrebbe differenziarsi il programma di un eventuale candidato sindaco Sala da quello del suo predecessore?
I temi su cui lavorare restano ancora quelli della casa, della sicurezza, delle periferie. «Probabilmente – spiega chi gli ha parlato in queste ultime ore – Sala cercherebbe di dare un respiro più internazionale alla città e di trovare altre strade per attingere risorse dal mondo privato, facendosi forte dell’esperienza fatta nel semestre espositivo». Non altro, però.
Il timore di un’apertura a Ncd? Al netto dei rapporti personali tra Sala e l’ex ministro Maurizio Lupi che si erano rinsaldati proprio quando Lupi aveva sbloccato i primi decisivi fondi per avviare l’impianto di Expo, e parliamo ancora del governo Letta, proseguendo nello stesso lavoro durante la legislatura di Renzi, nessuno ha pensato a liste con il simbolo di Ncd in appoggio.
Liste civiche, questo sì. Anche perchè alcune personalità del mondo imprenditoriale, artistico, culturale e sportivo, che hanno conosciuto Sala per l’esposizione, sarebbero pronte a dare il proprio contributo e a spendersi anche in una lista civica che allarghi comunque la coalizione di centrosinistra, un po’ nel solco di quanto dichiarato dal ministro Maurizio Martina: «Una proposta che dal centrosinistra si apre alla città incontrando il civismo ambrosiano».
L’endorsement di Martina ha intanto aperto la strada a molti che, per prudenza politica, fin qui erano rimasti zitti o che comunque davano appoggio ma non pubblicamente e ieri si è allungata la lista di parlamentari, consiglieri e assessori del Pd (ma non solo) convinti della bontà di questa proposta politica.
Tutto da costruire e da decidere, comunque. Sala nel frattempo sta continuando ad occuparsi di Expo: sabato è stato in cantiere per fare sul posto il punto delle operazioni di smantellamento dei padiglioni e ieri ha lavorato agli incontri che avrà in settimana. Perchè sì, potrebbe dare la disponibilità a fare la sua parte per Milano: ma nella sua testa ci sono anche altri piani.
Elisabetta Soglio
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
LEADER DATO IN CRESCITA IN SPAGNA, MA CON MOLTE OMBRE E QUALCHE IMBARAZZO
È l’antipopulista; eppure è il leader più popolare di Spagna. Un rivoluzionario borghese.
In poche settimane Albert Rivera ha portato i suoi Ciudadanos, Cittadini, dall’11 al 23% nei sondaggi: secondo El Pais ha raggiunto il Pp, superato i socialisti e staccato Podemos di Pablo Iglesias, il rivoluzionario con la coda da tanguero.
Stessa generazione – Iglesias è del 1978, Rivera del 1979 –, stessa avversione ai partiti; eppure non potrebbero essere più diversi.
Iglesias, che è di Madrid, reclama un referendum per l’indipendenza catalana; lui, che è catalano, difende la Spagna unita.
Iglesias è contro «l’Europa tecnocratica»; lui chiede un esercito europeo, una polizia europea, un servizio segreto europeo.
Iglesias vuole ridurre lo stipendio del primo ministro a 45 mila euro; lui vuole aumentarlo a 300 mila, «perchè il presidente del governo non può guadagnare meno di un burocrate».
Iglesias vuole portare la Spagna fuori dalla Nato; lui vuole che la Nato faccia la guerra all’Isis.
«Sì, sono a favore di un intervento multinazionale in Siria, se i Paesi della Nato si coordinano e hanno il via libera dalle Nazioni Unite. Dobbiamo combattere lo Stato Islamico come abbiamo combattuto i talebani in Afghanistan».
Proprio ieri mattina Rivera ha presentato il suo programma qui a Barcellona, al teatro Apollo, ai piedi del Montjuà¯c, la collina dell’Olimpiade del 1992.
Camicia bianca senza cravatta, giacca grigia, ha più presa sulle teste che sulle anime, è più svelto che non carismatico, più abile nel dialogo che nell’oratoria.
Le fan lo considerano bellissimo, anche se è bassino.
La Spagna vota fra tre settimane, il 54% è contro l’intervento in Siria: il premier Rajoy evita di incontrare Hollande per non prendere impegni, tutti i candidati danzano attorno alla guerra, evitano la questione come la peste.
Tutti tranne Rivera. Non è entusiasta di tornare sull’argomento, precisa di non aver mai parlato di truppe spagnole, ma conferma la sostanza: «L’Europa è stata attaccata, l’Europa non può stare a guardare. Non possiamo delegare tutto alla Russia e agli Stati Uniti; dobbiamo prenderci le nostre responsabilità ».
E poi, aggiunge sorridendo, «noi di Barcellona abbiamo un legame fortissimo con la Francia. La consideriamo un po’ la Catalogna del Nord».
Il programma è quello di un estremista di centro. Il colore è l’arancione.
L’ambizioso punto di riferimento è la Costituzione di Cadice del 1812, «la prima volta in cui gli spagnoli rifiutarono di essere sudditi, e pretesero di essere cittadini» spiega. Il modello inconfessato è Adolfo Suarez, il centrista che guidò la transizione dal franchismo alla democrazia, l’unico premier di cui non parla male.
«Popolari e socialisti hanno portato la politica a impadronirsi della società . La giustizia, la sanità , la scuola: tutto è politicizzato. Noi abbiamo due obiettivi. Restituire il potere ai cittadini. E ricostruire la classe media. La piccola borghesia ha subito colpi durissimi in questi anni. Dobbiamo salvarla, perchè non esiste una democrazia senza classe media».
La proposta è diminuire tutte le aliquote Irpef di tre punti, tagliare l’Iva, riconoscere sei mesi di permesso pagato alle mamme, sostenere con un contributo statale gli stipendi più bassi.
Ma come trova i soldi? «Convincendo gli spagnoli a pagare le imposte. E diminuendo il ceto politico e la burocrazia. Il Senato non si riforma; si abolisce. Via anche le province. Accorperemo tutti i comuni sotto i 5 mila abitanti».
Ma Rajoy già ha lanciato lo slogan «il mio paesino non si tocca».
«So bene che da qui al voto sarò al centro degli attacchi di tutti. La cosa non mi spaventa. Vorrà dire che saremo al centro in ogni senso».
Il suo debutto sulla scena pubblica fu nel 2001, alla finale della «Liga nacional de debate universitario», una gara di dibattiti.
La domanda decisiva era: la prostituzione è un mestiere come gli altri? Lui doveva sostenere le ragioni del sì. Improvvisò un piano per combattere gli schiavisti del sesso, far pagare le tasse alle prostitute e imporre controlli sanitari. Vinse.
Da allora ha molto esercitato la sua versatilità (tranne che in amore: ha sposato la fidanzata dell’adolescenza, Mariona, con cui ha una figlia, Daniela).
È repubblicano, ma trova il nuovo re Felipe VI «esemplare, sensato, modernizzatore». È agnostico – «la penso come Buà±uel: mi piacerebbe credere, ma non ci riesco» –, però è contrario alla proposta laicista del governo catalano che vorrebbe chiamare il Natale «festa d’inverno» e la settimana santa «festa di primavera».
Propone un testo per l’inno spagnolo (che ha solo musica e non parole: non se ne sono mai trovate che andassero bene a tutti, erano sempre troppo antifranchiste o troppo poco, troppo centraliste o troppo separatiste), che comincia così: «Ciudadanos, ni hèroes ni villanos».
Ha un po’ l’aria da primo della classe, però quando in tv gli hanno chiesto cosa farà della centrale nucleare vicino a Burgos ha risposto candidamente: «Non lo so»
Ieri, nella sua Barcellona, ha ribadito di essere contrarissimo non solo all’indipendenza catalana, ma anche al referendum: «Non si tratta di decidere se costruire o no un’autostrada. Si tratta di decidere se distruggere o no la Spagna. Non sono cose da affidare all’emotività del momento. Noi la Spagna la vogliamo rigenerare, distruggendo la corruzione. Cominciamo qui, a casa nostra. Facciamola finita con il clan Pujol e con i suoi eredi, che usano l’identità catalana per i loro comodi. Nelle nostre liste non ci sono politici di professione. Ci sono professori, manager, imprenditori, studenti. Cittadini».
Il sondaggio del Pais gli attribuisce un tasso di approvazione del 51%; Iglesias è al 30, Rajoy al 26: anche perchè continua a sottrarsi ai dibattiti, come se avesse qualcosa da nascondere.
Questo non significa affatto che Rivera vincerà le elezioni. I popolari, da quando lui ha escluso di sostenere il ritorno di Rajoy alla guida del governo, lo accusano di essersi venduto alla sinistra.
Il socialista Sanchez lo definisce «una sottomarca della destra».
Monedero, cofondatore di Podemos, gli ha dato del cocainomane.
Iglesias lo considera una sua brutta copia, creata in laboratorio dalle perfide banche e dalle infide multinazionali per frenare la sua ascesa.
In effetti Rivera riceve finanziamenti dall’establishment spagnolo; e questo può essere un punto debole.
La sua fortuna nasce dal disgusto degli elettori del Partido popular, stanchi di scandali ma diffidenti della sinistra.
È probabile che da qui al 20 dicembre Rajoy crescerà , e alla fine Rivera debba scendere a patti. Ma è ancora possibile una sorpresa all’insegna del cambiamento.
In ogni caso, il trentenne catalano ha già dimostrato di essere una vera novità della politica spagnola ed europea. Anche per il coraggio nel parlare di Siria in campagna elettorale: «Nessuno vuole la guerra. Non conosco nessuno che abbia due dita di fronte, insomma un po’ di sale in zucca, e voglia la guerra. Ma lo Stato Islamico non si sconfigge con un minuto di silenzio. Per carità , il minuto di silenzio è necessario. Ma è necessario anche un intervento congiunto, secondo gli accordi Nato. Non possiamo tollerare nè concepire che i crimini dello Stato Islamico lascino l’Europa inerte. L’Europa deve ritrovare l’orgoglio della propria identità . Dobbiamo sapere chi siamo, e soprattutto chi vogliamo essere» .
Aldo Cazzullo
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
L’ICONA DELLA PALLAVOLO: “HO VISTO 4 GENERAZIONI, QUESTA LA PEGGIORE”
Francesca Piccinini, icona vivente della pallavolo femminile, apre un vero e proprio scontro generazionale nel mondo del volley e non solo.
In un messaggio su Facebook esprime tutta la sua amarezza per come sono cambiate le cose negli ultimi anni all’interno di una squadra: “In questi vent’anni di pallavolo ho attraversato quattro generazioni di atlete, ero la più piccola dello spogliatoio, e ora sono la senatrice del gruppo, e le ragazze sono cambiate tanto rispetto a quando ho iniziato io a giocare”.
Un messaggio forte che può tranquillamente essere traslocato in qualsiasi altra disciplina non solo sportiva: “Ho giocato con molte ragazze brave e umili. Ma spesso altre entrano in una squadra credendo che tutto gli sia dovuto, non hanno rispetto di chi è più esperto e ha una storia. Hanno la lingua lunga e il cellulare ultimo modello sempre sotto gli occhi. A 18 anni rispondono a muso duro a quelli di 40, io quando ne avevo 18 ascoltavo e sapevo stare al mio posto. Io capisco la voglia di essere giovani e sfrontati, ma bisogna avere rispetto. Soprattutto quando non hai ancora vinto niente nella vita. E comunque il rispetto serve anche se hai avuto successo”.
Uno sfogo che va oltre l’amarezza per la sconfitta subita nella sfida al vertice domenica scorsa quando le campionesse d’Italia della Pomì Casalmaggiore, sede della nuova avventura iniziata quest’anno, sono finite ko nettamente a Modena.
Tra l’altro la giocatrice nelle ultime uscite sotto rete si è vista poco, per lei solo qualche scampolo.
Comunque quando ad alzare la voce è una campionessa pluridecorata con quattro scudetti, cinque champions, due coppe Italia e quattro Supercoppe italiane, l’ultima conquistata pochi mesi fa ma proprio con la maglia rosa di Casalamaggiore, tutto assume un valore diverso con una cassa di risonanza che va oltre i confini della pallavolo.
A quasi trentasette anni, da compiere a gennaio e con quattro ori (mondiale, campionato europeo, coppa del mondo e grand champiosn cup) che luccicano nella lunga carriera azzurra, Francesca Piccinini mette da parte i fronzoli e spiega chiaramente che cosa va e non va nelle nuove leve tracciando un quadro poco idilliaco e legato alla mancanza di valori.
Le frasi della schiacciatrice di origine toscana, insomma, non passano inosservate.
Il ct della nazionale italiana Marco Bonitta, abituato a gestire gruppi molto omogenei e con grandi capacità conosce bene i meccanismi.
Basti ricordare il mondiale Italy 2014 quando con la sua nazionale il ct ravennate aveva creato un mix vincente tra giovani e più esperte raccogliendo consensi e simpatie dappertutto.
E di quel gruppo, variegato e diverso, faceva parte anche Francesca Piccinini: “Non so a quale situazione Francesca si riferisca oppure episodio specifico — commenta il ct azzurro — Facendo un discorso in generale, dal mio punto di vista ho notato che ci sono delle diverse dinamiche di approccio al gruppo rispetto a una volta. Prima si perdeva meno tempo e si lavorava di più. Di sicuro oggi per un allenatore è più difficile rapportarsi con queste generazioni rispetto alle precedenti. I ruoli, una volta, erano maggiormente rispettati. Ma non è solo una questione legata alla pallavolo, il discorso potrebbe essere allargato alla società , alle mode e ai costumi della nostra epoca”.
Roberto Marcelletti
(da “La Repubblica”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
PERMETTE ALLA SOCIETA’ DI NON ESPLODERE: NON CI SONO DUE CLASSI UGUALI, DUE BAMBINI UGUALI, DUE SITUAZIONI UGUALI, OCCORRE IL BUON SENSO
Proibire d’autorità i presepi a scuola è insensato tanto quanto imporli e infatti non c’è circolare, programma ministeriale o linea guida del Miur che lo faccia.
Questo vuol dire che le scuole, sulle scelte didattiche che toccano situazioni sensibili in cui sono in gioco le identità , le appartenenze, il mobile confine fra discriminazione e accoglienza, sono, grazie alla nostra splendida Costituzione, libere.
Proprio libere. Libere di proporre e trovare insieme a tutte le componenti della scuola, cioè i ragazzi, i genitori, i docenti, il modo più adatto a costruire la convivenza nelle scuole. Di fare il presepe oppure no.
Quel che capita oggi nelle scuole è un miracolo perchè malgrado i tagli di organico, per cui da anni sono state annientate le compresenze necessarie non solo all’integrazione degli alunni immigrati, ma anche al recupero degli italianissimi nostri studenti che arrivano da situazione di svantaggio culturale e sociale, malgrado questo la scuola riesce ad essere quell’ormai unico laboratorio di convivenza che impedisce alla società presente e futura di esplodere.
Chi si è riconosciuto amico sui banchi di scuola non si fa la guerra a vent’anni o trent’anni.
Bene, questo lavoro richiede sapienza, lettura della realtà concreta delle classi, dei genitori, alleanza con il territorio (Comuni, sindaci e servizi).
Questo lavoro la scuola lo fa ogni giorno, un miracolo di intrecci e alleanze che non sono buonismo ma sapienza e anche buon senso.
È un volare altissimo con mezzi limitati e professionalità infinita.
Nel mentre che un preside o due finiscono a luccicare per un momento sui blog, loro malgrado o forse anche no, a combattere o sostenere il presepio a volte con motivazioni sorprendentemente extrascolastiche, l’acrobatico miracolo di tenuta della scuola va avanti, nella discrezione necessaria al dialogo.
È insensato pensare che un preside vada assunto o licenziato in funzione del suo essere obbediente agli interessi politici di un assessore regionale di turno, o di un sindaco che minaccia controlli sulle attività natalizie delle scuole.
Un delirio che confonde competenze, nasconde opportunismi politici tanto malinconici quanto pericolosi perchè insabbiano lo spirito critico, la paziente fatica di comprendere i fenomeni.
I presidi buoni sono quelli nelle cui scuole l’integrazione funziona attraverso scelte pedagogiche nate dalle condizioni oggettive della realtà scolastica.
Un quarto di quanti cercano rifugio in Europa sono bambini, il 9% dei nostri studenti ha cittadinanza non italiana, ma in molte scuole sono il 50%, e più.
Non ci sono due classi uguali, due studenti uguali, due situazioni uguali.
È sbagliato non permettere il presepio a scuola quando il presepio è parte integrante di un percorso scolastico riconosciuto da genitori e bambini, fatto proprio grazie ad appuntamenti negli anni attesi, con il corredo di canzoni e di doni scambiati con le famiglie, il concerto organizzato dopo aver scelto canti e poesie con la prudenza di chi conosce ambiente, persone, storia dei luoghi.
E la prudenza non è debolezza, è forza che sa tenere insieme quel che siamo e si apre a quel che riconosciamo diverso ma parte della nostra comune umanità .
Di sicuro però sono altrettanto sbagliate e indecenti le maleparole pelose con cui ci si appropria della profondità di una tradizione cristiana per usarla come una clava demagogica con cui nutrire i propri interessi politici e tentare di stordire la nostra intelligenza.
Mariapia Veladiano
(da “La Repubblica“)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
DOPO DIECI ANNI TORNANO A CRESCERE LE MORTI BIANCHE
Aumentano le morti bianche. Un dato tragico e in controtendenza rispetto al calo degli infortuni sul lavoro registrato a fine ottobre quando i caduti sul lavoro – in base alle denuncia arrivate – sono stati circa 100 in più rispetto allo stesso periodo del 2014.
Così gli organi dell’Inail, nel giorno dell’Assemblea sull’Amianto, spiegando che è in corso uno studio per appurare e comprendere le cifre.
A ottobre, l’ente aveva pubblicato il consuntivo per il periodo gennaio-settembre 2015, registrando 463.189 denunce d’infortunio, con un calo del 4,2% rispetto all’analogo periodo del 2014 (oltre 20mila casi in meno), sintesi di un calo più sostenuto per gli infortuni in occasione di lavoro (-4,6%) e di uno più contenuto per quelli in itinere (-2,0%).
Sono, invece state di 856 le denunce d’infortunio mortale, in aumento del 13,5% rispetto all’analogo periodo del 2014 (+102 casi).
Significa che già da oggi il 2015 si chiuderà con un rialzo significativo di morti bianche rispetto all’anno passato, quando gli infortuni mortali erano stati di 662.
Il Rapporto annuale dell’Inail per il 2014 confermava la tendenza al calo, dimezzati negli ultimi dieci anni.
Nel 2005 le morti bianche erano state 1.278. Gli infortuni totali sono stati 437.000, con un calo del 6,3% sul 2013.
Rispetto al 2013, si è registrata una riduzione del 6,7% mentre sul 2010 (997 morti sul lavoro accertate) la riduzione è stata del 33,6%.
(da agenzie)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
ORA PERO’ TOCCA ALLA LIVORNO DI NOGARIN E BEPPE CAMBIA IDEA
Due pesi due misure, verrebbe da dire. Quando Ignazio Marino era alle prese con la raccolta e lo smistamento della spazzatura di Roma, il leader del Movimento 5 Stelle aveva le idee molto chiare su ciò che il primo cittadino avrebbe dovuto fare: andarsene.
Ora invece che il problema dell’immondizia ha investito il secondo comune a 5 Stelle d’Italia, la Livorno guidata da Filippo Nogarin, il giudizio è completamente diverso. Ma andiamo con ordine.
“Prima che Roma venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai campi dei clandestini gestiti dalla mafia, Marino dimettiti”, twittava Beppe Grillo il 17 giugno scorso.
La giunta Marino da diversi mesi faceva i conti con l’emergenza rifiuti dopo aver deciso di fare quel passo che a Roma da tempo tutti chiedevano ma che nessuno traduceva nel concreto: chiudere la discarica di Malagrotta.
La situazione della giunta Nogarin a Livorno è diversa, ma per certi versi simile.
Il sindaco 5 Stelle lamenta di aver ereditato da chi lo ha preceduto, il Pd, un’azienda municipalizzata addetta alla raccolta dei rifiuti, la Aamps, con debiti per milioni di euro.
Per questo, sostiene il Movimento 5 Stelle, il sindaco deve scegliere se ripianare i debiti pregressi, sottraendo risorse al bilancio del Comune, oppure andare verso il concordato preventivo, portando quindi i libri dell’Aamps in tribunale.
La scelta del sindaco è caduta sulla seconda opzione, facendo infuriare i dipendenti dell’azienda che temono di perdere il posto di lavoro.
Così hanno deciso di protestare astenendosi dalla raccolta di rifiuti.
Il sindaco li ha già rassicurati che il loro posto di lavoro non è in pericolo ma i lavoratori, naturalmente, temono lo stesso per il loro futuro.
E chiedono al sindaco di sedersi intorno al tavolo e di percorrere un altra strada, diversa dal concordato preventivo.
Ma il blog di Grillo difende le scelte del sindaco: “Quella di A.AM.P.S., azienda della gestione rifiuti di proprietà del Comune di Livorno, è una pentola che non deve essere scoperchiata e in molti nel Pd non dormono sonni tranquilli di fronte alla prospettiva di portare i libri contabili in tribunale”.
“Il Pd a Livorno non si è preoccupato di riscuotere la tariffa rifiuti per anni, tanto a tenerla in vita c’erano le banche, come il Monte dei Paschi di Siena – si legge nel blog di Grillo -. Istituti di credito che, col M5S ad amministrare, hanno chiuso i rubinetti. È per questo che l’amministrazione 5 Stelle ha ereditato dal Pd 42 milioni di euro di debiti”.
(da “Huffingtonpost”)
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