Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
“NESSUN RISARCIMENTO, SOLO UN SOSTEGNO”
“Un palliativo per tentare di contenere la rabbia di 130.000 risparmiatori truffati vittime di
Bankitalia, Pd e Governo”.
Il presidente dell’Adusbef, Elio Lannutti, bolla così senza mezzi termini la proposta avanzata dal Pd in un subemendamento alla legge di Stabilità che prevede di dotare di 120 milioni di euro, 80 dei quali “a carico del sistema bancario” i restanti dallo Stato, il Fondo di solidarietà per risarcire i risparmiatori colpiti dal decreto salva-banche.
“Noi istruiremo azioni civili contro la Banca d’Italia che ha riserve sufficienti per risarcire, se riusciremo ad ottenere le condanne per culpa in vigilando”, aggiunge Lannutti ben consapevole dell’entità delle perdite subite dai risparmiatori che nella maggior parte dei casi hanno perso tutto dopo aver comprato prodotti dei quali non comprendevano i rischi.
La strada, per altro, è molto stretta. Anzi, strettissima.
Il Fondo proposto dal Pd ha “esclusive finalità di solidarietà , di assistenza o di utilità sociale“, e viene creato “a favore di investitori persone fisiche, imprenditori individuali e imprenditori agricoli o coltivatori diretti detentori di strumenti finanziari subordinati emessi dalla Banca delle Marche, dalla Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, dalla Cassa di risparmio di Ferrara, dalla Cassa di risparmio della provincia di Chieti“, si legge nel testo.
Per accedervi gli investitori devono essere “al dettaglio” e devono aver subito, “in diretta conseguenza dell’avvio di procedure concorsuali, di liquidazione coatta amministrativa, ovvero dell’applicazione di misure di ristrutturazione, risanamento o risoluzione” delle banche, perdite patrimoniali tali da porli “in condizioni d’indigenza o comunque di vulnerabilità economica o sociale”.
Non è un caso che il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan appoggi la mossa sottolineando che si tratta di un “sostegno” e non di un “risarcimento“.
Tutti da definire via decreto ministeriale, in ogni caso, dettagli cruciali come quelli dei beneficiari o il massimale e la percentuale di intervento rispetto al totale delle obbligazioni sottoscritte, pari a 780 milioni di euro.
Nessun accenno, poi, ai casi dei risparmiatori in odore di truffa, se non indiretto con l’affermazione che “i benefici derivanti delle prestazioni del Fondo non sono cumulabili con eventuali altri proventi di carattere risarcitorio o indennitario connessi agli stessi”.
Più strutturata la proposta presentata da Valentina Vezzali e altri deputati di Scelta Civica, con il sostegno del sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, che dovrebbe consentire il recupero fiscale del 26% delle perdite di azionisti e obbligazionisti delle quattro banche salvate dal governo e da Bankitalia, “fino ad un massimo di 50.000 euro”. Vezzali chiede inoltre di “avviare un’indagine per verificare se all’epoca del collocamento delle azioni ci siano state la trasparenza e la corretta informazione sul profilo di rischio di azioni e obbligazioni subordinate, e di prendere gli opportuni provvedimenti qualora ciò non si fosse verificato. La tutela dei risparmiatori infatti è l’obiettivo reale che deve essere perseguito a tutto tondo in casi di questo genere”.
Adusbef e Federconsumatori ritengono che Banca d’Italia, invece di vigilare sulla oculata gestione del credito e del risparmio, per prevenire i crac bancari di Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria, CariFerrara, Carichieti, andava a braccetto con i soliti banchieri amici, e per questo sarà chiamata a rispondere in sede penale e civile dei danni inferti ad almeno 130.000 truffati, oltre ai 200.000 azionisti di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca”.
(da agenzie)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
DA OBAMA A CORBYN: ALTROVE I LEADER HANNO UNA DIALETTICA ANCHE DURA CON I PROPRI GRUPPI PARLAMENTARI, SOLO IN ITALIA C’E’ UN CLIMA DA CASERMA
L’8 dicembre di due anni fa Renzi è diventato il segretario del Pd.
Per chi della velocità aveva fatto un mito, e dall’energia creativa del corpo del capo aveva ricavato l’attestato della garanzia di successo, due anni di potere sono un tempo enorme, valido per sopportare una verifica.
Una radiografia l’ha fornita il rapporto Censis con la metafora bruciante del paese in «letargo».
Quando Renzi concluse la sua marcia trionfale tra i gazebo, raccolse, oltre al sostegno di ambienti esterni pronti a finanziare una scalata ostile, anche un’ansia di successo, sfumato nel 2013, e un bisogno di rinnovamento delle classi dirigenti.
Un biennio di leadership incontrastata basta però per lasciar appassire i sogni di gloria e per smentire ogni attesa di ricambio effettivo nelle pratiche e nei volti del ceto politico locale.
Il governo della mancia per tutti non attira un voto in più al Pd.
E le sue disinvolte e creative misure economiche non agganciano la ripresa, anzi aggravano il divario con il passo spedito di altri partner europei.
Le esclusioni sociali crescono, l’evasione fiscale e contributiva regna incontrastata, il differenziale territoriale si acuisce, i servizi pubblici, la sanità deperiscono.
Galleggia l’illegalità , solerte è la misura per il salvataggio delle banche amiche
Le imprese, incassato l’oro delle decontribuzioni e dei tagli Irap, continuano a rigettare ogni strategia competitiva fondata sull’innovazione e la qualità .
Con la libertà di licenziamento, sancita dalle nuove leggi sul mercato del lavoro varate dal governo, le aziende si sentono protette da una irresistibile corazza. E pensano di proseguire nella strada della competizione al ribasso, tramite la marginalizzazione del sindacato, la precarietà camuffata dalle tutele crescenti.
Il basso costo del lavoro è loro garantito in eterno dal potere di licenziare con modico indennizzo monetario.
Presto il nero diventerà la figura dominante nei rapporti contrattuali perchè, dopo 40 anni di lavoro e con una pensione che non sarà di molto superiore a quella sociale, al dipendente risulterà più conveniente chiedere di essere pagato in nero, così almeno potrà racimolare qualche spicciolo in più dal mancato versamento dei contributi. Senza una politica degli investimenti, e senza una crescita dei salari pubblici e privati (altro che mance graziosamente elargite, senza alcun progetto di società ), il sistema si avvita in una spirale regressiva e catastrofica.
Questo biennio perduto lascerà ferite sociali e politiche difficili da rimarginare.
La volontà del capo di governo di presentarsi come il generoso protettore di tutta la nazione, che distribuisce bonus e mance ai ragazzi, ai carabinieri, agli insegnanti, non solo disperde risorse preziose, perchè scarse, senza alcun risultato tangibile nell’inclusione sociale ma non viene premiato nella sua spericolata raccolta del consenso clientelare due punto zero.
Ha un bel dire Paolo Mieli che Renzi non è un capo divisivo, ma vive nella splendida condizione di chi ha la felice fisionomia di un leader vincente che scavalca mirabilmente gli steccati e pesca fiducia ovunque.
Ascoltando meglio gli umori reali, non mancherà la percezione di un vivo sentimento di inimicizia, e anche di odio politico, che cresce e impedisce allo statista di Rignano di sfondare, nonostante l’infinita presenza in video, il sostegno generale dei media, il gradimento dei poteri che influenzano, la smobilitazione della destra.
Non basta, per rimediare alla deriva, raccogliere l’invito a costruire il partito, senza il quale, in effetti, tra il capo e il territorio esiste solo un solidissimo vuoto.
Il problema è che Renzi non può costruire un partito, per ragioni strutturali.
Ha distrutto quel poco di organizzazione che rimaneva, costringendo alla fuga gli illusi che fingevano di ritrovare nei gazebo i residui di vecchie simbologie e nei comitati elettorali degli affaristi in carriera i detriti di memorie, e non può edificare una nuova struttura, con gli eventi fuggevoli dei mille banchetti.
A Renzi il partito serve solo come fonte di legittimità per ordinare lo «stai sereno» e per continuare ad abitare a palazzo Chigi finchè vuole.
Non ha una cultura moderna della leadership, ma sprigiona solo una caricaturale infatuazione per i simboli esteriori del comando da caserma.
Non è vero quello che ha raccontato Eugenio Scalfari a Otto e mezzo, e cioè che Renzi comanda da solo perchè in tutte le democrazie avviene così.
Ovunque esistono gruppi dirigenti rispettati e non trattati come subalterni inoffensivi con cui il capo scherza nelle direzioni in diretta streaming.
Ogni capo convive con oligarchie agguerrite, con gruppi parlamentari non arrendevoli. Persino Obama ne sa qualcosa.
E il nuovo leader laburista Corbyn ha avuto l’investitura del partito ma i gruppi parlamentari, espressioni di un’altra cultura politica, non si piegano, e resistono anche platealmente alle sue direttive in politica estera.
Non fanno come i deputati del Pd, designati per l’ottanta per cento come seguaci di Bersani, e poi tutti inginocchiati a riverire il nuovo padrone senza mai un cenno di disobbedienza.
Se ci fosse stato un partito, Renzi non lo avrebbe mai scalato, e se avesse, dopo la conquista, ricostruito un partito, proprio i suoi dirigenti lo avrebbero già disarcionato, per una manifesta inattitudine alla leadership autorevole.
Altrove a togliere di mezzo un capo che ha perso le regionali, ha liquidato il nucleo organizzativo del partito, costretto alla diserzione la membership, manifestato una palese inadeguatezza al governo e naviga in chiaro affanno nei sondaggi, sarebbe il suo stesso partito.
Ma la fortuna di Renzi è di non avere un partito.
E può accontentarsi di un simulacro che gli dà i gradi di comandante di giornata.
Due anni terribili di deconsolidamento della democrazia costituzionale e del lavoro sono trascorsi e c’è poco da festeggiare con banchetti unitari in prossimità della catastrofe.
Michele Prospero
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
L’ANALISI DI VITTORIO PARSI, DOCENTE ALLA CATTOLICA, ARMANDO SANGUINI, EX AMBASCIATORE, E DI MASSIMO CAMPARINI DELL’UNIV. DI TRENTO
Conniventi, distratti e separati da agende politiche inconciliabili. 
Ecco la fotografia dei Paesi leader della Coalizione anti Isis, Russia, Stati Uniti, Turchia e Paesi del Golfo: una mal assortita armata brancaleone che ha permesso, dal 2014, un’espansione del Califfato.
Che ha a sua volta causato il collasso del quadro geopolitico nella regione. E ora il problema è diventato ingestibile. Qualcuno, però, sta cercando di approfittare della situazione e sfruttare la guerra all’Isis anche per altri scopi.
Obiettivi inconciliabili: Isis ringrazia
“La coalizione, ormai, è iper sfilacciata”. Parte da questo dato di fatto Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano.
Tra le cause dell’unione impossibile, agende politiche che guardano ad altro.
“Per gli Stati Uniti il problema principale è cacciare la Russia dal Medio Oriente, marginalizzandone il ruolo anche all’interno della coalizione”, commenta Parsi.
Come? “Quello che hanno lasciato fare ai turchi (l’abbattimento del caccia Su-24 da parte di due F-16 dell’aviazione turca, ndr) è stato un modo per alzare la posta in gioco” e aumentare la pressione su Mosca.
Oltre a questo, però, gli Stati Uniti vogliono anche aiutare gli alleati dell’area (Arabia Saudita e Israele su tutti), combattere lo Stato Islamico e compattare l’Europa — ancora una volta — in chiave anti Putin.
“Tre obiettivi che non stanno insieme” e che hanno reso per troppo tempo l’Isis una non-priorità , è il giudizio del professore.
In Medio Oriente questo è l’ultimo errore di una sfilza in cui è incappata la Casa Bianca: “L’unica scelta corretta e molto importante è stata siglare l’accordo con l’Iran. Per il resto è stata una politica estera piena di contraddizioni”, valuta Parsi.
Al contrario, il Cremlino persegue un’agenda molto coerente: “Primo, sostenere il regime siriano anche senza Assad. Ottenere un governo che lascia a Mosca le sue basi in Medio Oriente è sufficiente — continua — secondo, attrarre a sè l’Iran ora che è un attore ben accettato da tutti dopo il trattato sul nucleare.
Terzo combattere l’Isis: Putin ha un rapporto visceralmente ostile con l’estremismo islamico. Non ci dimentichiamo la Cecenia”, dove per altro esiste una congiuntura tra organizzazioni jihadiste locali e Isis.
I tre obiettivi, dunque, sono coerenti, ma in contrasto con Washington. Isis ringrazia.
I rischi di giocare con il fuoco
“Le frammentazioni aiutano sempre i più forti: in questo caso si tratta di Iran, Turchia e Arabia Saudita. Solo che la crescita di Isis rischia di essere micidiale per tutti”.
Parola dell’ambasciatore (che fu capo missione, ad esempio, in Arabia Saudita e Tunisia) Armando Sanguini, ora in pensione.
“La Russia ci sta guadagnando? Forse sì: avere un mondo arabo molto indebolito la rende di nuovo una presenza importante nella regione”.
Non ci sono dubbi di chi, finora, esca invece con le ossa rotte: Europa e Stati Uniti, i più responsabili delle sottovalutazioni che hanno lasciato crescere Isis. Una colpa “forse causata solo da scarsa visione”.
Questa “guerra omeopatica”, come la definisce Sanguini, non indebolisce il Califfato, anzi.
“Le batoste sul terreno sono tutte da dimostrare: i rapporti americani danno una perdita del 20-25% del Califfato rispetto al 2014”, ma il New York Times aveva parlato della falsificazione di questi documenti, continua l’ambasciatore.
Al campo si aggiunge il rischio che Isis diventi un riferimento per tutti i sunniti che non si sentono al sicuro: “Non si è voluto vedere come in Paesi come l’Iraq siano stati marginalizzati” è il commento del diplomatico.
Russia e Turchia, poi, stanno combattendo una guerra tutta loro, interna: “Non è un caso che il jet russo sia stato abbattuto mentre sorvolava una zona dove si trovano i turcomanni, che combattono contro il regime di Bashar Al Assad. I russi, dopo l’incidente, sono intervenuti dicendo di aver fatto ‘piazza pulita’ dei turcomanni”.
Di nuovo, perseguendo il fine di proteggere l’alleato Assad, più che combattere l’Isis.
Gulf connection
“Già da molti decenni l’Arabia Saudita alimenta correnti radicali sunnite perseguendo un disegno egemonico sui Paesi mediorientali — spiega Massimo Campanini, professore di Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento — non solo attraverso organizzazioni estremiste combattenti, ma anche finanziando predicatori di un certo tipo e controllando il discorso religioso”.
I Paesi del Golfo e la Turchia hanno sostenuto l’Isis, i primi per ampliarsi, l’altra per impedire che i curdi potessero conquistarsi un territorio tra Siria, Turchia e Iraq.
Ma c’è un “oscuro disegno alle spalle della creazione di Isis” impossibile da cogliere oggi: Isis non è “nata” da spinte propulsive dell’area, come invece accadde per Al Qaeda, valuta il professore. P
oi c’è un’incoerenza di dottrina islamica che aumenta i sospetti sullo scopo dello Stato Islamico: “L’idea del Califfato è quella di compattare e riunificare l’Islam — commenta il professore — non destabilizzare il panorama internazionale e creare schegge impazzite”.
Lo scenario attuale al professore ricorda quello dell’11 settembre: in quel caso lo studioso è convinto che la Cia sapesse ciò che stava per succedere a New York, “ma serviva un pretesto per fare ciò che già era stato deciso, ovvero abbattere il regime di Saddam Hussein”.
Prima di Baghdad, nel 2001 c’è stata Enduring Freedom a Kabul, ma il clima post 11 settembre ha certo contribuito a giustificare anche l’operazione in Iraq. Qui il caos rende ancora poco distinguibile chi stia macchinando alle spalle e con che obiettivo.
Un primo risultato è certo: “È aumentata l’islamofobia, che ha permesso all’Occidente di crearsi un nuovo nemico comune, che fa sempre comodo per giustificare le proprie azioni”.
Lorenzo Bagnoli
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
IL POPULISMO “TRASVERSALE” CHE ATTRAVERSA L’EUROPA POTREBBE FAVORIRE I GRILLINI
Tra i segreti della forte ascesa elettorale del Front di Marine Le Pen c’è un nuovo, inedito dosaggio tra ricette di destra e di sinistra, un mix che allude al populismo trasversale dei Cinque Stelle, peraltro diverso in tanti aspetti da quello neo-lepenista.
IL TERREMOTO IDEOLOGICO
Una novità politica, il lievitare di un populismo di sinistra-destra, che a cavallo tra Francia e Italia potrebbe avere conseguenze clamorose e dagli esiti imprevedibili.
Negli ultimi mesi la lite familiare in casa Le Pen ha in parte coperto il corposo terremoto politico/ideologico che via via ha fatto perdere al Front national quadri intermedi e militanti della tradizionale destra radicale, cattolica, nostalgica di Vichy coccolata per anni e anni da papà Jean Marie.
I PERDENTI DELLA GLOBALIZZAZIONE
L’adozione di parole d’ordine (anche) di sinistra sui temi economico-sociali e in parte in politica estera ha favorito l’aggregazione da parte di Marine Le Pen di fasce (disoccupati, operai, artigiani, commercianti) e di figure sociali che – ad esempio nella recente, acuta analisi di Marco Tarchi, studioso del populismo – vengono dipinti come i «perdenti della globalizzazione».
Gruppi sociali che condividono la predicazione di un partito che si oppone da sempre ai flussi migratori di massa.
DOPO LA FRANCIA, L’ITALIA?
Il nuovo trasversalismo politico-sociale ha proiettato il Front su percentuali mai viste prima e potrebbe consentirgli di conquistare, al secondo turno, significative fette di territorio. Naturalmente c’è di mezzo una settimana piena di incognite, ma un eventuale successo ai ballottaggi del populismo trasversale della Le Pen, a quel punto aprirebbe lo spazio ad una domanda: oggi in Francia, domani in Italia?
In altre parole: chi può dire come finirà , se il Pd, ai ballottaggi in grandi città , anzichè il centrodestra, si trovasse a fronteggiare il populismo trasversale dei Cinque Stelle?
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
TUTTO COME PREVISTO: IL FRONT NATIONAL ARRIVA AL 29,5% AL PRIMO TURNO DELLE REGIONALI, L’UMP DI SARKOZY AL 27%, I SOCIALISTI AL 23%
Hanno lo stesso ambizioso modello – Giovanna d’Arco – e lo stesso nome: Marion (anche se la zia
si fa chiamare Marine). Eppure non potrebbero essere più diverse.
Le due signore Le Pen tra una settimana diventeranno presidenti delle due regioni agli antipodi, il Nord atlantico di Lilla e Calais e il Sud mediterraneo di Marsiglia e Nizza, hanno storie e idee molto distanti. Questa ambiguità è anche il limite che renderà difficilissima, se non impossibile, la conquista dell’Eliseo e del Paese
Marion è conservatrice, ai limiti della reazione. Marine è movimentista, ai limiti della confusione.
Non a caso Marion stasera sarà in testa con circa il 40% nella regione Paca, Provenza-Alpi-Costa azzurra, culla dell’immigrazione maghrebina, da anni feudo della destra per quanto divisa; mentre Marine viaggia su percentuali analoghe nel Nord-Pas de Calais (cui è stata aggregata la Piccardia), terra un tempo rossa di miniere e di industrie, ora desertificata e disperata.
Marine Le Pen rifiuta di definirsi un’estremista. Per lei la divisione non passa più tra la destra e la sinistra, ma tra il sopra e il sotto della società , tra le èlites e il popolo, tra gli enarchi fautori del libero mercato, dell’Europa unita e la Francia profonda, spaventata dalla mondializzazione, dagli emigrati, ora dal terrorismo.
Non a caso il Front è al 45% tra gli operai e nelle banlieues popolari; mentre nel centro di Parigi non arriva al 20.
Accusare Marine e Marion di fascismo è un errore storico.
Il Front National non è figlio della Francia filonazista e clericale di Vichy.
Jean-Marie Le Pen tentava – a 16 anni – di arruolarsi nelle file della Resistenza quando Mitterrand riceveva dalle mani del maresciallo Pètain la francisque , massima onorificenza del regime. Il Front National è figlio dell’Algeria francese e dell’Oas, l’Organisation de l’Armèe Secrète che tentò di assassinare De Gaulle.
È figlio delle sconfitte in Indocina (dove Jean-Marie combattè tra i paracadutisti), del crollo dell’impero coloniale, della frustrazione nazionalista; e i suoi nemici mortali non sono i socialisti ma i gollisti in tutte le loro declinazioni.
Per questo al ballottaggio delle presidenziali 2017 Marine spera di trovare Hollande, contro cui avrebbe qualche chance, anzichè Sarkozy o peggio ancora Juppè, il delfino di Chirac, da cui sarebbe agevolmente battuta.
Dietro il suo successo di oggi non c’è soltanto la richiesta di una stretta sull’immigrazione e di una lotta senza quartiere ai terroristi.
C’è l’angoscia di una nazione abituata all’egemonia, che ora sente di non contare molto più di nulla. E c’è la frustrazione di scoprirsi impotente, dopo i discorsi di Hollande che Marion ha definiti «tonitruanti»: «Il presidente parla di guerra e non ha la forza di farla davvero».
A dispetto della sua trasversalità , Marine rimane un personaggio anti-sistema. Se dopo Lilla conquistasse anche Parigi, sarebbe la fine dell’Europa.
Il suo programma le impone di strappare non solo il trattato di Schengen, che un po’ tutti i francesi considerano superato, ma anche il trattato di Maastricht, che nel ’92 fu approvato da una maggioranza striminzita.
Marine vuole restituire ai compatrioti 200 euro al mese di stipendio, e soprattutto la sovranità . L’indipendenza da Berlino e da Bruxelles. Una gigantesca retromarcia. Il ritiro della Francia dalla storia.
Marine non è una persona sgradevole. Ma tra Marine e l’Eliseo ci sono due ostacoli. Oggi ha votato la metà dei francesi; per la scelta del presidente la partecipazione è molto più alta, e questo annacqua le militanze e le radicalità .
E mentre al secondo turno delle regionali possono partecipare tre o più candidati, e quindi il 40% basta per vincere, al ballottaggio per il capo dello Stato si arriva in due. Pur nel momento del trionfo di Marine, la maggioranza non crede che possa diventare presidente. A
nche se, da quando il terrore le ha dichiarato guerra, la Francia cammina su un sentiero inesplorato.
E per la fine dell’Europa non tifano solo i nazionalisti francesi .
Aldo Cazzullo
(da “il Corriere dela Sera“)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
LA PROVOCATORIA PROTESTA DI UN CENTINAIO DI GIOVANI DAVANTI ALLA SEDE INPS PER AVERE UN ASSEGNO DIGNITOSO
Giacomo ha 27 anni e una grande paura: lavorare fino a 75 anni e avere una pensione da 300 euro al mese.
O, ancora peggio, trascorrere la vecchiaia senza un euro in tasca.
Lui non ci sta e insieme a tanti altri coetanei ha portato la sua protesta davanti alla sede dell’Inps, a Roma, dove si sono raccolti i giovani delle Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori italiani.
Dopo lo scenario delineato dal presidente dell’Istituto, Tito Boeri, in tanti, da tutta Italia, hanno deciso di manifestare contro “una situazione che, per colpa di scelte fatte in passato, ci vedrà costretti a lavorare tutta una vita per poi ritrovarci poveri da anziani”, spiega Giacomo.
Lui, un contratto da precario, è il simbolo di due generazioni, quelle degli anni Ottanta e Novanta, che ora chiedono al Governo di trovare una soluzione. Il messaggio è chiaro: i giovani non possono essere destinati a diventare poveri già dai trent’anni.
Ecco perchè il simbolo della protesta sono le tante barbe di carta che vengono indossate. “Abbiamo le barbe perchè questa è una generazione che è già qui, mentre viene disegnata tra 45 anni con 300 euro di pensione”, spiega il coordinatore nazionale dei giovani delle Acli, Matteo Bracciali.
L’indignazione risuona nelle parole di studenti e lavoratori precari.
I cori intonati davanti all’Inps chiedono “una pensione giusta”. Spunta anche un fac-simile di un assegno pensionistico dall’importo di 350 euro destinato alla “generazione 80/90”.
Se la protesta monta sulla scia di una previsione catastrofica, la proposta è già in campo: il Governo deve mettere mano alla sostenibilità sociale del sistema pensionistico e dare vita a un’operazione di equilibrio generazionale.
Il problema, tuttavia, non è solo la pensione, ma anche il lavoro.
La maggior parte dei manifestanti ha un’occupazione ballerina, in tanti ancora studiano ma non nutrono speranze sul loro futuro. Ecco perchè la protesta delle Acli andrà avanti e ha già in cantiere altre iniziative sui temi della stabilizzazione del lavoro e dell’estensione dei diritti.
Non è usuale vedere le Acli in ‘piazza’, segno che le previsioni di Boeri hanno spaventato tutti, al di là delle appartenenze a movimenti o partiti.
Qualcuno non risparmia critiche alla riforma Fornero, “che ha creato squilibri ed è da cancellare”.
Parole lontanissime dagli auspici dell’ex titolare del ministero del Lavoro, che in un’intervista all’Huffpost, aveva difeso la sua creatura affermando: “Possono dire tutto quello che vogliono, ma che la mia riforma non abbia favorito i giovani, togliendo loro un po’ di peso, questo lo respingo nel modo più assoluto”.
Il cantiere del pressing sulle pensioni è in fermento: le Acli sono solo l’ultimo dei tanti soggetti che chiedono un intervento all’esecutivo.
I sindacati, in primis, ai quali non è andata giù l’esclusione del tema della flessibilità in uscita nella legge di stabilità , ma i malumori arrivano anche dal palazzo scelto dalle Acli per la loro protesta, quello dell’Inps.
Boeri aveva presentato un documento a palazzo Chigi con 16 proposte, dal reddito minimo per gli over 55 all’uscita anticipata a 63 anni e 7 mesi, ma il Governo non ha recepito le sue indicazioni nella manovra e non sembra intenzionato a farlo.
Giacomo viene da una terra difficile, la Sardegna. Ora è davanti al portone chiuso della sede dell’Inps.
È domenica, ma non è tempo di riposare. Ha una grande paura sì, che si chiama futuro, ma anche una grande speranza: togliersi quella barba di carta dal volto il prima possibile.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
ASSEGNI PIU’ BASSI NEL 70% DEI CASI
Ai pensionati non basterà una “semplice” calcolatrice per sapere esattamente a quanto ammonta
l’assegno previdenziale di gennaio.
Ma c’è di più, per l’effetto combinato del decreto del ministero dell’Economia – che ha stabilito il tasso provvisorio di rivalutazione per il 2016 e rivisto al ribasso quello del 2015 – e i provvedimenti presi dal governo dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco Fornero, scoprire quanto si prenderà di pensione l’anno prossimo sarà un vero e proprio rebus. E non mancheranno le sorprese, visto che oltre il 70% degli assegni erogati sarà più basso di quello del 2015
Per capire cosa è successo bisogna fare un passo indietro e tornare al 19 novembre, giorno in cui il Mef (Ministero dell’Economia e delle Finanze) ha stabilito che per il 2016, a causa della bassa inflazione, il tasso provvisorio di adeguamento al costo della vita sarà zero.
Almeno per il momento, le pensioni l’anno prossimo non si rivaluteranno.
Sempre nello stesso provvedimento è stato stabilito che il tasso definitivo di adeguamento per il 2015 è dello 0,2% rispetto allo 0,3% stabilito provvisoriamente più di un anno fa.
Questo significa che a gennaio i pensionati dovranno restituire la differenza all’Inps percependo quindi una pensione più bassa.
Gli effetti di questa decisione peseranno soprattutto sugli assegni più bassi, quelli inferiori a tre volte il minimo (l’Istat calcola che sono circa il 70-72% le pensioni che non superano i 1300 euro netti al mese, circa 18 milioni di assegni) perchè queste pensioni non sono state toccate dalla sentenza della Corte costituzionale che ha bloccato, per gli assegni tra 3 e 6 volte il minimo, lo stop all’adeguamento previsto dalla norma precedente.
Gli assegni più bassi, quindi, a gennaio dovranno restituire mediamente una decina di euro. Stesso discorso per chi ha un assegno superiore a 3200 euro al mese: rimborso a gennaio e pensione complessivamente più bassa per il 2016.
Ovviamente il mini rimborso di gennaio varrà anche per gli assegni tra 3 e 6 volte il minimo.
Chi quindi percepisce un assegno medio lordo tra i 1500 e 3000 euro dovrà restituire qualcosa a gennaio, ma in virtù della sentenza della Consulta che ha obbligato il governo ad adeguamenti più alti, riuscirà a incassare una pensione più alta, anche attorno ai 100 euro.
Carlo Gravina
(da “La Stampa”)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
IL SINDACO SMENTISCE ACCORDI SOTTOBANCO CON IL PREMIER
“Non ho alcuna intenzione di avere ruoli istituzionali. In passato ho rifiutato due volte di fare il ministro della Giustizia”.
A dirlo è il sindaco di Milano Giuliano Pisapia all’Intervista di Maria Latella su Sky Tg24 aggiungendo che è “una calunnia enorme” che lui abbia chiesto una nomina alla Corte Costituzionale.
“Non ho mai chiesto niente a nessuno, è una bufala” spiega Pisapia dicendo che fino a fine mandato continuerà a fare il sindaco con tutto il suo impegno e poi deciderà sul futuro. “C’è un problema di coerenza – continua -, dignità ed esempio per i giovani”.
Sulla sua proposta di spostare le primarie di Milano al 28 febbraio, il primo cittadino dice di non aver “ancora avuto risposte” dalla coalizione.
Ma all’Intervista di Maria Latella spiega che la sua ipotesi deriva dal fatto che quando si era scelta la data del 7 febbraio si ipotizzavano le amministrative a maggio mentre ora la data dovrebbe essere giugno.
Su chi appoggerà alla e elezioni primarie del centrosinistra, il sindaco non si sbilancia e afferma che deciderà “quando avrò con certezza l’elenco dei candidati”.
All’intervistatrice che gli ricorda che in molti pensano che punterà sulla vicesindaco Francesca Balzani, Pisapia risponde che si tratta “di una leggenda metropolitana”.
“È una vicesindaco stimata – aggiunge – e vuole l’unità del centrosinistra ma non ha sciolto le riserve”.
A proposito del commissario di Expo e probabile candidato alle primarie, Giuseppe Sala, il sindaco di Milano dice: “Con Sala ho lavorato insieme ed è stato un successo. Serve un candidato che prosegua il lavoro fin qui fatto per la città . Serve la continuità del progetto iniziato per la città “.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
I PROBLEMI SONO A LIVELLO LOCALE, DIRIGENTI DI DUBBIA FEDELTA’
Nei giorni scorsi il Pd ha ripreso a discutere sul calo degli iscritti. Calo preoccupante e
drammatico, secondo l’opposizione interna al partito, di dimensioni limitate secondo i renziani.
In ogni caso, che la diminuzione vi sia stata è indubbio: quasi 800 mila iscritti con Veltroni segretario, un po’ meno di 500 mila con Bersani, solo 350 mila nel 2014. Sennonchè, nella discussione interna al Pd ma anche negli articoli che la stampa ha dedicato alla questione, mi pare non si sia messa ancora a fuoco la questione essenziale, sintetizzabile in una domanda.
Siamo davvero sicuri che per Renzi il calo degli iscritti costituisca un problema?
A Renzi infatti, che ha conquistato la segreteria del Pd grazie a primarie rivolte ai potenziali elettori, tutto ciò che rimanda al vecchio partito bersaniano di derivazione comunista, che misurava la sua forza sul numero degli iscritti e delle sezioni, risulta estraneo.
A caratterizzare il suo modo di governare, più che l’obiettivo sempre rimasto nel vago di un «partito della nazione» (che ancora presupporrebbe un’idea di partito strutturato in modo tradizionale, di tipo novecentesco per intenderci), è l’idea di una politica postpartitica fondata sul rapporto diretto tra il leader e i cittadini. In questo quadro, ogni struttura intermedia che si interpone nel rapporto – la Cgil, certo, ma anche il Pd inte so come «la ditta» bersaniana – risulta soprattutto di ostacolo.
Anche per Renzi, naturalmente, un partito serve; ma non è quello d’antan, che organizzava i dibattiti in sezione e orientava gli iscritti attraverso i meccanismi del centralismo democratico, bensì è il partito che, sul modello del Partito democratico americano, si mobilita in occasione delle elezioni per assicurare il successo del leader. È il rapporto con gli elettori, non con gli iscritti, che interessa Renzi.
Non da ultimo perchè è grazie agli elettori che ha ottenuto un notevole successo nel meccanismo di finanziamento attraverso il 2 per mille, con 550 mila persone che hanno dato la loro indicazione in favore del Pd.
Lo scarso interesse per il partito-di-iscritti è del resto rafforzato dalle tendenze cesaristiche che alcuni politici e intellettuali di sinistra (ad esempio Biagio De Giovanni in un’intervista al Corriere del 24 novembre) attribuiscono al presidente del Consiglio.
Si dovrebbe semmai parlare, nel caso di Renzi, di un «cesarismo democratico», poichè le implicazioni autoritarie del cesarismo (da Giulio Cesare ai due Bonaparte) in questo caso sono evidentemente tenute a bada dal rispetto delle procedure democratiche.
Ma certo l’osservazione coglie un elemento reale: lo stesso uso che il premier intende fare del referendum sulla riforma costituzionale (referendum previsto dalla Carta come strumento nelle mani di chi si oppone alla riforma, non per confermare e accrescere il consenso nei confronti di chi l’ha realizzata, come lo concepisce invece il presidente del Consiglio) sembra giustificare appunto i timori di una deriva cesaristica o plebiscitaria
Del resto, un elemento populistico-plebiscitario è intrinseco alle democrazie contemporanee, anche se in Italia la presenza di partiti strutturati ha reso difficile riconoscerlo.
Quanto meno, fino alla comparsa di Berlusconi che, se rappresentava un’anomalia per tutto ciò che concerneva il conflitto di interessi, si collocava invece sulla scia di quella personalizzazione della politica, di quel rapporto diretto con gli elettori fondato sui media e in particolare sulla televisione, che rappresenta una caratteristica normale delle democrazie contemporanee.
Alla luce di tutto ciò, mi pare evidente che il calo di iscritti non costituisca particolare fonte di preoccupazione per Renzi, essendo addirittura – si potrebbe argomentare – una condizione necessaria al consolidamento del suo potere.
È un potere, come si sa, che diventa incerto a livello locale, dove spesso a contare sono dei leader di dubbia fedeltà al segretario del partito.
Ma questo è un problema che non credo Renzi possa pensare di affrontare riportando il Pd al modello bersaniano della «ditta» .
Giovanni Belardelli
(da “il Corriere della Sera“)
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