Dicembre 17th, 2015 Riccardo Fucile
PASSA LA PROPOSTA DI SCELTA CIVICA: ELIMINATO IL RADDOPPIO DEI TERMINI DI ACCERTAMENTO
L’Agenzia delle Entrate non potrà più contare nel raddoppio dei termini per l’accertamento dell’Iva e delle imposte sui redditi nemmeno nei casi in cui il contribuente è stato denunciato per un reato fiscale.
Dovrà insomma sbrigarsi a concludere le verifiche entro non più di quattro anni dalla presentazione della dichiarazione dei redditi falsata (cinque per i casi di dichiarazione omessa o nulla).
Se non ce la fa, tanto meglio per l’evasore.
A prevederlo è un emendamento alla legge di Stabilità di quattro deputati di Scelta civica, approvato in commissione Bilancio alla Camera e destinato dunque ad entrare in vigore dal prossimo 1 gennaio.
Per il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti la novità assicurerà “maggiore certezza del diritto nel rapporto tra fisco e contribuente”, definizione che riecheggia il nome del decreto — “sulla certezza del diritto” — varato sotto pessimi auspici la vigilia di Natale dello scorso anno e poi riscritto dal governo Renzi dopo le polemiche sul colpo di spugna che depenalizzava la frode fiscale se contenuta entro il 3% dell’imponibile.
Il decreto, anche dopo che l’esecutivo è stato costretto a rimetterci mano, ha modificato la normativa sui reati tributari rendendola più favorevole per il reo.
Ma continuava a prevedere la possibilità di raddoppio dei termini per l’accertamento, anche se limitata ai casi in cui l’amministrazione tributaria abbia inviato denuncia alla Procura entro i termini ordinari.
Il decreto sulla “certezza del diritto” manteneva il raddoppio almeno per i casi in cui sia stata presentata denuncia entro i termini ordinari.
Ora anche quella concessione agli ispettori del fisco va al macero, retroattivamente. Come molti processi per evasione, in fase di archiviazione a causa delle nuove soglie (più alte) di non punibilità .
Il contentino è che vengono contestualmente allungati di un anno i termini ordinari di decadenza: dal 31 dicembre del quarto anno al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.
In più si estende al caso della dichiarazione Iva nulla l’allungamento dei termini per l’accertamento previsto attualmente per la mancata dichiarazione.
Tutte le norme sono retroattive e viene prevista una disciplina transitoria per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso: gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione o, nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di dichiarazione nulla, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
Per questi periodi d’imposta viene mantenuto il raddoppio dei termini per l’accertamento, in caso di violazioni che comportino obbligo di denuncia.
Solo tre giorni fa il premier Matteo Renzi aveva per l’ennesima volta rivendicato: “Nella battaglia contro l’evasione fiscale abbiamo fatto passi in avanti da gigante. Tutti lo dicevano, noi lo facciamo. Perchè la verità è che l’unico modo per abbassare le tasse — cioè pagare meno — è pagare tutti”.
Questo commentando i risultati della voluntary disclosure, che anche grazie a una sanatoria sulle violazioni commesse prima del 2009-2010 ha fatto emergere 60 miliardi di redditi non dichiarati.
Renzi ha magnificato il fatto che si siano recuperati per questa via circa 4 miliardi di gettito. Una cifra che corrisponde però solo al 6% di quanto gli evasori hanno autodenunciato al fisco.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 17th, 2015 Riccardo Fucile
LA BANCA ERA GIA’ FALLITA, ALL’INSAPUTA DEI RISPARMIATORI
Già due anni fa Banca Etruria era travolta “in modo irreversibile” da un “progressivo degrado”in
corso indisturbato da 11 anni.
Lo ha scritto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco in una lettera al consiglio d’amministrazione della Popolare aretina il 3 dicembre 2013.
Peccato che la lettera fosse segretata, probabilmente per non disturbare il collocamento di obbligazioni subordinate in corso proprio in quei giorni.
Se Visco avesse reso pubblica la lettera, molti risparmiatori avrebbero potuto salvare i propri risparmi. Ma per Bankitalia il parco buoi non deve sapere, per essere spolpato meglio. In questo caso però, essendo saltato il banco, è possibile che chi ha perso i suoi soldi chieda giustizia in tribunale: la Vigilanza bancaria sapeva cose tremende su Banca Etruria e le ha occultate al pubblico.
Nel 2013 Banca Etruria è pressata da Bankitalia, che dal 2002 contesta la debolezza patrimoniale a fronte di crescenti rischi sui crediti (clienti che stentano a rimborsare i prestiti ottenuti).
Piazza un aumento di capitale da 100 milioni e quattro emissioni di subordinate per complessivi 120 milioni. L’ultima tranche viene piazzata agli sportelli di Etruria, unico luogo di smercio, tra ottobre e dicembre.
Nel frattempo gli ispettori della Vigilanza passano al setaccio per l’ennesima volta gli uffici di Arezzo. Guidati da Emanuele Gatti, che il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo considera il suo Maradona, si installano in banca dal 18 marzo al 6 settembre.
Dopo sei mesi consegnano a palazzo Koch i loro rilievi.
Il 3 dicembre Visco scrive la lettera che comincia con la scritta “riservatissimo ”. Leggendo si capisce perchè. Il 20 dicembre la Consob pubblica un supplemento al prospetto informativo della subordinata IT0004966856, che è già stata venduta e che, secondo gli scenari probabilistici opportunamente vietati dalla Consob, presentava il 64 per cento di probabilità di perdere la metà del capitale.
Il supplemento concede agli investitori (qualora avessero per caso saputo della pubblicazione) di revocare l’ordine di acquisto, alla luce delle novità , entro due giorni lavorativi.
Il 20 dicembre dicembre è un venerdì, possono eventualmente andare in banca il 23 e il 24 dicembre.
A parte questa presa in giro, il supplemento tace della lettera di Visco. Si limita a dire che, a seguito dell’ispezione, Bankitalia ha fatto dei rilievi che “non assumono in ogni caso un’entità tale da pregiudicare il mantenimento dei requisiti prudenziali”.
E che, “in linea con gli indirizzi dell’Organo di Vigilanza”, il cda ha deciso di cercare un partner bancario di “elevato standing”: “Un intento che, oltre a dare respiro alle prospettive future, mira a non compromettere i livelli occupazionali ed a valorizzare il sempre crescente patrimonio di professionalità e conoscenze acquisite nel tempo”. Ma che bello.
Prima di vedere che cosa ha scritto Visco, ricordiamoci il copione.
La Banca d’Italia non vigila sui mercati finanziari, quindi non si assume responsabilità se il contenuto di un prospetto, oltre che tardivo, risulti anche falso.
Scarica la colpa sulla Consob, che però replicherà che non può sapere della lettera di Visco se Bankitalia non glielo dice.
Visco il 3 dicembre ha scritto nella lettera segreta che già nel 2002, a fronte di ingenti crediti ammalorati, “la Banca d’Italia ha imposto un coefficiente patrimoniale specifico”: cioè un capitale totale pari al 10 per cento dei prestiti erogati e non dell’8 per cento come nelle banche sane.
Questa misura di prevenzione, dice Visco, “non è stata mai rimossa per mancanza dei necessari presupposti”, visto che “negli ultimi anni tali criticità si sono progressivamente accentuate”.
Ricorda l’ispezione del 2010, che non è servita a fermare il degrado. E richiama la lettera del 24 luglio 2012 con cui era stato chiesto un rimpasto sostanzioso del cda per la sua “inadeguatezza”, un taglio della struttura attraverso il “ridimensionamento della rete territoriale”, e “un rafforzamento dei buffer patrimoniali rispetto ai minimi regolamentari”, cioè nuovo capitale, cioè obbligazioni subordinate, visto che il mercato non assorbiva aumenti di capitale.
Un anno e mezzo dopo la lettera del 2012 Visco sostiene che a Banca Etruria si sono fatti beffe di lui: “I ritardi accumulati nell’affrontare le gravi problematiche e il ricorso ad interventi parziali e talvolta dilatori hanno contribuito ad accrescere le criticità ”. Conclusione tombale: “A seguito del progressivo degrado della situazione aziendale, la Banca Popolare dell’Etruria risulta ormai condizionata in modo irreversibile da vincoli economici, finanziari e patrimoniali che ne hanno di fatto ‘ingessato’ l’operatività ”.
Per cui Bankitalia “ritiene che la Popolare non sia più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento”.
Visco ordina a Banca Etruria di vendersi a un’altra banca più grossa entro 120 giorni, tempo che in genere non basta neppure neppure per vendere un’auto usata. Infatti non succederà niente.
L’ispezione di Bankitalia serve solo a fare fuori il presidente Giuseppe Fornasari (che ne ha contestato energicamente i contenuti) e a mettere in sella Lorenzo Rosi (oggi indagato) con due vice presidenti: Pier Luigi Boschi e Alfredo Berni, ex direttore generale negli anni in cui la Banca, stando a Visco, era stata sfasciata.
Lo scorso febbraio, a quindici mesi dalla letteraccia, Visco ha commissariato l’istituto che Bankitalia ha lasciato sfasciare per 13 anni segretando le sue ispezioni.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 17th, 2015 Riccardo Fucile
SAREBBE IRREGOLARE LA BUONUSCITA DI 900.000 EURO PER L’EX DIRETTORE BRONCHI
I componenti del Consiglio di amministrazione di Banca Etruria sono stati sottoposti a procedimento disciplinare da Bankitalia.
La pratica è ormai chiusa, entro qualche giorno le conclusioni saranno notificate e scatterà la procedura per l’invio delle controdeduzioni prima dell’erogazione delle sanzioni.
È l’ultimo, clamoroso sviluppo delle verifiche effettuate sul dissesto dell’Istituto di credito toscano dagli ispettori della Vigilanza e adesso anche dalla magistratura. Nell’elenco ci sono l’ex presidente Lorenzo Rosi, l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro delle Riforme Maria Elena, e i consiglieri che hanno svolto l’intero mandato prima dell’arrivo del commissario.
Tutti ritenuti responsabili della «mala gestio» che ha causato un «buco» nei bilanci di circa 3 miliardi di euro, dei quali ben 2 miliardi sono riconducibili a «sofferenze». Nella relazione finale si parla esplicitamente di «anomalie non rimosse» e si contestano numerose operazioni ed emolumenti concessi.
Si muove Palazzo Koch e va avanti l’indagine condotta dal procuratore Roberto Rossi. Tra le operazioni contestate dal pubblico ministero c’è quella con la Methorius spa, che ha tra i soci anche l’imprenditore Alfio Marchini.
Nel 2013, anno in cui sarebbero state emesse le false fatture finite nell’inchiesta, la sua quota era pari al 30 per cento, attualmente è al 16,6 per cento.
Premi e consulenze
Il provvedimento di Bankitalia chiude l’ispezione che dieci mesi fa aveva portato al commissariamento. Un lavoro cominciato il 14 novembre 2014 e terminato il 27 febbraio 2015 che aveva come obiettivo «il riscontro della situazione economico finanziaria con particolare riferimento alla valutazione del patrimonio vigilanza» ed era dunque ad «ampio spettro». Sono numerose le contestazioni ai componenti del cda.
La principale riguarda le pratiche di finanziamento «in conflitto di interesse» per 185 milioni di euro che hanno generato perdite per 18 milioni di euro.
Irregolare, secondo gli ispettori, anche il premio al personale per due milioni di euro e la liquidazione al direttore generale Luca Bronchi – in carica dal 30 luglio 2008 al 4 maggio 2014 – che ha ottenuto una «buonuscita» da 900 mila euro.
Grave, come emerge dalla relazione, la posizione di Rosi e Nataloni che sono stati iscritti nel registro degli indagati per non aver comunicato il «forte conflitto di interessi»: hanno infatti ricevuto finanziamenti in favore di società senza comunicare che erano a loro riconducibili. In particolare Nataloni ha ottenuto fidi per 5 milioni e 400 mila euro «con previsione di perdite».
Le sanzioni ai vertici
Si tratta di contestazioni formali che saranno notificate entro breve ai vertici di Etruria. È la seconda volta che accade, visto che al termine dell’ispezione conclusa il 18 marzo 2013, anch’essa «ad ampio spettro», furono erogate sanzioni per due milioni e mezzo di euro, di cui 144 mila a Pierluigi Boschi.
In quel caso furono contestate «carenze nella funzionalità degli organi e nel sistema dei controlli con significative ricadute sulla qualità del portafoglio crediti, sulla redditività e sul patrimonio di vigilanza».
Anche le nuove sanzioni saranno comunicate alla magistratura per la valutazione di eventuali illeciti penali, proprio come accaduto per Rosi e Nataloni.
Le carte e le denunce
Su ordine di Rossi, gli investigatori del Nucleo Tributario della Guardia di finanza stanno esaminando tutta la documentazione già acquisita nella sede di Etruria nelle scorse settimane. Entro qualche giorno cominceranno invece le verifiche sull’emissione delle obbligazioni straordinarie che dopo il decreto del governo non hanno più alcun valore.
Si procede per il reato di truffa, ma non sono sufficienti gli esposti delle associazione dei consumatori depositati in questi giorni.
Si tratta infatti di un reato per il quale si può procedere soltanto dietro querela di parte e dunque dovranno essere i singoli clienti a chiedere conto dell’operato della banca. Un’iniziativa che numerosi avvocati hanno già preannunciato per le prossime ore.
Fiorenza Sarzanini
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 17th, 2015 Riccardo Fucile
LO STUDIO DEL CENTRO STUDI “IMPRESA E LAVORO” SULLA CRISI DEGLI ISTITUTI DI CREDITO
Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati
di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Banca d’Italia per salvare la parte buona delle quattro banche dell’Italia centrale da anni in stato di crisi. Il computo fornito da ImpresaLavoro è stato realizzato sulla base dei dati contenuti negli ultimi bilanci pubblicati dalle banche cadute in liquidazione, nonchè degli ultimi aumenti di capitale e dei dati Reuters sui titoli obbligazionari colpiti.
I soci delle quattro banche, oltre agli obbligazionisti subordinati, si sono visti infatti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti, senza per loro alcuna chance di recupero poichè sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, nè patrimoniale nè di voto.
La procedura di risoluzione adottata in novembre rappresenta una sorta di anticipo rispetto a quanto potrebbe accadere dal 2016 anche per altre banche con l’entrata in vigore delle norme sul bail-in, ovvero sulle procedure di salvataggio interno che limitano drasticamente — se non annullano — le possibilità di intervento del contribuente al ripianamento delle perdite degli istituti in difficoltà . In realtà , l’applicazione rigida del bail-in alle quattro banche avrebbe avuto dei risvolti ancor più drammatici poichè avrebbe comportato delle perdite anche per i titolari di obbligazioni ordinarie e, probabilmente, anche di una parte dei correntisti con giacenze superiori a 100mila euro.
Le quattro banche oggetto del “salvataggio” hanno bruciato circa 3,1 miliardi di valore in capitale azionario (di cui oltre 500 milioni raccolti — quasi tutti da piccoli risparmiatori — solamente tra il 2011 e il 2013), mentre a quasi 800 milioni corrisponde la perdita per le obbligazioni “junior”, ovvero subordinate rispetto alle più comuni ordinarie, anch’esse collocate per gran parte a piccoli risparmiatori.
Il dissesto sarà certamente ricordato tra i più gravi della storia finanziaria del nostro paese, tanto da essere già stato paragonato ai casi di Parmalat e Cirio, anche se il confronto più azzeccato — fatte le dovute proporzioni — è quello con il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, intervenuto nel 1982.
Anche allora il valore delle azioni fu azzerato, ma i soci ricevettero il diritto di partecipare al capitale del Nuovo Ambrosiano, che dopo un lungo risanamento e una serie di operazioni di fusione con altri istituti ha contribuito alla nascita dell’odierno gruppo Intesa Sanpaolo.
Le quattro banche oggetto, lo scorso mese, della procedura di risoluzione erano state da tempo commissariate da Banca d’Italia (Carife lo era addirittura dal 2013). L’amministrazione straordinaria, del resto, segnala un grave stato di crisi e negli ultimi anni ha portato metà delle banche coinvolte a chiudere i battenti, mentre l’altra metà si è salvata riprendendo la normale attività oppure trovando acquirenti come nel caso recente di Banca Tercas e Caripe, acquistate dalla Popolare di Bari.
Ad oggi tuttavia sono ancora dieci gli istituti bancari in tutta Italia sottoposti a questa procedura, e per i quali dunque perdura la situazione di crisi.
Non sono commissariate ma stanno affrontando una situazione molto delicata anche Veneto Banca e Popolare di Vicenza, le due grandi popolari del Nordest che figurano tra le società ad azionariato diffuso (ovvero tra i cui soci figurano una moltitudine di piccoli risparmiatori), che prevedono di quotarsi in Borsa solo nella primavera del 2016, momento nel quale emergerà il reale valore di mercato delle stesse.
Dal 2014 infatti, il meccanismo interno di rivendita delle azioni di tali istituti si è sostanzialmente bloccato, sotto il peso di svalutazioni di bilancio e perdite sempre più consistenti, e della consapevolezza ormai diffusa che il prezzo delle azioni fissato “a tavolino” dal Cda negli ultimi anni è oggi ampiamente fuori mercato, e per questo tale da scoraggiarne l’acquisto.
Agli inizi di dicembre il Cda di Veneto Banca ha determinato il prezzo di recesso per le azioni in 7 euro e 30 centesimi, con una gravissima perdita (pari all’81,5%) rispetto al prezzo di 39 euro e 50 che gli stessi titoli avevano solo nove mesi prima.
Viste le numerose analogie tra i due istituti, si teme che una proporzione del genere possa applicarsi anche a Banca Popolare di Vicenza; in entrambi i casi oltre al danno si aggiunge anche la beffa, dal momento che gli scambi delle rispettive azioni sono comunque ancora bloccati e potranno riprendere solamente tra qualche mese con l’approdo in Borsa, dove potrebbero subire peraltro nuove riduzioni di valore.
Il conto delle perdite, dunque, per i soci delle grandi popolari del Nordest, potrebbe essere già oggi stimabile in 6,2 miliardi di euro, nonostante i quasi 1,9 miliardi versati dagli azionisti negli ultimi 2 anni sotto forma di aumenti di capitale e di rimborso anticipato (in azioni) di obbligazioni convertibili.
Entrambe le banche inoltre si apprestano a richiedere ai soci altri 2,5 miliardi di capitale nei primi mesi del 2016, al fine di ripristinare i livelli di patrimonio e garantire la continuità aziendale.
Al di fuori delle due popolari venete (che a dispetto della denominazione hanno nel tempo assunto una dimensione nazionale e tale da essere incluse tra le 15 “big” italiane vigilate direttamente dall’Europa), vi sono una quarantina di istituti non quotati ma con azionariato diffuso, e dunque con una compagine sociale costituita in gran parte anche da piccoli risparmiatori.
Oltre alla Popolare delle Province Calabre (commissariata), tra questi istituti non risultano altre crisi in corso paragonabili a quelle di Vicenza e Veneto Banca, ma la trasparenza dei prezzi e nelle quantità di azioni di questi istituti, scambiate attraverso i loro “borsini interni” più o meno evoluti, risulta in media molto scarsa (seppur variando significativamente tra istituto e istituto).
Oltretutto, il prezzo di tali azioni risulta in media più alto rispetto ai multipli di borsa ed è dunque possibile che, a fronte di eventuali nuove svalutazioni, emergano perdite per i loro piccoli azionisti per un totale di altri 2,5 miliardi di euro.
Molto più trasparente, ma anche molto più grave, il conto per le più grandi banche italiane quotate in Borsa.
Il mercato azionario ha punito i loro investitori sin dai primi inizi della crisi finanziaria, ovvero dal 2007.
Nonostante il netto recupero che si sta materializzando sui titoli quotati sin dal 2013, secondo i dati di Borsa Italiana il settore delle banche italiane risulta aver bruciato, rispetto al 2007, ben 100,1 miliardi di valore, a cui si devono aggiungere i 48,9 miliardi versati dai soci tramite aumenti di capitale dal 2008 a oggi.
Tra le quotate, oltre alla già citata Banca Etruria caduta in liquidazione, a presentare le perdite più vistose sono state Banca Carige e il Monte dei Paschi, che hanno però superato i più recenti test europei sul capitale. Inoltre, vanno citati anche gli azionisti di Banca Popolare di Spoleto, che vivono nell’incertezza da almeno due anni, con il titolo sospeso dalle quotazioni e con il commissariamento di Banca d’Italia (conclusosi nel 2014), ora impugnato dagli ex-vertici.
Ma la vera spada di Damocle che incombe sulle nostre banche sostanzialmente comune a tutto il sistema ed è ancora quella dell’elevato volume dei crediti deteriorati, problema ad oggi irrisolto, che corrisponde, secondo le recenti stime della European Banking Authority, addirittura a oltre 17 punti del nostro Pil.
Nella sostanziale impossibilità di un aiuto pubblico in soccorso dei dissesti bancari, rimarcata dalle nuove regole del bail-in, una cosa è certa: i piccoli risparmiatori dovranno necessariamente aumentare il proprio grado di consapevolezza, e ricordarsi che in base alle nuove norme gli unici strumenti davvero tutelati saranno i conti correnti e depositi (e solo entro i 100mila euro per istituto), mentre gli altri titoli bancari come azioni e obbligazioni (ancor di più se non quotati), già oggi possono presentare un grado di rischio più alto di quanto inizialmente prospettato.
Paolo Ermano
Centro Studi Impresa Lavoro
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Dicembre 17th, 2015 Riccardo Fucile
DOPO 32 FUMATE NERE FINISCE LA TELENOVELA CON IL SUICIDIO CINQUESTELLE: DOPO AVER DETTO CHE NON AVREBBERO MAI VOTATO IL PD BARBERA, LO FANNO E IN CAMBIO PASSA IL LORO CANDIDATO MODUGNO…SOLO BERLUSCONI RESTA CON UN PUGNO DI MOSCHE
Dopo trentuno fumate nere, il Parlamento definito “irresponsabile” a turno dai presidenti della Repubblica, del Senato e della Camera, ha sbloccato l’impasse per l’elezione dei tre giudici mancanti della Corte Costituzionale.
Da una parte il Pd ha deciso di mollare Forza Italia dopo la lite pubblica tra Renzi e Brunetta sulle banche e dall’altra ha retto l’intesa con il Movimento 5 Stelle, che ha accettato il compromesso senza passare dalla ratifica della rete: così il 32esimo voto in seduta comune ha sancito l’elezione della terna Augusto Barbera (quota Pd, 581 voti ) – Franco Modugno (quota M5S, 609 voti e il più votato) — Giulio Prosperetti (quota centrista, 585 voti) che vanno a sostituire Luigi Mazzella, Paolo Napolitano e Sergio Mattarella.
Che siano stati i rimproveri del trio Mattarella-Grasso-Boldrini o l’incubo delle convocazioni dell’Aula a oltranza o la minaccia di ritardare le vacanze di Natale, alla fine i partiti sono riusciti a trovare una mediazione.
Insomma, fine della figuraccia per quello che sarà ricordato come lo stallo più “assurdo” (per parola dei suoi stessi protagonisti) della storia del Parlamento: “Una figura di merda”, aveva detto in mattinata Matteo Renzi a Rtl.
A cambiare l’aria è stata la decisione del Pd di abbandonare Forza Italia (e quindi il suo candidato Francesco Paolo Sisto, già avvocato di Verdini e Berlusconi) e cercare la mediazione con il Movimento 5 Stelle, che per una delle prime volte ha deciso di accettare il candidato in quota democratica Barbera a patto che passasse il “loro” Modugno.
Lo scatto decisivo al meccanismo ingolfato è arrivato dopo che Renzi ha litigato apertamente nell’Aula della Camera con il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta.
Chi non ha digerito però l’intesa ritrovata è naturalmente Forza Italia.
“E’ un fatto grave”, ha detto l’ex Cavaliere Silvio Berlusconi con uno dei suoi ritornelli preferiti, “questo premier estende i suoi interventi ovunque e pone i suoi uomini dovunque mentre noi lasciavamo sempre una percentuale di nomine alle opposizioni”.
A cambiare le carte in tavola è stata anche la decisione dei 5 stelle di accettare di sedersi al tavolo con il Pd. Se fino a pochi giorni fa erano contrari al nome di Barbera, oggi i parlamentari grillini si sono riuniti e a maggioranza hanno votato per ingoiare il rospo.
La novità è che i grillini hanno abbandonato l’opposizione a tutti i costi e persino il “metodo Sciarra“, ovvero la decisione di chiedere alla rete di accettare o meno la mediazione: nell’autunno 2014 furono proprio gli iscritti M5S ad acconsentire il voto per Silvana Sciarra al Consiglio superiore della magistratura, in cambio dell’elezione di Zaccaria.
Certo, per tutto il giorno c’è stato chi ha ricordato ancora le parole del M5s su Barbera, come quelle di Luigi Di Maio, per dire che quello del giurista non era un nome credibile perchè “è stato troppo sbilanciato sulla questione anche dell’Italicum e delle riforme costituzionali”.
Il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto, per esempio, ha commentato: “Rimango colpito dalla spregiudicatezza del Movimento Cinque Stelle che per settimane ha considerato Barbera un candidato non votabile e oggi hanno cambiato posizione senza nessuna spiegazione e si predispongono a condividere il più renziano dei candidati. Non si può lottizzare la Consulta”.
Fuori dagli schieramenti Raffaele Fitto, leader dei Conservatori e Riformisti, ha infierito: “Resta lo stesso metodo sbagliato, l’unica novità è che ora anche il M5s si siede a tavola. Non si dolga chi ha tentato l’inciucio finora senza riuscirci… (Forza Italia, ndr) Resta lo stesso metodo, gli stessi sms. Tutto sbagliato. Cambia solo un commensale…”.
Polemica analoga a quella sollevata anche da Sinistra Italiana: “Il M5s si appresta a prendere il posto di Forza Italia al banchetto della lottizzazione della Consulta e addirittura a votare a favore del più renziano dei candidati, il professor Barbera”, ha detto Alfredo D’Attorre. “A questo punto tanti cittadini potranno valutare la coerenza di un movimento che passa dagli strepiti e dalla mozione di sfiducia alla Boschi all’inciucio con Renzi per spartirsi i membri della Corte Costituzionale”.
(da agenzie)
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