Dicembre 21st, 2015 Riccardo Fucile
PROSSIMA STAZIONE VERDINI
Renata Polverini, a un passo dall’addio a Forza Italia, dà una fotografia devastante del partito
guidato da Silvio Berlusconi.
La deputata, che presto potrebbe raggiungere Denis Verdini, affida a un’intervista a Repubblica tutto il suo malcontento:
La situazione è insostenibile?
“A osservare gli ultimi giorni, è così. Abbiamo offerto uno spettacolo a dir poco indecoroso”.
Secondo Polverini, Forza Italia paga il prezzo di un leader troppo assente:
“Berlusconi ha inventato il vero partito del leader. Il problema è che questo modello ha bisogno di un leader sempre presente. Uno capace di mettere insieme i cocci. Se non garantisce una presenza costante, se manca una vera struttura organizzata sul territorio, allora l’assenza di leadership complica tutto”.
“Quando manca un luogo in cui discutere — attacca ancora Polverini — quando tutto o quasi funziona in autogestione, ecco: è tutto molto più complicato”.
Con Verdini il dialogo è aperto.
“Tra noi si discute. Chi ha lasciato Fi viene comunque dalla storia del partito, alcuni sono addirittura i fondatori”.
Polverini non risparmia critiche a Brunetta, pur ritenendo ingeneroso dare tutte le colpe a lui.
“Berlusconi lo indicò come capogruppo. Lui già allora non aveva le caratteristiche per questo incarico, visto che servirebbe uno capace di mediare e tenere assieme le persone. Uno in grado di negoziare in Parlamento con tutti. Però Renato è così, si sa”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2015 Riccardo Fucile
EL PAIS PARLA DI “SCENARIO ITALIANO”
Governare con il nemico storico oppure con chi ti considera il diavolo.
Formare una coalizione fra gli opposti con l’avversario ma stabile nei numeri in Parlamento, oppure cercare un’intesa programmaticamente coerente, ma numericamente stretta con un partito anti-casta.
All’indomani del voto in Spagna, per Mariano Rajoy si presenta una situazione analoga a quella che dovette affrontare Pier Luigi Bersani dopo la vittoria risicata alle elezioni politiche del 2013. Così come il Pd non aveva conquistato alle urne una maggioranza e si trovava al bivio fra Forza Italia e M5S, così il Partito Popolare spagnolo si ritrova costretto alla mediazione per cercare di formare un governo.
Con il mandato esplorativo del Colle, Bersani si prese sei lunghe giornate di trattative e consultazioni – compreso il famoso vertice in streaming con i 5 Stelle – nel tentativo di trovare un’intesa con il Movimento di Beppe Grillo, che evitasse il ricorso alle temutissime larghe intese con il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi.
Fallì e fu poi il suo secondo, Enrico Letta, ad assumersi l’onere di governare con Forza Italia, sostenuto dalla regia di Giorgio Napolitano al Quirinale.
In Spagna il Partito popolare del premier uscente Mariano Rajoy ha raccolto il 28,72% dei voti alle elezioni generali, arrivando a 123 seggi su un totale di 350. Secondi i socialisti del Psoe, con il 22,01% e 90 seggi, terzo Podemos guidato da Pablo Iglesias, con il 20,66% e 69 deputati. Quarto Ciudadanos, con il 13,93% e 40 deputati.
Rajoy si ritrova con una gamma ristretta di possibilità , tutte di difficile realizzazione.
Il Pp ha 123 seggi ed è ben lontano da quota 176, asticella a cui è fissata la maggioranza assoluta della camera bassa in Spagna.
Numeri alla mano, nessun partito può governare da solo.
Le distanze maturate in campagna elettorale mettono tanto il premier uscente quanto il re Felipe VI in una situazione alquanto complessa: dal 15 gennaio, data di insediamento dei nuovi parlamentari, il sovrano di Spagna inizierà le consultazioni coi partiti, indicherà un nome nella speranza che il “Congreso” approvi a maggioranza assoluta la scelta.
Se fallisce, 48 ore dopo, il candidato presidente del governo può passare con la maggioranza semplice, altrimenti, tempo due mesi e si torna alle urne.
Le ipotetiche coalizione di centrodestra Pp-Ciudadanos o di centrosinistra Psoe-Podemos supererebbero rispettivamente 163 e 159 deputati.
Per riuscire a ottenere l’investitura sarebbe necessario l’appoggio di deputati dei partiti nazionalisti, catalani o baschi, che diventerebbero un problematico ago della bilancia e farebbero pagare a caro prezzo il loro voto.
Oltretutto il rapporto fra Rajoy e il presidente secessionista catalano Artur Mas è logorato dalle recenti polemiche.
Per Felipe VI la prima vera prova politica da affrontare.
L’unica soluzione che consentirebbe alla Spagna di avere una maggioranza solida sarebbe una intesa tra i popolari e i socialisti.
Le dichiarazioni dell’immediato dopo-voto lasciano intendere che questa sarà la stretta via che Rajoy proverà a percorrere.
“Lo ribadisco, chi vince le elezioni deve cercare di formare il governo. Cercherò di formare un governo stabile, di cui la Spagna ha bisogno”, quindi “cercherò accordi, dialogherò ma nell’interesse del Paese” ha detto il leader del Pp, spiegando che “la Spagna ha bisogno di stabilità , sicurezza, certezza e fiducia”.
Anche il leader socialista Pedro Sanchez non ha avuto parole di chiusura: “bisogna avviare il dialogo. La democrazia vuol dire dialogo e trovare accordi e il Psoe vuole dialogare e dibattere, per il bene del Paese”, e quindi “dico agli spagnoli che cercheremo di formare un governo”.
Uno “scenario italiano”, scrive la testata iberica El Pais, “ma con il grave problema che non ci sono gli italiani a gestirlo”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2015 Riccardo Fucile
PODEMOS E CIUDADANOS HANNO ROTTO GLI SCHEMI
Altro che “prodotti da marketing”, come ha detto l’anziano leader popolare Mariano Rajoy. Pablo
Iglesias e Albert Rivera si prendono oltre un terzo dell’elettorato spagnolo, archiviano un trentennio di bipolarismo e rompono — da destra e da sinistra — i solidissimi monopoli politici del Pp e del Psoe trasformando in un rebus senza precedenti le trattative per il nuovo governo.
Il risultato più inatteso è quello di Iglesias, “Il Codino”, frettolosamente dato in ritirata dai sondaggi dell’ultima settimana e risalito, comizio dopo comizio, con il mix di spregiudicatezza, simpatia e carisma sexy che è la sua cifra da sempre.
“Sì, se puede” aveva scritto laconico nel suo ultimo messaggio su Fb agli elettori. Era vero: secondo le prime rilevazioni affianca i socialisti di Sanchez al 21 per cento e si gioca il sorpasso sul filo dei decimali: avrà tra i 70 e gli 80 seggi, mentre il Psoe è quotato tra i 79 e gli 85.
Anche i Ciudadanos di Rivera stupiscono chi li voleva sovrastimati da valutazioni benevole e volano verso i 50 seggi, con il 14 per cento dei consensi: il loro appoggio o quantomeno la loro astensione saranno indispensabili ai Popolari (tra i 114 e i 124 seggi) per continuare a governare, e sarà interessante vedere come Rajoy passerà sotto le forche caudine del giovanissimo leader che gli ha sfilato la maggioranza assoluta, con il quale non ha voluto accettare neanche un duello televisivo accusandolo di essere poco più di un pupazzo mediatico.
L’avanzata parallela di Podemos e Ciudadanos ha una forte connotazione generazionale e costituisce la conferma di un’emergente lotta di classe dei “giovani contro i vecchi” che taglia le categorie ideologiche e costruisce partiti nuovi un po’ in tutta Europa.
In un Paese dove, nonostante la celebrata ripresa dopo la crisi del 2008, un ragazzo su due è disoccupato e le famiglie non riescono più a fare da ammortizzatore sociale, Iglesias e Rivera hanno interpretato su fronti opposti lo stesso desiderio di rinnovamento radicale e lo stesso disgusto per le formazioni politiche classiche, i loro riti, i loro scandali ricorrenti.
Il Psoe ha tentato di arginare l’emorragia col volto nuovo di Petro Sanchez, classe ’72, uno dei leader in camicia bianca che Renzi portò lo scorso anno sul palco della festa di Bologna: bello come un attore, arruolato nell’università ed estraneo ai vecchi meccanismi di potere del partito. Uno, insomma, che “doveva” piacere ai giovani.
Non è bastato per oscurare il profilo aguzzo di Iglesias e il suo consenso da rockstar, cementato anche dal buon esordio dei due sindaci donna eletti in maggio da Podemos a Madrid e di Barcellona, Manuela Cardona e Ada Colau, le quali hanno dimostrato che questa nuova sinistra, tra una citazione di Lula e una Ian Solo, può governare oltre che prender voti di protesta.
Lo stesso duello anagrafico si è vissuto a destra, anche se con meno ansie perchè il primato dei Popolari non è mai stato in discussione e il leader uscente Rajoy ha sempre scommesso sulla possibilità di un appoggio, almeno esterno, dell’astro nascente di Ciudadanos.
Rivera sta ad Iglesias come i Beatles ai Rolling Stones: capelli corti, faccia pulita, meno passionale sui palchi e in tv, si è preso l’altro spicchio del voto giovanile, quello che sogna una Spagna più simile all’Europa del Nord che al Sudamerica, picchiando sui tasti della lotta alla casta e alla corruzione e giurando che mai avrebbe appoggiato un governo Popolare guidato dalla vecchia classe dirigente.
Ha incassato l’endorsement dell’Economist, in un articolo intitolato “Buon Natale Spagna” («un partito liberale per un Paese dove il liberalismo non è mai stato forte») e in extremis, poco prima dell’apertura dei seggi, ha seguito il copione che tutti si aspettavano.
Astensione per far governare chi arriva primo.
Lo schema del governo di minoranza ora è nei fatti. E segnerà il debutto di Felipe VI, anche lui alla sua prima tornata elettorale e al primo confronto con le responsabilità politiche del suo ruolo, “debuttante” di lusso visto che è sul trono da poco più di un anno.
Ha tempo per farlo — il nuovo Parlamento si riunirà a metà gennaio — ma la strada sembra segnata. Saranno poi i fatti a rivelare se il singolare asse tra il vecchio Rajoy e il nuovissimo Rivera segnerà l’inizio di una nuova fase per il popolarismo spagnolo o l’estremo tentativo di restaurazione di una vecchia storia.
Flavia Perina
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2015 Riccardo Fucile
CROLLO DEI POPOLARI E SOCIALISTI, IL PREMIER: “CERCHERO’ DI FORMARE GOVERNO”… SERVE UN MIRACOLO: RE FELIPE NEL RUOLO DI MEDIATORE
A Madrid è stata la notte delle calcolatrici: 163 seggi se Mariano Rajoy e Albert Rivera vanno a nozze, 159 se Pablo Iglesias (nella foto) strizza l’occhio a Pedro Sà¡nchez.
La somma è sempre la stessa: ben sotto i 176 seggi che garantiscono la maggioranza assoluta.
La parola che risuona già prima di mezzanotte è “ingovernabilità “. E alla fine gli spagnoli hanno fatto “canc” e sono andati a dormire, senza capire chi sarà il nuovo presidente del governo.
O meglio se un premier ci sarà o si dovrà tornare alle urne. La partita è in mano al re Felipe VI, che dopo le consultazioni, designerà un candidato per tentare di formare il nuovo governo. O Mariano Rajoy o Pedro Sà¡nchez.
Se il Partido popular ha vinto le elezioni (28,7%), la possibilità che il premier uscente resti al palazzo della Moncloa per i prossimi quattro anni è ridotta a un lumicino.
I risultati delle elezioni hanno confermato quello che tutti i sondaggi dicevano da un anno: per il bipartitismo suonano le campane a morto, mentre Podemos (con il 20,6%) e Ciudadanos (13,9%) hanno già in tasca le chiavi del futuro governo.
I popolari e i socialisti hanno perso insieme qualcosa come 83 deputati, fermandosi a un 50,7% di voti, la percentuale più bassa degli ultimi 25 anni.
E Rajoy ottiene il peggior dato dai tempi del suo predecessore Josè Maràa Aznar. Eppure il PP non disfa la valigia. Nella storica notte elettorale Rajoy si è affacciato dal consueto balcone della sede del partito e ha detto chiaro e tondo: “Proverò a formare un governo”.
Ma con chi? Neppure con l’appoggio di Rivera e l’astensione dei socialisti il PP potrebbe fare il miracolo. Tanto più che cercare un’astensione anche tra i partiti nazionalisti (quelli che come Erc lottano per l’indipendenza catalana) sarebbe ridicolo.
La patata bollente potrebbe quindi passare a Pedro Sà¡nchez.
Il partito ottiene il peggior dato della storia (22%) e si piazza dietro Podemos a Valencia, in Galizia, Navarra, Paesi Baschi, Isole Baleari e Catalogna.
A Madrid poi il Psoe arriva solo al quarto posto. Sà¡nchez ha già dichiarato la sua totale apertura “al dialogo, alla discussione, agli accordi”: potrebbe diventare premier solo se ottiene l’appoggio di Podemos e Izquierda Unida ma anche l’appoggio (o l’astensione) di qualche partito nazionalista.
Ma non è così semplice, giacchè al Senato il PP resta in maggioranza e potrebbe creare una situazione di stallo perenne tra le due Camere.
Il puzzle dei patti appare complicato tanto più che Pablo Iglesias mette avanti la riforma costituzionale a qualsiasi tipo di accordo.
Il partito viola festeggia la vittoria in Catalogna, Madrid e Paesi Baschi, dove diventa prima forza, parla di “una nuova Spagna che mette fine ad un’era politica” e fa l’occhiolino agli indipendentisti di una “Paese plurinazionale”.
Ma la lettura dei risultati potrebbe obbligarlo a ripensare ad una qualche alleanza con il Psoe. Che comunque non basterebbe.
Al centro si piazza Ciudadanos, che finisce per essere il quarto partito nonostante i sondaggi lo situassero al secondo posto. Albert Rivera si ferma a 40 seggi, racconta di un risultato “storico” e vede il resto dei partiti non come “nemici, ma compatrioti”. L’apertura c’è, probabilmente verso il PP. Ma anche qui le cifre non quadrano.
La chiave di queste somme impossibili è una sola: non è finita.
Il PP potrebbe governare, ma solo se il Psoe glielo permette. Il Psoe, anche se Podemos glielo permette, non è detto che riesco a farlo.
Una grosse koalition alla tedesca? Finora i socialisti hanno detto di no. Elezioni anticipate fra tre mesi? Mai successo in Spagna.
Ma visto il terremoto di ieri, da oggi nulla è escluso.
Altrimenti, come spiega El Paàs, in un divertente editoriale, cari spagnoli “Benvenuti in Italia“, il Paese dei pentapartiti, del compromesso storico, dei transfughi, degli strateghi e delle alleanze impossibili, dove i governi, se tutto va bene (e quando si va a votare) durano 6 o 7 mesi.
Silvia Ragusa
(da “il Fatto Quotidiano”)
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