Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IN STAND BY I CAMPANI CESARO, RUSSO E SARRO, MA NEL MIRINO CI SONO ANCHE I FITTIANI… D’ANNA: “FORZA ITALIA PAGA L’APPIATTIMENTO SULLE POSIZIONI DI SALVINI E MELONI”… “VERDINI OFFRE POSTI DI SOTTOGOVERNO”
Lunedì pomeriggio Luca D’Alessandro percorreva chilometri da un lato all’altro del Transatlantico di Montecitorio. Senza mai staccare mani e orecchie dal telefonino. Insieme ad Ignazio Abrignani e Massimo Parisi sta gestendo i contatti con gli ex colleghi di Forza Italia che stanno meditando seriamente l’addio al partito di Silvio Berlusconi.
Per gli emissari di Denis Verdini, fondatore della nuova componente parlamentare Alleanza Liberalpopolare Autonomie (Ala), sono giornate intense e decisive.
E il trasloco annunciato ieri al Senato dai coniugi Sandro Bondi e Manuela Repetti insieme ad Enrico Piccinelli tra i banchi del gruppo dell’ex plenipotenziario del Cavaliere sarebbe solo l’antipasto di quello che, entro la fine dell’anno, potrebbe succedere anche alla Camera.
Dove a parte l’ex governatrice del Lazio, Renata Polverini, che ha praticamente già anticipato a mezzo stampa l’intenzione di passare coi verdiniani, potrebbero lasciare FI anche l’ex capo ufficio stampa del partito Giorgio Lainati e Giuseppe Romele. Nomi ai quali vanno aggiunti anche quelli di una serie di deputati ancora in forse, che stanno meditando sul da farsi.
A cominciare dalla pattuglia dei campani (da Luigi Cesaro a Paolo Russo e Carlo Sarro), che restano però in attesa della nomina della Mara Carfagna come nuovo capogruppo al posto del contestato Renato Brunetta prima di sciogliere la riserva.
TUTTI CONTRO TUTTI
È questo il risultato delle ultime, travagliate vicende che stanno spaccando il partito di Berlusconi.
A cominciare dalle laceranti divisioni emerse in occasione del voto sulla mozione di sfiducia individuale contro il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi in relazione alla vicenda Banca Etruria.
Un episodio che ha seminato all’interno dei gruppi parlamentari ulteriori dosi di malumore e scontento.
“Più che di scontento parlerei di sconcerto”, fotografa con una battuta la situazione dentro FI il senatore verdiniano Vincenzo D’Anna a ilfattoquotidiano.it.
“Ormai assistono attoniti a tutta una serie di decisioni in contrasto tra loro: da un lato Brunetta attacca Renzi, dall’altro Romani cerca di interloquire con il Pd per mantenere l’accordo sui giudici costituzionali; mentre il giorno dopo Berlusconi sconfessa gli uni e gli altri — continua —. C’è gente che non ci si raccapezza più, il tutto mentre il partito si appiattisce sul lepenismo e l’euroscetticismo da una parte e la xenofobia e il razzismo del duo Meloni-Salvini dall’altra”.
E proprio al Senato l’esodo potrebbe non finire qui. Nella lista degli indecisi, infatti, ci sarebbe anche i nome di Sante Zuffada.
DAGLI AI FITTIANI
Ma nel mirino del fondatore e leader di Ala non ci sono solo i berlusconiani. Infatti “l’altro obiettivo di Verdini a Palazzo Madama, oltre agli ex colleghi di Forza Italia, sono i fittiani”, rivela un ex ministro azzurro.
Cioè i senatori del gruppo Conservatori e Riformisti, nato a giugno di quest’anno, che fa capo all’europarlamentare pugliese. E a cui Verdini, nei mesi scorsi, ha già strappato due importanti pedine: Eva Longo (nominata vicepresidente di Ala al Senato) e Ciro Falanga (segretario).
“A Palazzo Madama — prosegue la fonte — l’uscita di un solo senatore dal gruppo di Fitto porterebbe di fatto alla sua implosione, perchè scenderebbe sotto la soglia minima dei dieci eletti necessaria per formare una componente autonoma”.
Proprio questo sembra essere l’obiettivo dichiarato di Verdini.
Il quale, in particolare, ha messo gli occhi su Antonio Milo e Marco Lionello Pagnoncelli (anche loro ancora incerti sul da farsi).
“Ma potrebbe non essere finita qui — aggiunge l’ex ministro —, anche perchè il pressing è a tutto campo, sia alla Camera sia al Senato”. E poi, rivela, “quello che Verdini ha da offrire non ce l’ha nessun altro”.
Ovvero? “Niente poltrone di governo o ricandidature alle prossime elezioni, ma prospettive lavorative utilizzando l’esecutivo”.
Cioè quelli che in gergo vengono definiti incarichi di sottogoverno.
Non è un caso che ciò che resta del ‘cerchio magico’ di Forza Italia (Deborah Bergamini, Mariarosaria Rossi e Giovanni Toti) stia spingendo affinchè Berlusconi torni in campo in prima persona per raddrizzare la situazione.
Ammesso che, arrivati a questo punto, ciò possa ancora servire a qualcosa.
Antonio Pitoni e Giorgio Velardi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA PUBBLICA LA REUTERS: EMERGE L’AVVERTIMENTO MA NON C’E’ UN DIKTAT
Prosegue il rimpallo di responsabilità tra l’Italia e l’Unione europea per l’azzeramento del valore di
titoli subordinati di banca Etruria, Banca Marche, le Casse di risparmio di Chieti e Ferrara.
In una lettera riservata del 19 novembre scorso (tre giorni prima del decreto), i commissari Ue alla Concorrenza e alla Stabilità Margrethe Vestager e Jonathan Hill sollevano le loro obiezioni all’uso del Fondo Interbancario di tutela dei depositi nel caso delle quattro banche.
Di fatto per l’esecutivo il paletto messo da Bruxelles ha lasciato aperta solo una strada a Palazzo Chigi.
L’Ue, però, respinge ogni velata accusa: “Non abbiamo mai detto all’Italia cosa fare, abbiamo solo dato indicazioni giuridiche”.
La Reuters ha reso pubblica la lettera che i commissari europei Hill e Vestager hanno inviato all’Italia pochi giorni prima del varo decreto che fatto scattare la procedura di risoluzione per le quattro banche in crisi (Banca Etruria, CariFerrara, CariChieti e Banca Marche) per appurare la posizione dell’Europa in merito all’utilizzo del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per il salvataggio degli istituti in crisi.
Dal documento sembra emergere un evidente orientamento negativo di Bruxelles per questa soluzione, anche se non traspare comunque nessun diktat nei confronti dell’Italia.
I due esponenti dell’esecutivo Ue, rispondendo alle richieste dell’Italia, spiegano che l’utilizzo di un meccanismo di garanzia dei depositi (Il fondo interbancario ndr) in casi come questo è soggetto alla disciplina sugli aiuti di Stato e “se la valutazione porta a concludere che l’uso di questo schema è aiuto di stato, scatterà la risoluzione della direttiva Brrd”, coinvolgendo quindi anche i risparmiatori.
La Commissione però puntualizza anche che se l’utilizzo dello schema di garanzia non fosse giudicato aiuto di Stato e fosse invece considerato un puro intervento privato questo non farebbe scattare automaticamente questo meccanismo.
Cioè, in altre parole, l’utilizzo delle risorse del fondo sarebbe così consentito. In ogni caso l’esecutivo Ue nella stessa lettera puntualizza come “sia in capo alle autorità italiane la scelta degli strumenti e delle politiche da adottare” in caso di crisi bancarie pur ribadendo che “la Commissione preferirebbe sempre soluzioni di mercato” e quindi che riducano al minimo l’intervento pubblico.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
NELLE QUATTRO BANCHE SALVATE E NELLE POPOLARI VENETE NON HANNO VOLUTO METTERE IN GUARDIA RISPARMIATORI E AZIONISTI
Il 2015 è stato l’annus horribilis per il risparmio e il 2016 non promette niente di buono, vuoi per l’entrata in vigore dal 1 gennaio del famigerato bail-in, vuoi perchè non si è risolto il problema dei 200 miliardi di sofferenze che pesano sui conti delle banche italiane e che rischiano di far saltare altri istituti.
Dopo le botte prese dagli azionisti di Veneto Banca e di Popolare di Vicenza (a primavera, con la quotazione in Borsa, arriverà il saldo), e dopo l’integrale azzeramento dei risparmi di azionisti e obbligazionisti delle quattro banche salvate dal governo con il decreto del 22 novembre (Popolare Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti), la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema bancario, della vigilanza e del governo è ridotta ai minimi termini.
E proprio la mancanza di fiducia unita alla normativa sul bail-in rischia di determinare un aggravamento della situazione degli istituti più deboli e meno patrimonializzati che da un lato rischiano la fuga in massa della clientela e, dall’altro, si troveranno a dover sostenere costi di raccolta più elevati rispetto agli istituti di maggiori dimensioni proprio perchè presentano un grado di rischio più elevato.
Posto che per i clienti non sarà semplice fuggire, perchè la maggior parte di queste banche non è quotata, così come non lo sono molte delle loro emissioni di obbligazioni subordinate e di obbligazioni senior (dal primo gennaio anche queste ultime saranno soggette al bail-in).
Quanti altri miliardi di euro andranno in fumo nel 2016 e di chi sarà la responsabilità ? Dell’Europa o di un governo che non è stato in grado di tutelare gli interessi nazionali e il risparmio delle famiglie durante le trattative sulla direttiva europea che ha introdotto il bail-in?
Il tentativo di recuperare la fiducia dei risparmiatori traditi con l’istituzione del fondo di solidarietà da 100 milioni di euro, poi, rischia di trasformarsi nell’ennesima fregatura.
Se i risparmiatori sono stati truffati hanno diritto a riavere i loro soldi, oltre agli eventuali danni provocati anche dall’omessa vigilanza di Banca d’Italia e Consob. Con il fondo, invece, il governo vuole minimizzare l’impatto di questa vicenda con pochi spiccioli.
Tuttavia, già si rischia di scadere nella farsa dato che l’istituzione del fondo è stata sì deliberata ma rinviando a futuri decreti tutte le questioni pratiche.
Tra queste anche quella non di poco conto di chi valuterà caso per caso le richieste di rimborso dei risparmiatori.
Il premier Matteo Renzi ha indicato nel presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone la figura più adatta a gestire questo processo, perchè autorevole e in grado di garantire terzietà rispetto alla Consob, al centro delle polemiche per l’omessa vigilanza sulle modalità di collocamento di azioni e obbligazioni subordinate.
Anche in questo caso, però, siamo solo all’effetto annuncio: all’Autorità nazionale anticorruzione non è stato ancora attribuito alcun potere e il presidente della Consob Giuseppe Vegas fa subito fuoco di sbarramento.
“Naturalmente noi siamo pronti a collaborare con l’Anac — ha detto Vegas in un’intervista al Messaggero -, ma non sarà facile rimuovere le sovrapposizioni che fatalmente si creeranno se la nuova norma (quella sugli arbitrati che deve appunto essere ancora emanata, ndr) non combacerà alla perfezione con le leggi vigenti”.
La questione secondo Vegas si può porre qualora la Consob nel corso delle indagini sulla vendita dei bond subordinati giungesse alla conclusione che i comportamenti esaminati sono da sanzione e l’Anac arrivasse invece alla conclusione opposta. E viceversa.
Cosa accadrà a quel punto? Impossibile rispondere ora, dato che le norme non sono ancora state emanate. Certo è che i tempi per i risparmiatori truffati rischiano di allungarsi a dismisura.
E tempi molto lunghi si prevedono anche per le cause risarcitorie e le class action che stanno promuovendo le associazioni dei risparmiatori.
Intanto nei giorni scorsi è continuato il rimpallo delle responsabilità , governo e presidenza della Repubblica hanno ribadito la loro fiducia nella Banca d’Italia, il governatore Ignazio Visco ha rilasciato interviste in televisione e sulla carta stampata per ribadire la correttezza dell’operato di Via Nazionale, ma si è guardato bene dal rispondere all’unica domanda che mette a nudo inequivocabilmente le responsabilità delle autorità di controllo nella truffa che si è consumata ai danni dei risparmiatori. Per quale ragione la Banca d’Italia non ha mai imposto la lettura di una propria missiva all’assemblea degli azionisti di Popolare di Vicenza e di Veneto Banca per metterli in guardia sulle modalità arbitrarie con le quali i loro consigli di amministrazione fissavano anno dopo anno il prezzo delle azioni?
Perchè negli anni scorsi, quando la situazione appariva già deteriorata, non è stata fatta leggere una lettera nel corso delle assemblee dei quattro istituti ora salvati a spese (anche) dei risparmiatori per informarli che le obbligazioni subordinate non erano uno strumento d’investimento adatto a loro?
Quest’azione era ed è nei poteri della Banca d’Italia (e anche della Consob).
Non averla intrapresa equivale ad aver compiuto una precisa scelta di campo: lasciare carta bianca alle banche e ai loro amministratori senza neanche mettere in guardia le famiglie.
Più che di omessa vigilanza sarebbe meglio iniziare a parlare di complicità .
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA CHIAVE DI UN DETENUTO VICINO DI CELLA DEL 31ENNE ROMANO
C’è un possibile movente del «violentissimo pestaggio» subito da Stefano Cucchi,nelle carte
dell’inchiesta bis che ha portato all’accusa contro tre carabinieri per le lesioni e altri due per falsa testimonianza.
Ai militari-investigatori che cercavano informazioni sulla droga venduta (provenienza, fornitori, nascondigli), il trentunenne morto dopo una settimana di reclusione oppose un silenzio che potrebbe essere la causa delle percosse.
Lo ha rivelato un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014: Luigi L. ha 46 anni, è un ex detenuto che incontrò il geometra (tossicodipendente-spacciatore) nel centro clinico di Regina Coeli all’indomani dell’arresto; a confidargli la ragione delle botte, dice, fu proprio Stefano.
«Io ero detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina — ha raccontato al pubblico ministero Giovanni Musarò —. Quando arrivò Cucchi lo vidi passare con la “zampogna” (cioè con gli effetti forniti all’amministrazione penitenziaria: una bacinella, una coperta, lo spazzolino, eccetera). Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: “Chi ti ha ridotto così?”. Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto… era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere».
Il giorno successivo i due si incontrarono di nuovo, e Luigi L. tornò a fare domande: «Ricordo che non riusciva quasi a parlare, nè a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra… Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi al Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino… Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla».
Ed eccoci al motivo del pestaggio: «Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perchè dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: “Perchè, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?”. A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la “spia”) e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: “Più o meno è andata come dici tu”. A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: “Per me sei stato un grande”».
Aggiunge il testimone che quando gli chiese di mostrargli i segni del pestaggio, Stefano «si tolse la maglietta; restai impressionato, sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto».
Per gli inquirenti Luigi L. è attendibile: altre persone hanno confermato i particolari riferiti, ma soprattutto il testimone — è scritto nell’informativa allegata alla richiesta di incidente probatorio, firmata dal capo della squadra mobile Luigi Silipo — «faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese».
Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta nè al processo, e ora sono fra i nuovi indagati.
L’ipotesi che da Cucchi i carabinieri volessero informazioni non deriva solo dal successivo ritrovamento, nella casa dove abitava da solo (sconosciuta agli investigatori), di un etto di cocaina e un chilo di hashish.
In un’intercettazione telefonica del luglio scorso il maresciallo Roberto Mandolini — all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza — rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: «Perchè qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti».
Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque sui altri dettagli che gli avrebbe riferito lo stesso Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella «che da due anni non gli faceva vedere i nipotini».
Se le parole del maresciallo rispondessero a verità , e quindi se in passato Cucchi abbia fatto il confidente, rafforzerebbero l’ipotesi che i carabinieri pretendevano da lui nuove informazioni; soprattutto dopo l’inutile perquisizione a casa dei genitori. Altrimenti Mandolini (che poteva immaginare di essere intercettato) può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto.
Certamente il padre e la madre di Stefano, scoprendo che era riceduto nel giro della droga, poterono apparigli adirati e ostili.
Con la conseguenza di provocare qualche atteggiamento violento da parte di Cucchi nei confronti dei carabinieri, come raccontano i nuovi indagati in qualche recente intercettazione. Con successiva reazione.
Ma all’epoca nulla di tutto questo fu scritto nei verbali, nè resistenze nè altro. Perchè? Solo Mandolini e i suoi colleghi possono sciogliere questi retroscena, ma quando sono stati convocati da inquisiti in Procura hanno preferito non rispondere alle domande del pm. Com’è loro diritto.
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IL TRAFFICO-LUMACA CONTRO LO ZAR PUTIN: DIRE NO A UN’IMPOSTA DI CIRCOLAZIONE DIVENTATA IL SIMBOLO DI UN PAESE AUTORITARIO
I camionisti russi sono protagonisti di proteste dalla metà del mese scorso: chiedono l’abrogazione di una nuova tassa di circolazione entrata in vigore il 15 novembre.
La tassa, stabilita per risarcire lo Stato dei danni causati alle strade dai veicoli pesanti, è di 1,53 rubli (meno di 3 centesimi) per chilometro fino al primo marzo, per passare poi a 3,06 rubli (quasi 5 centesimi).
Al tasso di cambio attuale, da marzo andare da Mosca a Novosibirsk costerebbe circa 150 dollari in tasse, più o meno quanto viene pagato un camionista per la stessa distanza.
Per aggiungere la beffa al danno, i proprietari di camion devono installare un sistema di tracciamento per elaborare la somma da pagare, prodotto da una società che appartiene a Igor Rotenberg, figlio di un vecchio amico del presidente Vladimir Putin.
La nuova tassa è generalmente percepita come uno strumento di corruzione.
In questo Paese dove le distanze sono enormi e l’economia dipende dalle importazioni, ci sono circa due milioni di camion.
I camionisti e gli operatori del settore hanno il potere e gli strumenti per far rallentare l’economia russa e bloccare il traffico.
Il mese scorso, i camionisti hanno cominciato a fare manifestazioni e hanno organizzato proteste.
La più popolare è diventata nota come ulitka, “la lumaca”: alcuni camionisti hanno messo i loro mezzi in tutte le corsie di una strada e poi hanno cominciato ad avanzare a passo d’uomo, costringendo il traffico a tornare indietro.
Un’altra forma di protesta, messa in atto a Chelyabinsk, negli Urali, ha costretto il traffico a fermarsi per un gruppo di persone che faceva costantemente avanti e indietro su un passaggio pedonale.
C’è un motivo per cui alcuni camionisti hanno scelto di protestare a piedi piuttosto che con il loro camion, un motivo che rimanda a una difficoltà fondamentale di queste proteste.
Ancor più di molti dei loro connazionali, i camionisti sono in balìa della burocrazia russa: hanno patenti di guida e permessi che possono essere revocati. Un vigile urbano può togliere a un camionista i suoi mezzi di sostentamento.
Se i camionisti avessero la certezza che tutti i loro colleghi si assumessero gli stessi rischi, potrebbero ignorare il problema della polizia stradale.
Ma qui ci sono tutti i classici problemi di comunicazione e di fiducia. I sindacati russi sono deboli e spesso cooptati. La maggior parte dei media sono sotto il controllo statale. I forum online sono praticamente l’unico strumento di organizzazione e di comunicazione su cui i camionisti possono contare.
In un primo momento, i camionisti avevano minacciato di mettere in atto una protesta-lumaca sulla tangenziale che circonda Mosca il 30 novembre. Poi avevano deciso di aspettare fino al 3 dicembre, giorno in cui Putin avrebbe rivolto il suo discorso annuale al Parlamento.
Gli hanno scritto, sperando che avrebbe citato la questione nel suo discorso, ma Putin non ha menzionato i camionisti.
Quella notte, i camion hanno cominciato a riunirsi al di fuori della tangenziale di Mosca. Pochi giorni dopo, i media indipendenti hanno dato la notizia che i camionisti avevano iniziato la protesta ulitka sulla strada.
Subito la mappa del traffico lo ha confermato: verso le 4 del pomeriggio, la corsia esterna della circonvallazione sul lato nord della città era bloccata. Poi la polizia stradale ha annunciato di aver chiuso la strada, senza motivo.
L’effetto sul traffico era lo stesso della manifestazione, ma tecnicamente l’avrebbe impedita.
Allo stesso tempo, il Parlamento ha approvato un provvedimento per diminuire drasticamente la sanzione per il mancato pagamento della nuova tassa ma non ha ridotto la tassa stessa.
Basterà questa piccola concessione a fermare la protesta? Se non dovesse bastare, la polizia stradale sembra avere praticamente chiuso la zona di Mosca agli autocarri. Durante il fine settimana, 15 camion si sono accampati in un parcheggio Ikea a circa 10 chilometri a nord di Mosca.
Altri si sono temporaneamente stabiliti a circa 70 chilometri più a sud. La polizia impedisce agli altri colleghi di unirsi a loro ed essi stessi non possono muoversi: se escono dal parcheggio per comprare da mangiare o mettere benzina non li fanno rientrare. I moscoviti gli hanno portato cibo e nafta per poter tenere accesi i motori e scaldarsi.
Con la tangenziale chiusa per loro, i camionisti potrebbero ancora bloccare Mosca. Hanno i numeri per farlo.
Ma potrebbero essere privi dell’organizzazione e della fiducia necessarie per realizzare una protesta così complessa.
Anche se superassero questi ostacoli, i media di Stato continueranno ad ignorarli, permettendo a Putin di continuare a ignorarli anche lui.
E se la televisione non la trasmette, la protesta non sarà una rivoluzione.
Masha Gessen
(da “The New York Times“)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
QUANDO LA NORMALITA’ DIVENTA UNA NOTIZIA
Un ricchissimo regalo di Natale anticipato, molti sarebbero caduti in tentazione, come racconta il
Corriere Adriatico.
Ma Luigi Tidei, che vive a Comunanza, autista, sposato e padre di tre figli, ha resistito e ha riconsegnato il tutto al legittimo proprietario.
“43 mila euro non cambiano la vita – racconta l’uomo – ma una bella azione sì. E alla resa dei conti le uniche cose importanti sono queste”.
È accaduto tutto nel parcheggio del Cuore Adriatico, nel tardo pomeriggio dell’altro ieri.
Un commerciante residente in città si era recato al centro commerciale per fare acquisti. Con sè aveva quella grossa somma di denaro, che doveva essere trasferita in una cassaforte.
Aveva lasciato l’auto in sosta ed era entrato. Una volta dentro, però, si è accorto di non avere con sè il marsupio: dentro c’erano il grosso portafoglio (del tipo di quelli solitamente usati dai benzinai), il cellulare e la carta d’identità .
Tidei stava camminando nel parcheggio, quando sotto una macchina nota un grosso portafoglio. Lo apre e dentro ci trova numerose banconote da 500 euro.
“Mi tremavano le gambe”. Senza pensarci due volte ha cercato in mezzo a tutti quei soldi qualche elemento per risalire al proprietario e si è presentato a casa sua. “Quando ho visto Tidei e ho capito cosa aveva fatto, gli ho offerto una ricompensa. Non ha voluto niente”, dice l’uomo che aveva smarrito il borsello.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA FINANZA IN SEDE A CIVITAVECCHIA PER INDAGARE SUL SUICIDIO DEL PENSIONATO
Non si badava a spese a Banca Etruria.
Stipendi, rimborsi, compensi ai consulenti, prestiti ai clienti a rischio. Anche quando era chiaro che si andava verso il dissesto dell’istituto di credito, un gruppo di manager ha sbancato Banca Etruria.
Elementi che emergono dalle ispezioni di Banca d’Italia e che stridono con quanto accaduto nelle ultime settimane: le proteste dei risparmiatori truffati per effetto del decreto salva-banche e il suicidio di Luigino D’Angelo, il pensionato che si è tolto la vita dopo aver perso tutto il suo capitale.
Il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza sta effettuando una perquisizione nella sede di Civitavecchia di Banca Etruria proprio nell’ambito dell’inchiesta sulla morte del pensionato.
La Repubblica torna a scrivere sulla presenza di una struttura di comando parallela al Cda che teneva le redini della banca.
Si chiamava “Commissione consiliare informale” – e ne facevano parte, tra gli altri, il presidente Lorenzo Rosi e il vice presidente Pier Luigi Boschi, padre del ministro delle Riforme – come emerge dalla terza ispezione di Bankitalia, svolta fra novembre 2014 e febbraio 2015.
“Banca Etruria è stata governata nell’ombra. Negli ultimi 4 anni, le mani di pochi hanno mosso le leve del comando, con la complicità colpevole di tutto il Consiglio di amministrazione”.
Il quotidiano del Gruppo Espresso cita la seconda ispezione di Banca d’Italia, svolta fra marzo e settembre 2013, alla base delle inchieste giudiziarie della Procura di Arezzo
“Le carte finora rimaste inedite della seconda ispezione di Bankitalia […] raccontano di riunioni durante le quali apparivano davanti agli occhi dei consiglieri documenti mai visti prima e che era proibito stampare. Di audit interni il cui esito mutava da negativo a parzialmente adeguato, senza motivo. Della gestione disastrosa della sicurezza informatica, tanto da mettere a rischio la privacy dei clienti. Di modelli di distribuzione del credito a maglie larghe, con esposizioni elevate su clienti pluriaffidati”.
Il Corriere della Sera dà notizia delle spese pazze del management di Banca Etruria.
“All’ex presidente Giuseppe Fornasari hanno pagato gli avvocati, nonostante il reato di cui era accusato fosse legato al dissesto dell’istituto. Ai manager che lasciavano l’incarico, hanno assegnato buonuscite da oltre un milione di euro.
C’è anche un caso legato al mancato taglio agli stipendi dei manager.
“Il 22 maggio 2014, diciotto giorni dopo la nomina, il consiglio di amministrazione approva una delibera che prevede una riduzione degli emolumenti pari al 32,5 per cento per il presidente Lorenzo Rosi e del 20 per cento per i due vicepresidenti Alfredo Berni e Pier Luigi Boschi. Analizzando il bilancio dell’istituto, si scopre che tutti e tre prendono 180 mila euro, anche se la somma delle “voci” poi è diversa, ma è comunque su questa cifra che dovrebbe essere applicata la riduzione. Invece non accade nulla e anche questa è adesso materia di contestazione.
Secondo gli ispettori, questo dimostra infatti che non è stato rispettato “il dichiarato intento di voler rappresentare un punto di discontinuità nella vita aziendale».
Del resto agli stessi vertici viene anche addebitata “l’assenza di interventi idonei a ristabilire l’equilibrio reddituale del gruppo” e infatti “le misure potenzialmente idonee ad agevolare un riequilibrio economico – riduzione forza lavoro e di 410 unità e rimodulazione della presenza territoriale – sono state deliberate tardivamente, solo il 22 dicembre 2014 e il 9 gennaio 2015”.
Intanto “nel periodo 2013/2014 sono stati corrisposti compensi per 335 mila euro a dipendenti in quiescenza a fronte delle collaborazioni prestate”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LE MANOVRE DEI QUATTRO ISTITUTI FALLITI SOTTO GLI OCCHI DI BANKITALIA E CONTROLLORI
Può un titolo subordinato di Banca Etruria essere meno rischioso di un Btp emesso dallo Stato
italiano? No, ovviamente.
Eppure è successo anche questo e a pagarne il prezzo sono, adesso, alcune migliaia di risparmiatori che quei titoli li avevano comprati.
Particolare ancor più interessante è che tutto questo è avvenuto letteralmente sotto gli occhi — e forse qualcosa di più — dei vigilanti, Consob e Bankitalia.
A raccontare meglio di qualunque analisi in che misura la storia delle quattro banche è una storia di risparmio tradito è un documento che da qualche giorno sta girando tra i palazzi romani.
Lo ha redatto Bankitalia e contiene, in due pagine fitte di numeri, le caratteristiche di ciascuna delle 29 emissioni di bond subordinati di Carife, Banca Marche, Popolare dell’Etruria e CariChieti.
Con la loro diffusione tra le famiglie e soprattutto con il confronto tra i loro rendimenti, quelli dei prodotti analoghi delle migliori banche e quelli del Btp, che comunque nonostante tutto resta l’investimento più sicuro.
Dalla lettura di queste due pagine emerge un dato inconfutabile: i titoli fatti per essere piazzati a risparmiatori e famiglie avevano rendimenti non comparabili con il rischio, mentre quelli venduti agli investitori istituzionali avevano rendimenti molto più elevati e, questi sì, allineati con i rischi legati all’investimento in un titolo subordinato di una piccola banca in difficoltà .
Qualche esempio: il 28 giugno del 2013 Banca Etruria emette un bond subordinato Lower Tier 2 (ovvero il grado di rischio più elevato), per 60 milioni di euro, a tasso fisso, durata cinque anni, con un rendimento del 3,5%.
Un Btp di pari durata rendeva, alla fine di giugno del 2013, il 3,54%. Addirittura, la media dei rendimenti dei subordinati emessi dalle migliori tre banche italiane a metà 2013 è dell’8,18%. Ovvero il 4,68% in più di Banca Etruria.
Per capirsi, è come se prestare soldi a Banca Etruria fosse considerato, sempre a metà del 2013, non solo molto meno rischioso rispetto al prestarli a Intesa Sanpaolo.
Ma anche un filino meno rischioso rispetto al prestarli allo Stato. Ebbene, il 97,2% di questo titolo è in mano, rileva Bankitalia nel documento datato 11 dicembre, alle famiglie.
In quei giorni, mentre Etruria emette il subordinato, sull’istituto è in corso una ispezione di Bankitalia che, terminata nel settembre successivo, porterà ad una serie di pesanti sanzioni ai consiglieri allora in carica e all’apertura della prima inchiesta della procura di Arezzo, che contesta il reato di ostacolo alla vigilanza a carico dell’ex presidente Giuseppe Fornasari e dell’ex dg Luca Bronchi.
Secondo gli investigatori che su mandato della procura di Arezzo stanno ricostruendo quanto accaduto dentro la banca fino al commissariamento, il bond di giugno rientrava in una operazione di rafforzamento patrimoniale che comprendeva anche un aumento di capitale da 100 milioni di euro. Operazione realizzata «su input di Banca d’Italia».
Peraltro neanche la Consob — alla quale spetta la tutela del mercato anche per l’emissione di questo tipo di strumenti -, rilevano ancora gli investigatori, ha mosso rilievi su questa come su altre emissioni.
Altro esempio, opposto.
La stessa Etruria emette il 3 luglio 2014, un anno dopo, un subordinato Tier 2 (meno rischioso del precedente). Rendimento 7%, quando il Btp rende l’1,61% e i subordinati delle tre migliori banche rendono appena il 2,63%.
Un bel guadagno, al quale corrisponde evidentemente la percezione di un bel rischio. Percentuale di questo titolo finita ai risparmiatori: 0,0%.
Sempre a giugno 2013 emette subordinati anche Banca Marche. È da tempo in difficoltà e il mercato lo sa bene. Il suo titolo a 10 anni paga un rendimento del 12,5% contro il 4,52% del Btp di pari durata. Percentuale finita alle famiglie: 0,0%.
Sei mesi prima, un suo subordinato quasi totalmente ai piccoli risparmiatori aveva un rendimento del 6%. Molto più del Btp, in questo caso.
Ma molto meno dei titoli analoghi delle banche migliori.
Casi analoghi si trovano anche nelle emissioni di Chieti e Ferrara. Ma a questo punto, capire se tutto ha funzionato nel sistema di controlli e tutele del risparmio, diventa affare delle procure.
Gianluca Paolucci
(da “La Stampa”)
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Dicembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
“MI SENTO VICINA A RENZI MA NON ADERISCO AI DEM”
Sandro Bondi e la compagna Manuela Repetti lasciano il gruppo misto e aderiscono al gruppo Ala di Verdini, con loro, direttamente da Forza Italia, un altro senatore, Enrico Piccinelli.
Sono solo i primi tre nomi del nuovo esodo che avrà il suo clou a gennaio.
In rampa di lancio tra i berlusconiani i senatori Franco Cardiello, Sante Zuffada, Riccardo Villari. Altri seguiranno.
Senatrice Repetti, lei e il senatore Bondi da tempo sostenete le scelte del governo. Oggi aderite ad Ala. Perchè? E’ l’ingresso ufficiale in maggioranza?
«La verità è che io e il mio compagno siamo usciti da Forza Italia quando Ala ancora non esisteva, eravamo al gruppo misto. Nella sostanza le motivazioni dell’uscita da Fi degli amici di Ala sono le stesse nostre. Ci accomuna l’aver creduto e aderito ad un progetto liberale, laico e riformista che oggi per essere portato avanti non vede alternativa all’appoggio al governo Renzi e alle sue riforme. Pur non trattandosi di un ingresso formale in maggioranza».
Perchè a questo punto non aderire proprio al Pd?
«Innanzitutto tengo a precisare che il mio compagno Sandro Bondi ritiene definitivamente conclusa la sua esperienza politica. Quanto a me, la mia scelta è anche di profondo rispetto dei dirigenti, militanti ed elettori del Pd. Partito cambiato con l’arrivo di Matteo Renzi e al quale oggi mi sento molto vicina, ma che tuttavia sta ancora vivendo un lungo travagliato cambiamento. Per cui, sia per me che per il Pd, ritengo sarebbe stata inopportuna una mia adesione».
Cosa vi ha convinto del progetto politico di Verdini? Fino a qualche tempo fa lei sembrava più vicina all’Ncd di Alfano.
«Ricordo che Denis Verdini è stato, se non il protagonista, sicuramente uno dei principali artefici del Patto del Nazareno che prevedeva un sostegno da parte di Fi al governo Renzi sulle riforme. Scelta lungimirante. È stata una grande delusione, oltre che un errore politico, il cambio di posizione di Fi. Dunque non c’è stato bisogno di alcun convincimento. Per quel che riguarda Alfano, persona e ministro che stimo, dico che questa legislatura costituente la si deve proprio alle sue scelte coraggiose. Ma alcune questioni, a cominciare da quelle di natura etica, unioni civili e fine vita, mi separano da Ncd».
D’accordo, ma che ne sarà di Ala nel 2018? Pensate di confluire nel listone Pd o cosa? L’Italicum non lascia molti margini.
«Ala può svolgere un ruolo politico molto più importante della sua attuale consistenza numerica, che peraltro sta aumentando costantemente. Credo ci sia uno spazio affinchè forze come Ala, Ncd, Fare di Tosi, e magari anche Fitto, creino un movimento alleato con il Pd di Renzi. La forma di questo progetto è l’ultimo problema».
Siete fuori da Fi da tempo, come valuta il processo di dissoluzione? E la progressiva supremazia della leadership di Salvini?
«Purtroppo Fi è divenuto un partito ininfluente e, con la scelta di allearsi con Salvini, ha perso ogni capacità di presentarsi come un’opposizione seria e credibile. E la destra nazionalista di Salvini ingloberà sempre di più ciò che resterà di Fi».
In cosa ha sbagliato Berlusconi?
«Devo essere sincera? Non riesco a dare una spiegazione razionale alle ultime scelte di Berlusconi».
Altri senatori forzisti sembra che seguiranno il vostro percorso. Cosa resterà attorno a Berlusconi, oltre al suo cerchio magico?
«C’è un grande malessere e un diffuso disagio tra le file di Fi. Credo dunque che le voci di altre uscite siano assolutamente fondate. Per il resto, ho paura che di Fi resterà solo una speranza tradita».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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