Destra di Popolo.net

IL VERO CANDIDATO DELLA DESTRA A ROMA? VIRGINIA RAGGI

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

SI PREPARA L’INCIUCIO, “IL TEMPO” LA SPONSORIZZA: “NESSUNO TOCCHI VIRGINIA , LA FAMIGLIA E’ STORICAMENTE DI DESTRA”… LA SANTANCHE’: “VOTEREI PER LEI”… CASALEGGIO LE FA DIRE QUALCOSA CONTRO I ROM E IL GIOCO E’ FATTO: IL POPOLO DISPERSO DELLA DESTRA ABBOCCA

“Niente fango su Virginia” è il titolo dell’editoriale di prima pagina di giovedì 25 febbraio. L’attacco, come il titolo, è vibrante-indignato: “Nessuno tocchi Virginia Raggi. La brava e bella candidata di Beppe Grillo per il Campidoglio è oggetto di una violentissima aggressione politico-mediatica”.
No, non state leggendo il Fatto, notoriamente vicino al partito di Casaleggio, e neppure una qualche versione cartacea del Sacro Blog.
Lo sdegnato editoriale è apparso sul Tempo, il quotidiano storico della destra romana, ed è firmato dal direttore Gian Marco Chiocci.
Il “fango” di cui parla il Tempo è un fatto, noto negli ambienti cinquestelle romani, ma curiosamente omesso dal curriculum ufficiale della candidata: Virginia Raggi dopo la laurea in giurisprudenza ha svolto la pratica legale presso lo studio Previti, dal 2003 al 2006.
Dopodichè è passata a lavorare nello studio di Pieremilio Sammarco, fratello del difensore di Previti, Dell’Utri e Berlusconi, nonchè figlio del giudice che annullò il lodo Mondadori consegnando al Cavaliere le chiavi di Segrate.
Certo, aver lavorato per Previti è una medaglia agli occhi della redazione e dei lettori del Tempo, ma è sufficiente a suscitare tanto affetto, tanto trasporto?
Per fugare ogni dubbio, è sufficiente prendere in mano una copia del Tempo di lunedì 29 febbraio.
La prima pagina è pressochè interamente occupata da una foto della “brava e bella” Virginia, con un titolo a caratteri cubitali che lascia poco spazio alla fantasia: “Così cambierò la mia Roma”.
A nessun candidato del centrodestra — e sì che sono tanti, fra reali e virtuali — è finora stato offerto un palcoscenico così prestigioso e simpatizzante.
Con meritata soddisfazione, l’indomani il direttore Chiocci può così scrivere nel suo editoriale che “a destra c’è chi sta pensando di votare quella ragazza lì, la Raggi, la grillina acqua e sapone, avvocato di bella presenza, che dopo l’intervista al Tempo ogni talk politico ora vuole in studio per alzare finalmente lo share”.
Se non è un endorsement esplicito, ci manca davvero poco.
E sorge il dubbio che non si tratti soltanto di un caso o di una felice coincidenza. Guido Bertolaso è un candidato debole, per molti addirittura impopolare, imposto da Berlusconi ma sgradito a quasi tutte le anime della destra romana.
Mentre la Raggi, scelta mesi fa da Casaleggio spaccando a metà  il M5s romano, appare come il possibile cavallo vincente per sbarrare al centrosinistra il ritorno in Campidoglio.
Lei, del resto, sembra perfetta per raccogliere i voti della destra.
Mentre il povero Bertolaso si è lasciato sfuggire che “i rom sono una categoria che è stata vessata e penalizzata”, la “brava e bella” Virginia ha detto senza mezzi termini che “non è accettabile che continuiamo a spendere 24 milioni l’anno per mantenere persone che possono lavorare”, e dunque “il superamento dei campi rom non è più rinviabile” — anche se poi, su questo come su ogni altro punto del programma, si è guardata bene dallo spiegare come, quando e con quali mezzi.
Se Paolo Liguori l’ha incensata per una puntata intera di Fatti e misfatti con l’aiuto dell’immancabile Chiocci — e certe cose non accadono mai per caso, soprattutto a Mediaset — sul fronte opposto, quello filogrillino del Fatto, l’imbarazzo è palpabile.
Il non-organo del non- partito finora della Raggi non si è mai occupato: nè un commento, nè un’intervista, neppure un accenno al programma, niente.
Una firma autorevole del giornale di Travaglio, Marco Lillo, ha preferito (o ha dovuto) scrivere sul suo blog online, anzichè sul quotidiano di carta, una dura requisitoria contro la candidata di Casaleggio: “Il punto è che Virginia Raggi, una 25enne che doveva farsi strada nell’Italia del berlusconismo imperante, una donna giovane ma non incapace di capire dove vive e come vanno le cose del mondo, in quel momento storico sceglie di accettare la proposta di fare pratica allo studio Previti. Erano gli anni in cui Berlusconi e i suoi attaccavano i giudici, inventavano il lodo Schifani, la legge Cirielli e altre schifezze simili. I giovani della sua età  il giorno della condanna del 2003 contro Previti, come racconta l’Ansa, erano lì a suonare il clacson sotto le finestre dello studio del simbolo vivente dell’ingiustizia e dell’arroganza del potere. Lei invece in quello stesso studio andava a prendere gli ordini per fare i giri di cancelleria”.
Ieri il Fatto ha riportato una battuta sfuggita a Daniela Santanchè (“A Roma voterei la grillina Raggi”) nonchè la “convinzione comune, a detta dello stesso Previti, che ‘la famiglia Raggi sia storicamente di destra’, per non dire fascista”, ma curiosamente nè nel titolo nè nell’occhiello nè nel sommario del pezzo si cita la candidata del M5s.
La spregiudicatezza di Casaleggio è nota: offrire ad una destra lacerata e senza leadership riconosciute una ragazza “di bella presenza” cresciuta nella galassia Previti, infischiandosene degli effetti collaterali, è una mossa di indubbia abilità .
Qualcosa del genere sta accadendo a Torino (dove la candidata cinquestelle, Chiara Appendino, è una rassicurante bocconiana figlia, secondo l’Espresso, del “mondo della buona borghesia imprenditoriale torinese”).
Insomma, dal punto di vista del M5s la posta in gioco è chiara: per vincere, o almeno per competere con il Pd, bisogna rastrellare i voti della destra.
E la destra sta allegramente al gioco (qualcuno avrà  i suoi interessi).

Fabrizio Rondolino

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CHE COMICHE… BERLUSCONI: “HO CONVINTO SALVINI, VA BENE BERTOLASO”. SALVINI: “NON E’ VERO, NON MI STA BENE”

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

SIAMO AL BURLESQUE: IL 20 MARZO GAZEBO DI FORZA ITALIA E FDI… PER LA LEGA SONO PRIMARIE, MA PER SILVIO SOLO “PUNTI DI ASCOLTO SUI PROBLEMI DELLA CAPITALE DA SEGNALARE A BERTOLASO”

Il centrodestra continua a non trovare una soluzione per il candidato alla poltrona di sindaco di Roma. Ormai è guerra totale. E Silvio Berlusconi e Matteo Salvini sono i principali contendenti. L’ultima puntata oggi.
Da domenica scorsa, giorno delle “primarie” promosse dalla Lega, il leader del Carroccio chiede a gran voce che il nome del papabile venga scelto con le primarie.
Il Cavaliere ha sempre rifiutato l’ipotesi e stasera, a sospresa, ha rilanciato: “Il 19 e il 20 marzo lanceremo una campagna in sostegno della candidatura di Guido Bertolaso a sindaco di Roma. Allestiremo dei gazebo e chiederemo quali sono le cose che più preoccupano i romani e i piccoli interventi da fare nei primi cento giorni della giunta. Ad esempio, interventi immediati sui giardini, perchè io soffro nel vedere l’incuria assoluta e totale per il verde. Cominceremo così una grande campagna elettorale. Ci metteremo subito al lavoro per ridare a Roma la bellezza, l’ordine e la dignità  che si merita”.
Insomma non delle “primarie”, ma una semplice campagna di ascolto dei cittadini. Cosa ne pensa Salvini? Berlusconi non ha dubbi: “Con Matteo siamo d’accordo sulla candidatura di Bertolaso. L’ho sentito stamattina, va bene così. Tutto a posto, Guido è un candidato a vincere non a perdere”.
Bene, quindi è tutto sotto controllo. Neanche per sogno.
A stretto giro di posta arriva infatti la replica di Salvini: “Matteo Salvini e Noi con Salvini non hanno alcun candidato fino a quando non si esprimeranno i romani ai gazebo del 19 e del 20 marzo. Se sceglieranno   Bertolaso bene, se no seguiremo altre vie. Bertolaso non è il mio candidato, a meno che non me lo impongano i cittadini ai gazebo”.
Parole che non fanno che aumentare la confusione.
L’impressione, infatti, è che il leader del Carroccio consideri quelli del 19-20 marzo delle “primarie del centrodestra”, ma il Cavaliere ha evidentemente nella testa altri pensieri.
La farsa continua.

(da “il Tempo” e agenzie)

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EXPO, IL BUCO E’ DI 237,2 MILIONI

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

TUTTE LE BUGIE DEL CANDIDATO SINDACO DI MILANO

Giuseppe Sala sui conti Expo ha mentito due volte.
La prima quando ha dichiarato che il bilancio 2015 non sarebbe stato in rosso (il 23 dicembre 2015 in una videointervista al fattoquotidiano.it e poi il 20 gennaio 2016 al confronto con gli altri candidati delle primarie al teatro Dal Verme).
La seconda quando ha dichiarato solennemente che l’operazione si concludeva con il patrimonio netto positivo (il 25 gennaio davanti alle commissioni Expo e Partecipate di Palazzo Marino).
Ora i dati — non ancora definitivi, ma ufficiali — allegati al verbale dell’assemblea dei soci di Expo spa del 9 febbraio 2016 provano la doppia bugia del commissario Expo, candidato sindaco del centrosinistra. Il bilancio 2015 risulta infatti in rosso per 32,6 milioni.
E il patrimonio netto risulterà , a fine attività , negativo per almeno 44,1 milioni.
Intendiamoci: Sala avrebbe potuto dire che un’operazione come Expo non si giudica dai conti, perchè aveva obiettivi d’immagine (rilanciare nel mondo Milano e l’Italia) e di volano per uno sviluppo economico a più lungo termine (per misurarlo, sono al lavoro gli economisti della Bocconi).
In fondo, le cifre di Expo sono semplici: sono stati conferiti, negli anni, soldi pubblici per 1 miliardo e 241 milioni di euro.
Gli incassi (da biglietti, sponsorizzazioni, royalties) sono stati poche centinaia di milioni. Alla fine, tutto il tesoretto di Expo sarà  bruciato, anzi non basterà . Questa è la cruda verità .
Le dichiarazioni di Sala si sono invece sempre mosse in un’alea di ambiguità , nel tentativo di non farsi poi smentire dai fatti. Ma i fatti alla fine arrivano a chiudere i conti. Eccoli.
1. Il bilancio 2015.
Il budget approvato il 19 marzo 2015 prevedeva “un utile d’esercizio significativo, derivante da ricavi stimati di vendita dei biglietti per il semestre espositivo che è atteso tale da consentire la copertura delle perdite di gestione dei precedenti esercizi”. Obiettivo fallito.
I visitatori sono stati molti meno del previsto, probabilmente circa 18 milioni, invece dei 24 o 20 ipotizzati.
Ma i dati veri non sono rivelati da Sala, che si trincera dietro il dato dei biglietti venduti: 21,4 milioni, che sono però restati in parte nei cassetti dei distributori.
Per cercare di aumentare i visitatori è stato abbassato il prezzo medio di vendita (17,4 euro). Una parte dei ricavi da biglietti (ben 19,9 milioni di euro) non è ancora stata incassata e forse non lo sarà  mai.
Ancora da incassare anche 51,4 milioni da sponsorizzazioni. Sono 71,3 milioni a rischio che, tolti i 20 milioni accantonati come fondo rischi, potrebbero portare il rosso di bilancio previsto nel documento dell’assemblea soci (32,6 milioni) a quota 84 milioni.
A questi vanno aggiunti i soldi che Arexpo, la società  che detiene i terreni, deve dare a Expo spa (153,3 milioni: 86,8 per l’infrastrutturazione dell’area, acquisto aree minori e bonifiche su cui c’è accordo; e 66,5 milioni per le bonifiche contestate), ma che non le darà  perchè, ormai diventata “sviluppatore immobiliare” del dopo Expo, ingloberà  Expo spa e dunque non pagherà .
Il rosso sale così a 237,2 milioni.
E in questo risultato c’è l’aiutino concesso dal governo Renzi in extremis, a dicembre 2015: 20 milioni per un nebuloso “aumento oneri di sicurezza” senza il quale il rosso sarebbe stato addirittura di 257 milioni.
2. Il patrimonio netto.
È positivo, giura Sala, per 14,2 milioni. Peccato che l’operazione Expo non si chiuda a dicembre 2015, come fa finta di credere il commissario-candidato: nel suo oggetto sociale — come dice chiaramente il collegio sindacale — è compreso anche lo smantellamento dei padiglioni, fino a giugno 2016, quando il sito sarà  consegnato ad Arexpo.
Il budget di spesa previsto per i sei mesi del 2016 è di 58,3 milioni: il patrimonio positivo di 14,2 milioni diventerà  dunque a giugno negativo per 44,1 milioni.
È la seconda bugia di Sala. Del resto, che le cose si mettano male è segnalato dallo stesso verbale dell’assemblea soci: a fine giugno 2016 la società , che dovrà  provvedere alla liquidazione del personale, avrà  un buco di cassa di 88,4 milioni.
Poi c’è l’incognita degli extracosti, i compensi in più pretesi dai costruttori, su cui sono ancora aperti contenziosi. Expo, insomma, si chiuderà  a giugno con un buco di almeno 44,1 milioni, altro che patrimonio netto positivo.
Ma Sala si è ormai messo al sicuro come candidato sindaco del centrosinistra, che lo dovrà  difendere a ogni costo.
Nel gioco delle tre carte tra Expo e Arexpo, diranno che i soldi pubblici che dovranno ancora essere buttati nell’impresa non sono da considerare pagamenti dei debiti di Expo, ma anticipi per il meraviglioso futuro del piano Arexpo (peraltro ancora sconosciuto). Chi vorrà , potrà  crederci.
3. Trasparenza zero.
C’è stata una vischiosa resistenza a rendere pubblici anche i dati già  disponibili, in una mancanza di trasparenza ancor più preoccupante in chi si candida a diventare sindaco. Dunque:
1. L’assemblea dei soci di Expo spa era stata convocata per il 29 gennaio, ma è stata poi tenuta aperta fino al 9 febbraio: guarda caso dopo le primarie (6 e 7 febbraio).
2. Il verbale è stato consegnato ai consiglieri comunali solo il 26 febbraio, su espressa richiesta del presidente del Consiglio comunale Basilio Rizzo, dopo le anticipazioni pubblicate dal Fatto Quotidiano.
3. Al verbale sono allegate 32 pagine di grafici e cifre, che sono datate 21 dicembre 2015: perchè sono state tenute nascoste e non sono state consegnate prima ai consiglieri, almeno in preparazione della riunione delle commissioni Expo e Partecipate di Palazzo Marino del 25 gennaio?
Negli Stati Uniti e negli altri Paesi democratici, di norma chi mente ai cittadini deve rinunciare alla carica.
Da noi Giuseppe Sala continua la sua corsa verso Palazzo Marino, nel silenzio assordante di gran parte della stampa.

Gianni Barbacetto
(da “il Fatto Quotidiano”)

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L’ISTAT ORA AMMETTE IL TAROCCO: “IL PIL E’ SALITO DELLO 0,6%, NON DELLO 0,8%, ABBIAMO ARROTONDATO”

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

INCREDIBILE FALSO DI UN ENTE DI STATO PER ASSECONDARE IL GOVERNO

Dopo quattro giorni di polemiche via Twitter con alcuni economisti “gufi”, l’Istat ammette: nel 2015 il pil corretto per gli effetti di calendario, cioè tenendo conto che i giorni lavorativi sono stati tre in più rispetto al 2014, è aumentato dello 0,6%.
Il dato destagionalizzato, peraltro identico a quello preliminare diffuso il 12 febbraio, è nero su bianco nel comunicato sui conti economici trimestrali diffuso venerdì, che conferma il “progressivo indebolimento” della crescita congiunturale: nel primo trimestre dello scorso anno il prodotto è cresciuto dello 0,4%, nel secondo dello 0,3%, nel terzo dello 0,2%, nel quarto solo dello 0,1%. Lo 0,8% comunicato martedì, che è il numero rivendicato fin dallo scorso dicembre dal premier Matteo Renzi (il governo nell’aggiornamento del Def aveva invece previsto un +0,9%), è invece un dato grezzo, non depurato per i giorni lavorati.istat
“Per arrivare a quel +0,8%”, dice a ilfattoquotidiano.it il gestore e consulente finanziario Mario Seminerio, “è stato fatto un gioco delle tre carte, facendo leva sul fatto che lo scorso anno ha avuto tre giornate lavorative in più rispetto al 2014.
In più bisogna tener conto che per poter comunicare un “+0,8%” basta arrivare a 0,751, visto che l’arrotondamento viene fatto alla terza cifra decimale”.
In effetti l’Istat ha fatto sapere che lo scostamento tra il dato grezzo e quello destagionalizzato è pari a 0,12 punti percentuali: “+0,759% contro 0,642%”.
Ma, a parte gli zero virgola, quel che davvero conta è la composizione del nostro prodotto, sottolinea il titolare del blog Phastidio.net: “Per lo 0,5% si tratta di un aumento delle scorte. Ed è verosimile che sia legato soprattutto alla ripresa delle attività  di Fiat in Italia. Ci sono analisti che stimano che la sola casa automobilistica abbia generato fino allo 0,3% della crescita. Ora però c’è un evidente rallentamento dell’economia globale, che si tradurrà  in un calo dell’export. Con inevitabili conseguenze sulla Penisola”. Dove nel frattempo “gli investimenti restano stagnanti”.
D’accordo l’economista Francesco Daveri, che fa notare: “Via Twitter mi hanno bacchettato, ma i numeri erano strani e andavano spiegati. Ora leggiamo che il risultato è quello che continuavo a ottenere io analizzando le cifre trimestrali diffuse dalla stessa Istat: +0,6%. Comunque il vero dato è che la crescita si sta fermando: vendite e produzione industriale ristagnano. I consumi non ripartono perchè le tasse sono scese troppo poco e le famiglie non percepiscono un aumento consistente del reddito disponibile. In questo quadro, raggiungere nel 2016 il +1,6% previsto dall’esecutivo mi sembra davvero difficile. Il governo dovrà  adeguare le sue previsioni sulle entrate fiscali al nuovo scenario o fare qualcosa in più per rilanciare la crescita. Servono investimenti veri, non incrementi delle scorte”.
Quanto all’impatto degli stabilimenti Fiat Chrysler, “è stato forte sul fronte dell’accumulazione di scorte nel primo trimestre 2015, ma poi c’è stato un rallentamento”.
Negli ultimi giorni il docente di Politica economica aveva fatto notare come sul ritocco al rialzo comunicato martedì possa aver influito anche la contestuale “revisione straordinaria delle serie storiche”, in seguito alla quale il prodotto interno lordo del 2014 è stato ridotto di 2 miliardi rispetto a quello reso noto a settembre 2015.
Partendo da un livello più basso, il progresso risulta maggiore, era il ragionamento. Istat ha smentito con diversi comunicati pubblicati su Twitter. In quello postato sul social network giovedì si legge che “la dinamica meno negativa del Pil misurata per il 2014 potrebbe avere qualche effetto di trascinamento sul 2015, ma data la sua dimensione minima, l’Istat può già  affermare che l’impatto sarà  infinitesimale”.
Dalle serie storiche pubblicate venerdì emerge poi una ulteriore revisione, stavolta al ribasso: il Pil 2014 a prezzi di mercato in valori concatenati, corretto per gli effetti del calendario, risulta pari a 1.536,5 miliardi contro i 1.535,5 delle serie diffuse martedì.
Sempre venerdì l’Istat ha ribadito che “i dati trimestrali pubblicati oggi sono perfettamente coerenti con quelli annuali di martedì scorso poichè incorporano la stessa variazione annua sul dato grezzo seppure aggiungendo ulteriori informazioni”. Inoltre l’istituto ricorda: “Che la differenza di numero di giorni lavorativi tra 2014 e 2015 avesse approssimativamente un impatto di poco più di 0,1 punti percentuali era stato già  precisato con una nota il 5 dicembre 2015″.

Chiara Brusini
(da “il Fatto Quotidiano”)

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A ROMA I CINESI NON SANNO PER CHI VOTARE

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

PRIMARIE ROMA, ASSOCINA: “NON ABBIAMO RICEVUTO RISPOSTE COMPLETE DAI CANDIDATI”

Alle primarie del centrosinistra i cinesi di Roma non sanno chi votare.
Lo riferisce all’agenzia di stampa Agi Marco Wong, presidente onorario di Associna che, con altre associazioni cinesi, ha promosso nei giorni scorsi la campagna Jasmine Roots (Radici di Gelsomino) per orientare gli elettori sino-cinesi al voto di domenica. Un’idea nata per evitare le strumentalizzazioni politiche viste alle primarie di Milano, quando il voto dei cinesi per Sala sollevò polemiche.
“La nostra analisi dei candidati ha prodotto conclusioni monche. Non siamo riusciti a incontrarli direttamente tutti e abbiamo ottenuto risposte incomplete alla lista delle 10 domande e 10 proposte che abbiamo sottoposto loro” spiega Marco Wong.
“Gli elettori cinesi non potranno esprimere, quindi, un appoggio pieno e pubblico a nessuno dei candidati. Abbiamo tradotto in cinese il materiale elettorale, stiamo cercando di portare un po’ di gente al voto”.
Elettori meno motivati e possibile scarsa affluenza al voto, quindi. Sala a Milano aveva incontrato alcuni rappresentanti della comunità  cinese e li avevi convinti, generando quel ‘voto di massa’ che aveva fatto inarcare più di un sopracciglio.
A Roma è invece probabile che nonostante il lavoro del comitato, l’affluenza al voto sia inferiore alle aspettative, aggiunge Marco Wong.
Oltretutto, a complicare la partecipazione elettorale è sopraggiunto anche il ‘doppio passaggio’, ovvero la preregistrazione al voto.
“Purtroppo non siamo riusciti a incontrare direttamente i candidati dati per favoriti in questa competizione elettorale, cioè Roberto Giachetti e Roberto Morassut”: così la circolare emessa ieri da Jasmine Roots.
Alle primarie del Pd romane i cinesi hanno giocato la carta della trasparenza, lanciando una campagna mediatica per rendere chiaro il meccanismo di voto di una comunità  composta da 15mila persone, di cui un migliaio gli elettori effettivi.
Il comitato ha sottoposto una lista di 10 domande e 10 proposte ai candidati, con l’obiettivo di elaborarle e condividerle con la comunità  dei votanti.
Ma a parte Pedica, subito disponibile all’incontro, non con tutti è stato possibile ottenere un confronto diretto. A due giorni dal voto, Jasmine Roots fa sapere di aver incontrato solo due candidati, ovvero Pedica e Gianfranco Mascia; i rappresentanti dei comitati di Giachetti e Morassut; il presidente del Pd Matteo Orfini. “Non siamo riusciti a contattare nè Rossi nè Ferraro”, dicono.
E veniamo all’analisi dei candidati. “Abbiamo sottoposto le nostre domande/proposte ai comitati di Giachetti e Morassut ma, non avendo avuto una risposta in tempo utile, ci siamo basati su posizioni da loro espresse in altri contesti o da persone del loro comitato elettorale che ci hanno comunicato il loro apprezzamento per l’iniziativa, invitandoci comunque a sostenerli ora, ma soprattutto dopo le primarie”.
Nel caso di Pedica, si legge ancora nella nota, “abbiamo registrato le sue opinioni sul commercio, sulle attività  svolte insieme ad altre comunità  di stranieri in Italia e sulla sicurezza”. Ma Pedica non è stato l’unico ad aver accettato di incontrare i cinesi. Un confronto c’è stato anche con Mascia che ha “condiviso tutti i punti del nostro documento aggiungendo l’idea di un centro interculturale”. Infine, nell’incontro con Matteo Orfini, “sono state ricordate le varie attività  svolte dal Partito Democratico, tra cui il Forum Immigrazione”.
Conclusioni “monche”, quindi.
I cinesi non escludono che siano state proprio le polemiche generatesi dopo le primarie milanesi a condizionare la possibilità  di incontrare i candidati dati per favoriti dai sondaggi, “per questo motivo non abbiamo la possibilità  di dare un suggerimento netto a favore di un candidato” continua la nota.
“Abbiamo apprezzato la disponibilità  di Pedica che ci ha incontrati con pochissimo preavviso, la piena aderenza alle nostre proposte di Mascia, l’apertura a proseguire un dialogo dimostrataci dai vari membri dei comitati di Giachetti e Morassut, ma gli elementi che abbiamo a disposizione non sono sufficienti a esprimere un appoggio pieno. Siamo comunque convinti che sia importante partecipare per mostrare la volontà , da parte della comunità  cinese, di essere presente e contare, scegliendo senza nostri suggerimenti il candidato che più rispecchia ogni singolo” conclude la nota.

(da “Huffingtonpost”)

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IL “NUOVO MSI” SI RIPRENDE LA FIAMMA TRICOLORE, LA FONDAZIONE AN PERDE LA CAUSA

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

I GIUDICI DI FIRENZE: “QUELLO NON E’ UN PARTITO”… LA NOTA DI PRECISAZIONE DEL MOVIMENTO SOCIALE – FIAMMA TRICOLORE

La battaglia per lo storico simbolo del ‘Movimento Sociale Italiano’ è giunta alla svolta con la sentenza della Corte d’Appello di Firenze che, dopo un decennio di carte e avvocati, ha attribuito l’uso della Fiamma Tricolore al Nuovo M.S.I. di Maria Antonietta Cannizzaro che ora dichiara guerra a chi la sta usando.
Alleanza Nazionale (associazione e fondazione) vede respinto l’appello avverso.
Con ricorso l’associazione Alleanza Nazionale chiedeva al Tribunale di Firenze di inibire all’associazione ‘Movimento Sociale Italiano — Destra Nazionale — Nuovo Msi’, l’uso della denominazione ‘Movimento Sociale Italiano — Destra Nazionale — Nuovo Msi’ della sigla ‘Msi’ e dell’emblema costituito dalla fiamma tricolore su base trapezoidale, di cui rivendicava la titolarità  esclusiva.
Il giudice designato accoglieva il ricorso nei confronti dell’associazione, mentre lo respingeva nei confronti delle persone fisiche.
L’ordinanza veniva confermata il 4 luglio 2006 in sede di reclamo al collegio.
Con atto di citazione notificato il 17 maggio 2006, An introduceva quindi il giudizio di merito, chiedendo l’accertamento dei propri diritti assoluti sulla denominazione e sul simbolo in oggetto, con pubblicazione a mezzo stampa della emananda sentenza e condanna delle controparti al risarcimento dei danni.
L’associazione ‘NMSI’ si costituiva in giudizio contestando la fondatezza delle avverse domande.
Avverso la decisione i soccombenti interponevano appello, dolendosi in estrema sintesi di quanto che An aveva abbandonato le sue origini, rinunciando di fatto ad ogni continuazione politica con la formazione del Msi.
Al contempo, interveniva volontariamente in giudizio la ‘Fondazione Alleanza Nazionale’ costituita con atto notarile del 18 novembre 2011, proponendosi come successore a titolo particolare.
La similitudine tra i simboli di due aggregazioni politiche non configura necessariamente un’illegittima interferenza, laddove siano introdotti adeguati elementi di distinzione atti a salvaguardare l’identità  personale.
La comparazione tra i segni, infatti, non deve essere analitica, ovvero riferita ad ogni singola componente distintiva, ma sintetica e globale tenuto conto di tutti gli elementi costitutivi.
L’associazione An, nel frattempo posta in liquidazione, si costituiva in giudizio contestando l’ammissibilità  e comunque la fondatezza dell’appello sotto ogni profilo di fatto e di diritto.
Passando al merito, va subito rilevato che il nostro ordinamento non riserva ai segni distintivi politici un’apposita disciplina, se non preoccupandosi della confondibilità  degli emblemi in occasione delle competizioni elettorali, sicchè gli ambiti concettuali della tutela vanno ricavati dai principi generali vigenti in materia di identità  personale. La lacuna del resto non sorprende, in quanto coinvolge l’intero assetto del sistema partitico, non essendo mai stata varata una normativa volta a regolamentare lo status giuridico o il funzionamento dei partiti, che rientrano puramente e semplicemente nel novero delle associazioni non riconosciute.
La tendenza analizzata non innalza la sfera materialistica del commercio a quella ideale della politica, quanto piuttosto abbassa la sfera ideale della politica a quella materialistica del commercio.
Si vuol dire che la protezione tipica del marchio può trovare spazio naturale laddove la politica entri legittimamente nel commercio a fini di autofinanziamento coi gadgets, coi social network o quant’altro, ma non laddove il commercio provi ad entrare in politica, contaminando con ragioni di tutela negoziali simboli che nascono come espressione di pura idealità .
Da questo punto di vista, il diritto all’identità  personale si pone addirittura in antitesi con la logica dello scambio economico perchè mentre il marchio è infatti un valore cedibile, l’identità  personale è incedibile e irrinunciabile, nella misura in cui si lega ad un patrimonio morale unico e caratteristico del soggetto, seppur affiliato ad una corrente ideologica storicamente riconoscibile.
Il ‘NMSI’ non si è messo a vendere prodotti o servizi di An o della Fondazione, protetti da un segno distintivo d’impresa, ma si è limitato similmente a riprendere l’ispirazione politica abbandonata dalle controparti, come storicamente propugnata dal vecchio Movimento Sociale Italiano, così rinsaldando il ponte ideologico smantellato dalla trasformazione politica di An verso la convergenza col Popolo delle Libertà . Anche l’impiego della fiamma tricolore ha seguito lo stesso tragitto giustificativo, trattandosi del simbolo concepito nel dopoguerra, dopo la messa al bando delle insegne fasciste, per ricollegarsi alle tradizioni della destra nazionalistica italiana che aveva un tempo abbracciato quel regime.
Così come la falce e martello simboleggiano la tradizione comunista internazionale, la fiamma tricolore simboleggia un patrimonio ideologico ben radicato nella storia politica italiana, che a ben vedere sovrasta l’occasionale utilizzatore e vive di vita propria, denotando un coacervo omogeneo e storicamente riconoscibile di propensioni politiche.
In definitiva la Corte d’Appello di Firenze definitivamente pronunciando nella causa in oggetto ogni altra domanda, eccezione o deduzione disattesa, in riforma della sentenza n. 1660 emessa il 28 aprile 2008 dal Tribunale di Firenze, respinge tutte le domande proposte dall’Associazione Alleanza Nazionale e dalla Fondazione Alleanza Nazionale e le condanna in solido al pagamento delle spese processuali dei due gradi di giudizio, oltre accessori a favore del Corpo Politico Movimento Sociale Italiano — Destra Nazionale — Nuovo M.S.I.

(da “progettoItalianews”)

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la nota di precisazione del Movimento Sociale – Fiamma Tricolore

Egregio Direttore, leggiamo con disappunto nell’articolo quanto segue:
1. (Titolo di testa): “Il Nuovo MSI si riprende la Fiamma Tricolore, la Fondazione AN   perde la causa”;
2. (Testo dell’articolo): “..ha attribuito l’uso della Fiamma Tricolore al Nuovo M.S.I. di Maria Antonietta Cannizzaro..”;
3. (Spalla all’articolo): Simbolo del “Movimento Sociale Fiamma Tricolore;
Dobbiamo precisare che trattasi di informazioni e pubblicazione del simbolo totalmente errate, a partire dal titolo, per le seguenti motivazioni:
1. La “Fiamma Tricolore” NON è stata ripresa dal Nuovo MSI, in quanto il “Movimento Sociale Fiamma Tricolore”, comunemente conosciuto semplicemente come “Fiamma Tricolore” è partito differente dal Nuovo MSI e dalle altre formazioni politiche rappresentate nell’articolo, con le quali non ha nessuna forma di collaborazione;
2. L’uso della “Fiamma Tricolore”, è attribuito al “Movimento Sociale Fiamma Tricolore” e NON al Nuovo M.S.I.;
3. Il simbolo pubblicato di spalla è di titolarità  esclusiva del “Movimento Sociale Fiamma Tricolore” (http://www.fiammatricolore.com/).

Giuseppe MANOLI
Responsabile Ufficio Stampa
Movimento Sociale Fiamma Tricolore

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MEMORIA CORTA: QUANDO IL M5S PROPOSE UNA LEGGE PER LA MATERNITA’ SURROGATA

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

APPENA ELETTI I SENATORI PRESENTARONO UN DDL E CHIEDEVANO ANCHE IL MATRIMONIO GAY… ORA FANNO FINTA DI NON RICORDARSELO

«Qualcosa nel concetto di utero in affitto mi spaventa, e non ha a che fare con l’omosessualità », scrive Beppe Grillo adesso.
«I supermarket dell’utero in affitto vanno chiusi», obbedisce Luigi Di Maio.
«È una vera e propria mercificazione della donna trattata come un forno e un serbatoio economico», denuncia un’altra esponente del direttorio, Carla Ruocco, in un’intervista data non casualmente alla tv dei vescovi.
Una linea neocattolica dilaga ormai apertamente nel Movimento cinque stelle, dopo la lettera del fondatore al Corriere.
Alt: è sempre lo stesso Movimento che nel 2013 presentò un ddl in Senato per abolire il divieto di maternità  surrogata?
Uno dei primi atti di rilevanza politica dei cinque stelle, appena arrivati in aula, fu presentare una legge che proponeva varie modifiche al codice civile tra le quali – clamoroso davvero – abolire il divieto di maternità  surrogata, anche per le copie omosessuali.
Ciò che oggi viene definito una «mercificazione» e un «supermercato», appena un paio di anni fa era invece così necessario da meritare un’iniziativa legislativa ad hoc. Beata spensieratezza manovriera, beata obbedienza a Casaleggio.
Il disegno di legge fu depositato alla presidenza del Senato il 5 aprile 2013, il testo è intitolato «Modifiche al Codice civile in materia di eguaglianza nell’accesso al matrimonio in favore delle coppie formate da persone dello stesso sesso».
L’elenco dei senatori che lo presentarono è interessante: Orellana, Airola, Battista, Blundo, Lezzi, Montevecchi, Bencini, Bottici, Buccarella, Campanella, Casaletto, Castaldi, Crimi, Donno, Gaetti, Molinari, Mangili, Nugnes e Paglini.
Come si vede, vi compaiono molti senatori poi variamente espulsi o usciti, come Orellana e Campanella, ma – sorpresa – anche moltissimi super-ortodossi, parte tuttora della linea dominante del Movimento, da Vito Crimi a Barbara Lezzi, preferita dell’ex del Grande Fratello Rocco Casalino, a Laura Bottici, inflessibile questore M5S del Senato.
Cosa chiedeva questo ddl voluto dall’assemblea cinque stelle?
«Il presente disegno di legge intende far propria una proposta normativa della Rete Lenford, avvocatura per i diritti Lgbt, fondata per rispondere al bisogno di informazione e di diffusione della cultura e del rispetto dei diritti delle persone omosessuali nel nostro Paese»: il testo era tutto centrato su una riconoscimento della «duttilità  della famiglia», e sulla facilitazione del riconoscimento della «genitorialità  delle coppie omosessuali».
Innanzitutto il Movimento voleva rendere «il matrimonio (attenzione, non la semplice unione civile, nda.) accessibile anche alle coppie formate da persone dello stesso sesso, nel solco di una mutata coscienza sociale e, soprattutto, dei princìpi della Costituzione».
E aggiungeva, al comma 4, alcune modifiche cruciali alla legge 40 sulla procreazione assistita, «per consentire l’accesso ad esse, anche in Italia, da parte delle coppie dello stesso sesso».
Pare incredibile leggerlo oggi dopo le parole odierne (domani chissà ) di Di Maio: «In particolare l’articolo 3, comma 4, dispone l’abrogazione delle parti della legge 40 che dispongono il divieto di accesso alle tecniche di procreazione assistita da parte delle coppie dello stesso sesso e il divieto di ricorso a tecniche di tipo eterologo».
La conclusione è disarmante, letta oggi: «Per consentire anche il ricorso alla maternità  surrogata, si abroga il divieto di dichiarare la volontà  di non essere nominata, imposto alla donna che faccia nascere un figlio a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita».
Da una mentalità  olandese a una papalina, è un triplo salto mortale carpiato con avvitamento.
Cos’è successo, da allora, per far cambiare idea così al Movimento (social cattolico) cinque stelle?

Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)

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PIGNORA L’INDENNITA’ DEI POLITICI MOROSI COL FISCO E LORO PER VENDETTA LO FANNO DECADERE

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

FIUMEFREDDO GUIDAVA LA SOCIETA’ SICILIANA DI RISCOSSIONE… ADESSO IL RISCHIO E’ CHE I DEPUTATI NON PAGHINO I DEBITI

«Ho capito subito che me l’avrebbero fatta pagare ma rifarei tutto daccapo. È gentaglia». Antonio Fiumefreddo è un torrente in piena.
Fino a pochi giorni fa era presidente di Riscossione Sicilia, la spa partecipata dalla Regione incaricata di incassare le tasse non pagate.
Nominato esattamente un anno fa dal governatore Rosario Crocetta per riportare ordine in una società  che riusciva a ottenere appena il 3,7 per cento dei crediti, è arrivato a “pignorare” le indennità  a decine di deputati morosi di Palazzo Normanni (12 mila euro al mese).
Dando così vita a un braccio di ferro che si è concluso con le dimissioni dei due consiglieri di amministrazione, che hanno decretato la sua decadenza.
Col rischio, adesso, di mandare in fumo tutto il lavoro fatto, perchè se qualche parlamentare non pagherà  le rate del debito concordato, dovrà  essere il suo successore a reiterare i pignoramenti.
Ed è verosimile ipotizzare, per come sono andate le cose, che il suo successore non avrà  la stessa determinazione.
Anche se una via d’uscita c’è: «La legge adesso è cambiata e il cda non esisterà  più. Il presidente Crocetta potrebbe nominarmi amministratore. Ma non credo abbia voglia di farlo. Lo sfiducerebbero e si andrebbe a votare. Meglio invece tirare a campare…».
Quali pressioni ha subito da quando ha iniziato a chiedere i soldi ai politici morosi?
Quando ho chiesto di verificare le posizioni di chi ricopriva ruoli istituzionali è emerso che 64 parlamentari su 90 avevano pendenze di riscossione, più 102 ex che percepiscono il vitalizio. Alcuni avevano debiti per cifre relativamente modeste, altri per 200-300 mila euro, qualcuno addirittura un milione. In qualche caso erano soggetti già  condannati dalla Corte dai Conti ma che non avevamo provveduto a pagare perchè la società  non aveva mai nemmeno avviato le procedure di riscossione. Quando ho notificato i primi avvisi di pagamento le reazioni furono subito violentissime, iniziarono a dirmi: “Se fai così te ne devi andare”, “ma chi te lo fa fare”, “perchè questo astio verso i politici”, “noi siamo i tuoi azionisti”, eccetera. Come se tutto questo comportasse l’esenzione dalle tasse o fosse una questione personale.
Come è stato possibile che si creasse una situazione del genere?
Quando l’ho chiesto ai direttori provinciali, visto che l’indennità  è pagata dalla Regione e l’incasso quindi era certo, mi hanno detto che era prassi. In pratica in Sicilia la riscossione si fermava davanti a Palazzo dei Normanni. Ma questa non è prassi, solo ubbidienza cieca al potere costituito rappresentato da gentaglia.
E così lei è andato avanti…
Una ventina si sono messi in regola, nei confronti degli altri ho fatto disporre la trattenuta di un quinto dell’indennità  parlamentare, che è pari a circa 12 mila euro al mese. E questo ha iniziato a provocare una serie di problemi, perchè Riscossione Sicilia è strutturalmente in perdita e va ricapitalizzata. Ho chiesto parte dei 58 milioni di rimborsi dovuti dalla Regione e in commissione Bilancio mi sono trovato perfino a doverne parlare con chi era nella lista. L’Assemblea ha bocciato perfino un piccolo anticipo di due milioni e mezzo e nei giorni scorsi mi è stato fatto capire che i soldi sarebbero arrivati se mi fossi dimesso, ma ho rifiutato. E dopo che mi hanno fatto decadere hanno stanziato 13 milioni: hanno ottenuto la mia testa e in cambio hanno ricapitalizzato.
In che modo ci sono riusciti ?
Hanno fatto dimettere i due consiglieri di amministrazione, un dipendente regionale vicino a un assessore e un commercialista vicino a un deputato del Pd. La legge prevede che in casi simili decada tutto l’organo. E il bello è che non mi avevano nemmeno avvisato, nonostante li avessi sentiti un paio d’ore prima per convocare il cda. Io stesso l’ho saputo da un giornalista che mi aveva chiamato. Ma d’altronde c’è chi risponde alla politica come un cameriere risponde al padrone.
Crocetta, che l’ha nominata, è stato il suo principale sponsor. Cosa le ha detto?
Mi ha sempre dato totale libertà  di azione, lui stesso aveva un debito di circa 36 mila euro e ha mandato subito il suo commercialista a pagare senza battere ciglio. Quando l’ho incontrato mi ha detto che per votare la ricapitalizzazione i deputati avevano posto come condizione la mia testa, ma che lui non intendeva farmi dimettere. Se anche lui ha subito questa decisione, adesso volendo potrebbe nominarmi amministratore unico, visto che la legge è cambiata e il cda non esisterà  più.
Pensa che lo farà ?
Io sono disponibile a finire il mio lavoro, la palla ora passa a lui. Ma in realtà  non credo ne abbia voglia, c’è uno schieramento trasversale fortissimo e la mia opinione è che preferisca evitare altre rogne. Rischierebbe di essere sfiduciato e si andrebbe a votare. Meglio piuttosto tirare a campare, restare presidente della Regione e lasciare questi signori al loro posto. Ma questa è la cosa più grave, perchè così li abbiamo lasciati impuniti ancora una volta. Invece non è vero che non si può fare nulla.
E se non arriva la nuova nomina?
Nessun problema, torno a fare il penalista. Io, al contrario di molti deputati che non hanno mai lavorato, vivo del mio. È questa la mia libertà .

Paolo Fantauzzi
(da “L’Espresso”)

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FRATELLI D’ITALIA CI RICASCA: USO IMPROPRIO DELLA FOTO DI UNA FAMIGLIA GAY CANADESE

Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile

“NON HAI IL PERMESSO DI USARE LA NOSTRA FOTO”: E ANNUNZIANO AZIONE LEGALE … NON CI SI PUO’ APPROPRIARE DI UNA FOTO CHE VEICOLA IL MESSAGGIO OPPOSTO: FDI E’ RECIDIVA, ERA GIA SUCCESSO CON TOSCANO.. HANNO UN CONCETTO VAGO DELLA LEGALITA’

Fratelli d’Italia ci ricasca. Ancora una volta il partito guidato da Giorgia Meloni utilizza senza permesso una foto che ritrae una coppia gay con un bambino per portare avanti la battaglia politica contro le famiglie omogenitoriali.
A denunciarlo è uno dei due padri, BJ Barone che ha pubblicato diversi tweet per chiedere aiuto ai mezzi di informazione e per far rimuovere il logo del partito e il messaggio dalla foto che lo ritrae con il suo compagno Frankie Nelson e il bambino appena nato: “Lui non potrà  dire Mamma. I diritti da difendere sono quelli del bambino”, si legge.
La foto che ritrae la coppia di Toronto, in Canada, era già  diventata virale nel 2014 ma per una ragione diversa, opposta.
L’immagine rappresenta “tutto quello per cui abbiamo lottato, diritti per gli omosessuali e il diritto per i padri di avere un figlio” ma ora il senso viene “capovolto” dall’uso politico del manifesto , come riporta Toronto Metro News.
Uno scatto preso e utilizzato, quindi, senza permesso nella campagna contro la maternità  surrogata.
Un caso non isolato. Anche in Irlanda Mary Fitzgibbon, esponente politico indipendentista, si è servita dell’immagine per farne un uso che tradisce il senso della foto.
“Ho invitato Mary – dice Barone – e le ho detto: ‘Sai cosa? Saremmo felici se venissi qui a Toronto a conoscere la nostra famiglia per capire che un bambino non ha bisogno di una madre e di un padre'”.
La coppia di padri guarda però ai lati positivi della vicenda: “Speriamo che possa portare maggiore consapevolezza sulla maternità  surrogata e le famiglie omogenitoriali. Possiamo così dimostrare al mondo che una famiglia è una famiglia”.
Tornando a Fratelli d’Italia, non è la prima volta che il partito di Giorgia Meloni fa un uso improprio di immagini che ritraggono persone omosessuali.
Un anno e mezzo fa circa, Fratelli d’Italia aveva utilizzato senza permesso uno scatto del fotografo Oliviero Toscani, veicolando politicamente (e deliberatamente) il messaggio: “Un bambino non è un capriccio”.
L’iniziativa fece andare su tutte le furie il fotografo che promise azioni legali contro il partito: “Ma cosa salta in testa a @FratellidItaIia di usare una mia fotografia per una cosa del genere? Verranno denunciati”.
Poco dopo, Carlo Fidanza, esponente di FdI, fece retromarcia e rimosse la foto.

(da “Huffingtonpost”)

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