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TUTTE LE GAFFE DI BERTOLASO

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

DALLA BATTUTA SU HAITI CHE FECE INFURIARE LA CLINTON ALL’ELOGIO DEI ROM, SONO TANTI GLI AUTOGOL DEL CANDIDATO SINDACO DI ROMA

Che Guido Bertolaso avesse quel talento si poteva intuire ben prima della sua attuale candidatura a sindaco di Roma fortissimamente voluta da Silvio Berlusconi.
Ne aveva già  data prova anche quando era saldo lassù nell’empireo, intoccabile come il più potente degli dei e da sottosegretario alla Presidenza e da capo della Protezione Civile poteva chiedere l’impossibile e Palazzo Chigi eseguiva.
Nel 2010 vola a Haiti dopo il terremoto e si lascia andare a commenti più acidi di uno yogurt sugli interventi di soccorso degli americani.
Pietre miliari di diplomazia e rapporti bilaterali. Naturalmente si scatena l’inferno.
Il Segretario di Stato Hillary Clinton liquida le geniali frasi (da lui poi chiarite) come tipiche osservazioni da dopo partita mentre il presidente Berlusconi si cosparge il capo con quintali di polvere.
Passa qualche mese e Bertolaso attinge di nuovo al suo fecondo talento.
E nella conferenza stampa a Palazzo Chigi organizzata per chiarire la sua posizione nell’inchiesta sugli appalti per il G8 (processo ancora aperto) racconta dello sforzo sovrumano fatto per non segnalare a Bill Clinton il simpatico e comune problema di nome Monica.
La Monica di Bertolaso era una massaggiatrice brasiliana del Salaria Sport Village finita in una intercettazione.
Quella dello studio ovale, la più nota Levinsky. Il tatto di un Dumbo.
Uno di quei casi in cui invocare la Protezione civile. Per arginare Bertolaso, però.
Intervistato da Jean Paul Bellotto su Radio Capital il 15 febbraio, Guido Bertolaso spiega in cosa differisce la sua posizione sulla questione campi rom rispetto a quella del leader leghista Matteo Salvini: “Userei più tatto e diplomazia. I rom sono una categoria che nel nostro paese è stata vessata e penalizzata”.
Nell’agitato palcoscenico di un centro-destra romano fantomatico, metafisico, in piena decomposizione, dove tutti sono contro tutti, e dove Matteo Salvini capeggia la guerriglia, minaccia primarie e monta e smonta gazebi disturbatori, il candidato, 66 anni, il pullover blu indossato come un monumento, ci mette del suo e non smentisce la fama.
Ogni volta che dichiara, commenta, lascia andare libero il pensiero, il risultato è pari a una calamità  naturale, la sua specialità  del resto. Il diluvio, di critiche, è assicurato.
I fulmini e le saette pure.
Prescelto da Berlusconi dopo un tira e molla dovuto anche a serie ragioni familiari, con il beneplacito, all’inizio, della Lega e dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, Bertolaso, medico e specialista in malattie tropicali, svernato in Africa a curare sul serio i bambini malati dopo le dimissioni dalle alte cariche e il coinvolgimento in vari procedimenti giudiziari, ha inaugurato un nuovo tipo di propaganda elettorale: la comunicazione autolesionista.
Durante il programma “Di martedì” Enrico Mentana cerca un endorsement, chi voterebbe tra Storace, Marchini o Giachetti?
Bertolaso non si sottrae e giù, si butta verso il burrone. Sceglie Giachetti naturalmente, uno dei candidati Pd, uno contro il quale dovrebbe battersi e dire peste e corna.
Peccato che, non pago, si metta anche a cantarne le lodi. Mica solo in trasmissione. Ma no, non perde occasione di valorizzarlo in tutte le interviste «Gli voglio bene, è una persona perbene».
È proprio un portento. E non sbaglia mai la risposta sbagliata.
Sarà  per il vecchio vizio della Protezione civile, sarà  l’attrazione fatale verso il pericolo, ma in politica si tratta di un vero suicidio.
I rom, gli chiedono. E lui si lancia in un’articolata disamina sull’integrazione. Concetto finale: gli zingari, poveri cari, vanno aiutati. Nell’era della comunicazione fatta di slogan, tweet e non di ragionamenti, è un disastro.
Per una destra che predica espulsioni e scarpe chiodate, è un’esplosione nucleare.
Per Salvini, tipo già  cinetico di suo, un detonatore d’ira funesta.
Ma il nuovo modello di campagna di stampo masochista, così sofisticata da essere incomprensibile a semplici menti umane, va avanti.
L’ex capo della Protezione civile non risparmia neppure il suo mentore, il suo padrino, il suo leader.
Quando capita, infatti, tiene a precisare che non gli è mai passato per la mente di votare l’ex Cavaliere. Macchè, non è mica matto.
Così il centralino di Arcore s’intasa, e l’ex premier e l’alter ego Gianni Letta, da sempre grande sponsor del candidato, sono a un passo dal chiedere urgentemente le famose pezze fredde.
Simbolo per un decennio dell’interventismo compassionevole e risolutivo, commissario della Provvidenza chiamato a tenere a bada le grandi emergenze naturali o politiche, Bertolaso, secondo alcuni, è un organizzatore formidabile ma, fanno notare altri, lo è stato anche grazie a risorse e poteri infiniti.
È passato indenne e rafforzato dal Giubileo del 2000 e dalla gestione quasi militare, lui figlio di un generale, del funerale di papa Wojtyla in una Roma invasa dai fedeli affranti.
Nominato da Prodi (alla Protezione civile e poi all’emergenza rifiuti in Campania) confermato da Berlusconi per una serie infinita di missioni nevralgiche, dai vulcani delle Eolie al rischio bionucleare, in un sondaggio dell’epoca batte in popolarità  Benedetto XVI.
Fino al 2010 l’ascesa sembra non doversi fermare mai, gli viene affidato anche il dopo terremoto in Abruzzo.
Sono compiti che scottano, le emergenze sono sempre situazioni border line e il potere quando diventa spettacolare fa correre il rischio di inciampare.
Così quando arriva l’inchiesta sugli appalti del G8, le accuse e le polemiche sulla gestione a L’Aquila, le rivelazioni su case e benefit della cosiddetta “Cricca”, Bertolaso lascia, si ritira e va in pensione.
Ma l’Abruzzo è ancora un tema che qualunque spin doctor consiglierebbe di non sfiorare. E invece cosa fa il candidato kamikaze?
In un’intervista definisce Roma una capitale «terremotata». I cittadini aquilani non perdono tempo per rispondergli per le rime: «Non ti vergogni? » Lui fa spallucce, sono solo l’uno per cento degli abitanti, commenta.
Intanto nella sua riserva di consenso monta lo sconcerto e l’irritazione: che sia un infiltrato della sinistra, è la domanda?
Bertolaso non getta acqua sul fuoco e nemmeno coperte come avrebbe fatto alla Protezione civile.
Diserta l’iniziativa di Salvini di sondare il gradimento dei romani verso i candidati del centro destra (Alfio Marchini guadagna il primo posto, Bertolaso il penultimo). Fa orecchie da mercante alla richiesta di primarie. Com’è possibile che uno come lui, avvezzo a stare in prima linea faccia tali passi falsi?
È un uomo di valore ma senza l’ipocrisia del politico di professione, lo giustificano i fans.
Aggiungono che è privo di cordone sanitario: il carisma di Berlusconi è trasformato in un vano ricordo della Repubblica che fu e Forza Italia è il partito che non c’è più. Anche il suo staff sembra aver perso la trebisonda.
Racconta un testimone che qualche giorno fa un comunicato stampa partorito nel suo quartier generale veniva stoppato per miracolo da uno dei suoi collaboratori.
Nella nota Bertolaso era indicato come il candidato del centro-sinistra. Come dire? No comment.
Nonostante gaffes e sondaggi al momento sconsolanti, Berlusconi non vuole altri che lui. E questo ora sembra calmare i bollenti spiriti leghisti.
Per l’ex premier è un modo per ribadire la sua autorità . Costi quel che costi, anche una probabile sconfitta dal significato inequivocabile: Roma è la cartina di tornasole del futuro del centro-destra.
Dal candidato, però, zero rassicurazioni.
Il 23 febbraio Bertolaso dichiara alle agenzie: «A volte mi sembra di essere su “Scherzi a parte”».
Non sembra solo a lui.

Denise Pardo
(da “L’Espresso“)

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DA KAMIKAZE BAMBINO A PASTICCIERE A ROMA, LA STORIA DI HILAL

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

“PER TRE VOLTE HO DETTO NO AL MARTIRIO, HO GETTATO LA CINTURA DA KAMIKAZE E SONO FUGGITO PER UN FUTURO IN ITALIA”

«Schiaccia questo, non senti nulla e vai dritto in paradiso».
Hilal aveva 12 anni quando gli spiegarono come procurarsi in un istante la salvezza eterna. Dieci anni dopo lo racconta con il suo sorriso largo e solare nel laboratorio della pasticceria dove lavora, circondato da glasse, torte e mousse preparate da lui.
Non come capita spesso, con un impiego in nero, ma con un vero contratto a tempo indeterminato che gli permetterà  di avere molto presto il passaporto italiano.
Non avrebbe mai immaginato di avere un futuro quel giorno in cui lo arruolarono come kamikaze.
«Stiamo facendo una guerra contro gli americani, contro tutti quelli che sono contro i musulmani, devi farlo», avevano insistito.
«Accettai. Non avevo più una casa, una famiglia, non avevo più nessuno. Ero senza scelta», racconta.
Lo portarono ad Herat, nell’Afghanistan occidentale. Non saprebbe dire esattamente dove. «Mi hanno bendato e mi hanno lasciato lì», racconta.
Da solo con una cintura piena di esplosivo addosso e un groviglio di fili lungo il braccio ben nascosti sotto i vestiti. «Ho iniziato a tremare», confessa Hilal. E soprattutto ha iniziato a pensare.
«Pensavo che nel giro di cinque minuti sarei morto, sarebbe finito tutto, e non ce l’ho fatta».
Non ha premuto il pulsante. Ha rinunciato al paradiso e a dare il suo contributo alla guerra contro i musulmani. Ha preferito l’inferno sulla terra.
Un vero inferno: chi rifiuta di farsi saltare in aria va incontro a torture, in alcuni casi anche alla morte.
Con Hilal si sono accontentati di picchiarlo e di bruciargli il braccio destro ma gli hanno offerto ancora due possibilità  di guadagnarsi il paradiso.
Prima di indossare per la terza volta la cintura esplosiva Hilal è riuscito a fuggire.
Su per le montagne, più veloce che poteva, senza sapere dove andare. L’ha salvato un uomo che non ha voluto dirgli il suo nome.
Mesi di cure finchè non è stato in grado mettersi in viaggio verso l’Europa, lavorando per pagare i passaggi. Dopo quasi due anni è riuscito a infilarsi sotto un Tir in Grecia e ad arrivare in Italia.
L’iter per i minori in arrivo da Paesi in guerra come l’Afghanistan prevede la registrazione delle impronte e l’accoglienza in un centro dove si impara l’italiano. Nei casi più fortunati, anche un mestiere.
Hilal è capitato a «L’Approdo», una casa-famiglia dove vengono ospitati 8 minori, italiani o stranieri, senza più una famiglia.
«Abbiamo lavorato per ricucire le sue ferite – racconta Luigi Vittorio Berliri, fondatore della cooperativa Spes contra spem che gestisce l’attività  -. Oltre alle bruciature esterne c’erano quelle interne su cui dovevamo intervenire: gli abbiamo fatto capire che il mondo degli adulti non è solo quello che ti fa indossare una cintura da kamikaze».
Gli adulti che ha trovato in Italia lo hanno guidato attraverso il normale iter dei richiedenti asilo ma non solo.
C’è stato chi ha fatto qualcosa in più. L’associazione Luconlus gli ha pagato un corso di pasticceria e uno stage di tre mesi in una bottega.
E poi Salvatore Bono, il titolare della pasticceria, alla fine del tirocinio ha deciso di assumere con un contratto a tempo indeterminato questo ragazzo che ha rifiutato il Paradiso di Allah ma che nell’inferno della terra se la cava tanto bene con i dolci da avere un desiderio: «Voglio partecipare alle gare con i grandi pasticcieri e diventare un campione».

Flavia Amabile
(da “La Stampa”)

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IL SENATORE “PRIGIONIERO POLITICO”: VUOLE DIMETTERSI MA PER DUE VOLTE GLIELE HANNO RESPINTE

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

VACCIANO E ‘ UN EX CINQUESTELLE: “CONSIDERO CONCLUSA LA MIA ESPERIENZA POLITICA DOPO LA DELUSIONE DEL MOVIMENTO, GIUSTO RESTITUIRE AI CITTADINI UN RAPPRESENTANTE DELLA STESSA LISTA”

“Sono prigioniero politico”, scherza Giuseppe Vacciano.
La cui storia di senatore ex Movimento 5 Stelle, oggi iscritto al gruppo Misto, è a dir poco paradossale.
Per ben due volte, infatti, l’Aula di Palazzo Madama ha respinto le sue dimissioni da parlamentare. E ora, in attesa della terza votazione e del sospirato ritorno al suo lavoro in Bankitalia, si ritrova intrappolato nelle maglie dei regolamenti.
“Una decisione dettata dalla coerenza — assicura a ilfattoquotidiano.it spiegando le ragioni che lo hanno indotto alle dimissioni —. Nel momento in cui ho capito che la mia esperienza con il M5S era conclusa, insieme ad essa considero conclusa anche quella politica”.
Da qui dunque la decisione di rimettere il mandato…
“Esatto, per restituire ai cittadini un rappresentante della forza politica con sui sono stato eletto”.
Cioè il Movimento 5 Stelle che intanto ha lasciato. Come mai?
Tutto è iniziato nel dicembre 2014. Quando ho ritenuto non più possibile proseguire il mio cammino nel M5S che, a mio avviso, si era allontanato dalle sue origini, dal movimento che avevo conosciuto nel 2008 e con il quale ho fatto il lungo percorso che mi ha portato fin qui.
Cosa ha pesato sulla sua decisione?
Le scelte organizzative. A cominciare dalla decisione di creare una struttura, in qualche modo partitica, violando lo spirito del non statuto. Una struttura segretariale identificata in cinque persone scelte da Grillo (il cosiddetto direttorio, ndr), che, in un movimento che si definisce orizzontale, avrebbe dovuto passare attraverso una consultazione. Cosa che non c’è stata. Per di più il vertice si è allargato a Casaleggio che ho sempre considerato un fornitore di servizi al Movimento ma al quale non ho mai attribuito alcun ruolo politico. Insomma, una decisione che ha trasformato il Movimento in qualcos’altro rispetto a quello del 2008 quando avevo iniziato a frequentare il meetup
Così decide di dimettersi da senatore…
Sì, per ben tre volte. Le prime due richieste sono già  state respinte dall’aula di palazzo Madama e ora sono in attesa che venga calendarizzata la terza. Tra la prima e la seconda ho dovuto sollecitare per ben nove volte il voto al presidente del Senato Pietro Grasso. Per la terza, i solleciti sono già  a quota due.
E se anche stavolta le rispondessero picche?
Forse non mi resterebbe che ricorrere alla Corte dei diritti dell’uomo. Scherzi a parte, capisco la valenza costituzionale di un primo rifiuto dal momento che, storicamente, la Costituzione, sull’onda dell’esperienza del fascismo, tutela il parlamentare da possibili pressioni esterne. Ma una volta appurato che non c’è stata alcuna interferenza e verificata la motivazione politica alla base delle dimissioni non vedo francamente come si possa non prendere atto della situazione.
Eppure le hanno risposto picche già  due volte: come lo spiega?
Ormai non mi sorprendo più di niente. Speravo che con il secondo passaggio in Aula chiudessero la vicenda. Che, peraltro, considero una mancanza di rispetto nei confronti dei cittadini.
Non sarà  che votando contro le sue dimissioni la maggioranza stia cercando di impedire che al Senato, dove i numeri ballano, arrivi un nuovo parlamentare a rafforzare il principale partito di opposizione, ossia il M5S?
Il ragionamento sarebbe fondato se io avessi dimostrato, nel corso di questo anno abbondante, un qualche tipo di interesse per l’attività  della maggioranza. Ma la mia posizione, come dimostrano anche i voti da me espressi, è rimasta esattamente quella che era quando facevo ancora parte del M5S. E cioè di completa avversione, nel rispetto dell’impegno che ho preso con i cittadini e non con un partito. Se io sono venuto qui per mandare tutti a casa e fare opposizione a quelle forze politiche che finora hanno governato il Paese non è che cambio idea perchè non mi ritrovo nelle scelte organizzative del Movimento 5 Stelle. Senza contare che, se avessi voluto farlo, lo avrei già  fatto.
Ha ricevuto offerte al riguardo?
Contatti ce ne sono stati, ma nessuna offerta esplicita. Anche perchè sono sempre stato molto chiaro con tutti. Chi mi conosce, non può non testimoniare la serietà  con cui ho partecipato alla vita del Movimento 5 Stelle. E sin dal 2008 quando di elezioni ancora quasi non si parlava.
E se gliel’avessero fatta, questa proposta?
L’avrei rifiutata senza dubbio. La politica, per me, è un’esperienza chiusa.

Antonio Pitoni
(da “il Fatto Quotidiano”)

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“NON MANDATECI 5.000 SOLDATI, MA ARMI E MEDICI”: INTERVISTA AL VICE PREMIER DI TRIPOLI

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

AL HAFAR, 45 ANNI, E’ ORIGINARIO DELLA SIRTE, ORA NELLE MANI DELL’ISIS: “I LORO MILIZIANI VENGONO DALL’ESTERO”

Il vice-premier del governo di Tripoli, Ahmed Amhimid al Hafar, è uno degli uomini più influenti della capitale, nato 45 anni fa nell’oasi di Sabah, una parte della famiglia originaria di Sirte.
Lo abbiamo incontrato ieri sera alle 21 e 30 dopo che per larga parte della giornata si era occupato del rimpatrio delle salme dei dipendenti della Bonatti.
«I corpi dei due tecnici italiani stanno per essere spediti a Roma. Mancano alcune procedure burocratiche e mediche. Questione di ore».
Avete fatto l’autopsia sulle salme?
«La questione è in mano al procuratore generale dello Stato. I due stranieri andavano riconosciuti e occorreva verificare che non vi fossero errori d’identità ».
Che messaggio vuole inviare alle famiglie in Italia?
«Sono addolorato per la morte dei loro cari. E allo stesso tempo sollevato per il fatto che due italiani siano vivi. Spero si capisca che abbiamo fatto del nostro meglio per liberarli tutti. L’auspicio è che un giorno tornino a lavorare in una Libia pacificata».
Lei sa che in Italia si sta dibattendo sulla questione dell’intervento militare in Libia. Avete bisogno di aiuto per battere Isis?
«Noi libici abbiamo i soldati necessari e la volontà  per combattere Isis. Ma ci servono armi, munizioni e sostegno logistico. Abbiamo visto come gli americani e i loro alleati hanno sprecato tante forze per cercare di battere Isis e l’estremismo islamico in Iraq, Siria e Afghanistan. Non vorremmo che da noi si ripetessero gli stessi errori».
Come agire?
«Occorre cooperare al meglio. Qualsiasi contributo della comunità  internazionale deve essere concordato con il governo di Tripoli, che è l’unico legittimo in Libia. Ma non servono soldati stranieri, piuttosto sostegno logistico alle nostre forze militari, che sono ben determinate a battere Isis».
L’ambasciatore Usa a Roma ha suggerito che l’Italia invii cinquemila soldati .
«Preferiremmo tecnici, dottori, ingegneri. Ci servono civili per ricostruire la Libia, non soldati per distruggerla».
Come intendete cooperare con il governo di Tobruk?
«Il generale Haftar, che lavora per loro, ha dimostrato che non intende combattere l’Isis. A Derna i jihadisti del Califfato sono stati cacciati dalla popolazione. Haftar ha contribuito a devastare Bengasi con le bombe, non fa nulla contro le roccaforti di Isis a Sirte».
Crede alla formula del governo di unità  nazionale tra Tobruk e Tripoli quale premessa per combattere Isis?
«Certo che ci crediamo. Ma non in quella elaborata l’anno scorso dall’inviato dell’Onu, Bernardino Leà³n».
Cosa direbbe al premier Renzi se lo incontrasse oggi all’ombra del dramma sofferto dai tecnici della Bonatti?
«Che il 95% dei libici odia Isis. La sua forza sta nei volontari jihadisti stranieri che arrivano dall’estero. I miei parenti a Sirte raccontano che sono in maggioranza giovani tunisini, egiziani, sudanesi, marocchini, vengono dal Ciad e dal Mali. Non è un caso che liberando gli italiani a Sabratha i nostri uomini abbiano scoperto che i loro rapitori erano tunisini».

Lorenzo Cremonesi
(da “il Corriere della Sera“)

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PD, VOLANO GLI STRACCI TRA SPERANZA E ORFINI

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

SPERANZA: “SULLE PRIMARIE ORFINI OFFENDE GLI ELETTORI”… LA REPLICA: “RIMPIANGE IL PARTITO DI MAFIA CAPITALE”

“Matteo Orfini offende gli elettori romani . Non si può dire che il calo dell’affluenza alle primarie di Roma (-50% rispetto al 2013 ndr) sia dovuto alla mancata partecipazione di rom e capibastone”.
Roberto Speranza della minoranza dem, nel day after, convoca una conferenza stampa per sparare a zero contro il commissario del Pd romano Matteo Orfini.
Inizia così il botta e risposta tra i due.
Orfini, contattato dall’Huffpost, replica immediatamente: “Abbiamo bonificato e disboscato il Pd dopo i fatti di Mafia Capitale. Credo che i cittadini romani e i militanti dem siano stati offesi da Mafia Capitale e non dalle mie affermazioni sulla mancata partecipazione dei capibastone a queste primarie. Speranza sembra rimpiangere quel tipo di partito — spiega – e mi stupisco di questo. Spero corregga il tiro delle sue dichiarazioni. Quando parlo di capibastone non lo dico io, lo dicono i fatti, la verità  emersa dalle cronache giudiziarie”.
Speranza non corregge il tiro, anzi, approfondisce il suo concetto: “Immaginare che 50mila persone siano tutte capibastone, mafiose o rom mi sembra che non faccia i conti con la realtà . 50mila persone sono un popolo da recuperare”.
Insomma, all’interno del Pd volano gli stracci.
I nervi sono tesi a causa del flop affluenza. A Speranza quindi non sono piaciute le parole di Orfini che, commentando le consultazioni romane in un’intervista a Repubblica, aveva affermato: “Sono felice del risultato di partecipazione anche a Roma. Qui nel 2013 era andata più gente ai gazebo, ma perchè c’erano le truppe cammellate dei capibastone poi arrestati, il pantano che portò a Mafia Capitale, le file di rom”.
A Speranza che chiede di “non sottovalutare i numeri” delle primarie romane, sottolineando che “un grande partito si chiede perchè hanno votato metà  degli elettori rispetto all’ultima volta”, Orfini risponde: “È vero. Ad esempio nel sesto municipio e nel decimo, quello di Ostia, la partecipazione è stata fiacca rispetto al passato. A dimostrazione della tesi che tanto indigna Speranza e cioè che abbiamo bonificato e disboscato il partito da tutte le infiltrazioni”.
“I numeri di domenica – osserva ancora Speranza – testimoniano inquietudine e disagio in un largo pezzo dei militanti. C’è un calo vero, soprattutto a Roma, dove un pezzo del mondo di sinistra non ha capito la fine di un’esperienza chiusa da un notaio”
Delle primarie del Pd, continua Speranza, “ho un giudizio positivo, rispetto ad altri che hanno fatto numeri comici, come la Lega e M5s. Ora infatti tutti insieme dobbiamo sostenere i nostri candidati. Il Pd – conclude Speranza – si gioca una partita importantissima con Roma, Napoli, Bologna, Milano, Torino, Trieste. Da questo momento il Pd deve essere unito e tutti insieme dobbiamo sostenere i nostri candidati”.

(da “Huffingtonpost”)

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“VAI A VOTARE VALENTE E TI PAGO L’OBOLO DI 1 EURO”: A NAPOLI RIMBORSI SOSPETTI ALLE PRIMARIE PD

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

CONSIGLIERE COMUNALE RIPRESO DA FANPAGE: “ERANO SENZA SOLDI, NON VOLEVO ESSERE SCORTESE COME PARTITO”

Consiglieri e delegati del Pd che davanti ai seggi delle primarie a Napoli danno soldi agli elettori per votare la candidata Valeria Valente.
A rivelarlo è un video del sito Fanpage.it: i cronisti Antonio Musella, Peppe Pace e Alessio Viscardi con telecamere nascoste hanno intercettato davanti ai circoli dei democratici in città  alcune persone impegnate a offrire denaro in cambio della preferenza per quella che poi risulterà  la vincitrice.
Tra loro anche il capogruppo Pd alla sesta municipalità  Gennaro Cierro e il consigliere comunale Antonio Borriello.
Valente è diventata candidata sindaco Pd con uno scarto di poco meno di 452 voti rispetto allo sfidante Antonio Bassolino (13.419 voti contro 12.967 voti) e l’affluenza alle primarie è stata di 30mila elettori.
“L’ho fatto per non essere scortese come partito”, si è giustificato all’agenzia Ansa il consigliere Borriello, da sempre bassoliniano e da poco a favore della Valente, “faceva freddo, erano venuti lì, non avevano l’euro e così gliel’ho dato io. L’ho fatto davanti a tutti, mica di nascosto, c’erano anche altri. Io quella signora neanche la conoscevo e non ricordavo neanche l’episodio. Forse l’ho fatto anche un’altra volta, neanche ricordo. Alcune persone sono arrivate ai seggi senza l’euro necessario per il contributo e così, per cortesia, gliel’ho dato io”.
Il primo episodio documentato dai giornalisti è avvenuto davanti al seggio 62 di Scampia, lotto T. Qui Valente ha ottenuto 297 voti e Bassolino 102.
“Vedi questa?”, dice un uomo a una giovane elettrice mostrando i nomi sul cartellone. “Devi solo mettere una croce su questo nome, no Bassolino, non su questi altri. Vedi questa è una femmina”.
Poco dopo un collega dice: “Vai a darle l’euro”. E lui replica: “Aspetta, vediamo prima se esce e se esce glielo do”. L’operazione si ripete simile con un elettore più anziano: “Questo è l’euro per la donazione al partito”.
La seconda scena registrata dai cronisti di Fanpage.it avviene davanti al seggio 46 di Villa San Giovanni dove Valente ha ottenuto 300 voti e Bassolino 45.
Gennaro Cierro, capogruppo Pd alla sesta municipalità  ferma due persone. “Abbiamo solo la tessera, però è giusto per farvi un favore”, dice la donna. “10 euro”. E Cierro li accompagna dicendo: “Serve un euro”.
Terzo circolo, seggio 58 Piscinola di via Vittorio Veneto. Qui Valente ha ottenuto 103 voti e Bassolino 89.
Nelle immagini riportate dal sito si vede uno dei rappresentanti del seggio che si avvicina a un’automobile con un elenco degli elettori e altre persone che distribuiscono monete all’ingresso.
Situazione simile al seggio 61 Scambia, via Monterosa 54: in questo caso ha vinto Bassolino con 292 voti, mentre Valente si è fermata a 177.
Nel video si vedono scambi di denaro all’ingresso della sede.
Infine davanti al seggio 45 San Giovanni-Sala Rusticone (Valente 591-Bassolino 159), a essere immortalato è il consigliere comunale Antonio Borriello.
“Nelle immagini registrate”, scrive Fanpage.it, “Borriello consegna l’euro di sottoscrizione davanti al seggio”.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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INTERVISTA A LAURA BOLDRINI: “LE DONNE CHE NON ALZANO LA VOCE SONO COMPLICI”

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

ALLA CAMERA BANDIERE A MEZZ’ASTA PER IL FEMMINICIDIO

Domenica pomeriggio, a Montecitorio i corridoi sono deserti.
Il pubblico che ha assistito alla proiezione speciale di Suffragette, il film dedicato alla lotta per il voto di Emmeline Pankhurst nella Londra dei primi del 900, è tornato a casa.
Laura Boldrini è ancora qua e vuole far rumore, rompere la cappa di luoghi comuni che ogni anno avvolge le celebrazioni dell’8 marzo.
«Domani andrò fuori, su quel balcone. E abbasserò la bandiera italiana a mezz’asta per le vittime del femminicidio. Ho proposto che lo facciano tutte le istituzioni, ogni volta che una donna viene uccisa in quanto donna. Intanto comincio io».
In un’intervista alla Stampa Nancy Mensa ha dato voce agli orfani del femminicidio: la madre ammazzata e il padre in prigione per il delitto. Dal duemila a oggi sono 1628. Chiedono un aiuto, anche economico. Lo Stato li può ignorare così?  
«No, assolutamente. Anche per dimostrare loro vicinanza domani abbasserò la bandiera. Bisogna prenderli in seria considerazione. Lo Stato li deve ascoltare, il legislatore deve fare qualcosa. Sono pronta a riceverli. Ma sul femminicidio non siamo all’anno zero. Il Parlamento ha approvato la nuova legge con pene più severe, stanziando fondi per i centri antiviolenza».
Perchè questa bandiera a mezz’asta?  
«E’ un simbolo. Siccome da anni stiamo assistendo a una strage di donne è giusto che il lutto sia collettivo».
Sul nostro giornale abbiamo raccontato l’epopea delle operaie tessili di Biella, i loro scioperi contro il fascismo e per avere maggiori diritti. Chiedevano “bread and roses”. Le donne italiane il pane l’hanno avuto, le rose quando arriveranno?
«Il primo viaggio negli Usa da presidente della Camera l’ho iniziato deponendo una corona alla fabbrica Triangle a New York, dove per un incendio nel 1911 morirono 123 operaie, la maggior parte italiane e ebree. Proprio quest’anno celebriamo in Italia il settantesimo del diritto di voto alle donne. Di strada ne abbiamo fatta tanta. Ma sul piano del lavoro deve essere fatto ancora moltissimo. Mi lasci dire però che una parte della responsabilità  è anche delle donne».
È colpa delle donne se siamo in fondo alle classifiche mondiale sul gender gap, il divario tra sessi nei posti di lavoro?  
«Indirettamente anche loro. Negli uffici spesso la donna sta zitta perchè inconsciamente è come se si sentisse già  baciata dalla fortuna. C’è una generale carenza di autostima. Eppure quando c’è una selezione le donne arrivano spesso prime, si laureano con i voti più alti. Ma a volte non si fanno rispettare».
Lei si fa rispettare?  
«Avevo sette anni quando feci il primo “sciopero” per l’eguaglianza. Mio padre e mia madre chiedevano a noi cinque figli di collaborare in casa. Ma in realtà  le faccende domestiche riguardavano solo me e mia sorella Lucia. I tre fratelli maschi ne erano esentati. Un bel giorno io e mia sorella ci siamo stufate: non facciamo più nulla se non lo fanno anche loro. Per qualche settimana fu il caos, poi i miei imposero la corvèe anche ai maschi. Le mie cognate mi ringraziano ancora oggi perchè i loro mariti considerano normale condividere le responsabilità  di casa».
Suffragette racconta l’epopea delle prime femministe inglesi. Ha un senso essere femministe nell’Italia del 2016?  
«Sulla carta abbiamo ottenuto tanti diritti, ma la sfida è vederli tradotti nella realtà . E aiutare i tre quarti delle donne del mondo che ne sono ancora escluse. Essere suffragette oggi significa questo: mettere in pratica i diritti nel nostro paese e accompagnare nelle loro lotte quelle donne che ancora non possono lavorare, votare, studiare, in alcuni paesi nemmeno guidare un’automobile. Sono comunque le donne a doversi battere senza delegare ad altri. E quelle che non lo fanno si rendono complici, con la scusa del quieto vivere».
Qui dentro lei si fa rispettare?
«Non sta a me dirlo, ma ritengo comunque di sì. Ad esempio, quando un deputato maschio mi chiama signor presidente, io gli rispondo: prego signora deputata».
È successo davvero?
«Come no! Ha protestato, ma io ho tenuto il punto. Perchè se una donna accetta di essere chiamata al maschile vuole dire che non ha la forza di affermare il suo percorso. Non si può liquidare la questione dicendo che non sono queste le cose importanti. Tutto si tiene».
Cambiare il linguaggio non è semplice…  
«Diciamo “cliccare” e “postare”, parole che dieci anni fa non esistevano. Ci abitueremo anche a dire avvocata o ministra. Una volta da una delegazione spagnola, avendo letto sulla stampa italiana che “il ministro si è recato a Bruxelles con il marito”, mi sentii dire: quindi avete già  approvato il matrimonio gay? Erano convinti che si trattasse di due uomini, mentre il “ministro” in questione era una donna».
A proposito di ministri, manca sempre quello delle Pari Opportunità . Come la mettiamo?  
«Questa è un’assenza che pesa sulle donne. Si sente la mancanza di una figura di riferimento, le associazioni ci scrivono spesso, sono disorientate. Ora è venuta meno pure la delegata del presidente del consiglio. Auspico che si ponga rimedio».

Francesco Bei
(da “La Stampa”)

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PER QUALCUNO LA FAMIGLIA SERVE SOLO A SPUTTANARE 800.000 EURO: IL FLOP DEI DUE PROGETTI DEL GOVERNO

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

FAMILY LAB E FAMILY LINE, I RISULTATI DELLE DUE CONVENZIONI: 5 CHIAMATE AL GIORNO…E IN UN ANNO E MEZZO APPENA 455 LIKE SU FB E 117 FOLLOWER SU TWITTER

Ottocentomila euro in totale per due progetti che, dati alla mano, stanno dando risultati tutt’altro che entusiasmanti. Soldi pubblici, ovviamente.
Ciononostante il Dipartimento delle politiche per la famiglia ha deciso di rinnovare, per “una durata di 16 mesi di attività  a decorrere dal primo maggio 2016”, l’accordo stipulato il 28 novembre 2014 con Formez Pa, il centro servizi, assistenza, studi e formazione per l’ammodernamento delle pubbliche amministrazioni che risponde al ministero della Funzione pubblica guidato da Marianna Madia.
I due contratti in oggetto sono stati stipulati per la realizzazione del “Family Lab — Cooperare per un welfare sostenibile e abilitante” e della “Family Line”.
Il primo progetto è “volto a creare — dice la convenzione — reti orizzontali e verticali tra gli operatori pubblici impegnati nelle politiche familiari presso le Amministrazioni di tutti i livelli di governo”.
Il secondo, invece, ha come scopo quello di “offrire e rendere più accessibili le informazioni e le opportunità  utili alla vita quotidiana mettendo a disposizione, tra l’altro, un servizio di Contact Center mediante l’attivazione del numero verde 800.254.009 al fine di facilitare i rapporti tra i cittadini e la Pubblica Amministrazione”.
FAMILY FLOP
Tutto molto bello. Almeno sulla carta. Se non fosse che, come detto, i costi delle operazioni sono molto alti: 450 mila euro nel primo caso (45 mila da versare a seguito della sottoscrizione dell’accordo e i restante 405 mila da saldare in tre tranche) e 350 mila euro nel secondo, con le stesse modalità  di pagamento.
A fronte, però, di feedback modesti da parte dei cittadini.
Non solo sui social network, dove la pagina Facebook e l’account Twitter della “Family Line” hanno totalizzato — rispettivamente — 455 ‘like’ e 117 ‘follower’ (dati aggiornati al 3 marzo).
Ma soprattutto in termini di telefonate al Contact Center e accessi al sito Internet del progetto. Fra marzo 2015 e febbraio 2016, stando ai dati in possesso de ilfattoquotidiano.it, le telefonate pervenute sono state 1.778: una media di 148,2 chiamate al mese. Più o meno cinque al giorno, insomma.
Il portale, invece, “ha registrato 19.087 visitatori unici” (circa 70 al giorno) e “105.688 pagine visualizzate” (387 ogni ventiquattrore), fa sapere il report che racchiude i dati raccolti fra il 26 maggio 2015 e il 22 febbraio 2016.
I dati disaggregati mostrano una forbice fra picchi positivi e negativi alquanto significativa.
Il 10 luglio 2015, per esempio, al sito si sono collegati 422 visitatori (record di contatti), mentre il 21 febbraio 2016, penultimo giorno di monitoraggio, appena 13. Un po’ poco, se si rapportano i risultati a quanto ha speso il dipartimento di Palazzo Chigi per l’accordo con Formez Pa.
Insomma, dopo la visita della Guardia di Finanza, che martedì scorso, come raccontato da ilfattoquotidiano.it, su mandato della Procura regionale della Corte dei Conti ha acquisito documenti relativi ad una serie di convenzioni stipulate con diversi enti per l’esternalizzazione di alcuni servizi, in via della Ferratella in Laterano si respira un’aria pesante.
E qualcosa pare si stia già  muovendo. Tanto che ora anche il ministro per gli Affari regionali di Ncd, Enrico Costa , che con l’ultimo rimpasto ha assunto, oltre alla guida del dicastero, anche la delega alla famiglia, vuole fare chiarezza sulle situazioni ereditate dal passato.

Antonio Pitoni e Giorgio Velardi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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IL VOTO NEI GAZEBO TRA GLI ORFANI DI MARINO E LE IRONIE DI D’ALEMA

Marzo 7th, 2016 Riccardo Fucile

POCHE FILE E SCARSO ENTUSIASMO… “VEDO PIU’ OSSERVATORI CHE VOTANTI”

Intabarrato nel suo trench color cammello, Massimo D’Alema conta con un solo sguardo prima gli elettori in fila e poi il fotografo, il cameramen e il cronista: due contro tre.
«Vedo più osservatori che protagonisti», sussurra gelido, dettando il suo indirizzo alla scrutatrice del seggio di piazza Mazzini.
«Grazie presidente, però mi servirebbe anche la sua tessera elettorale» risponde la ragazza, con un sorriso che dice: mi dispiace, è il regolamento.
E così D’Alema vota, saluta alla sua maniera chi lo fotografa («Mai che vi facciate gli affari vostri!») e se ne va, di un umore più scuro del suo labrador nero.
Più osservatori che protagonisti?
Lo sapremo solo alla fine di questa lunga giornata, dominata fino all’ultimo dal timore di un flop. Non basta, ad allontanarlo, l’incrollabile passione dell’anziano professore che annuncia spavaldo di non aver neanche preso in considerazione l’ipotesi di disertare, «perchè io quando si tratta di votare vengo sempre al gazebo, per principio», e neanche l’ottimismo della volontà  di Susanna Mazzà , instancabile segretaria del circolo Mazzini-Trionfale, certissima della fede nelle primarie, «perchè i nostri elettori non rinunceranno mai a questo strumento di democrazia».
Non basta, perchè sulla lunga lista degli elettori del centrosinistra che stavolta non hanno risposto all’appello si allunga l’ombra di Ignazio Marino, il sindaco che vinse le primarie nei gazebo e fu destituito dal partito nello studio di un notaio.
E la prima a saperlo è proprio Susanna Mazzà : «I miei figli mi hanno detto: ma’, ti rendi conto che noi per la prima volta avevamo scelto un candidato sindaco, e dopo che lui ha vinto voi lo avete cacciato! ».
Alle dieci c’è una gran folla attorno al gazebo di piazza Ippolito Nievo, ma è il viavai del popolo di Porta Portese.
«Finora hanno votato solo in quindici» confida preoccupato Marco Zazza, scrutatore di turno. «L’altra volta c’era la fila, oggi arriva uno ogni tanto» conferma la presidente del seggio, Loredana Granieri.
Ecco un’altra elettrice, una signora bionda che punta il gazebo con passo deciso. «Vuole votare?». «Ma neanche per sogno. Non sono venuta qui per insultarvi, ma vi dico che non mi vedrete più. L’altra volta ho votato, alle primarie e alle comunali: adesso basta. Mi sento orfana!». Non dovevate cacciare Marino, dice la signora che se ne va facendo ciao ciao con la mano.
Tu giri, e ascolti sempre le stesse parole. Vai all’Eur, dove il seggio è nascosto in un seminterrato dietro il gazebo deserto, e senti lo sfogo di Isabella, capelli grigi e occhiali spessi: «Ho ricevuto l’email di Renzi, e anche stavolta voto per dovere civico, ma ditegli che non mi è proprio piaciuto come ha trattato Marino. Ma come, quello aveva cominciato a smucinare, perchè è grazie a lui che è saltata fuori Mafia Capitale, e Renzi invece di difenderlo lo manda via? Non si fa così».
Vai a Donna Olimpia, dove il gazebo sulla piazza anzichè dentro il circolo Pd è stato letto come uno schiaffo ai militanti che si erano schierati con il sindaco, e vedi la signora Attilia Droghieri che ha i capelli bianchi ed è orgogliosa di essere la votante numero 267, ma saluta tutti «con la speranza che quando si incominceranno a scoperchiare le pentole stavolta non le richiudano, mi sono spiegata? ».
Vai a Campo de’ Fiori e registri il commento infastidito di Enrico, bancario in pensione, che passa senza fermarsi, mani in tasca, davanti allo storico circolo di via dei Giubbonari: «Col cavolo che perdo tempo con le primarie, dopo quello che hanno combinato con Marino!».
Poi, certo, c’è un partito che non la vede così.
«Qui all’Eur abbiamo una lunga fila, ho già  mandato la foto a Renzi» dice Patrizia Prestipino, renziana di ferro, che tre anni fa correva alle primarie e stavolta appoggia Giachetti, e spiega che «l’elettore del centrosinistra è così, dice sempre che è l’ultima volta però poi viene a votare, perchè è amore vero ».
Ma sì, conferma Giulia Urso, la segretaria di via dei Giubbonari, una flessione non significa nulla: «La gente viene, partecipa, vuole contare. E saranno pure tiepide, queste primarie, ma i nostri elettori non ci rinunceranno mai».
Il più freddo — o il meno caldo — è Marco Miccoli, il deputato di Donna Olimpia: «Prima c’era la rabbia, adesso c’è smarrimento. Poi magari non tutti scelgono di non venire a votare. Ma la ferita per il caso Marino è ancora aperta».
Marino, Marino, Marino. Ma lui cosa dice? Cosa fa?
E’ vero che vuole candidarsi, sfidando il suo ex partito?
L’ex sindaco rinvia le risposte al libro che uscirà  alla vigilia di Pasqua: «Lo devo consegnare domani. E chi mi conosce lo sa, sono pignolo: sto controllando parola per parola, virgola per virgola, nome per nome, cognome per cognome…».

Sebastiano Messina
(da “La Repubblica”)

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