Marzo 9th, 2016 Riccardo Fucile
MADDALONI: IL MONDO DI ROSA E CECILIA TRA AFFARI, AMORE E POLITICA
Ciao amore, ciao tesoro, si scrivevano tra una mazzetta e un appalto da truccare, prima di partire per
Antibes, forse a giocare alle fidanzate, forse a sposarsi per davvero.
Belle signore intrecciate da amore e incarichi istituzionali, desideri di libertà e nuova politica, una sindaca a Maddaloni, Rosa De Lucia, l’altra assessore con lei, Cecilia D’Anna, la prima in carcere da 48 ore, l’altra ai domiciliari nel loro curato e nuovo appartamento.
Privato e pubblico, leggerezza dei tempi moderni e marcio dei vecchi metodi. Ma se davvero sono riuscite a ingannarli tutti, “questa è solo la punta di un iceberg”.
Il sospetto non è solo di chi lo butta lì a mezza voce fuori dal Palazzo di Maddaloni, masticando amaro, come l’anziano dipendente fuori dai giochi e intenzionato ad andarsene in pensione, dopo aver visto “la fine che ha fatto questa nuova sindachessa”.
E non è il frutto solo di rabbia e stupore, i sentimenti che ti consegna il giorno dopo anche Michele Di Nuzzo, il geometra e vicesindaco che deve tenere in mano in Comune sotto la bufera, il quarantenne sospeso tra indignazione e incredulità .
“Se davvero hanno fatto questo, allora sono stupido e la politica in cui ho creduto è grande bluff – ti dice scuotendo la testa Di Nuzzo -. Eppure Rosa, il sindaco era insospettabile, una che alle tangenti non l’avresti mai associata. Il privato? Non è che l’ostentasse questo legame. Certo lei e l’assessore D’Anna vivevano insieme, alcuni mormoravano, ma io da amico maschio sono stato sempre rispettoso e la stimavo tanto come sindaco, ma com’è possibile tutto questo? Posso sperare per egoismo che magari un giorno tutto si risolverà tutto con un’assoluzione clamorosa, come in altri casi è successo? “.
È solo un pezzo di un Sistema più ramificato, sembrano invece raccontare gli atti di quest’inchiesta su tangenti, sesso e diabolica “narrazione politica”, scoperta nel cuore del Municipio dai carabinieri di Caserta e dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Il sindaco De Lucia accusata di corruzione, l’assessore D’Anna ritenuta complice anche in “virtù di quel legame sentimentale ” chiosa il gip Sergio Enea, compagna di vita e convivente – a leggere le carte – più un grappolo di consiglieri comunali e imprenditori coinvolti con varie accuse, come Alberto Di Nardi, il manager definito “bancomat”, a capo della società che si occupava della gestione dei rifiuti, con appalti pilotati e soprattutto grazie a proroghe su proroghe.
È solo la prima puntata di una Tangentopoli magari di provincia ma non per questo minore nei comuni tra Napoli e Caserta, sembrano annunciare le deposizioni – ancora in larga parte segrete – dell’altro imprenditore teste d’accusa, Antonio Scialdone. Eppure parte tutto da qui, dalla Maddaloni dove le tangenti incastrano il volto rosa del potere: emblema di uno smascheramento, simbolo potente e sinistro della politica nuova ridotta a recita per social e media, dove in paese tutto era cambiato, tutto era libero e glamour perchè il vecchio non morisse. Per rimanere ai livelli di sentina della pubblica amministrazione.
Tranche “costanti” di fondi neri, intascate alla faccia delle buone prassi al femminile e usate “anche per arredare la loro nuova casa”.
Sì, il nido d’amore di Rosa e Cecilia nel paese di Santa Maria a Vico: la casa che la prima, ingegnere e astro nascente di Forza Italia, ha dovuto lasciare all’alba coi carabinieri, e che l’altra ha scelto come luogo dove radicare la sua detenzione domiciliare, da assessore alla Cultura, a cos’altro sennò.
Il denaro sporco che ora il pm Carlo Fucci contesta al gruppo sarebbe servito al sindaco Rosa persino “ad acquistare un viaggio per la Francia, organizzato con la D’Anna – è scritto nell’ordinanza di custodia – con la quale si sarebbe sposata ad Antibes “.
“Diecimila euro al mese”, è lo stipendio che secondo i carabinieri Di Nardi passava al sindaco per ogni necessità .
E poi spese “accessorie”, le tangenti volanti di 500 o mille euro, che Rosa persino per partecipare alle iniziative contro le violenze sulle donne. “Quanto ti serve?”, chiede il solito Di Nardi? E il sindaco: “Cinquecento euro, chè domani hanno fatto Stop Femminicidio”.
Ehi amore, ciao tesoro, si scrivevano più o meno Rosa e Cecilia, sono sm che il gip ritiene importanti per attestare il legame che correva tra loro. “Io l’ho allontanata da me quando ho capito che era una persona inaffidabile, che aveva perso la testa. Si credeva grandissima perchè era la prima donna sindaco, è diventata la prima sindaco arrestato mentre governa “, racconta ora con un misto di pietas e rivendicazione l’uomo che era stato scalzato da lei, l’ex sindaco Pdl, l’avvocato Antonio Cerreto.
Le tangenti venivano consegnate anche in casa della mamma di Rosa. Ma ora guai a passare per quella villetta di Maddaloni a chiedere spiegazioni.
Sua madre, Maria, moglie di un maresciallo dell’Arma, urla: “Ma come vi permettete? Ma cosa dite? Mia figlia è pulita, si chiarirà tutto. Tutto capito? E non mi parlate di “fidanzate””.
Conchita Sannino
(da “La Repubblica“)
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Marzo 9th, 2016 Riccardo Fucile
LA DEPUTATA ANNUNCIA IL MATRIMONIO CON IL COLLEGA DEL PD DARIO GINEFRA: “IO IN ALA? SOLO SPIFFERI DA TRANSATLANTICO”
Laura Ravetto convola a giuste nozze. Ma non con Denis Verdini.
Dalla vita privata a quella politica il passo è breve. Così quando Il Tempo telefona alla parlamentare di FI per chiederle di raccontare la sua storia d’amore col deputato Pd Dario Ginefra, diventa inevitabile porle una domanda sulle voci di Transatlantico secondo le quali il suo passaggio con Verdini sarebbe imminente.
«Ma perchè dite queste cose? – risponde la Ravetto – In Transatlantico ci sono tante voci, continui spifferi… Io sono qui in Aula alla Camera, vado in tv quasi ogni giorno a parlare a nome di Forza Italia».
Insomma, nessun passaggio nelle fila verdiniane. Quanto all’imminente matrimonio, la deputata azzurra rimanda cortesemente all’articolo in uscita oggi su Chi.
«Ci sposiamo per… incoscienza – racconta Ginefra al settimanale di Alfonso Signorini – E perchè io amo Laura profondamente e voglio prendermi cura di lei».
«Tra noi il sentimento ha prevalso sulle nostre differenze – dice lei – Razionalmente non siamo fatti l’uno per l’altra, siamo agli antipodi. Ma come potevo resistere a un uomo che si è messo a nudo pubblicamente con quella lettera aperta che ha inviato questa estate alla Gazzetta del Sud?».
Una dichiarazione d’amore controcorrente, ma efficace per far sì che gli eterni «promessi sposi» di Montecitorio annuncino le nozze che arrivano dopo quattro anni di amore e di tira e molla dei due fidanzati «bipartisan» che non potrebbero essere più diversi.
Non si tratta dell’unica coppia mista: sempre a Montecitorio c’è quella composta da Nunzia De Girolamo (FI) e Francesco Boccia (Pd).
«Il nostro matrimonio non è il compromesso storico nè il patto del Nazareno – dice Ginefra – Al netto dei sentimenti siamo due persone che nella diversità si apprezzano. Per il rapporto Nord-Sud non siamo mica i personaggi di un film di Checco Zalone. Per tante cose sono più montanaro di lei e lei è più terrona di me».
Anche le nozze, che si terranno nel Castello di Monopoli il 4 giugno, sono frutto di una mediazione politica. «Io avrei voluto una cerimonia a Roma, in Campidoglio, per invitare Camera, Senato, tutto il governo e il presidente Mattarella – spiega Laura Ravetto – Dario invece preferiva nozze intime. Dieci persone in un paesino sperduto. Alla fine gli invitati saranno un centinaio. Pochi politici, tutti amici, e rigorosamente bipartisan. Il vestito l’ho disegnato io e lo sta cucendo Graziana, una sarta di Putignano specializzata in abiti di pizzo. Le fedi saranno semplicissime».
(da “il Tempo“)
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Marzo 9th, 2016 Riccardo Fucile
I BUONI A SETTE EURO E MEZZO L’ORA DILAGANO… ELIMINATI I CO.CO.CO. OGGI RAPPRESENTANO IL NUOVO PRECARIATO
Una volta c’erano l’operaio, la guardia notturna, l’autista, il postino, il cameriere, l’idraulico, l’insegnante,
il professore universitario.
La nostra identità dipendeva anche dal ruolo che il lavoro ci assegnava nella società .
Oggi tutte queste professioni, e molte altre ancora, possono essere riassunte in un unico mestiere: il voucherista.
Essersi fermati alla terza media, come Andrea P., 49 anni, o avere tre lauree come Marco Traversari, 52 anni, docente universitario, per il moderno datore di lavoro forgiato dalla crisi e dalla retorica della quarta rivoluzione industriale non fa nessuna differenza.
Sia Andrea, parcheggiatore notturno a chiamata, sia il professor Traversari valgono 7 euro e 50 centesimi di paga netta l’ora, più un euro e trenta di contributi pensionistici all’Inps, settanta centesimi di assicurazione antinfortunistica all’Inail e cinquanta centesimi di gestione del servizio.
Fanno dieci euro tondi tondi: cioè, il costo orario lordo del lavoro nell’Italia che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato a vita ai proletari della conoscenza.
È nata così una nuova classe sociale: il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola. Ma oggi esteso a tutti i settori.
Un ulteriore contributo della legge all’aumento dei working-poor: i nuovi poveri che, nonostante lavorino, vivono appena sopra il limite di sussistenza, o addirittura al di sotto. Il voucherista non ha infatti diritto a riposi o a ferie pagate. E questo, nel clima di cinesizzazione sociale che stiamo vivendo, potrebbe essere visto come un inutile privilegio.
Ma non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità , a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati.
Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che finora hanno fatto la differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei regimi orientali.
Perchè al di fuori dei pochi centimetri quadrati del voucher e delle relative ore pagate, il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano di esistere.
Pochi giorni fa l’Inps ha confermato il boom anche per il 2015: 115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013.
Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi con punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell’85 in Liguria, dell’83 in Puglia e in Abruzzo, del 79 in Lombardia.
La nuova classe sociale coinvolge già più di un milione e mezzo di lavoratori, due terzi dei quali al Nord. Metà uomini e metà donne.
E l’età media è in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro; 44 e 36 anni nel 2011; 37 e 34 anni oggi.
Anche l’età conferma la trasformazione da rimedio estemporaneo per arrotondare la pensione o gli ultimi anni di attività , a retribuzione vera e propria.
Nel 2015 i datori di lavoro (imprese, commercianti, famiglie) hanno acquistato voucher per un miliardo e centocinquanta milioni di euro, che hanno generato contributi per quasi 150 milioni all’Inps, per 80 milioni all’Inail e compensi ai lavoratori per 862 milioni e 500 mila euro, oltre a 57 milioni in commissioni burocratiche.
Un miliardo di stipendi coi voucher: i buoni lavoro sono diventati più mini job per tutti
Dall’edilizia al turismo, dal commercio ai convegni. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero: invece è diventata una forma di impiego diffusa in tutti i settori
La crisi economica fa sicuramente la sua parte.
Spinge gli imprenditori a tagliare i costi e a impiegare i dipendenti a ore o a giornata, soltanto quando servono.
E mette anche a disposizione una massa di disoccupati, cassintegrati, esodati, mobilitati, licenziati costretti a svolgere più lavori saltuari per raccogliere qualcosa che assomigli alle briciole di una paga. È un po’ come il junk-food, il cibo spazzatura: si mangia quello che capita. Qui siamo al junk-job: si accetta quello che passa.
Non sempre, ovviamente, il giudizio è negativo.
Per gli studenti superiori e universitari i buoni sono una risorsa contro il lavoro nero o l’apertura di costose partite Iva: permettono infatti di lavorare in regola in bar, ristoranti, negozi e uffici per mantenersi parte degli studi.
Nella stessa categoria degli studenti, rientrano quanti arrotondano grazie ai voucher uno o più stipendi part-time. Il lavoro accessorio tra l’altro non va dichiarato al fisco. Ma sono gli unici a dirsi completamente soddisfatti.
La seconda categoria di voucheristi comprende quanti integrano in questo modo la magra pensione di anzianità . Oppure il salario di disoccupazione. E per le persone in mobilità sopra i quarantacinque anni la condizione di voucherista diventa una condanna permanente al sottoprecariato: perchè l’istituzione dei buoni-lavoro offre ai datori la possibilità di non stabilizzare mai i loro dipendenti.
La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto, ora in gran parte aboliti, e le finte partite Iva, settore crollato del dieci per cento nel 2015. E loro stanno addirittura peggio: è la situazione di migliaia di collaboratori, educatori, addetti di cooperative sociali e piccole società a responsabilità limitata che da qualche mese devono accettare stipendi in minima parte pagati con i buoni. Il resto in nero.
L’uso di voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro: quelli che rispettano la norma e trasformano il rapporto accessorio in contratto non appena l’impiego diventa stabile e quanti continuano a suddividere illegalmente l’impiego stabile in più rapporti accessori.
Soltanto due limiti economici imposti dalla legge impediscono al momento una diffusione più massiccia dei voucheristi, auspicata da un’ampia scuola di giuslavoristi rappresentata anche dall’ex ministro nel governo Berlusconi, Maurizio Sacconi.
Sono la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo annuo in buoni che un lavoratore non può superare e di 2.020 euro all’anno pagati da ogni singolo committente. La terza condizione, cioè il vincolo che si tratti di lavoro accessorio, viene già aggirata da tempo. Soprattutto dove i voucher hanno avuto successo nel coprire il lavoro nero.
Superato ogni record per i buoni-pagamento da 10 euro l’ora. Inventati per i lavoretti da giardino o le ripetizioni. Sono diventati uno strumento universale. Dai risvolti anomali. Come scoperto dalla stessa Inps negli alberghi di Jesolo. E come raccontano molti casi.
UN ALIBI PER EVITARE GUAI
Ecco cosa accade in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, regioni in cui l’impiego di voucheristi ha registrato un aumento del 57,4 e del 40,1 per cento nell’ultimo anno.
I buoni-lavoro hanno polverizzato i contratti part-time e stagionali nell’agricoltura.
E oggi anche nelle campagne raccontate nel primo romanzo di Pier Paolo Pasolini “Il sogno di una cosa”, grazie ai voucher si ricorre largamente al lavoro nero.
La raccolta della frutta e la vendemmia in Friuli durante l’estate e l’autunno 2015 hanno consolidato il rapporto tra la parte dello stipendio pagata in buoni e la parte illegale.
È di uno a trenta: 37,50 euro al mese in voucher e 1.062,50 in contante per un massimo mensile di millecento euro. Ovviamente, soltanto per le settimane lavorate. Se piove o la raccolta termina, si va a casa senza paga. Fanno comunque più o meno 40 euro al giorno: un ottimo compenso rispetto ai 25-30 euro pagati, quando va bene, dai caporali in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.
Ma che senso ha staccare 37 euro e 50 al mese in buoni-lavoro su un totale di millecento euro? Sono il valore netto di appena cinque voucher: «Certo», risponde Paolo F., 53 anni, ex operaio in un’impresa subappaltatrice di Fincantieri a Monfalcone e oggi bracciante a chiamata: «E sono l’alibi per evitare guai con l’ispettorato. È la prima informazione che ti danno sui campi: “Se viene un controllo, dite che è il primo giorno che fate qui”.
Il voucher serve a questo: a coprire l’eventuale verifica o l’eventuale infortunio.
Alla raccolta della frutta quest’anno eravamo in novanta.
Un po’ di tutto: padri di famiglia come me, cinquantenni in mobilità da anni, donne senza lavoro, qualche romeno. Tutti pagati 37 euro e 50 in voucher al mese e il resto cash. Fanno oltre novantamila euro al mese di nero che l’azienda tira fuori per pagare il personale.
Per obbligarli a versare i contributi, basterebbe verificare il lavoro eseguito. Come è possibile raccogliere tonnellate di frutta per i supermercati lavorando soltanto le cinque ore al mese retribuite dai voucher?
Inutile aggiungere che di controlli non ne abbiamo mai visti». Perchè non vuole sia rivelato il suo cognome? «Perchè devo lavorare. I voucher hanno cancellato le ultime tutele sindacali: se parli, come minimo non ti chiamano più».
Io schiavo in Puglia
Una norma, introdotta dopo l’inchiesta de “l’Espresso” sul caporalato nella raccolta dei pomodori, impone che i contratti siano registrati un giorno prima del loro inizio.
Con i voucher basta un minuto prima: magari lo stesso momento in cui avviene un incidente. «Sappiamo di imprenditori che una volta passato il nostro controllo hanno disattivato il voucher», rivelano i carabinieri del Nucleo di tutela del lavoro in Lombardia: «Lo sappiamo in via confidenziale. L’Inps non ha nessuna banca dati sulle disattivazioni. Il trucco è attivare il voucher tutti i giorni per una sola ora.
E magari disattivarlo a fine giornata. Per noi diventa impossibile contestare il lavoro nero. Dall’evasione totale dei contributi si passa all’elusione e le sanzioni si riducono. Dovremmo insomma impiegare uomini e risorse dello Stato per recuperare cifre irrisorie che non giustificano il costo».
EDUCATORE E FATTORINO
Basta il confronto con la cedola di una busta paga tradizionale per misurare la smaterializzazione del rapporto di lavoro che il voucher ha garantito.
Questo è quanto riporta la busta: ragione sociale dell’azienda, nome e cognome del dipendente, data di nascita, data di assunzione, scatti di anzianità , luogo di lavoro, mansione, figli a carico, ferie, permessi, Tfr, versamenti Inps e Inail.
E questo è quanto viene richiesto dal voucher: periodo prestazione, codice fiscale datore di lavoro, codice fiscale lavoratore, firma lavoratore. Fine.
Aldo Furini, 55 anni, gestisce con la sorella Silvia la trattoria “Il Santuario” a Rovello Porro, provincia di Como.
Pranzo a prezzo fisso a dodici euro durante la settimana e pizzeria-birreria il venerdì e il sabato sera. Molte fabbriche svuotate dalla delocalizzazione. La concorrenza delle mense aziendali.
«Tutta la settimana bastiamo noi», racconta Furini, «venerdì e sabato, se abbiamo prenotazioni o prevediamo movimento, chiamiamo i ragazzi. Sono tutti studenti. A volte qualcuno non può o è malato, allora si continua il giro di telefonate finchè la necessità è coperta. Li paghiamo tutti con i voucher. Lo Stato ha la grande convenienza. Prende i soldi in anticipo all’acquisto dei buoni e si tiene il venticinque per cento. È un vantaggio anche per l’Inps, visto che per la crisi molte aziende non pagano più i contributi».
Mai pensato di stabilizzare uno o due camerieri? «Vorremmo assumere un dipendente a contratto. Ma le spese sono insopportabili. Soltanto per tenere la contabilità della busta paga, la Camera di commercio ci chiede milleduecento euro all’anno per persona. Più di uno stipendio mensile. Noi non ci stiamo dentro».
Non per tutti la roulette gira così male. Simone Regio, 39 anni, è soddisfatto. Grazie ai voucher può arrotondare i milleseicento euro netti di due contratti part-time: educatore in un centro di riabilitazione psichiatrica e in un’associazione privata.
Il terzo lavoro di voucherista è sui pedali: corriere porta a porta in bicicletta per la “Ubm – Urban bike messengers” di Milano, la più grande società del settore in Italia.
Il suo collega, Simone Gambarin, dai buoni-lavoro è passato al contratto a tempo indeterminato sempre con “Ubm”. E a 36 anni può finalmente permettersi la sua prima casa in affitto. «Per noi i voucher sono stati una soluzione», spiega Gianni Fiammengo, proprietario di Ubm, «per tutte quelle persone che lavorano saltuariamente e che così sono pienamente coperte da contratto, assicurazione e Inps. Ora i voucher li utilizziamo poco perchè gli sgravi fiscali ci hanno permesso di assumere quattordici corrieri full-time. I buoni li usiamo per i pochi part-time rimasti. Nel frattempo l’azienda si è ingrandita».
SE NON SAI PIÙ CHI SEI
Marco Traversari è docente nel laboratorio di Antropologia e lavoro del corso di laurea magistrale in Antropologia dell’Università di Milano Bicocca. Insegna anche Antropologia culturale in un liceo di Brescia. È laureato in scienze politiche, antropologia e filosofia ed è autore di libri e manuali scolastici.
I due contratti part-time da docente coprono solo il settanta per cento del suo fabbisogno per vivere. Per il rimanente trenta per cento, Traversari deve impegnarsi in consulenze culturali, corsi di formazione, partecipazione a conferenze. E in tutto questo è pagato in voucher.
«Nel 2015 i buoni-lavoro hanno spazzato via tutto quello che esisteva: contratti, cococo, cocopro, finte partite Iva, ritenute d’acconto. Dove la pubblica amministrazione ha appaltato i servizi», spiega, «lì le cooperative ora pagano solo in voucher».
Ma il cambiamento va oltre l’eliminazione del contratto. I voucher sono la cifra della trasformazione culturale che stiamo vivendo. In gioco c’è il ruolo sociale di ciascuno: in sociologia, il ruolo è costituito dalle aspettative che gli altri hanno del tuo status sociale. Nel voucher il ruolo è indifferenziato. In questo il voucher è l’emblema del postfordismo: è l’espressione della smaterializzazione del lavoro come costruzione della propria identità stabile.
Freud però ci insegna che l’identità psicologica stabile deriva dall’equilibrio tra eros e lavoro. Nel momento in cui il lavoro diventa instabile, flessibile, smaterializzato anche l’identità psicologica diventa fluida, instabile».
Dove porta tutto questo? «Al problema di non sapere chi sei. Allora diventa potente la necessità di un’identità nazionalistica o religiosa. E lo vediamo in quello che sta succedendo in Europa. Gli studenti comunque vogliono i voucher: chi fa lavori di pochi mesi, trova giusto essere pagato in voucher. La flessibilità è parola che loro mettono in pratica».
L’identità di Andrea P., parcheggiatore notturno a Milano, è flessibile da quando ha perso il lavoro di carrozziere. E poi il contratto di autista.
Lui ha cercato di nascondere il dramma alla moglie e ai due figli. Per portarli in vacanza, ha speso i duemila euro di risparmio dei ragazzi. Ma quando la moglie lo ha scoperto, l’ha cacciato di casa.
Ora Andrea, a quasi cinquant’anni, è tornato a vivere con la mamma, vedova e pensionata. La madre, immigrata pugliese nella Milano del boom economico, non sa che il figlio è un voucherista: 400-500 euro al mese in buoni da marzo a settembre nella stagione dei concerti.
Sorveglia le auto del pubblico oppure controlla i biglietti ai tornelli quando a San Siro e nelle discoteche arrivano i grandi nomi della musica italiana e mondiale.
Ma di tutto lo spettacolo, Andrea prende soltanto le briciole: «Da settembre a marzo faccio la fame», confessa, «non ho però il coraggio di dirlo a mia madre. Allora mi alzo la mattina alle 6,30, mi lavo e mi vesto. E fingo di andare a lavorare».
Il nascondiglio, l’ultimo rifugio stabile sono i tre metri per uno e mezzo della cantina, un finto tappeto di nylon sul cemento, un piumone bianco per scaldarsi, lo scaffale vuoto alla parete, due maglie in cashmere della vita che fu appese a un angolo. Andrea ascolta la radio, dorme, pensa. Fino alle due del pomeriggio, quando esce dal sotterraneo e finge di tornare dal lavoro.
La prima volta che l’hanno pagato in voucher, l’hanno perfino fregato. L’impresario di quel periodo gli ha dato buoni per 400 euro.
Ma quando il parcheggiatore è andato a riscuoterli dal tabaccaio e poi all’Inps, gli hanno detto che erano stati disattivati. Andrea sorride amaro: «Ho scoperto così che anche il buono non era buono».
Fabrizio Gatti
(da “L’Espresso”)
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