Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile ORA L’EGITTO SI INVENTA UN NUOVO “GRUPPO D’INCHIESTA” MENTRE SPARANO ANCHE LA BALLA DELLA PISTA DEL TRAFFICO DI REPERTI ARCHEOLOGICI
Ancora una promessa. L’ennesima di una lunga serie di aspettative create e mai rispettate dalle autorità del Cairo.
Mentre è ancora alta l’indignazione per i risultati delle indagini secondo cui Giulio Regeni, il ricercatore friulano trovato cadavere nella capitali egiziana il 3 febbraio, sarebbe stato ucciso da un gruppo di rapinatori e dopo l’appello per la ricerca della verità lanciato dai genitori in Senato, il procuratore generale egiziano, Ahmed Nabil Sadeq, ha ordinato la formazione di un nuovo team investigativo con l’obiettivo di fare “piena luce” e “svelare la verità ” sull’omicidio. Lo ha reso noto un comunicato della stessa procura generale egiziana.
L’annuncio arriva nelle stesse ore in cui rientra in Italia il team investigativo di tre agenti del Sco e tre del Ros inviati al Cairo il 5 febbraio, a 48 ore dal ritrovamento del corpo, avvenuto lungo la strada che collega il Cairo con Alessandria.
Investigatori cui i colleghi egiziani non hanno mai consegnato i materiali dell’inchiesta promessi nei giorni seguiti alla morte del 28enne di Fiumicello.
Mancano ancora all’appello i dati delle celle telefoniche e i video delle telecamere di sorveglianza di metropolitane e negozi del quartiere nel quale Giulio viveva ed è sparito il 25 gennaio scorso, dei quali la procura di Roma ha fatto, in più occasioni, esplicita richiesta.
Inoltre i documenti inviati fino a oggi dal Cairo contengono informazioni sommarie e carenti anche sui verbali delle testimonianze raccolte dagli inquirenti egiziani.
Dati mai consegnati nonostante le promesse arrivate fin dai primi giorni: il 4 febbraio il portavoce del ministero degli Esteri del Cairo, Ahmed Abu Zeid, spiegava in una nota che il capo della diplomazia egiziana Sameh Shoukry e il numero uno della Farnesina Paolo Gentiloni, in un incontro a Londra, “hanno discusso del decesso dello studente italiano” e “si sono accordati su una cooperazione totale tra i due Paesi per far luce sulle cause del decesso nel quadro delle relazioni di amicizia e cooperazione esistenti tra i due Paesi”.
Il prossimo appuntamento è fissato per martedì 5 aprile, quando la polizia di Roma e quella del Cairo faranno un punto della situazione sul caso Regeni: in quell’occasione, ha assicurato Sadeq a Pignatone nella telefonata del 28 marzo, le autorità egiziane consegneranno tutta la documentazione richiesta dagli inquirenti italiani e quella ulteriormente raccolta.
Se il 5 aprile non ci sarà un “cambio di marcia” e non arriveranno risposte “convincenti”, ha detto il capo della diplomazia italiana, “compiremo passi conseguenti”.
Alla Farnesina si studia il richiamo del nostro ambasciatore al Cairo, opzione meno forte rispetto al ritiro definitivo. Sono state ipotizzate anche una revisione dei rapporti tra Italia ed Egitto e una etichetta nuova per il Paese, da definire come “non sicuro“, cosa che potrebbe ridurre i flussi turistici italiani.
L’ennesima pista falsa: “Ucciso da trafficanti di reperti”
L’ennesima pista falsa sulla morte di Regeni è contenuta in una lettera anonima recapitata all’ambasciata italiana al Cairo. Nel testo si legge di un presunto coinvolgimento del giovane ricercatore friulano in un traffico di reperti archeologici. “Che Regeni potesse essere implicato in un traffico di reperti”, è “assolutamente un’altra bufala che offende la sua memoria”, è una versione “inquinata”, ha detto il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, al termine della audizione da parte del Comitato parlamentare del direttore dell’Aise, Alberto Manenti.
Anche la Procura di Roma ritiene “inattendibile” l’ipotesi.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile PAOLA REGENI: “LO FARO’ SOLO QUANDO SAPRO’ LA VERITA'”
Nei pochi giorni in cui è rimasta al Cairo, tra l’annuncio della scomparsa del figlio e il ritrovamento del
suo cadavere martoriato, Paola Regeni ha guardato la città fino a quel momento ignota con gli occhi degli amici di Giulio, tentando di trovarvi prima qualsiasi dettaglio potesse aiutarlo e poi, disperatamente, un perchè.
«Cercava i tasselli di un puzzle e ci chiedeva frammenti di vita attraverso la traduzione del marito, lei non parla inglese ma ha una forza impressionante, più del padre di Giulio, non piangeva neppure durante la cerimonia funebre del 5 febbraio all’ospedale italiano» racconta al telefono un amico egiziano del ricercatore di Fiumicello che abbracciandola poco dopo le esequie le ha taciuto di essere stato a sua volta torturato a più riprese come il figlio.
«Ho pianto pochissimo, anzi, pur essendo sempre stata una che si commuoveva anche solo ascoltando una canzone un po’ sentimentale, adesso ho un blocco totale che forse si scioglierà solo quando saprò cosa è accaduto» conferma Paola Regeni, l’insegnante, oggi in pensione, che dal 3 febbraio scorso continua a ripetere quanto le abbia insegnato Giulio e come molto spesso siano i genitori a imparare dai loro ragazzi.
Una madre lo sa. E lei sapeva molto del figlio, che pure aveva lasciato casa all’età di 18 anni.
Calma, essenziale, quasi rasserenata dalla propria determinazione a non lasciare aperto l’ultimo tragico capitolo della vita di Giulio, Paola Regeni pesa le parole che da due mesi centellina: «Erroneamente si crede che i figli lontani lo siano non solo fisicamente. Chi ha figli all’estero sa invece che i genitori sviluppano una relazione fortissima con loro, viscerale, forse addirittura più forte di quando si vive tutti insieme».
L’ultima volta che aveva parlato con Giulio su Skype era rimasta due ore davanti allo schermo ad ascoltarlo narrare i progressi nelle ricerche accademiche e i segreti della cucina egiziana appresi dagli amici in cambio della ricetta del tiramisù, lei accanto al marito, una mamma 57enne e un babbo 63enne che, come spesso avviene in questi casi, avevano finito per adottare la tecnologia già lessico dei figli globali, magari scherzandoci sopra in dialetto bisiaco-triestino.
Era domenica 24 gennaio, ventiquattr’ore prima che il ragazzo sparisse, tre giorni prima che arrivasse la telefonata dell’ambasciata italiana al Cairo e la vita prendesse di colpo a girare a vuoto.
È coraggiosissima mamma Regeni. Quando racconta ai cronisti di aver riconosciuto il figlio trasfigurato dalle torture solo dalla punta del naso non s’interrompe neppure per sentire l’effetto che fa quel pugno allo stomaco, va avanti: «Quello che mi tormenta è immaginarmelo prima, mentre cercava di spiegare a chi l’aveva presso chi fosse veramente ricorrendo all’arabo, all’inglese, all’italiano o forse addirittura a quanto conosceva di tedesco e francese. Mi tormenta immaginare i suoi occhi che sul principio non capiscono bene e poi ai primi colpi ricevuti realizzano, con gli strumenti intellettuali di cui Giulio disponeva, che la porta non si aprirà più».
Invano s’indaga lo sguardo intenso di Paola Regeni, il volto minuto, l’espressione mai iconicamente drammatica quasi a proteggere quel che le resta, la vita della figlia minore Irene perchè la sua si è persa per sempre nelle viscere del Cairo.
Non ci sono risposte perchè non ne ha. E non si tratta solo d’ignorare come sia morto suo figlio e per mano di chi.
Anche quando (e se) conoscerà la verità non saprà mai perchè Giulio è stato ammazzato così come lei – lo ripete quasi in trance – non augurerebbe a nessuno.
Francesca Paci
(da “La Stampa”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile PER L’INDIA LA LIBERAZIONE DI GIRONE E’ UNA “RICHIESTA INAMMISSIBILE”
Per l’India la liberazione è una richiesta inammissibile, per l’Italia la detenzione è lesiva dei diritti.
E’ iniziata oggi l’udienza al Tribunale internazionale dell’Aja per far rientrare il marò Salvatore Girone per il periodo in cui si svolgerà il procedimento arbitrale sulla giurisdizione in merito alla vicenda che lo vede accusato insieme a Massimiliano Latorre di aver ucciso due pescatori indiani al largo dello coste dello stato indiano del Kerala nel febbraio del 2012.
Latorre si trova in Italia dal settembre 2014 grazie a un permesso per motivi di salute.
Se oggi l’ambasciatore italiano Francesco Azzarello ha ribadito che la detenzione di Girone “lede i diritti dell’Italia“, l’India ha definito “inammissibile la richiesta di liberazione”. Ma non solo.
L’agente per il governo indiano Neeru Chadha, prendendo la parola durante l’udienza, ha scaricato le colpe della lentezza delle pratiche: “E’ vero che la Corte speciale indiana non ha avviato il processo nei confronti dei due marò, ma non per negligenza o leggerezza da parte indiana, bensì per le azioni di ostruzionismo dell’Italia che ha avanzato ripetuti” ricorsi e petizioni alla giustizia indiana. L’Italia non può ora lamentarsi delle conseguenze della propria condotta”.
Azzarello: “Detenzione Girone lede diritti dell’Italia”
L’ambasciatore italiano, Francesco Azzarello, ha dichiarato davanti alla Corte internazionale che Girone “è costretto a vivere a migliaia di chilometri dalla sua famiglia, con due figli ancora piccoli, privato della sua libertà e dei suoi diritti. Il danno ai suoi diritti riguarda l’Italia, che subisce un pregiudizio grave e irreversibile dal protrarsi della sua detenzione, e dell’esercizio della giurisdizione su un organo dello Stato italiano”.
Per il diplomatico “l’India non ha rispettato nemmeno il principio basilare del giusto processo” e cioè quello di “formulare un capo d’accusa”.
India: “La richiesta dell’Italia è inammissibile”
Diversa la posizione invece dell’India. La richiesta italiana di far rientrare Salvatore Girone in patria è stata definitiva nelle Osservazioni scritte e depositate in tribunale “inammissibile“.
“C’è il rischio che Girone non ritorni in India nel caso venisse riconosciuta a Delhi la giurisdizione sul caso”, prosegue il documento.
“Sarebbero necessarie assicurazioni in tal senso” dall’Italia, che finora sono state “insufficienti”. L’agente del governo ha inoltre ribadito che l’ostruzionismo dell’Italia ha rallentato le operazioni: “L’Italia ha già presentato nel 2015 la stessa richiesta di misure provvisorie al Tribunale del mare di Amburgo (Itlos) che le ha respinte, e da allora nulla è cambiato nelle condizioni di Salvatore Girone. Dal punto di vista indiano, è quindi difficile individuare una circostanza che possa giustificare una nuova richiesta”.
Vertice India-Ue, segnali di disgelo ma annullata conferenza stampa
Segnali di “disgelo” sono emersi nell’incontro ristretto tra il premier indiano Narandra Modi ed i rappresentanti europei (i presidenti del Consiglio e della Commissione, Donald Tusk e Jean Claude Juncker, e l’Alta rappresentante Federica Mogherini) durante il vertice Ue-India a Bruxelles.
Lo riferiscono fonti europee, che indicano come il tema dei marò — che un anno fa portò al rinvio del summit — sia stato formalmente sollevato da Tusk che ha espresso la “preoccupazione” della Ue per la prolungata detenzione anche di britannici ed estoni.
Nell’incontro Modi, secondo le fonti, ha mostrato un atteggiamento “costruttivo”.
La preparazione del vertice, a quanto si apprende, è stata fatta in “stretto coordinamento” con l’Italia, con Mogherini che anche oggi ha avuto un contatto diretto con il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
Al termine del vertice però l’India ha annullato la conferenza stampa.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile UN UOMO DI DESTRA, INDIPENDENTE E FUSTIGATORE DEL MALCOSTUME POLITICO, FAVORITO NELLA CORSA AI VERTICI DELL’ANM
Fischiano molte orecchie alla notizia della possibile, ma per nulla ancora scontata, elezione di
Piercamillo Davigo al vertice dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Un segnale forte, e dalle mille sfaccettature. All’esterno e pure all’interno del sistema delle toghe italiane.
Un monito virtuoso per il futuro ma anche un campanello d’allarme che ci dice che forse nell’eterna transizione italiana, si è sempre al punto di partenza.
La storia e il profilo di Davigo sono noti a tutti. Magistrato di punta di Mani Pulite, preparato, rigoroso.
Uomo di destra cultore del primato di una fredda tecnocrazia giuridica. Aperto fustigatore della politica e dei malcostumi del nostro paese che in un’epica e non del tutto felice esternazione annunciò che loro, i magistrati, avrebbero provveduto a “rivoltare come un calzino”.
Ma era il 27 settembre del 1994 e, come si dice, tant’acqua è passata sotto i ponti. O forse troppo poca, se così spesso sul fronte della questione morale sembriamo eternamente nel medesimo stagno; come proprio Davigo ancora ieri ricordava dal Brasile, così a un tempo confermando le sue denunce ma pure rivelando il sostanziale fallimento di quella che, con qualche superficiale entusiasmo, proclamammo rivoluzione etico/giudiziaria.
Ma, nel suo rigore, Davigo è ancora oggi il simbolo del contropotere, del guardiano occhiuto che non fa sconti alla politica, ai colletti bianchi.
Il tutto accompagnato (particolare niente affatto secondario) da una grande capacità di comunicazione ed esternazione, un’empatia con gli ascoltatori televisivi nelle sue non rare apparizioni, che peraltro ha sempre accostato ad un’immagine di indiscussa indipendenza e autorevolezza.
E qui sta l’ulteriore tratto della meno conosciuta sua vicenda recente, tutta interna alle dinamiche delle toghe, quando Davigo storico rappresentante della corrente di destra denominata Magistratura Indipendente, ha deciso di rompere con questa in dichiarata polemica per l’eccessiva corrività con l’attuale potere politico ed esecutivo plasticamente incarnata da Giacomo Ferri, giudice e sottosegretario nel governo Renzi.
Evidente quindi che la sua possibile elezione al vertice delle toghe, fischi innanzitutto alle orecchie del PD e del premier, attore sostanzialmente solitario di una politica che pur non senza contraddizioni, afferma di voler rialzare la testa.
Rivendica di avere, pur non senza compromessi e strafalcioni, la forza dell’autoriforma. Una Politics che non solo respinge reprimendo ma persino fustiga essa i magistrati di ogni ordine e grado talvolta a ragione ma spesso anche sapendo di ammiccare al ventre molle di una società non proprio incline ad accettare un diffuso ed efficace controllo di legalità .
Ecco allora che ove la possibile elezione di Davigo diventasse realtà , il suo effetto simbolico sarebbe inequivocabile. Insieme virtuoso ma anche spietato indice di un eterno ritorno del sistema paese al punto di partenza.
Il corpo sociale che rappresenta il contropotere sceglie una guida forte, di marcatissima indipendenza.
La politica sappia che sul versate sindacale della magistratura avrà un contraddittore fermo e inattaccabile, irreprensibile e di grande forza comunicativa.
Sul fronte istituzionale un guardiano occhiuto e intransigente. Il tutto è senz’altro utile in una logica di check and balance ma non vi è dubbio che la stessa scelta di una personalità affermatasi oltre un quarto di secolo fa e in ragione della forza simbolica che sin da allora acquisì, non può che apparirci indice di una mai nata autentica stagione riformista.
Come se l’alternativa non possa che essere tra immobilismo e patti con Verdini tra banche e nazareni, che non può stupire generino il ritorno in campo di Davigo.
In un’ottica meno pessimista una così autorevole scelta può salutarsi come segmento di una circuito virtuoso.
Poteri e contropoteri dotandosi tutti di guide forti (da Renzi a Davigo) possono reciprocamente pungolarsi e migliorarsi, gettando via per quanto possibile scorie e compromessi.
C’è ne è davvero tanto bisogno in politica, ma anche tra le toghe.
Gianluigi Pellegrino
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile GIANMARIA TESTA, IL” CAPOSTAZIONE DI CUNEO” CHE LASCIO’ TUTTO PER LA MUSICA
La lunga, coraggiosa lotta di Gian Maria Testa è finita.
Lui non c’è più, se n’è andato a 57 anni, e anche se ormai me l’aspettavo, non me ne capacito.
Come sempre si dice, restano per tutti noi le sue canzoni. Ma a me resta il ricordo e la nostalgia di una bella amicizia durata vent’anni.
Ci eravamo conosciuti nel 1996, in febbraio. A Parigi. Strano posto per conoscersi, per due che sono cresciuti praticamente negli stessi posti, nel Piemonte delle colline e dei vigneti. Ma quel giorno ero a Parigi, e su qualche giornale avevo letto che lo “chansonnier italien” Gian Maria Testa l’indomani avrebbe tenuto un concerto all’Olympia.
All’epoca sapevo poco di questo capostazione di Cuneo che scriveva canzoni bellissime, e che in Francia era molto amato, mentre da noi non se lo filava nessuno.
Così mi venne voglia di conoscerlo, e mi diedi da fare per incontrarlo. Non ricordo come riuscii a scovarlo. Non era così immediato, scovare uno di Cuneo a Parigi, prima del trionfo dei cellulari.
Ma all’epoca ero piuttosto bravo a scovare la gente, quindi lo scovai e ci demmo appuntamento in un piccolo bistrot al Marais, la mattina del gran giorno del concerto all’Olympia.
L’Olympia all’epoca era un santuario. Solo grandi star. Italiani ne passavano pochini: l’unico habituè era Paolo Conte.
Così andai ad incontrare questo capostazione di Cuneo che si preparava a salire sul palcoscenico del santuario, immaginandomelo con addosso una strizza del diavolo.
Gian Maria Testa non dava l’impressione di aver addosso una strizza del diavolo. Lui poi mi ha confessato che ce l’aveva. Però la nascondeva molto bene dietro i baffi stropicciati.
Non mi dava neppure l’impressione di essere un capostazione. Ma questo dipende dal fatto che i capistazione me li sono sempre immaginati con il berretto rosso. Lui una volta me lo ha anche mostrato, il berretto rosso, per cui ho la certezza che all’epoca era davvero un capostazione.
Ha smesso molto tempo dopo, di esserlo, perchè da buon cuneese di sangue contadino prima di convincersi a lasciare il posto fisso in ferrovia ha preferito farsi anni di vita d’inferno, la notte i concerti e la mattina il lavoro, che si sa come vanno le cose nel mondo dello spettacolo, oggi sei una stella e domani ti cerca più nessuno…
Ad ogni modo: quella mattina nel bistrot al Marais il berretto rosso Gian Maria Testa non ce l’aveva, e forse fui un po’ deluso, benchè razionalmente capissi che non c’era ragione di andare in giro per Parigi con un berretto rosso, pur essendo un capostazione.
Ma non era che la prima delle sorprese che Gian Maria Testa mi avrebbe riservato quella mattina. Parlammo a lungo di varia umanità , e delle nostre comuni radici nel Basso Piemonte, e poco di musica.
Parlammo molto in piemontese, in quel bistrot al Marais. Pareva una versione nordista di un film di Totò e Peppino. Fu una mattina piacevole. E la sera, all’Olympia, fu un trionfo.
Io poi scrissi un lungo articolo per il mio giornale, raccontando del capostazione all’Olympia, e subito dopo Enzo Biagi lo intervistò al “Fatto” e Gian Maria Testa divenne popolare anche in Italia.
Da quel giorno sono passati vent’anni, ed è stato bello ascoltare, in questi anni, i dischi e i concerti di Gian Maria Testa ha pubblicato. Non tantissimi, i dischi. Ma tutti necessari, precisi.
Canzoni che raccontavano la vita, i sentimenti, ma anche i drammi del nostro presente; l’immigrazione, su tutti, che è diventata uno dei temi centrali della sua poetica.
Gian Maria è stato un uomo fortunato: ha avuto un dono, e ha saputo metterlo a frutto. Ma dietro a ogni uomo fortunato c’è sempre una donna intelligente e innamorata. E Paola è stata la fortuna di Gian Maria: moglie che qualsiasi uomo gli avrebbe invidiato, madre di un ragazzo meraviglioso, e manager geniale.
Per Gian Maria, Paola Farinetti ha immaginato spettacoli memorabili, affiancandogli i nomi più belli della musica e del teatro italiani, da Enrico Rava a Erri De Luca; sicchè Gian Maria Testa – l’ex capostazione di Cuneo, nato a Cavallermaggiore, cresciuto in una famiglia dove si parlava soltanto il piemontese – è diventato un artista totale, un fenomeno culturale alto, un musicista raffinatissimo. Restando però, sempre e comunque, un uomo semplice, quasi imbarazzato per il bene che si diceva di lui; identico a quello che conobbi vent’anni fa a Parigi, alla vigilia della celebrità .
L’ultima volta ci eravamo incontrati a Sarzana, al Festival della Mente, in settembre. Lui aveva accompagnato sua moglie Paola, che produceva uno degli spettacoli in cartellone. Fu una gioia come sempre, rivedersi. Mi sembrò in forma e gli domandai come andava. Bene, mi disse, bene. Un po’ affaticato, niente di più. Sperai fosse vero. La prossima volta ti voglio sul palco, gli dissi salutandolo. Ci puoi contare, rispose.
E ci credeva. Ci credevamo tutti.
Gabriele Ferraris
(da “la Stampa”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile DOPO DUE MESI DI COMPLICE SILENZIO SULL’OMICIDIO E LE TORTURE A UN ITALIANO, ARRIVA LA PRIMA PRESA DI POSIZIONE DEI SOVRANISTI DELLA DOMENICA… ANCHE LA CARFAGNA CHIEDE GIUSTIZIA… CONTINUA IL SILENZIO OMERTOSO DELLA MELONI E DI SALVINI
Tanto tuonò che piovve: dopo due mesi dalle torture e dall’omicidio di Giulio Regeni che hanno
suscitato indignazione in tutto il mondo civile e dopo la conferenza stampa della madre di Giulio che ha chiesto un intervento “forte” al governo italiano a tutela della dignità e della sovranità nazionale, a destra qualcuno si è svegliato dal letargo.
Mara Carfagna, portavoce del Gruppo di Forza Italia alla Camera ha dichiarato: “Mi unisco all’appello di Paola Regeni. Attendiamo tutti il 5 aprile, sperando vivamente di avere delle informazioni veritiere e non altre fantasiose ricostruzioni. Il governo ha il dovere di dare ai genitori di Giulio Regeni, e all’Italia intera, una risposta che sia degna e che non getti più fango sulla memoria del giovane italiano”.
Ha fatto seguito il senatore Roberto Calderoli della Lega: “Adesso basta, ritiriamo il nostro ambasciatore e rimandiamo indietro il loro, pretendiamo in tempi rapidissimi la verità , non la manfrine della banda criminale che rapisce senza chiedere un riscatto e si tiene i documenti di Regeni nel cassetto di casa, e pretendiamo la giustizia che bisogna dare alla famiglia Regeni”.
Prendiamo atto che la battaglia che abbiamo portato avanti, quasi unici a destra, fin dal primo giorno con oltre 30 articoli dedicati alla rapimento e alle torture subite da Giulio nella sua lenta agonia, ora comicia a essere condivisa anche da esponenti politici della destra patacca.
Strumentale o meno che sia questa improvvisa “conversione”, ci interessa relativamente: il caso di un giovane ricercatore italiano rapito, torturato e ucciso da un regime canaglia va oltre qualsiasi appartenenza, riguarda tutta la comunità nazionale e quindi ben venga un fronte di indignati sempre più esteso.
Certo non dimentichiamo gli omertosi silenzi durati 60 giorni, come non possiamo non sottolineare che ancor oggi da parte dei presunti leader della sedicente destra italiana vige la consegna del silenzio che equivale a esseri complici di chi ha torturato Giulio.
E’ la trincea che divide la Destra della legalità , della sovranità nazionale, del senso dello Stato, da quella corte dei miracoli xenofoba che commenta indignata sui social se un profugo piscia controvento ma glissa su un giovane italiano massacrato da agenti di servizi stranieri.
E per non fare nomi ci riferiamo alla Meloni, a Salvini, ad Azione Nazionale e altri caratteristi del teatrino della pseudodestra italiana.
Difensori solo a parole della sovranità nazionale, facili ad indignarsi solo per i Marò dopo averli mandati loro nella trappola indiana per fare un favore ad armatori privati che così hanno risparmiato sull’ingaggio di contractor.
Se poi qualcuno ritenesse che alle origini della mancata condanna dell’omicidio di Giulio ci fosse la sua collocazione “a sinistra”, il ragionamento sarebbe ancor più miserabile.
Perchè questo differenzia gli statisti dai quaquaraqua: saper rappresentare l’Italia intera nel difendere la dignità di una comunità nazionale, al di là delle appartenenze.
Questo presupporrebbe avere “senso dello Stato”, non solo programmare e pubblicizzare il suo “stato interessante” per una manciata di voti.
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile LE FRATTOCCHIE PADANE A GENOVA: LA POLITICA INTERNAZIONALE SPIEGATA DA UN 87ENNE CON LA TERZA ELEMENTARE, PIU’ AVVEZZO AI FUMI DELLA CUCINA CHE AL “FINANCIAL TIMES”… ASSISTENTE UN ESPERTO IN CENSIMENTI DI CAMPI ROM CHE NON HA MAI TERMINATO L’UNIVERSITA’
Il comunicato stampa sembrerebbe una cosa seria, se non riguardasse la Lega di Genova: “Al via “le Frattocchie” leghiste per formare i nuovi amministratori. Corsi per spiegare la politica e insegnare la scrittura di interrogazioni e documenti nei futuri Municipi. L’inizia del Carroccio è promossa da Bruno Ravera e Davide Rossi”.
Viene subito da augurarsi che i relatori insegnino alle nuove leve perlomeno come gestire i fondi del gruppo regionale, visti i precedenti: il presidente del Consiglio regionale Bruzzone e l’assessore Rixi, ovvero i due maggiori esponenti padagni in regione Liguria, a breve andranno a processo per peculato per l’allegra gestione dei rimborsi spesa.
Si tratta di oltre 80.000 euro spesi per soggiorni in località turistiche nei fine settimana, pranzi a base di ostriche al Cafè de Turin sulla Costa Azzurra, telepass utilizzati da terzi, decine di ricevute di ristoranti per pranzi non certo “istituzionali” e regalie natalizie a spese dei contribuenti.
Da segnalare che un terzo consigliere regionale ( con oltre 70 ricevute nella stessa trattoria savonese) ha patteggiato una condanna a due anni.
E che un neoconsigliere è indagato per aver detto “se avessi un figlio gay lo brucerei nella stufa”, sempre a proposito di “savoir faire” padagno.
Comunque si tratta pur sempre di un’iniziativa lodevole: la politica crea nuovi posti di lavoro ed è noto che tanti giovani leghisti (e non solo) senza arte nè parte hanno trovato nella politica un’adeguata sistemazione.
Soprattutto se non hanno mai terminato gli studi universitari, qualità minima forse per autoproclamarsi “docenti” di politica e legislazione nazionale.
D’altronde in politica conta la competenza e il merito.
Leggiamo a tal proposito che “il prof. Ravera insegna dalle 9 alle 11 e dalle 15 alle 18 e la sua materia è politica nazionale e internazionale”.
Peccato che, salvo che non abbia acquisito una laurea in Albania, magari frequentando lo stesso ateneo di Bossi junior, Bruno Ravera (classe 1929) da Mornese risulti che negli studi si sia fermato alla terza elementare, dedicandosi piuttosto alla ristorazione.
Specializzato più che altro nel carrello dei bolliti, tipico piatto mandrogno, come lui stesso ha affermato in passato.
Come faccia oggi ad essere in grado di insegnare ai giovani la politica internazionale, visto che non sa leggere nemmeno il Finantial Time o il Washington Post, resta un mistero.
Poi però ricordiamo che l’indagato leghista Francesco Bruzzone era bidello ed è in Regione da 5 legislature, rivestendo persino la carica di presidente del Consiglio e allora ce ne facciamo una ragione.
In fondo contano più i bolliti, laureati o meno, che il carrello.
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile E’ TRA I TOP 50 DI FORTUNE, NOMINATO TRA LE PERSONE PIU’ INFLUENTI DEL MONDO
C’è un solo italiano fra i 50 personaggi più influenti al mondo.
Non ha incarichi di governo, nè è a capo di una grande azienda. Si chiama Domenico Lucano, e da tre mandati è sindaco di Riace, paesino calabrese di poco più di duemila abitanti.
Un quarto dei suoi concittadini non sono nati in Calabria: arrivano dall’Afghanistan, dal Senegal, dal Mali, hanno rischiato la vita attraversando il Mediterraneo e a Riace hanno trovato una casa.
Per questo, Lucano si è guadagnato il 40esimo posto nella classifica delle persone più influenti al mondo della rivista Fortune, fianco a fianco con Angela Merkel, papa Francesco e l’ad di Apple, Tim Cook.
In passato, aveva fatto innamorare un regista come Wim Wenders, che a Riace ha dedicato il film Il Volo.
“Qui non ci sono centri d’accoglienza, qui ai migranti diamo una casa vera”, dice orgoglioso Lucano, sindaco della cittadina che neanche i Bronzi – statue di guerrieri del V secolo a. C. ritrovate in mare negli anni ’70 – hanno salvato da povertà e desertificazione.
Lo hanno fatto i profughi: strade e case svuotate dall’emigrazione sono state ripopolate da una comunità multietnica che ha riportato in vita anche gli antichi mestieri.
Hanno riaperto laboratori di ceramica e tessitura, bar, panetterie e persino la scuola elementare.
È stato avviato un programma di raccolta differenziata con due asinelli che si inerpicano nei vicoli del centro, e il Comune ha assunto mediatori culturali “che altrimenti avrebbero dovuto cercare lavoro altrove “.
Un modello che, scrive Fortune, “ha messo contro Lucano la mafia e lo Stato, ma è stato studiato come possibile soluzione alla crisi dei rifugiati in Europa”.
Lei è l’unico italiano in classifica . Si è chiesto perchè?
“Non so neanche chi mi abbia candidato. Forse una studentessa statunitense che ha lavorato su Riace, o una tv che si è occupata di noi. Io l’ho saputo da chi mi chiamava per farmi i complimenti, ma per me non è cambiato niente. Sono solo un sindaco che ci mette l’anima. Nonostante le difficoltà di un territorio condizionato dalle mafie, da problemi economici, dalla disoccupazione e dall’isolamento istituzionale, è un lavoro appassionante”.
Qual era, prima, la vita di Mimmo Lucano?
“Per anni, sono stato un insegnante del laboratorio di chimica. Ora sono in aspettativa, ma non ho mai vissuto di politica nè intendo farlo in futuro. Sono stato anche io un emigrante a Torino, a Roma. Tornare in Calabria è stata la scelta più difficile: come tanti, avrei potuto costruire la mia vita al Nord, ma la voglia di tornare era troppo forte”.
Con quale scopo?
“Da militante del movimento studentesco pensavo di poter partecipare alla costruzione di un mondo migliore. Poi quella via in Italia si è smarrita, ma a me è rimasta la voglia di fare qualcosa di concreto. Provarci non è stato semplice: la prima volta che mi sono candidato, non mi ha votato neanche mio papà . Poi, nel ’98, sulle nostre coste è sbarcato un veliero pieno di richiedenti asilo curdi. E quell’esperienza ha cambiato tutto”.
Cos’è successo?
“Anche con l’appoggio di monsignor Bregantini, allora vescovo di Locri, che invitò ad aprire i conventi per accogliere i migranti, ci venne l’idea di usare le case abbandonate del centro storico per ospitare un popolo in fuga. In paese non erano rimaste più di 400 persone, una comunità che si spegneva giorno dopo giorno. Poi, Riace ha aderito al Programma nazionale asilo ed è diventata luogo di transito di tantissimi migranti. Questo ha dato speranza a chi è arrivato, ma anche a chi ha accolto”.
Questa esperienza è servita da modello in Calabria?
“Quando discutono di immigrazione in Regione neanche mi chiamano. Pensavo che il governatore Mario Oliverio, che come me viene da una tradizione di sinistra, sarebbe stato più aperto al confronto. Nel 2009, l’ex presidente della Regione Loiero fece approvare una legge nota come “Modello Riace”. La presidente della Camera Laura Boldrini è nostra cittadina onoraria. Oggi non riusciamo più a farci ascoltare”.
Si è pentito di essere tornato?
“No, ma non è stato facile. Qui sono solo: mia moglie è a Siena, i miei figli studiano a Roma. Ma quest’esperienza, per quanto non pretenda di risolvere i problemi del Sud, dà un contributo. Dimostra che un altro modo di agire è possibile”.
Alessia Candito
(da “La Repubblica”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile ESCONO A DISTANZA DI POCHI MESI LE FATICHE LETTERARIE DEI DUE EX SINDACI DI ROMA… TRA ACCUSE E TRADIMENTI, CHE FATICA LIBERARSI DELLA MALEDIZIONE DEL CAMPIDOGLIO
Mentre la campagna elettorale per il Campidoglio entra nel vivo, arriva il momento della verità per due ex sindaci della Capitale: Ignazio Marino e Gianni Alemanno. Verità affidate a due libri, due racconti della propria esperienza sulla poltrona di primo cittadino, in uscita a distanza di meno di un mese l’uno dell’altro.
Repubblica anticipa alcuni passaggi di “Un marziano a Roma”, il testo di Ignazio Marino in uscita il 31 marzo.
Al centro del racconto, un atto di accusa permanente contro il presidente del Consiglio Matteo Renzi, colpevole di avere orchestrato un golpe nei suoi confronti per rimuoverlo dalla carica.
Il quotidiano riporta un passaggio in cui l’ex sindaco racconta della via d’uscita offerta dal Pd – attraverso il vicesindaco Marco Causi – per uscire di scena.
“Tu lasci Roma, vai a Filadelfia e spegni il cellulare. Così per irreperibilità del sindaco il governo dovrà nominare un commissario e sciogliere consiglio e giunta.
Marino parla anche delle Olimpiadi, definendo la decisione di presentare la candidatura “una fuga solitaria” del premier eseguita senza coinvolgere il Comune.
E a Giovanni Malagò e Luca Cordero di Montezemolo – scrive il quotidiano – “imputa di avere incentrato il dossier olimpico sulla costruzione del Villaggio di Tor Vergata per soddisfare il consorzio di imprese che su quell’aerea vantano diritti di costruzione”.
E proprio ai costruttori Marino rivolge accuse dirette.
A Francesco Gaetano Caltagirone imputa di avere “quasi sempre utilizzato i media che possiede per infangarmi”, “dei fratelli Toti o Sergio Scarpellini, ho sempre avuto l’impressione che detestassero il rischio di impresa”.
E in giornata il sindaco ha parlato anche a Radio Capital, prendendo tempo sulla sua possibile candidatura.
“Credo che in questo momento i partiti non hanno più la dignità per esprimere una candidatura in una città come Roma. Spero in un movimento e una mobilitazione civica che offra l’opportunità ad un candidato di governare la città . Io non ho detto che mi ricandido. La mia candidatura sarà tema di dibattito nelle prossime ore”, ha detto. “Non è detto che poi sarò io – ha aggiunto – In Italia abbiamo superato i 60 milioni di abitanti e sono sicuro che tra loro c’è una donna o un uomo che sono all’altezza della guida di Roma”.
Altre verità quelle che emergono dal libro di Gianni Alemanno, Verità Capitale, anticipato dal Tempo e in uscita il prossimo 28 aprile. Un racconto non privo di ammissioni di colpa:
“Ci siamo lanciati verso obiettivi difficili e impervi con una macchina con le ruote sgonfie e il volante rotto. Non potevamo non romperci l’osso del collo, anzi fin troppo è stato realizzato in queste condizioni”.
Alemanno riconosce “la debolezza e l’impreparazione della mia squadra di governo, che deriva dai miei personali errori di valutazione e dalla fragilità del movimento politico che mi ha portato a governare il Campidoglio”
Il sindaco poi sferra diverse accuse a diversi esponenti del Centrosinistra.
L’ex sindaco richiama l’attuale presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, allora numero uno della provincia di Roma, soprannominato “er saponetta”, dice per la sua abilità nello schivare problemi e difficoltà .
Fu lui, sostiene Alemanno, a “salvare Luca Odevaine” (uno dei protagonisti dell’inchiesta della Procura di Roma ndr). già vicino all’ex primo cittadino Veltroni, nominandolo capo della Polizia provinciale.
“Con questo non voglio dire che Walter Veltroni e Nicola Zingaretti fossero consapevoli dei traffici di Odevaine, ma non posso non rilevare la profonda differenza di trattamento tra me e loro”
(da “Huffingtonpost”)
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