Marzo 31st, 2016 Riccardo Fucile OGGI LA MEDIA E’ DI 200 L’ANNO CONTRO I 500 DEL PERIODO 1975-1995… IN EUROPA OGGI 198 ATTENTATI CONTRO I 13.595 NEL MONDO
Le bombe di Bruxelles, e prima ancora gli attacchi di Parigi, hanno minato il nostro senso di sicurezza.
Lo spettro della paura è stato ingigantito dalla globalizzazione che accorcia le distanze. Ma anche dai mass media e dalle loro dirette, che alimentano il mostro dell’angoscia di ora in ora.
Eppure, se riuscissimo ad astrarci e a guardare le cose da un’angolazione diversa, scopriremmo che l’Europa non è precipitata nell’abisso.
Tra gli Anni 70 e 90 gli attacchi terroristici erano più frequenti. E le vittime più numerose.
La strage alla stazione di Bologna, le Olimpiadi di Monaco, il volo Pan Am 103 caduto su Lockerbie: sul suolo europeo gli attentati non sono mancati.
Il gruppo più letale dal 1970 a oggi non ha nulla a che vedere con l’Isis o con l’Islam, ma è l’Ira separatista, con 1069 morti.
Mentre negli ultimi cinque anni gli attentati si aggirano infatti una media di 200 l’anno, dal 1975 al 1995 il numero era intorno ai 500 l’anno con punte di 953 del 1975, di 703 nel 1997, di 712 nel 1993.
Questo per quel che riguarda gli atti di terrorismo in Europa.
Se allarghiamo lo sguardo sul mondo possiamo capire molto di più.
Nel 2014 si è registrato un boom di attentati e di vittime a livello mondiale, ma quelli europei sono molto minoritari rispetto al resto del pianeta: 198 contro 13.595
Raphaà«l Zanotti
(da “La Stampa”)
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Marzo 31st, 2016 Riccardo Fucile L’EX PREMIER PROVA A CONVINCERE I BERSANIANI A MOLLARE SPERANZA
«Marino è un mio collaboratore che si è preso la libertà di candidarsi alla segreteria del Pd,
naturalmente io l’ho sconsigliato perchè non mi pare abbia la preparazione professionale per affrontare questa sfida».
Correva l’anno 2009 e a «sconsigliare» pubblicamente a Marino la corsa a segretario contro Bersani e Franceschini era Massimo D’Alema, che aveva preso il chirurgo sotto la sua ala protettiva alla Fondazione Italianieuropei.
Molta acqua è passata sotto i ponti e sei anni dopo quella constatazione d’incompetenza «professionale», D’Alema sembra ci abbia ripensato. Tanto da aver offerto proprio a Marino la chance di vendicarsi contro Renzi presentandosi come il campione della minoranza dem al prossimo congresso. Ma andiamo con ordine.
Il colloquio tra l’ex presidente del Consiglio e l’ex sindaco di Roma risalirebbe a prima di Pasqua, dopo la rinuncia ufficiale a candidarsi di Massimo Bray (anche lui della scuola Italianieuropei), prima scelta di D’Alema.
La proposta sarebbe stata articolata in due tappe. La prima prevede, appunto, la discesa in campo di Marino a Roma contro Roberto Giachetti. Per drenare voti dal bacino di centrosinistra e provare a superare il candidato renziano.
Un sogno? I sondaggi in questi ultimissimi giorni danno Giachetti in leggero sorpasso rispetto alla grillina Raggi, ma Marino ha appena iniziato il suo bombardamento contro la casa madre. Ed è convinto di potersela giocare davvero.
O quantomeno di poter fare molto male al Pd. «Del governo Renzi io penso tutto il male possibile – ha dichiarato ieri – perchè quelli che come me hanno votato nel 2013 volevano un governo di centrosinistra. Non volevano cacciare Veltroni o D’Alema per avere Verdini».
Un riferimento non casuale, quello alla rottamazione dei due padri nobili del Pd, che suona come un messaggio chiaro ai nostalgici del vecchio partito e dell’Ulivo.
I fuochi d’artificio di ieri sarebbero insomma soltanto l’antipasto di una campagna di duro martellamento contro il suo ex partito, reo di avergli voltato le spalle a tradimento.
I renziani lo temono, prova ne sia il tentativo di silenziare le accuse formulate ieri davanti alla stampa estera e poi in diverse ospitate nei salotti tv.
Se lo scopo di Marino è quello di arrivare al ballottaggio a Roma, D’Alema pensa ancora più in grande. E si arriva così al secondo stadio del missile puntato contro Renzi.
L’idea del leader Maximo (legatissimo all’ex sindaco anche per un aiuto medico importante ricevuto a favore di un familiare) sarebbe infatti quella di sfruttare il bottino elettorale di Marino a Roma come trampolino di lancio per una sua candidatura nazionale al Congresso del Pd.
Per farne insomma lo sfidante ufficiale al segretario-premier nel dicembre del prossimo anno.
Il presidente di Italianieuropei ritiene infatti quella di Roberto Speranza una candidatura troppo debole.
E avrebbe provato a convincere anche Pierluigi Bersani a convergere con le sue truppe sul chirurgo genovese. Lo spauracchio che agita per indurre la minoranza a mollare Speranza è quello di Michele Emiliano.
Il carismatico governatore della Puglia che appare lanciatissimo, deciso a sfruttare la campagna per il referendum contro le trivelle per puntellare la sua corsa alla segreteria nazionale.
E se le primarie fossero una sfida a tre – Renzi, Speranza, Emiliano – a fare la fine del vaso di coccio potrebbe essere proprio il giovane ex capogruppo.
I bersaniani tuttavia non hanno abboccato. «D’Alema la volta scorsa ci ha imposto Cuperlo — ragiona uno di loro — e ci ha mandato a sbattere contro un muro. Nessuno di noi è disposto a fare il kamikaze per lui».
Anche Marino, del resto, non ha ancora sciolto la sua riserva riguardo a Roma.
La moglie dell’ex sindaco è contrarissima a una sua discesa in campo. L’ex sindaco attende poi, prima di decidere, una presa di posizione pubblica del Pontefice.
Che gli avrebbe promesso di chiarire una volta per tutte l’incidente di Filadelfia e quel glaciale «non l’ho invitato io» che simbolicamente fu l’inizio della fine per il marziano di Roma.
Francesco Bei
(da “La Stampa”)
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Marzo 31st, 2016 Riccardo Fucile L’ESPRESSO MOSTRA LE LETTERE CHE LO INCHIODANO: NON ERA ALL’OSCURO
Il Vaticano ha aperto un’inchiesta sull’attico di Tarcisio Bertone, e ha già iscritto nel registro degli indagati due persone: Giuseppe Profiti, ex presidente del Bambin Gesù e manager vicinissimo al cardinale, e l’ex tesoriere Massimo Spina.
L’istruttoria penale è scaturita dalle rivelazioni del saggio “Avarizia”, pubblicato da chi scrive , e ora rischia di sconvolgere nuovamente gli assetti della curia romana: i giudici di papa Francesco ipotizzano infatti reati gravissimi («peculato, appropriazione e uso illecito di denaro», si legge nelle carte d’accusa) e hanno già trovato i riscontri documentali che dimostrano che i lavori di ristrutturazione dell’appartamento sono stati pagati dalla Fondazione dell’ospedale pediatrico “Bambin Gesù”.
Lavori costati in totale ben 422 mila euro (“Avarizia” sottostimava la cifra a 200 mila euro), che sono stati fatturati nel 2014 non alla società italiana che ha materialmente effettuato il restauro (La Castelli Re, fallita a luglio del 2015), ma a una holding britannica con sede a Londra, la LG Concractor Ltd.
Controllata sempre da Gianantonio Bandera, titolare della Castelli Re e amico personale di Bertone.
I soldi destinati ai bambini malati sono stati, in pratica, utilizzati per la ristrutturazione, e poi girati a Londra.
Oltre alle sette fatture pagate al costruttore attraverso i conti Ior e Apsa della Fondazione, però, i magistrati di papa Francesco hanno in mano anche lettere firmate che inchiodano l’ex segretario di Stato di Benedetto XVI alle sue responsabilità : Bertone, che ha finora sostenuto di essere all’oscuro di eventuali finanziamenti di terzi, è invece sempre stato a conoscenza che i soldi del restauro del suo appartamento venivano (anche?) dall’ente di beneficenza dell’ospedale vaticano.
“L’Espresso”, in un’inchiesta nel numero in edicola domani è in grado di raccontare l’intera vicenda, e mostrare tutte le carte segrete.
Tra cui la corrispondenza tra Profiti e Bertone. Dove si evince che il manager, in una lettera firmata del 7 novembre 2013, ha davvero offerto al cardinale di pagare (tramite la onlus dedicata ai bambini malati) i lavori dell’attico di residenza in cambio di ospitare «incontri istituzionali» nella casa, e che Bertone – il giorno dopo – lo ha ringraziato accettando l’offerta, allegandogli persino una lista di “desiderata”.
La lettera di Profiti, presidente della Fondazione Bambin Gesù, mandata a Bertone il 7 novembre 2013, in cui il manager si offre di pagare i lavori di ristrutturazione della casa del cardinale:
«Egregio Professore, la ringrazio per la lettera del 7 novembre, che mi ha inviato a nome della Fondazione Bambino Gesù» scrive Bertone.
«Al riguardo, come già riferito nelle vie più brevi, tengo a confermare che sarà mia cura fare in modo che la copertura economica occorrente alla realizzazione degli interventi proposti nella documentazione che allego, venga messa a disposizione della Fondazione a cura di terzi, affinchè nulla resti a carico di codesta Istituzione».
Il cardinale si era sempre difeso affermando che tutto era avvenuto a sua insaputa.
«È una calunnia» s’era giustificato: «Ho pagato 300 mila euro, di tasca mia, secondo le fatture che mi aveva mandato il Governatorato, proprietario dell’immobile. I 200 mila euro versati dalla Fondazione? Io non ho visto nulla. Ed escludo in modo assoluto di aver mai dato indicazioni o autorizzato la Fondazione ad alcun pagamento».
Ora sappiamo che, almeno sul punto, mentiva.
La lettera di risposta di Bertone a Profiti, mandata l’8 novembre 2013: il cardinale ringrazia e accetta l’offerta, allegando anche la documentazione con alcuni interventi da realizzare
Come detto, sul registro degli indagati del promotore di Giustizia sono finiti per ora in due: Profiti, da sempre manager di fiducia di Bertone e all’epoca dei fatti presidente sia del Bambin Gesù che della Fondazione, e l’ex tesoriere Spina.
Il Vaticano considera entrambi «pubblici ufficiali» vaticani, e li accusa di concorso in peculato perchè «si sono appropriati» si legge nel capo d’accusa «e comunque hanno utilizzato in modo illecito» fondi dell’ospedale «per pagare lavori di ristrutturazione edilizia di un immobile di terzi sito all’interno della Città del Vaticano, sul quale nessuna competenza e nessun interesse poteva vantare la predetta Fondazione».
Nel documento dei pm non viene citato il nome di Bertone, ma difficilmente la Santa Sede potrà evitare un suo coinvolgimento diretto nello scandalo.
Se Bertone fosse incriminato non sarebbe comunque giudicato dal tribunale ordinario che sta indagando su Profiti e il tesoriere, ma dalla Corte di Cassazione della Città del Vaticano: secondo la giurisdizione d’Oltretevere è quello l’unico organo che ha il potere di aprire un’istruttoria sui peccati dei cardinali di Santa Romana Chiesa. Sarebbe il primo caso della storia.
Ma la documentazione contabile in mano al promotore di giustizia apre anche nuovi, preoccupanti scenari: quelli di un doppio pagamento.
Bertone ha infatti spiegato di possedere la documentazione che dimostrerebbe come sia stato anche lui a saldare il conto. Attraverso un pagamento di 300 mila euro. «Mentre avanzavano i lavori e alla Ragioneria arrivavano le fatture da pagare, fui invitato dal Governatorato, il proprietario dell’immobile, a saldare. E come risulta da una precisa documentazione, ho versato al Governatorato la somma», ha confermato in un’intervista.
Tralasciando la sorpresa di scoprire che un uomo di Chiesa ha un conto in banca capace di coprire spese per quasi mezzo milione di euro (tra lavori e successiva donazione), il pagamento a cui fa riferimento il prelato non è mai stato smentito dal Governatorato, un organismo presieduto dal cardinale Giuseppe Bertello.
Dal momento che finora è certo che la Fondazione ha girato al costruttore Bandera 422mila euro per gli stessi lavori, delle due l’una: o Bertone mente di nuovo – ed è coperto dagli uffici del Governatorato – e in realtà non ha mai versato un euro, oppure il costruttore ha ottenuto per la medesima ristrutturazione non solo i denari della Fondazione, ma anche i 300 mila euro di Bertone fatturati dagli uffici della Santa Sede.
Entrambe le versioni imbarazzano non poco il Vaticano. Che ha aperto – con coraggio – un vaso di Pandora in cui rischiano di finire altri, insospettabili protagonisti.
Emiliano Fittipaldi
(da “L’Espresso”)
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Marzo 31st, 2016 Riccardo Fucile LA DECISIONE PER DIRIMERE UNA CONTESA TRA GENITORI SEPARATI: “GLI ISTITUTI PRIVATI POSSONO CONDIZIONARE L’EDUCAZIONE, QUELLI STATALI GARANTISCONO LA NEUTRALITA'”
La scuola pubblica rappresenta una scelta neutra, mentre la privata potrebbe “orientare il minore
verso determinate scelte educative o culturali in genere”.
Con questa motivazione, il Tribunale di Milano ha deciso che i figli di una coppia separata debbano frequentare un istituto statale, come chiesto dal padre, e non uno cattolico paritario, indicato invece dalla madre.
La sentenza, firmata lo scorso 18 marzo dal giudice Giuseppe Buffone della nona Sezione civile, conclude che “non si possa affatto dire che la scuola privata risponda “al preminente interesse del minore”, poichè vorrebbe dire che le istituzioni di carattere privato sono migliori di quelle pubbliche “.
Pertanto, conclude il giudice, “la decisione dell’Ufficio giudiziario non può che essere a favore dell’istruzione pubblica”.
Il caso su cui il Tribunale si è trovato a decidere riguarda due ragazzini di 12 e 9 anni. Quando la famiglia era unita, frequentavano scuole paritarie cattoliche.
Dopo la separazione, nonostante la difficile situazione economica che i genitori si sono trovati ad affrontare, la madre ha insistito perchè fosse garantita ai bambini “un’istruzione in continuità con quanto fatto fino a quel momento “.
Il giudice della nona Sezione civile, presieduta da Paola Ortolan, ha rimarcato come “pretendere che i figli continuino a godere del medesimo benessere che prima poteva essere garantito costituisce l’espressione di un ‘diritto immaginario’ che non trova tutela nell’ordinamento giuridico “.
E ha concluso che “laddove sussista conflitto dei genitori separati sulla frequenza dei figli tra scuola privata e pubblica”, in mancanza di “evidenti controindicazioni”, allora “la decisione dell’Ufficio giudiziario non può che essere a favore dell’istruzione pubblica”.
Secondo la statistica del Tribunale, le decisioni riguardanti la scuola sono l’argomento di lite più frequente nelle coppie riguardo ai figli, insieme a quelle sulla residenza.
Laura Cossar, avvocato di diritto di famiglia e membro dell’ufficio di presidenza dell’Ordine degli avvocati di Milano, dice: “La sentenza, che condivido in pieno, mette ordine in una questione che genera diatribe. Capita che la scuola privata risponda a un bisogno identitario del minore, come gli istituti ebraici per i figli di ebrei ortodossi, o gli istituti “nazionali” a cui gli stranieri iscrivono i figli. Ma sono eccezioni. Spesso uno dei genitori fa della scuola privata una questione di appartenenza a un’èlite o un capriccio”. Per l’avvocato Cinzia Calabrese, presidente Aiaf Lombardia, “più in generale, nel momento in cui i genitori non sono in grado di fare una scelta per il figlio e devono rivolgersi a un giudice, significa che non stanno tutelando il suo interesse”.
Franco Vanni
(da “La Repubblica”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile PAOLA REGENI: “LO FARO’ SOLO QUANDO SAPRO’ LA VERITA'”
Nei pochi giorni in cui è rimasta al Cairo, tra l’annuncio della scomparsa del figlio e il ritrovamento del
suo cadavere martoriato, Paola Regeni ha guardato la città fino a quel momento ignota con gli occhi degli amici di Giulio, tentando di trovarvi prima qualsiasi dettaglio potesse aiutarlo e poi, disperatamente, un perchè.
«Cercava i tasselli di un puzzle e ci chiedeva frammenti di vita attraverso la traduzione del marito, lei non parla inglese ma ha una forza impressionante, più del padre di Giulio, non piangeva neppure durante la cerimonia funebre del 5 febbraio all’ospedale italiano» racconta al telefono un amico egiziano del ricercatore di Fiumicello che abbracciandola poco dopo le esequie le ha taciuto di essere stato a sua volta torturato a più riprese come il figlio.
«Ho pianto pochissimo, anzi, pur essendo sempre stata una che si commuoveva anche solo ascoltando una canzone un po’ sentimentale, adesso ho un blocco totale che forse si scioglierà solo quando saprò cosa è accaduto» conferma Paola Regeni, l’insegnante, oggi in pensione, che dal 3 febbraio scorso continua a ripetere quanto le abbia insegnato Giulio e come molto spesso siano i genitori a imparare dai loro ragazzi.
Una madre lo sa. E lei sapeva molto del figlio, che pure aveva lasciato casa all’età di 18 anni.
Calma, essenziale, quasi rasserenata dalla propria determinazione a non lasciare aperto l’ultimo tragico capitolo della vita di Giulio, Paola Regeni pesa le parole che da due mesi centellina: «Erroneamente si crede che i figli lontani lo siano non solo fisicamente. Chi ha figli all’estero sa invece che i genitori sviluppano una relazione fortissima con loro, viscerale, forse addirittura più forte di quando si vive tutti insieme».
L’ultima volta che aveva parlato con Giulio su Skype era rimasta due ore davanti allo schermo ad ascoltarlo narrare i progressi nelle ricerche accademiche e i segreti della cucina egiziana appresi dagli amici in cambio della ricetta del tiramisù, lei accanto al marito, una mamma 57enne e un babbo 63enne che, come spesso avviene in questi casi, avevano finito per adottare la tecnologia già lessico dei figli globali, magari scherzandoci sopra in dialetto bisiaco-triestino.
Era domenica 24 gennaio, ventiquattr’ore prima che il ragazzo sparisse, tre giorni prima che arrivasse la telefonata dell’ambasciata italiana al Cairo e la vita prendesse di colpo a girare a vuoto.
È coraggiosissima mamma Regeni. Quando racconta ai cronisti di aver riconosciuto il figlio trasfigurato dalle torture solo dalla punta del naso non s’interrompe neppure per sentire l’effetto che fa quel pugno allo stomaco, va avanti: «Quello che mi tormenta è immaginarmelo prima, mentre cercava di spiegare a chi l’aveva presso chi fosse veramente ricorrendo all’arabo, all’inglese, all’italiano o forse addirittura a quanto conosceva di tedesco e francese. Mi tormenta immaginare i suoi occhi che sul principio non capiscono bene e poi ai primi colpi ricevuti realizzano, con gli strumenti intellettuali di cui Giulio disponeva, che la porta non si aprirà più».
Invano s’indaga lo sguardo intenso di Paola Regeni, il volto minuto, l’espressione mai iconicamente drammatica quasi a proteggere quel che le resta, la vita della figlia minore Irene perchè la sua si è persa per sempre nelle viscere del Cairo.
Non ci sono risposte perchè non ne ha. E non si tratta solo d’ignorare come sia morto suo figlio e per mano di chi.
Anche quando (e se) conoscerà la verità non saprà mai perchè Giulio è stato ammazzato così come lei – lo ripete quasi in trance – non augurerebbe a nessuno.
Francesca Paci
(da “La Stampa”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile PER L’INDIA LA LIBERAZIONE DI GIRONE E’ UNA “RICHIESTA INAMMISSIBILE”
Per l’India la liberazione è una richiesta inammissibile, per l’Italia la detenzione è lesiva dei diritti.
E’ iniziata oggi l’udienza al Tribunale internazionale dell’Aja per far rientrare il marò Salvatore Girone per il periodo in cui si svolgerà il procedimento arbitrale sulla giurisdizione in merito alla vicenda che lo vede accusato insieme a Massimiliano Latorre di aver ucciso due pescatori indiani al largo dello coste dello stato indiano del Kerala nel febbraio del 2012.
Latorre si trova in Italia dal settembre 2014 grazie a un permesso per motivi di salute.
Se oggi l’ambasciatore italiano Francesco Azzarello ha ribadito che la detenzione di Girone “lede i diritti dell’Italia“, l’India ha definito “inammissibile la richiesta di liberazione”. Ma non solo.
L’agente per il governo indiano Neeru Chadha, prendendo la parola durante l’udienza, ha scaricato le colpe della lentezza delle pratiche: “E’ vero che la Corte speciale indiana non ha avviato il processo nei confronti dei due marò, ma non per negligenza o leggerezza da parte indiana, bensì per le azioni di ostruzionismo dell’Italia che ha avanzato ripetuti” ricorsi e petizioni alla giustizia indiana. L’Italia non può ora lamentarsi delle conseguenze della propria condotta”.
Azzarello: “Detenzione Girone lede diritti dell’Italia”
L’ambasciatore italiano, Francesco Azzarello, ha dichiarato davanti alla Corte internazionale che Girone “è costretto a vivere a migliaia di chilometri dalla sua famiglia, con due figli ancora piccoli, privato della sua libertà e dei suoi diritti. Il danno ai suoi diritti riguarda l’Italia, che subisce un pregiudizio grave e irreversibile dal protrarsi della sua detenzione, e dell’esercizio della giurisdizione su un organo dello Stato italiano”.
Per il diplomatico “l’India non ha rispettato nemmeno il principio basilare del giusto processo” e cioè quello di “formulare un capo d’accusa”.
India: “La richiesta dell’Italia è inammissibile”
Diversa la posizione invece dell’India. La richiesta italiana di far rientrare Salvatore Girone in patria è stata definitiva nelle Osservazioni scritte e depositate in tribunale “inammissibile“.
“C’è il rischio che Girone non ritorni in India nel caso venisse riconosciuta a Delhi la giurisdizione sul caso”, prosegue il documento.
“Sarebbero necessarie assicurazioni in tal senso” dall’Italia, che finora sono state “insufficienti”. L’agente del governo ha inoltre ribadito che l’ostruzionismo dell’Italia ha rallentato le operazioni: “L’Italia ha già presentato nel 2015 la stessa richiesta di misure provvisorie al Tribunale del mare di Amburgo (Itlos) che le ha respinte, e da allora nulla è cambiato nelle condizioni di Salvatore Girone. Dal punto di vista indiano, è quindi difficile individuare una circostanza che possa giustificare una nuova richiesta”.
Vertice India-Ue, segnali di disgelo ma annullata conferenza stampa
Segnali di “disgelo” sono emersi nell’incontro ristretto tra il premier indiano Narandra Modi ed i rappresentanti europei (i presidenti del Consiglio e della Commissione, Donald Tusk e Jean Claude Juncker, e l’Alta rappresentante Federica Mogherini) durante il vertice Ue-India a Bruxelles.
Lo riferiscono fonti europee, che indicano come il tema dei marò — che un anno fa portò al rinvio del summit — sia stato formalmente sollevato da Tusk che ha espresso la “preoccupazione” della Ue per la prolungata detenzione anche di britannici ed estoni.
Nell’incontro Modi, secondo le fonti, ha mostrato un atteggiamento “costruttivo”.
La preparazione del vertice, a quanto si apprende, è stata fatta in “stretto coordinamento” con l’Italia, con Mogherini che anche oggi ha avuto un contatto diretto con il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
Al termine del vertice però l’India ha annullato la conferenza stampa.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile UN UOMO DI DESTRA, INDIPENDENTE E FUSTIGATORE DEL MALCOSTUME POLITICO, FAVORITO NELLA CORSA AI VERTICI DELL’ANM
Fischiano molte orecchie alla notizia della possibile, ma per nulla ancora scontata, elezione di
Piercamillo Davigo al vertice dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Un segnale forte, e dalle mille sfaccettature. All’esterno e pure all’interno del sistema delle toghe italiane.
Un monito virtuoso per il futuro ma anche un campanello d’allarme che ci dice che forse nell’eterna transizione italiana, si è sempre al punto di partenza.
La storia e il profilo di Davigo sono noti a tutti. Magistrato di punta di Mani Pulite, preparato, rigoroso.
Uomo di destra cultore del primato di una fredda tecnocrazia giuridica. Aperto fustigatore della politica e dei malcostumi del nostro paese che in un’epica e non del tutto felice esternazione annunciò che loro, i magistrati, avrebbero provveduto a “rivoltare come un calzino”.
Ma era il 27 settembre del 1994 e, come si dice, tant’acqua è passata sotto i ponti. O forse troppo poca, se così spesso sul fronte della questione morale sembriamo eternamente nel medesimo stagno; come proprio Davigo ancora ieri ricordava dal Brasile, così a un tempo confermando le sue denunce ma pure rivelando il sostanziale fallimento di quella che, con qualche superficiale entusiasmo, proclamammo rivoluzione etico/giudiziaria.
Ma, nel suo rigore, Davigo è ancora oggi il simbolo del contropotere, del guardiano occhiuto che non fa sconti alla politica, ai colletti bianchi.
Il tutto accompagnato (particolare niente affatto secondario) da una grande capacità di comunicazione ed esternazione, un’empatia con gli ascoltatori televisivi nelle sue non rare apparizioni, che peraltro ha sempre accostato ad un’immagine di indiscussa indipendenza e autorevolezza.
E qui sta l’ulteriore tratto della meno conosciuta sua vicenda recente, tutta interna alle dinamiche delle toghe, quando Davigo storico rappresentante della corrente di destra denominata Magistratura Indipendente, ha deciso di rompere con questa in dichiarata polemica per l’eccessiva corrività con l’attuale potere politico ed esecutivo plasticamente incarnata da Giacomo Ferri, giudice e sottosegretario nel governo Renzi.
Evidente quindi che la sua possibile elezione al vertice delle toghe, fischi innanzitutto alle orecchie del PD e del premier, attore sostanzialmente solitario di una politica che pur non senza contraddizioni, afferma di voler rialzare la testa.
Rivendica di avere, pur non senza compromessi e strafalcioni, la forza dell’autoriforma. Una Politics che non solo respinge reprimendo ma persino fustiga essa i magistrati di ogni ordine e grado talvolta a ragione ma spesso anche sapendo di ammiccare al ventre molle di una società non proprio incline ad accettare un diffuso ed efficace controllo di legalità .
Ecco allora che ove la possibile elezione di Davigo diventasse realtà , il suo effetto simbolico sarebbe inequivocabile. Insieme virtuoso ma anche spietato indice di un eterno ritorno del sistema paese al punto di partenza.
Il corpo sociale che rappresenta il contropotere sceglie una guida forte, di marcatissima indipendenza.
La politica sappia che sul versate sindacale della magistratura avrà un contraddittore fermo e inattaccabile, irreprensibile e di grande forza comunicativa.
Sul fronte istituzionale un guardiano occhiuto e intransigente. Il tutto è senz’altro utile in una logica di check and balance ma non vi è dubbio che la stessa scelta di una personalità affermatasi oltre un quarto di secolo fa e in ragione della forza simbolica che sin da allora acquisì, non può che apparirci indice di una mai nata autentica stagione riformista.
Come se l’alternativa non possa che essere tra immobilismo e patti con Verdini tra banche e nazareni, che non può stupire generino il ritorno in campo di Davigo.
In un’ottica meno pessimista una così autorevole scelta può salutarsi come segmento di una circuito virtuoso.
Poteri e contropoteri dotandosi tutti di guide forti (da Renzi a Davigo) possono reciprocamente pungolarsi e migliorarsi, gettando via per quanto possibile scorie e compromessi.
C’è ne è davvero tanto bisogno in politica, ma anche tra le toghe.
Gianluigi Pellegrino
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile GIANMARIA TESTA, IL” CAPOSTAZIONE DI CUNEO” CHE LASCIO’ TUTTO PER LA MUSICA
La lunga, coraggiosa lotta di Gian Maria Testa è finita.
Lui non c’è più, se n’è andato a 57 anni, e anche se ormai me l’aspettavo, non me ne capacito.
Come sempre si dice, restano per tutti noi le sue canzoni. Ma a me resta il ricordo e la nostalgia di una bella amicizia durata vent’anni.
Ci eravamo conosciuti nel 1996, in febbraio. A Parigi. Strano posto per conoscersi, per due che sono cresciuti praticamente negli stessi posti, nel Piemonte delle colline e dei vigneti. Ma quel giorno ero a Parigi, e su qualche giornale avevo letto che lo “chansonnier italien” Gian Maria Testa l’indomani avrebbe tenuto un concerto all’Olympia.
All’epoca sapevo poco di questo capostazione di Cuneo che scriveva canzoni bellissime, e che in Francia era molto amato, mentre da noi non se lo filava nessuno.
Così mi venne voglia di conoscerlo, e mi diedi da fare per incontrarlo. Non ricordo come riuscii a scovarlo. Non era così immediato, scovare uno di Cuneo a Parigi, prima del trionfo dei cellulari.
Ma all’epoca ero piuttosto bravo a scovare la gente, quindi lo scovai e ci demmo appuntamento in un piccolo bistrot al Marais, la mattina del gran giorno del concerto all’Olympia.
L’Olympia all’epoca era un santuario. Solo grandi star. Italiani ne passavano pochini: l’unico habituè era Paolo Conte.
Così andai ad incontrare questo capostazione di Cuneo che si preparava a salire sul palcoscenico del santuario, immaginandomelo con addosso una strizza del diavolo.
Gian Maria Testa non dava l’impressione di aver addosso una strizza del diavolo. Lui poi mi ha confessato che ce l’aveva. Però la nascondeva molto bene dietro i baffi stropicciati.
Non mi dava neppure l’impressione di essere un capostazione. Ma questo dipende dal fatto che i capistazione me li sono sempre immaginati con il berretto rosso. Lui una volta me lo ha anche mostrato, il berretto rosso, per cui ho la certezza che all’epoca era davvero un capostazione.
Ha smesso molto tempo dopo, di esserlo, perchè da buon cuneese di sangue contadino prima di convincersi a lasciare il posto fisso in ferrovia ha preferito farsi anni di vita d’inferno, la notte i concerti e la mattina il lavoro, che si sa come vanno le cose nel mondo dello spettacolo, oggi sei una stella e domani ti cerca più nessuno…
Ad ogni modo: quella mattina nel bistrot al Marais il berretto rosso Gian Maria Testa non ce l’aveva, e forse fui un po’ deluso, benchè razionalmente capissi che non c’era ragione di andare in giro per Parigi con un berretto rosso, pur essendo un capostazione.
Ma non era che la prima delle sorprese che Gian Maria Testa mi avrebbe riservato quella mattina. Parlammo a lungo di varia umanità , e delle nostre comuni radici nel Basso Piemonte, e poco di musica.
Parlammo molto in piemontese, in quel bistrot al Marais. Pareva una versione nordista di un film di Totò e Peppino. Fu una mattina piacevole. E la sera, all’Olympia, fu un trionfo.
Io poi scrissi un lungo articolo per il mio giornale, raccontando del capostazione all’Olympia, e subito dopo Enzo Biagi lo intervistò al “Fatto” e Gian Maria Testa divenne popolare anche in Italia.
Da quel giorno sono passati vent’anni, ed è stato bello ascoltare, in questi anni, i dischi e i concerti di Gian Maria Testa ha pubblicato. Non tantissimi, i dischi. Ma tutti necessari, precisi.
Canzoni che raccontavano la vita, i sentimenti, ma anche i drammi del nostro presente; l’immigrazione, su tutti, che è diventata uno dei temi centrali della sua poetica.
Gian Maria è stato un uomo fortunato: ha avuto un dono, e ha saputo metterlo a frutto. Ma dietro a ogni uomo fortunato c’è sempre una donna intelligente e innamorata. E Paola è stata la fortuna di Gian Maria: moglie che qualsiasi uomo gli avrebbe invidiato, madre di un ragazzo meraviglioso, e manager geniale.
Per Gian Maria, Paola Farinetti ha immaginato spettacoli memorabili, affiancandogli i nomi più belli della musica e del teatro italiani, da Enrico Rava a Erri De Luca; sicchè Gian Maria Testa – l’ex capostazione di Cuneo, nato a Cavallermaggiore, cresciuto in una famiglia dove si parlava soltanto il piemontese – è diventato un artista totale, un fenomeno culturale alto, un musicista raffinatissimo. Restando però, sempre e comunque, un uomo semplice, quasi imbarazzato per il bene che si diceva di lui; identico a quello che conobbi vent’anni fa a Parigi, alla vigilia della celebrità .
L’ultima volta ci eravamo incontrati a Sarzana, al Festival della Mente, in settembre. Lui aveva accompagnato sua moglie Paola, che produceva uno degli spettacoli in cartellone. Fu una gioia come sempre, rivedersi. Mi sembrò in forma e gli domandai come andava. Bene, mi disse, bene. Un po’ affaticato, niente di più. Sperai fosse vero. La prossima volta ti voglio sul palco, gli dissi salutandolo. Ci puoi contare, rispose.
E ci credeva. Ci credevamo tutti.
Gabriele Ferraris
(da “la Stampa”)
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Marzo 30th, 2016 Riccardo Fucile LE FRATTOCCHIE PADANE A GENOVA: LA POLITICA INTERNAZIONALE SPIEGATA DA UN 87ENNE CON LA TERZA ELEMENTARE, PIU’ AVVEZZO AI FUMI DELLA CUCINA CHE AL “FINANCIAL TIMES”… ASSISTENTE UN ESPERTO IN CENSIMENTI DI CAMPI ROM CHE NON HA MAI TERMINATO L’UNIVERSITA’
Il comunicato stampa sembrerebbe una cosa seria, se non riguardasse la Lega di Genova: “Al via “le Frattocchie” leghiste per formare i nuovi amministratori. Corsi per spiegare la politica e insegnare la scrittura di interrogazioni e documenti nei futuri Municipi. L’inizia del Carroccio è promossa da Bruno Ravera e Davide Rossi”.
Viene subito da augurarsi che i relatori insegnino alle nuove leve perlomeno come gestire i fondi del gruppo regionale, visti i precedenti: il presidente del Consiglio regionale Bruzzone e l’assessore Rixi, ovvero i due maggiori esponenti padagni in regione Liguria, a breve andranno a processo per peculato per l’allegra gestione dei rimborsi spesa.
Si tratta di oltre 80.000 euro spesi per soggiorni in località turistiche nei fine settimana, pranzi a base di ostriche al Cafè de Turin sulla Costa Azzurra, telepass utilizzati da terzi, decine di ricevute di ristoranti per pranzi non certo “istituzionali” e regalie natalizie a spese dei contribuenti.
Da segnalare che un terzo consigliere regionale ( con oltre 70 ricevute nella stessa trattoria savonese) ha patteggiato una condanna a due anni.
E che un neoconsigliere è indagato per aver detto “se avessi un figlio gay lo brucerei nella stufa”, sempre a proposito di “savoir faire” padagno.
Comunque si tratta pur sempre di un’iniziativa lodevole: la politica crea nuovi posti di lavoro ed è noto che tanti giovani leghisti (e non solo) senza arte nè parte hanno trovato nella politica un’adeguata sistemazione.
Soprattutto se non hanno mai terminato gli studi universitari, qualità minima forse per autoproclamarsi “docenti” di politica e legislazione nazionale.
D’altronde in politica conta la competenza e il merito.
Leggiamo a tal proposito che “il prof. Ravera insegna dalle 9 alle 11 e dalle 15 alle 18 e la sua materia è politica nazionale e internazionale”.
Peccato che, salvo che non abbia acquisito una laurea in Albania, magari frequentando lo stesso ateneo di Bossi junior, Bruno Ravera (classe 1929) da Mornese risulti che negli studi si sia fermato alla terza elementare, dedicandosi piuttosto alla ristorazione.
Specializzato più che altro nel carrello dei bolliti, tipico piatto mandrogno, come lui stesso ha affermato in passato.
Come faccia oggi ad essere in grado di insegnare ai giovani la politica internazionale, visto che non sa leggere nemmeno il Finantial Time o il Washington Post, resta un mistero.
Poi però ricordiamo che l’indagato leghista Francesco Bruzzone era bidello ed è in Regione da 5 legislature, rivestendo persino la carica di presidente del Consiglio e allora ce ne facciamo una ragione.
In fondo contano più i bolliti, laureati o meno, che il carrello.
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