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CASO REGENI: LE ANTICIPAZIONI SUL DOSSIER EGIZIANO, IL SOLITO PACCO CONFEZIONATO, NESSUNA AMMISSIONE

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

NON E’ VERO CHE IL GIORNALE AL-AKBAR HA AFFERMATO CHE GIULIO FOSSE SEGUITO DAI SERVIZI SEGRETI DEL CAIRO: E’ SICURAMENTE   VERO, MA NON L’HA SCRITTO… SE IL DOSSIER E’ QUELLO CHE POTETE LEGGERE QUA, GLI AGENTI EGIZIANI POSSONO PURE STARSENE A CASA

Il commento più pertinente alle ennesime “anticipazioni” di un giornale vicino al governo egiziano, ripreso in maniera errata dai media italiani (“prime ammissioni: Regene era seguito dai servizi segreti egiziani”) è stato del senatore Luigi Manconi, presidente del Comitato per i Diritti Umani: “Non voglio commentare questa ennesima notizia, non è pensabile che ogni giorno ci siamo nuovi elementi, tutti implausibili e inattendibili. La sola cosa davvero importante è che alla magistratura italiana sia consegnato tutto, incondizionatamente, il materiale investigativo raccolto. Ovvero tabulati, intercettazioni, riprese video, interrogatori e perizie, non frammenti provenienti da varie fonti”
COSA HA SCRITTO IL QUOTIDIANO AL-AKHBAR
Ecco, secondo le anticipazioni del quotidiano Al-Akhbar sulla base di informazioni ricevute da fonti della sicurezza, tutti i particolari contenuti nel dossier su 66 giorni di indagini condotti dalla magistratura egiziana sulla morte di Giulio Regeni.
Dossier che martedì 5 aprile sarà  consegnato al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, da una delegazione degli investigatori egiziani.
Stando a quanto si legge nel quotidiano egiziano, il fascicolo include “numerosi documenti e importanti informazioni documentate da fotografie ottenute dagli apparati di sicurezza egiziani”, così come “informazioni complete su Giulio da quando è arrivato al Cairo fino al momento della sua scomparsa e del ritrovamento del suo cadavere, sui suoi numerosi rapporti e sugli incontri con gli operai e i responsabili di alcuni sindacati, sui quali stava compiendo ricerche”.
IN REALTA’ E’ SOLO ARIA FRITTA
“Gli amici della vittima”
Agli inizi degli indagini il capo della procura del distretto di Giza, Ahmed Naji, ha ascoltato gli amici della vittima. Questi confermano subito che Regeni “il 25 gennaio era uscito per incontrare un suo amico in una zona nel centro senza fare mai ritorno”. Gli amici avrebbero tentato di contattarlo telefonicamente ma il suo cellulare era spento. Il procuratore Hussam Nsar raccoglie invece le deposizioni dell’amico “avvocato” che abitava con Regeni nello stesso appartamento e che ha riconosciuto il cadavere. Quest’ultimo “ha confermato di aver denunciato al commissariato di polizia di Al Daqqi della scomparsa di Giulio”. L’avvocato afferma quindi di avere ricevuto una chiamata nella quale gli si chiedeva di recarsi all’obitorio per il riconsocimento del cadavere di un giovane straniero.
“L’ultima persona in contatto con Giulio”
Gennaro Gervasio è stata l’ultima persona a rimanere in contatto con Giulio Regeni. Nel dossier viene scritto che “Gennaro ha perseguito il dottorato in scienze economiche nell’università  britannica del Cairo e di fronte al procuratore Hussam Naser ha dichiarato di essersi messo d’accordo per incontrare il 25 gennaio la vittima nella zona di Bab Al Lauq per andare insieme alla festa di compleanno di un loro amico dottore. Ha detto anche di aver ricevuto una telefonata da Giulio che lo informava che sarebbe arrivato entro 25 minuti. Ma visto che ha fatto tardi all’appuntamento Gennaro è andato da solo alla festa dell’amico e ha aspettato fino alle 11 di sera la vittima, che non è arrivata. Preoccupato per l’assenza dell’amico, Gervasio “ha telefonato all’amica egiziana Nura, la quale a sua volta ha chiamato Mohammed, avvocato egiziano amico di Giulio. Mohammed va all’appartamento ma non trova Giulio e allora Gennaro chiama l’ambasciata (italiana) che informa le autorità  egiziane. Le deposizioni di Gervasio, afferma il giornale, sono contenute in un verbale redatto il 27 gennaio dal commissariato di polizia di Al Daqqi.
“L’insegnante tedesca”
Il dossier include anche la deposizione di “Giulian, una insegnante di lingua tedesca in un centro del Cairo che abitava nello stesso appartamento di Regeni”. La donna afferma di “non avere solidi legami con la vittima anche se condividevano lo stesso appartamento”. Giulian dice solo che “il 25 gennaio (giorno della scomparsa di Regeni, ndr) si era accorta che Giulio lasciava l’appartamento verso le 7:30 del mattino e di non aver saputo più niente fino al ritrovamento del suo cadavere”.
“L’attivista”
La procura ha ascoltato la testimonianza di Huda Kamel Diab, “attivista del centro egiziano per i diritti sociali ed economici, per conoscere i suoi legami con la vittima”. La donna afferma che “vista la natura del suo lavoro nel settore, aiutava Giulio nelle sue ricerche sul campo sui sindacati dei lavoratori indipendenti in Egitto. E afferma che organizzava incontri singoli con lavoratori per la compilazione delle schede necessarie per il perseguimento del suo dottorato. L’attivista ricorda che l’ultimo incontro avuto con Giulio risale a circa 6 giorni prima della scomparsa, durante il quale i due hanno discusso sul salario minimo degli operaì. Huda afferma inoltre che “in tutto si è vista per 6 volte” con la vittima.
“Il primo testimone” del ritrovamento del cadavere
Solo dopo che la procura ha concluso la raccolta delle deposizioni degli amici di Giulio, la polizia di Giza assieme agli apparati di sicurezza del ministero degli Interni riesce a identificare il nome dell’autista che ha scoperto il cadavere, presentato come “il primo testimone”. Si chiama Rami Jalal ed è noto con il nome di Khalid. E questo il suo racconto: “Ero diretto con il minibus ad Alessandria quando è esplosa la ruota anteriore mentre percorrevo il tunnel Hazem Hassan. Quando sono sceso per cambiare la gomma ho visto un cadavere sull’asfalto, mi sono spaventato e ho lasciato subito il posto. Ho telefonato a Mustafa, il proprietario del veicolo, e l’ho informato di quel che ho visto. Il proprietario ha chiamato uno della polizia che conosceva informandolo del ritorvamento del cadavere di un giovane. A questo punto il funzionario di polizia ha avvisato Al Najdah (il pronto intervento, ndr) e solo dopo ho saputo che il cadavere era di un giovane italiano”.
“Il proprietario del bus”
Anche Mustafa, il proprietario del minibus, viene ascoltato dalla procura. Conferma in tutto la deposizione di Khalid, l’autista.
“Il referto dell’autopsia” effettuata al Cairo
Nel dossier viene spiegato che “una volta che il dipartimento di medicina legale ha terminato di scrivere il rapporto sulle ferite riscontrate sul corpo di Giulio, la procura non ha voluto rendere pubblico il referto dell’autopsia” spiegando che “la segretezza delle indagini impongono di non renderlo noto”. Secondo quanto viene affermato nel dossier, “non sono state rese note nè la presenza di tracce di aggressione con un corpo contundente e neppure l’esistenza di tracce di scosse elettriche sul cadavere”, ma “la presenza di tagli alle orecchie”.
“Le telecamere nella zona dell’appartamento” in cui alloggiava Giulio
La procura “ha visionato le telecamere installate nel perimetro della zona dove si trovava l’abitazione di Giulio per determinare il percorso” effettuato dal giovane il giorno della sua scomparsa. I dati raccolti dalle telecamere non sono stati resi noti, spiega il dossier, “dopo che dalle indagini era emerso che il cellulare della vittima è stato chiuso nel perimetro della sua abitazione e che l’ultimo posto dove si trovava era in via Al Sudan, mentre l’ultima telefonata l’aveva fatta all’amico Gennaro”.
“La banda”
“Il 20 marzo scorso la procura riceve denunce su rapimenti di persone in alcune zone del Cairo”. Le indagini, si sosterrebbe nel dossier egiziano, portano all’identificazione degli autori dei reati: Fareq Said Abdul Fattah Ibrahim, Salah Ali Said Mohammed, Mustafa Bakr Awaz Ibrahim, Saad Tareq Saad Abdel Fattah, Rasha Saad Abdel Fattah Ismail, Ali Jaber Ahmed Afifi e Ala’a Jaber Ahmed Afifi. Sette nomi contro i quali viene emesso mandato di “cattura e comparizione”.
“Nel tentativo di arrestare alcuni di loro – prosegue il dossier – mentre erano a bordo di un bus la cui descrizione era stata fornita da vittime della banda, questi hanno aperto il fuoco contro gli agenti per evitare la cattura.
Nella sparatoria sono morti tutti i cinque” componenti della banda.
Nel “sopralluogo effettuato nel bus, accanto ai cadaveri, sono stati trovati un fucile automatico, una pistola calibro 9 e diversi bossoli di proiettili”. Gli inquirenti egiziani “hanno ascoltato le dichiarazioni di 9 delle vittime della banda eliminata ed è emersa la veridicità  di quanto commesso dai cinque accusati: rapimento di persone con la forza, indossando divise di ufficiali della sicurezza nelle zone nuova Cairo e città  di Nasr”. La procura di nuova Cairo “ha mostrato le foto degli accusati alle vittime che le anno riconosciute”, riporta ancora il quotidiano.
“La sorella del capo della banda”
La procura spicca mandati di cattura e comparizione contro il resto della banda di “killer”, tra cui “la sorella di Tareq Said Abdel Fattah”, ritenuto il capo della banda, ucciso nella sparatoria nel bus. La donna si chiama Rasha e vive nella zona di Shabra Al Kheimah. “Durante la perquisizione nella sua abitazione sono stati trovati gli effetti personali della vittima (Giulio)”, la donna avrebbe “confessato di aver nascosto tutti quegli oggetti di suo fratello defunto Tareq”. Anche un altro fratello del capobanda, Mohammed, avrebbe “ammesso di sapere che quegli oggetti erano il frutto di rapimenti”.
“Gli effetti personali”
Ed ecco la lista degli “effetti personali” trovati nell’abitazione della sorella del “principale responsabile della banda”, secondo la versione del Cairo: “Una borse 24ore di colore rosso con sopra la bandiera nazionale italiana contenente un portafogli di pelle color marrone dentro la quale era un passaporto intestato a Giulio Regeni di 28 anni, un tesserino dell’università  americana e uno dell’università  di Cambrige, una carta Visa e due cellulari. Tra gli oggetti sequestrati nell’appartamento ci sarebbero anche “un portafogli di cuoio da donna con la scritta Love, una somma di 5mila sterline (egiziane pari a poco meno di 500 euro), un pezzo di hashish del peso di 15 grammi, un orologio da polso femminile di colore nero e tre occhiali da sole”.
NULLA DI NUOVO
In pratica non ci sarebbe alcuna novità  o ammissione, nessuna trasparenza o cambio di rotta.
Le testimonianze erano già  note, gli oggetti non sono di Giulio, i cinque uccisi potrebbero essere stati fatti fuori con una esecuzione sommaria (come affermato dallo zio di una vittima), video non ce ne sono, tabulati completi nemmeno.
COSA CHIEDERANNO GLI INQUIRENTI ITALIANI
Intanto emerge che gli inquirenti italiani chiederanno ai colleghi egiziani di acquisire i tabulati telefonici e il traffico di celle di una decina di persone tra cui amici e conoscenti di Regeni.
L’obiettivo è ricostruire gli spostamenti compiuti dal ricercatore italiano nei giorni precedenti alla scomparsa.
Oggi in Procura si è tenuto un vertice tra il pm Sergio Colaiocco, titolare del fascicolo, e il team di investigatori (Ros e Sco) rientrati dall’Egitto nei giorni scorsi.

(da “La Repubblica”)

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“NON CI DEVONO ESSERE DANNI PER ENTRAMBI”: NELLE TELEFONATE GUIDI E GEMELLI TEMONO “CONSEGUENZE POLITICHE” PER LEI

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

I TIMORI DEL MINISTRO, LA PAURA DELL’INCHIESTA: MA IL GOVERNO SAPEVA QUALCOSA?

Federica Guidi aveva il timore delle conseguenze politiche della sua azione a favore di Gianluca Gemelli.
Lo si evince dalle telefonate dell’ex ministro dello Sviluppo economico con il compagno, colloqui in cui Gemelli “rimproverava al ministro di non avergli dato il supporto richiesto”, ma anche altri in cui i due sembrano sapere dell’inchiesta a carico di Gemelli e fanno riferimento alle possibili “conseguenze politiche indirette” per il ministro.
Intercettazioni che risalgono a gennaio scorso e che non chiariscono se il Governo fosse a conoscenza dei timori di Federica Guidi e del possibile conflitto di interessi in capo alla sua persona.
“Sta circolando corrispondenza interna, dove si dice che la persona interverrà  a nostro favore verso Total”. La ‘persona’ in questione è l’ormai ex ministro Federica Guidi e a parlare del suo interessamento verso l’azienda petrolifera per la questione di Tempa Rossa è uno dei protagonisti della vicenda, Franco Broggi, dirigente di Tecnimont, la società  che ha concesso in subappalto dei lavori per 2,5 milioni al compagno del ministro, Gianluca Gemelli. Broggi fa riferimento ad un incontro tra Guidi e uno dei rappresentanti dell’azienda; un incontro fondamentale per lo stesso Broggi visto che giorni prima, in una telefonata intercettata proprio con Gemelli – in cui quest’ultimo era interessato ad un affare nel quale il dirigente avrebbe potuto intervenire – diceva al compagno del ministro: “si non ti preoccupare, tu fai. Se c’è quell’incontro a breve, tra chi tu sai e chi tu sai…tutto si fa nella vita”.
Gemelli rispondeva così: “tu sei un mafioso siciliano”.
Di quell’incontro, però, il compagno del ministro afferma di non aver saputo nulla visto che quando Broggi gli racconta l’esito, rimane sorpreso.
“Io di sto fatto dell’incontro, quella…non me l’ha detto”.
Il tema dell’interessamento del ministro sulla vicenda torna in diverse telefonate tra la stessa Guidi e il compagno, riportate nelle informative agli atti dell’inchiesta di Potenza.
Gli investigatori annotano ad esempio due telefonate nelle quali Gemelli “rimproverava al ministro di non avergli dato il supporto richiesto”, “di non averlo agevolato in generale nella conclusione dei suoi affari” e di “non avergli procurato contatti utili in riferimento ai risultati non positivi che la Guidi aveva ottenuto in occasione di un incontro a Torino”.
‘NON DEVONO ESSERCI DANNI’
Altre due telefonate significative tra Guidi e il compagno sono quelle del 22/23 gennaio 2015.
I due sembrano sapere dell’inchiesta e affrontano la questione dei “problemi – scrivono gli investigatori – cui si era esposto il Gemelli proprio in relazione agli affari intrapresi a Corleto e alle possibili indagini che lo avrebbero riguardato”.
Sia il ministro sia il compagno fanno “espliciti riferimenti al probabile coinvolgimento del Gemelli in una certa vicenda ed alla possibilità  di conseguenze politiche indirette anche per lo stesso ministro”.
Ad un certo punto Guidi dice al compagno: “non ci devono essere danni per entrambi”. Il giorno successivo è ancora Guidi a chiedere se Gemelli “stesse andando ad acquisire notizie sulla vicenda” e ad informarsi su eventuali assunzioni: “hai preso gente del posto?”.
Gemelli risponde di si e poi aggiunge: “comunque la cosa su cui devi stare più che tranquilla è che è tutto ipertrasparente, tutto antecedente, quindi non…cioè tu mi hai detto ‘non lo trovo una cosa seria farlo’ e basta, e io non la faccio stop'”.
A quel punto il ministro stoppava la conversazione: “però adesso basta dai…non stiamo qui a parlarne adesso”.
‘A ME BRUCIA L’ORECCHIO’
La paura delle intercettazioni torna una settimana dopo, ma stavolta è Gemelli a mostrarsi preoccupato.
Guidi racconta dei problemi “per quella roba lì su Total e Tecnimont’, facendo esplicito riferimento ad un colloquio richiestole da entrambe le aziende e di una lettera formale nella quale Tecnimont chiede di tutelarla di fronte a Total, in quanto azienda italiana.
“Non mi interessano queste cose qua – risponde Gemelli – io già  sto facendo che non lavoro dove ci sei tu, basta, non me le raccontare, non mi interessano, punto, basta…non ne voglio sapere proprio, non so come dirtelo”. Il ministro sembra non capire: “ma sei normale, oppure ogni tanto ti…?”.
Nella successiva telefonata allora Gemelli è più esplicito. Appena lei nomina Tecnimont, infatti, reagisce così: “a me mi brucia l’orecchio con il telefono!”
FACCIAMO UN PO DI SHOW
il 28 ottobre del 2014, pochi giorni prima del convegno a Roma in cui ha invitato i vertici di Total e Tecnimont, Gemelli chiama la compagna. “Allora guarda che io vengo al convegno…ho inviato anche il numero due di Total, l’ho fatto invitare… e me lo faccio sedere vicino così facciamo un pò di show”.
Il convegno va benissimo tanto che Gemelli se ne vanta con il suo socio, Salvatore Lanzieri. “C’erano questi qua di Total…ringraziamenti, alliccamenti che non ti dico, questi ce li abbiamo, ce li abbiamo, cioè secondo me abbiamo un rapporto molto forte, il rapporto è buono hai capito?”.
E in un’altra telefonata, sempre con Lanzieri: “dai che sta andando come volevano noi, perfetto!…gioia mi pare che stiamo andando nella direzione giusta dai!…”.
‘LA DOLCE META’ E LA SHELL”
Guidi, stando a quanto rivela il compagno in una telefonata con l’imprenditore Pasquale Criscuolo, avrebbe interceduto per lui anche nei confronti della Shell. “Mi ha appena chiamato la mia dolce metà  – dice Gemelli – mi diceva che è stata a colloquio con Brun (Marco Brun, Ad di Shell Italia, ndr)…e gli ha parlato di te…mi dice muoviti con Brun attraverso Pasquale…quindi se riusciamo ad organizzare un appuntamento per la prossima settimana ci andiamo a trovarlo”.
Più tardi Gemelli gli invia un sms: “se riesci fagli capire anche chi sono”.

(da “Huffingtonpost”)

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“NELLA SANITA’ I RICCHI DEVONO CONTRIBUIRE DI PIU'”: INTERVISTA ALL’ECONOMISTA SPANDONARO

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

“BISOGNA PASSARE A UN SISTEMA MISTO: ASSISTENZA GRATUITA SOLO A CHI E’ DAVVERO INDIGENTE”

La Sanità  come le pensioni?
In un Paese sempre più vecchio e che cresce poco, un ripensamento del Servizio sanitario nazionale «sarebbe opportuno», dice Federico Spandonaro, docente di Economia sanitaria all’Università  di Roma Tor Vergata.
Che avverte: «Bisogna fare molta attenzione: anche nel passaggio al sistema contributivo le pensioni Inps si sono ridotte, ma i sistemi complementari, in un momento di scarsa crescita finanziaria, non hanno fatto faville…».
Come si può intervenire nella sanità ?
«La cosa più equa sarebbe avere una redistribuzione della spesa sanitaria tra pubblico e privato. Dal punto di vista del cittadino è meglio pagarsi le 10-20 euro della scatola dell’antibiotico che serve a curare una bronchite (tanto più che circa il 28% della spesa sanitaria farmaceutica è per scatole che costano meno di 5 euro) ma avere dal sistema sanitario i 30 mila euro del farmaco quando si ha un problema serio. Questo però si scontra con un problema tipicamente italiano».
Quale?
«Tutto questo funziona bene se si ha un sistema fiscale che funziona altrettanto bene. Chi è davvero indigente dovrebbe avere tutte le prestazioni assicurate dal pubblico, gli altri potrebbero pagarsi una parte delle terapie. Il problema che non sempre si capisce dove sta la vera indigenza. In questo momento in Italia abbiamo esenzioni che sono ridicole da un punto di vista sociale: una persona dal reddito medio-alto se è iperteso ha diritto ad avere gratuitamente il beta-bloccante, che costa meno di 20 euro al mese. Mi chiedo: ha ancora senso assicurare con fondi pubblici cose del genere?».
L’ultimo rapporto dell’Aifa segnala che l’anno scorso abbiamo «sforato» il budget per la spesa farmaceutica per 1,7 miliardi. Come se ne esce?
«Ci sono due strade, ma sono poco praticabili. Se il nostro Pil crescesse di almeno il 2% l’anno i fondi ci sarebbero. Inoltre, ci sarebbe spazio per abbassare i prezzi dei farmaci più innovativi. La sensazione è che i prezzi non siano più giustificati dai costi della ricerca quanto da aspetti legati alla finanza: avere un farmaco ad alto costo contribuisce al valore dei titoli delle società  farmaceutiche in Borsa. Non si può dimostrare, ma il sospetto c’è nel caso di farmaci come quelli per l’Epatite C. Come si vede, l’unico sistema è rimodulare la spesa tra pubblico e privato».
Ci sono modelli in altri Paesi a cui possiamo ispirarci per ridisegnare la sanità  risparmiando?
«Direi di no, noi spendiamo un 30% in meno dei 14 principali Paesi Ue dove ci sono sistemi mutualistici. Là  si spende di più, non per via di sprechi ma perchè vengono erogati servizi superiori ai nostri».
Noi invece spendiamo meno e abbiamo sempre di meno?
«Se si guardano le statistiche Eurostat sui cittadini che dichiarano di avere problemi di salute di lunga durata, dieci anni fa l’Italia stava messa molto meglio del resto d’Europa. Ora – nonostante siamo favoriti dalla dieta e dal clima – ci stiamo allineando ai Paesi del Nord».
Riterrebbe utile importare il sistema americano in Italia?
«Spero che non accada: la quota pubblica è talmente bassa che le disparità  sono enormi. La suddivisione tra risorse pubbliche e private è del 50%. Non pensiamo però che in Italia la spesa sia completamente statale. Siamo al 70% di pubblico e al 30% di privato».
Che cosa non funziona, allora?
«Il punto è che in Italia, oggi, la spesa privata serve più che altro a saltare le liste d’attesa e coprire altre inefficienze. Servirebbe un sistema con una spesa meglio ridistribuita. Se chi ha maggiori disponibilità  economiche avesse una sanità  integrativa con strutture dedicate in cui lo Stato partecipasse solo in parte, questo sgraverebbe le liste d’attesa negli ospedali pubblici e creerebbe davvero un sistema complementare. La spesa prima ancora che cambiata, va riqualificata».

Francesco Spini
(da “La Stampa”)

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SANITA’ PUBBLICA, I CONTI NON TORNANO: MANCANO 10 MILIARDI DI EURO

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

NEGLI OSPEDALI IL 50% DEI MACCHINARI E’ OBSOLETO… E SPENDIAMO 1 MILIARDO IN FARMACI GRIFFATI

I nuovi macchinari per la radioterapia che riescono a colpire con precisione chirurgica le cellule tumorali al punto da poter fare a meno del bisturi costano dai 2 ai 6 milioni di euro.
Restano un miraggio per gli ospedali d’Italia, dove la metà  dei macchinari è obsoleta. Da Oltreoceano stanno sbarcando le super-pillole contro Aids, tumori, Alzheimer e altri gravi malattie. Il costo medio è di 100 mila euro a ciclo terapeutico.
Troppi per poterli garantire a tutti quelli che ne hanno bisogno.
E poi c’è una popolazione che invecchia ma mica tanto bene se, come afferma la relazione sullo stato sanitario del Paese, gli anni di disabilità  che ci attendono sono ben 16. Ed anche questi sono costi.
Dopo aver fatto i conti con l’emergenza pensioni, per l’Italia sembra giunto il momento di mettere mano alla questione sanità .
«La selezione è già  in atto non solo per i farmaci ma anche nella chirurgia. Nell’efficiente Lombardia abbiamo liste d’attesa di nove mesi perchè non ci sono soldi nè per i dispositivi chirurgici, nè per pagare gli anestesisti» dice Francesco Longo, economista sanitario della Bocconi, che di vie di uscita ne vede una sola: «Portare il livello di finanziamento al livello dei Paesi europei con i quali dovremmo confrontarci».
Come la Germania, dove la spesa sanitaria pubblica è di 2500 euro a cittadino contro i nostri 1800.
Di miliardi in più, secondo l’economista, ne occorrerebbero 10.
Di sicuro con una sanità  integrativa ferma al palo e un sistema di ticket che esenta oltre la metà  della popolazione i 111 miliardi di oggi sembrano non bastare più.
Se n’è accorta la Corte dei Conti, che vede nel 2015 un rosso da un miliardo nei conti della sanità , dopo anni di tenuta a suon di addizionali Irpef regionali.
E vede rosso anche l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco che indica in un miliardo e 700 milioni lo sforamento della spesa farmaceutica ospedaliera, quella dove finiscono i medicinali più innovativi e costosi.
E se il piatto piange oggi figuriamoci domani quando i super-farmaci saranno molti di più.
Bisognerebbe risparmiare sui medicinali più datati, quelli con il brevetto scaduto venduti come generici. Ma sarà  la potenza del marketing farmaceutico o la diffidenza degli italiani, da noi il farmaco griffato la fa ancora da padrone.
Tant’è che in un anno abbiamo speso di tasca nostra quasi un miliardo di euro per pagare la differenza di prezzo tra il generico e la pillola «di marca», pur di restare fedeli a quest’ultima.
Contraddizioni che ritroviamo anche nel pianeta ospedali, dove si preferiscono spendere soldi per centinaia di reparti con più medici che pazienti, come dimostrano i rapporti dell’Agenas (l’Agenzia per i servizi sanitari regionali), piuttosto che acquistare tecnologia.
Le apparecchiature diagnostiche obsolete sono 6400, con il 72% dei mammografi e il 76% dei sistemi radiografici datati più di 10 anni, racconta un recente rapporto di Assobiomedica.
Del resto basta vedere la storia dei «chirurghi robot». Sbandierati come la nuova frontiera della chirurgia e capaci di abbattere la percentuale di errore, restano fuori dalla sale operatorie, se non per interventi a pagamento, visto che le tariffe di rimborso agli ospedali non tengono conto dei 9mila euro in media di costo aggiuntivo.
E non è che nel territorio le cose vadano meglio.
Secondo la Bocconi dei 2 milioni e mezzo di disabili, l’80% si arrangia da sè in assenza di assistenza domiciliare.
Scricchiolii sinistri di un pezzo del nostro welfare che continuiamo a chiamare universalistico ma che è già  diventato selettivo.
A discapito dei più deboli.

Paolo Russo
(da “La Stampa”)

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SANITA’ PUBBLICA, LA BOMBA CHE TICCHETTA INESORABILE

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

IL WELFARE SANITARIO STA DIVENTANDO INSOSTENIBILE: ECCO PER QUALI RAGIONI

C’è una bomba sociale nel futuro degli italiani. Non è eventuale, come quella del terrorismo, perchè lo scoppio è, purtroppo, inevitabile.
Non è percepita nella sua gravità , come quella dell’immigrazione, esasperata per motivi elettorali da una politica che, invece, preferisce ignorarla.
Ma è quella che rischia di sconvolgere di più l’esistenza di tanti nostri cittadini e delle loro famiglie: l’impossibilità , per i prossimi decenni, di assicurare a tutti la Sanità  pubblica.
In tutto il mondo, il giudizio sull’assistenza che il nostro Stato fornisce a chi si ammala è molto positivo.
È vero, infatti, che la riforma del 1978, quella che istituì il Servizio sanitario nazionale, è tuttora un modello invidiato da molte nazioni, ma, con il passare del tempo, il rispetto del dettato costituzionale che prescrive il diritto alle cure per tutti i cittadini è rimasto sulla carta.
In concreto, già  oggi è ormai largamente disatteso.
In futuro, sarà  una garanzia inattuabile.
I motivi sono molteplici, ma, tutti insieme, costringeranno a prendere atto dell’insostenibilità  di un sistema di welfare sanitario che si fondava su una situazione demografica, economica, sociale molto diversa dall’attuale.
I numeri non sono opinioni e le previsioni della demografia sono più attendibili di quelle meteorologiche.
Alla fine degli Anni 70 del secolo scorso, una grande moltitudine di giovani, nati nell’epoca del baby-boom, con il loro lavoro prevalentemente a tempo indeterminato e, quindi, con i loro contributi, poteva assicurare a un numero abbastanza ridotto di nonni e di genitori un futuro garantito da pensioni e cure sanitarie.
Quel futuro, purtroppo, non era molto lungo, perchè le aspettative di vita erano minori, i progressi della medicina non così promettenti, le condizioni economiche peggiori.
Ora le prospettive sono totalmente differenti: pochi giovani, in larga parte con occupazioni precarie, chiamiamole pure «flessibili» per pudore linguistico, dovranno mantenere generazioni numerosissime, longeve, per fortuna, ma costrette a lamentare quei tanti acciacchi che l’età  comunque non risparmia.
È dunque inevitabile che i costi dell’attuale sistema sanitario siano destinati a un fragoroso e doloroso scoppio.
Non sono solo demografi ed economisti, però, ad accendere le micce a questa bomba.
Due sciagurate decisioni, a cavallo del secolo, hanno peggiorato ulteriormente la situazione.
Dal 1999, una serie di sentenze hanno fatto nascere in Italia un tale contenzioso giudiziario nel settore delle sanità  da provocare la nascita della cosiddetta «medicina difensiva».
Sono circa 300 mila, infatti, le cause pendenti nei confronti dei medici, per un costo stimato di 10-14 miliardi di euro, cioè quasi il 10% del fondo sanitario nazionale.
L’ovvio risultato è quello di un aggravio sensibile sia sul sistema giudiziario italiano, considerato, poi, che il 97 % dei procedimenti si conclude con un proscioglimento, sia sui costi di quello sanitario, perchè non c’è argine alla valanga di cure, medicine, esami diagnostici non necessari, ma utili per evitare denunce che nascono dalla falsa convinzione, ormai diffusa, che il «diritto alla cura» equivalga al «diritto alla guarigione».
Su questo fronte, bisogna dare atto che è stata approvata dalla Camera, e lo sarà  pure dal Senato entro l’estate, una legge che modifica la normativa, in modo da assicurare ai malati una doverosa tutela e un doveroso risarcimento negli effettivi casi di «malasanità », ma che riduce i rischi di speculazione, le cosiddette «liti temerarie».
Come, d’altra parte, si è riconosciuta la pericolosità  di restrizioni burocratiche, dettate puramente da esigenze finanziarie, al libero giudizio dei medici sulle necessità  dei loro pazienti.
L’altra decisione, questa volta di natura politica, che ha reso di fatto inevaso il dettato costituzionale sul diritto dei cittadini alle cure è la pessima riforma federalista del 2004, quella che ha prodotto 21 modelli diversi di sistema sanitario sul territorio nazionale.
Si è prodotto un infernale circolo vizioso fondato sulla mancata eguaglianza degli italiani di fronte alla malattia.
Le regioni con una sanità  di migliore livello attirano pazienti che arrivano dai territori più penalizzati. Con il risultato, non solo di maggiori disagi e costi per i malati «migranti», ma di impoverire sempre di più le regioni di provenienza, costrette a pagare rimborsi cospicui a quelle che hanno provveduto, in vece loro, alle cure dei loro corregionali.
Così le casse sanitarie più gonfie diventano sempre più ridenti, quelle più misere, sempre più piangenti.
Anche su questo federalismo «malato», per restare in tema, si sta cercando di porre qualche rimedio, perchè la riforma costituzionale che dovrà  essere sottoposta a un prossimo referendum riduce le competenze delle Regioni nella sanità  ai soli aspetti organizzativi e di programmazione, riservando al governo centrale il compito di stabilire gli indirizzi generali.
Così come la legge di stabilità  dovrebbe garantire minori influenze politiche nella scelta dei direttori generali e dovrebbe porre un freno a quella scandalosa «gonfiatura» del personale amministrativo dovuta agli interessi clientelari ed elettorali dei partiti.
Provvedimenti, per carità , opportuni e che potranno essere utili a tamponare una situazione che si avvia al collasso e soprattutto che costringe molti italiani a rivolgersi o all’assistenza privata, per chi se lo può permettere, o a rinunciare, in molti casi, alle cure anche più necessarie.
Le lunghe, insopportabili, vergognose attese per una visita o per un intervento nei nostri ospedali pubblici sono la dimostrazione, più evidente e più clamorosa, che il modello della nostra sanità , concepito nel 1978, è ormai scaduto.

Luigi La Spina
(da “La Stampa”)

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PARENTI SERPENTI: QUANTI POLITICI INGUAIATI DAI FAMILIARI

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

NON SOLO GUIDI: DA LUPI ALLA BOSCHI, DALLA DE GIROLAMO ALLA CANCELLIERI, DA MASTELLA A DI PIETRO, DA BOSSI A FINI

Il leader politico ideale deve essere capace e onesto ma soprattutto single, senza prole, figlio unico e orfano: solo al mondo, senza affetti nè parenti, al massimo un cugino di terzo grado di cui, però, è meglio non possedere il numero di telefono.
Il catalogo di ministri e segretari e fino ai capicorrente inguaiati dai familiari comincia a farsi impegnativo, specie in questo governo che già  ha perso Maurizio Lupi per un Rolex e un abito su misura promessi al primogenito da indagati poi ampiamente prosciolti.
Oltre ai figli ci sono i padri, e in particolare il babbo del premier Matteo Renzi e quello della ministra Maria Elena Boschi, uno sotto inchiesta per bancarotta e l’altro coinvolto nella caporetto di Banca Etruria.
Ora si fa gran speculazione sulle due vicende, un po’ per l’alto livello dell’obiettivo politico, un po’ perchè la disperazione degli investitori è materia molto maneggiabile; ma anche l’esecutivo precedente ha avuto le sue controversie domestiche: Nunzia De Girolamo si è dimessa da ministro dell’Agricoltura per la conduzione della Asl di Benevento, comprensiva di gestione del bar del Fatebenefratelli ottenuta da zio Franco, e Annamaria Cancellieri ha lasciato il ministero dell’Interno in seguito a una telefonata con mamma Ligresti, cara amica, a cui prometteva un’interessamento per la figlia Ligresti, appena arrestata, quando l’intera famiglia Ligresti era stata datrice di lavoro in Fondiaria Sai di Piergiorgio Peluso, a sua volta figlio della ministra.
Un groviglio. E lo spirito dimostrato da opposizione e mitica opinione pubblica ha i presupposti nella contestazione della colpa ontologica contestata al presidente, Enrico Letta, e cioè di essere nipote di Gianni, ambasciatore planetario del berlusconismo.
E fin qui parrebbero sciocchezze se paragonate alla caduta del governo di Romano Prodi, nel 2008, in ragione dell’arresto per tentata concussione di Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella ministro della Giustizia.
Altre indagini finite in fumi vari (e vari proscioglimenti), ma la rabbia di Mastella era soprattutto contro il collega Antonio Di Pietro che, affine alla magistratura, diciamo così, picchiava su questioni morali e altre consuetudini.
E sì che pure a Tonino era toccato di rispondere delle consulenze che la moglie ebbe da un indagato della procura milanese e persino della carriera politica del figlio, così brillante da concludersi nel consiglio regionale molisano.
Livello al quale si è conclusa, in Lombardia, la carriera di Renzo Bossi che ha contribuito al tramonto del padre con la presentazione di estrosi rimborsi spese: bibite, gomme da masticare, sigarette, patatine e – genio! – una macchinetta per individuare gli autovelox. Ma il capolavoro inarrivabile è di Gianfranco Fini che mollò la consorte Daniela Di Sotto per certi casini combinati nella sanità  laziale; poi si fidanzò con Elisabetta Tulliani, la quale Elisabetta ha un fratello, Giancarlo, che sognava una casa a Montecarlo…

Mattia Feltri
(da “La Stampa“)

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“A NOI DELLA SICUREZZA NON CE NE FOTTE NULLA”: LA SINDACA E LE MANOVRE SULL’AFFARE PETROLIO

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

L’EX SINDACO PD DI CORLETO PERTICARA AVEVA MESSO SU UN POTENTATO… “NOI SINDACI? SIAMO UN UFFICIO DI COLLOCAMENTO”

Aveva messo su un “potentato” nonostante fosse il sindaco di un paesino di poco più di 2500 abitanti della Lucania.
Rosaria Vicino, 62 anni, ex sindaco Pd di Corleto Perticara, finita ai domiciliari nell’inchiesta che ha travolto il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, è un personaggio centrale nell’inchiesta.
È a lei che sono contestati la gran parte dei reati che si leggono nelle oltre 800 pagine dell’ordinanza firmata dal gip di Potenza Michela Tiziana Petrocelli.
Sì perchè la Vicino, abile a raccogliere e convogliare voti anche sugli esponenti del Pd candidati ed poi eletti al Parlamento europeo come Pittella, Paolucci e Picierno, incurante delle proteste del capo dei vigili che non voleva usasse l’auto di servizio per andare dal parrucchiere, era imbattibile nell’imporre alla società , compresa la Total che avevano bisogno di autorizzazioni, le assunzioni dei suoi protetti e amici.
Anche a scapito della sicurezza, per esempio quella dei pozzi.
L’unica cosa che contava erano le assunzioni. “E se un pozzo scoppia?” chiede Rocco Carone, il manager della Maersk H2S Safety Service Italia che riferisce di avere problemi con la Total proprio per l’affidamento del servizio di sicurezza all’interno della costruzione del pozzo: “None, a noi la sicurezza non ce ne fotte niente… Ma non ci pensassero proprio, io gli blocco tutto”.
“Il sindaco? Ormai è l’ufficio di collocamento”
Per questo il giudice di lei scrive: “Figura di assoluto spicco che … ha fornito concreta dimostrazione di una singolare capacità  di piegare o condizionare la volontà  degli imprenditori che si interfacciavano con la medesima, al fine di conseguire il risultato delle assunzioni di questo o quel nominativo e nell’intento unico di consolidare il proprio consenso elettorale in spregio a qualsiasi criterio di meritocrazia oltre che in violazione dei parametri prefissati dal Local Content”.
Era lei stessa, come si legge in una delle intercettazioni, a indicare i nomi: “Perchè insomma deve essere chiaro: il nostro ruolo dei sindaci è cambiato, è diventato l’ufficio di collocamento (…). E voi a me mi dovete tenere contenta”
La sindachessa a volte blandiva, ma soprattutto minacciava o addirittura corrompeva. Per questo il gip argomenta: “Ha evidenziato una indole di estrema pericolosità  essendo stata appurata, attraverso le espletate indagini, l’operatività  di un vero proprio protocollo adottato dalla indagata per conseguire i propri fini, protocollo che si è visto essere variegato e diversificato spaziando esso da condotte di mera induzione ad autentiche forme di prevaricazione intimidatoria fino a raggiungere condotte di carattere corruttivo”.
“Ho già  detto a Total… nessuna autorizzazione”
“Il nostro concetto, la nostra filosofia è questa — diceva la Vicino — piena apertura però nessuno deve dimenticare che questa è la sede del Centro Olii, che questa è la sede di tutti i pozzi, e che quindi… la maggiore occupazione, il comune che va attenzionato prima è Corleto. E poi tutti gli altri…”.
Così chi voleva le autorizzazioni doveva pagare pedaggio a lei: “Vi servono due persone? Noi vi mandiamo due persone… No questi me li devi pigliare, bello. Senza se e senza ma” e giù l’elenco dei nomi.
E se non andava come voleva, la Vicino sapeva già  come fare: “Ho già  detto a Total: se dobbiamo stare a guardare noi, starete a guardare tutti, non esce una carta da qua! Nessuna autorizzazione, niente! Se i nostri devono stare a guardare, non vogliamo lavorare!”.
E la donna non voleva sentire ragioni anche quando doveva essere raggirato il requisito dello stato di disoccupazione. E in altri casi alcuni lavoratori dovevano essere “levati” per far spazio ai suoi nominativi.
Il gip: “Nessuna motivazione filantropica, pensava alle elezioni”
Ma perchè la sindaca era così attiva? Non certo per generosità  o per attenzione ai livelli occupazionali di una delle regioni più povere d’Italia.
“Detto sistema era ben lungi dall’essere sorretto da motivazioni di natura filantropica o umanitaria: — spiega il giudice per le indagini preliminari — dando ed offrendo soluzioni lavorative alle persone che la interessavano, la donna sapeva di realizzare una rete di relazioni di totale riconoscenza nei suoi confronti da spendersi poi in occasione di competizioni elettorali”.
Senza trascurare gli affetti perchè come il gip ricorda ci sono anche attività  “intraprese a vantaggio della figlia farmacista”.
“None, a noi la sicurezza non ce ne fotte niente”
E così presa dall’attività  di piazzare amici e parenti, comunque, la Vicino non poteva anche pensare alle questioni riguardanti la sicurezza.
Quando Carone, il manager di Maersk, dice: “Ho capito, ma stiamo lavorando con le risorse che sono … erano a Tempa Rossa 2, che da Tempa Rossa 2 sono passate là . ( … ) L’attività  dove … ( … ) E sono persone che devon0 avere cinque anni di esperienza.; e spiega ancora: … è che noi, al cancello, ci fermiamo. Se scoppia il …. pozzo e il gas va alle campagne … ( … ) … noi alle campagne non ci andiamo. ( … ) Nemmeno sotto … sotto tortura.( … ) Io, per farvi capire … la situazione come è”.
La sindachessa replica di aver intanto provveduto a mettere la “pulce” all’orecchio dell’ingegner Cobianchi, il manager Total che interloquiva con Gialuca Gemelli compagno dell’ormai ex ministro Guidi.
All’affermazione di Carone circa la reale intenzione della Total, vale a dire di risparmiare soldi (…”che voglion0 risparmiare soldi. Mò è arrivata la spending review pure…”), la risposta della Vicino è chiara:”None, a noi la sicurezza non ce ne fotte niente. Ma non ci pensassero proprio, io gli blocco tutto”.
Carone stesso però ribadisce di voler sfruttare l’opportunità  legata alla sorveglianza dei pozzi per poter inserire anche chi non ha “esperienza elevata”.
La Vicino mostra di comprendere, però, chiede comunque l’assunzione immediata delle persone da lei segnalate: “Eh va bè, Rocco, abbiamo capito tutto. Comunque mo’ questi ragazzi abbiamo dato una parola e teniamola alle prime occasioni”.
Anche se un pozzo dovesse scoppiare.

Giovanna Trinchella
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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LA STORIA DELL’EMENDAMENTO A FAVORE DI TEMPA ROSSA: DAL TENTATIVO NOTTURNO AL VIA LIBERA DOPO OK BOSCHI

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

DALLA NOTTE DEL 16 OTTOBRE IN CUI VENNE BOCCIATO AL VOTO DI FIDUCIA CON LA LEGGE DI STABILITA’

È una storia notturna quella dell’emendamento a favore del progetto petrolifero Tempa Rossa che ha messo nei guai l’ex ministro Federica Guidi per via dei lavori di subappalto nel sito che interessavano il suo compagno.
La prima notte è quella tra il 16 e il 17 ottobre 2014, quando le commissioni Ambiente e Attività  produttive di Montecitorio stanno discutendo il decreto Sblocca Italia: quel testo rende, tra le altre cose, molto più facile costruire impianti petroliferi (e inceneritori) visto che li dichiara “infrastrutture strategiche per l’interesse nazionale”.
Si procede a tappe forzate ed è notte quando la deputata M5S Mirella Liuzzi si accorge di uno strano emendamento che rende “strategiche” pure tutte le opere connesse all’attività  estrattiva: gasdotti, porti, siti di stoccaggio.
Proprio quello che serve al progetto Tempa Rossa, come vedremo.
Più interessante, adesso, è notare che quell’emendamento era stato consegnato alle commissioni dal capo di gabinetto del ministro Federica Guidi e portava la sua firma: la rivolta delle opposizioni, e forse l’imbarazzo del Pd, causano una irrituale dichiarazione di inammissibilità  per quel testo (un Gronchi rosa per un emendamento governativo).
Va meglio con la legge di Stabilità .
La notte è quella tra il 12 e il 13 dicembre 2014 e siamo in commissione Bilancio in Senato. L’emendamento viene consegnato — come da prassi — dal ministero dello Sviluppo economico a Maria Elena Boschi, titolare dei Rapporti col Parlamento e gestore del traffico delle proposte governative.
Stavolta il testo passa e viene recepito nella manovra poi approvata con la fiducia: non è chiaro, finchè Boschi non ce lo spiegherà , con quale motivazione sia stata convinta dalla collega a inserire “l’emendamento Tempa Rossa” tra quelli da approvare.
Pochi minuti dopo, comunque, Guidi avverte il fidanzato e s’inguaia.
Detto delle modalità  notturne d’intervento della ex ministra, resta da spiegare cos’ha fatto in pratica.
Breve riepilogo: il progetto Tempa Rossa ha il suo cuore nel giacimento lucano la cui concessione è appannaggio di Total (al 50%), Shell e Mitsui.
I sei pozzi in Basilicata (più 2 da autorizzare) a regime dovrebbero produrre 50 mila barili al giorno, aumentando del 40% la produzione nazionale di greggio.
Questo progetto ha già  ottenuto una Valutazione di impatto ambientale positiva nel 2011. Qual è il problema allora?
Quello che si fa col petrolio una volta estratto: bisogna portarlo a Taranto, stoccarlo e raffinarlo. È una vera fortuna che Eni disponga di un impianto proprio nella martoriata città  dell’Ilva.
E qui, però, cominciano i guai: cittadinanza, movimenti e (fino a un certo punto) pure i politici locali si oppongono a potenziare la capacità  inquinante dell’impianto del Cane a sei zampe.
Il motivo lo spiegò Arpa Puglia nel 2011: “L’esercizio di questi impianti comporterà  un aumento delle emissioni diffuse pari a 10 tonnellate/anno che si aggiungeranno alle 85 tonnellate/anno già  prodotte (con un incremento del 12%)”.
C’erano insomma problemi a fare i lavori al punto di approdo del petrolio estratto nel giacimento di Total e soci di Gorgoglione, in Basilicata: due siti di stoccaggio, un prolungamento del pontile e altre cosette.
È qui che arriva l’ex ministro Guidi: l’emendamento prevede che l’autorizzazione unica per le opere “strategiche” valga anche “per le opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere accessorie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali” anche lontano dal giacimento.
E se gli enti locali si oppongono? C’è il secondo comma: lo Sblocca Italia prevede che, in quanto strategiche, su queste opere alla fine decida il governo.
Il via libera definitivo ai lavori a Taranto è arrivato il 19 dicembre 2015, quattro mesi fa.
Lo ha firmato il ministro Federica Guidi. Non si sa se poi abbia avvertito il fidanzato.

Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)

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SALVINI VA A IMPORTUNARE LA FORNERO SOTTO CASA, MA LA MOGLIE DI CALDEROLI SI DISSOCIA: “HA FATTO QUELLO CHE NESSUN UOMO AVREBBE AVUTO IL CORAGGIO DI FARE”

Aprile 1st, 2016 Riccardo Fucile

DOPO LA MARCHETTA IN ISRAELE, OGGI IL SISTEMAMOGLI A SAN CARLO CANAVESE CON UN MISERO SEGUITO PER RACCONTARE LE SOLITE BALLE

L’appuntamento per i sostenitori torinesi del Carroccio era alle 12,30 a San Carlo Canavese, in piazza Cantù. Tutti lì, tenuti dalla polizia a trecento metri dalla casa dell’ex ministro   del Lavoro Elsa Fornero, per protestare contro la contestata riforma delle pensioni firmata dalla docente universitaria torinese quando era nel governo Monti. A dir la verità  il segutio è ben poca cosa, solo un centinaio di nullafacenti.
Salvini, atterrato a Malpensa alle 11,50 di ritorno dalla marchetta in Israele, è arrivato in piazza un quarto d’ora prima dell’una, giusto in tempo per cambiare la felpa con una con la scritta “Stop Fornero”, e arringare la piccola folla.
Attacchi che l’interessata non avrebbe comunque potuto sentire nemmeno se il sit-in si fosse tenuto sotto le sue finestre, visto che la professoressa torinese in questi giorni è a Parigi per lavoro (quello che Salvini non ha mai cercato).
La polemica sul sit-in a casa dell’ex ministro Fornero già  correva da giorni.
La prima a reagire è stata la vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli, del Pd: “Salvini si fermi, no alla politica che crea odio. Quella riforma che noi vogliamo correggere e correggeremo, porta il nome di Elsa Fornero, sì, ma la responsabilità  di un Parlamento e di un governo intero da cui mi aspetterei una maggiore solidarietà . Chi oggi è colpito da quella riforma, i lavoratori, ha bisogno di una legge che cambi, di una politica che risolva i problemi e non seminando pericoloso odio verbale. Salvini ha deciso di fare altro: il solito show, questa volta però è più di cattivo gusto del solito”. A ruota Gianfranco Librandi, deputato di Scelta Civica, che invita il leader leghista “a fare crociate contro le baby pensioni e non buffonate utili a istillare odio e rancore contro una persona che con la sua riforma ha salvato invece l’Italia e garantito le pensioni alle prossime generazioni”.
Non è la prima volta che il deputato del Carroccio prende di mira l’ex ministro del governo Monti proprio nei luoghi delle sue origini.
Nel maggio 2014 Salvini si era presentato con una trentina dei suoi sotto la palazzina in cui la Fornero abita a Torino e si era lasciato andare a minacce: “Meno male che il ministro non è in casa, perchè mi prudono le mani”.
Però stavolta neanche tutta la Lega appare compatta dietro Salvini.
A cominciare dalla consigliere regionale e presidente della Lega Piemonte Gianna Gancia, che dice: “Considero un errore la personalizzazione delle cose. Non solo. Sono convinto che accada perchè la Fornero è donna. Innanzitutto per questo la difendo: ha fatto ciò che nessun uomo avrebbe avuto il coraggio”.
Anche la sociologa Chiara Saraceno che ha parlato di mobbing leghista è scesa in campo in difesa della “collega” Fornero pur sottolineando che forse sarebbe giusto che dall’ex ministro arrivasse anche un po’ di autocritica: “E’ pericoloso quando si punta a sollecitare la pancia della gente”.

(da agenzie)

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