Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile I CONTATTI CON LUCA LOTTI… LA BOSCHI HA RICEVUTO PIU’ VOLTE GLI EMISSARI DELLE DUE COMPAGNIE STRANIERE
Per l’Italia il vantaggio è nei fatti inesistente.
Il vero interesse dell’emendamento più caldo dell’era Renzi avrebbe aiutato soltanto Shell e Total — e nei fatti è ancora così — a raggiungere il seguente scopo: esportare il petrolio lucano.
Il modello iniziale era la Tap che collega l’Azeirbaigian a Melendugno, l’autostrada del gas che approderà in Puglia, fortemente appoggiata dal premier Matteo Renzi e dal suo sottosegretario Luca Lotti.
Era questa, all’inizio, la richiesta che le compagnie petrolifere Shell e Total rivolgevano al governo, inviando comunicazioni ufficiali che nel loro senso suonavano grosso modo così: “Se siete riusciti a farlo per le compagnie del gas, allora potete farlo per noi questa volta”.
Il cuore della vicenda, anche dal punto di vista investigativo, ruota intorno a un interrogativo: perchè si voleva consentire al governo di sbloccare, superando nei fatti l’opposizione delle amministrazioni locali, il passaggio del petrolio dalla Basilicata a Taranto? Qual era il vero scopo?
L’obiettivo delle compagnie era uno soltanto: esportare il petrolio estratto in Lucania. Ma per far questo non era soltanto necessario stoccare il greggio nel capoluogo jonico. Era necessario qualcosa in più: prolungare il porto di Taranto, la sua banchina, per consentire alle petroliere di potersi rifornire di greggio.
Era questa la vera partita in gioco.
Il Fatto Quotidiano ha incrociato le testimonianze di chi, attraversando le stanze dei bottoni di Palazzo Chigi, ha provveduto a realizzare il sogno di Shell e Total.
Nei giorni scorsi Renzi ha assicurato: l’emendamento che, per gli interessi che coinvolgevano il suo compagno Gianluca Gemelli, ha portato alle dimissioni l’ex ministra Guidi, non fu una “marchetta”.
Poi ha sostenuto che fu scritto dal senatore Pier Paolo Baretta. A scriverlo, invece, fu proprio il suo ufficio legislativo e, per la precisione, lo staff dell’ex vigilessa Antonella Manzione. E non nacque per una mera iniziativa del governo.
Al contrario, nei mesi precedenti, Renzi e Lotti, iniziarono a sentire la pressione della diplomazia internazionale: telefonate, email, che con l’eleganza del linguaggio diplomatico, mettevano sul tavolo del premier il problema dei problemi: dobbiamo esportare il petrolio lucano.
Il messaggio è chiaro. Per esportarlo, bisogna rimuovere l’avversione delle comunità locali che, per la precisione, sono Taranto e la Regione Puglia ormai destinata al futuro presidente Michele Emiliano.
Lo schema è quello classico: prima si muove la diplomazia, poi i rappresentanti delle compagnie, in una pressione lobbistica alla quale Renzi non può e, soprattutto, non vuole opporre alcuna resistenza.
“La questione — racconta la nostra fonte che chiede l’anonimato — fu presa in carico direttamente da Renzi, per mano di Lotti, e dello staff legislativo della dottoressa Manzione”.
La stesura dell’emendamento, insomma, fu affidata a uomini di fiducia del premier e non, come ha lasciato intendere Renzi, al senatore Baretta.
E il problema, come abbiamo detto, è allungare la banchina del porto di Taranto per consentire l’approdo delle petroliere destinate all’esportazione.
L’emendamento può apparire in teoria una norma di carattere generale, in realtà è cucito su misura per le esigenze di Shell e Total, che, dopo gli interventi diplomatici, iniziano a frequentare gli uffici di Palazzo Chigi.
Prendendo visione, di volta in volta, dei passaggi relativi alla stesura della norma. E non solo.
Tra l’ufficio del Mise guidato dal ministro Guidi e lo staff allestito da Palazzo Chigi, tra gli esperti della Boschi e i rappresentanti delle compagnie petrolifere, intercorrono molte email, che lasciano trasparire una costante preoccupazione di Shell e Total.
Una preoccupazione che in quei giorni Renzi non può sopportare: “Le compagnie temevano che le due parrocchie, ovvero gli staff dei due ministeri, non si mettessero d’accordo come avrebbero dovuto”, continua la nostra fonte.
Anche lo staff del ministro Maria Elena Boschi — che, ricordiamo, ha dichiarato di non saper nulla degli affari di Gemelli e del suo rapporto con la Guidi — partecipa, prendendone visione nella sua continua evoluzione, alla stesura dell’emendamento che esautorerà le autonomie locali pugliesi e tarantine dalla questione esportazione.
La stessa Boschi, spiega la nostra fonte, riceverà più volte nei suoi uffici i rappresentanti di Shell e Total.
Il vero raccordo, però, è quello tra Lotti e Manzione, che devono tradurre in norma i desiderata delle due compagnie.
Questa volta, però, non sono le compagnie petrolifere — come spesso accade — a redarre la bozza di norma che serve ai loro scopi. No, è proprio il premier che ha a cuore la realizzazione del progetto che interessa a Shell e Total e che, in realtà , non comporta alcun vantaggio per l’Italia, visto che non coinvolge l’Eni, non serve al consumo interno di greggio, bensì soltanto all’esportazione.
Il vero problema, però, Renzi ce l’ha all’interno del suo stesso partito.
L’idea del premier mette in moto una faida, all’interno del Pd, che si spacca in tre fazioni.
Da un lato il governatore lucano Marcello Pittella, dall’altro Emiliano, infine la corazzata Renzi-Lotti-Boschi.
Dinanzi alle compagnie petrolifere e alla diplomazia internazionale va in scena un vero disastro politico.
E Renzi deve dare una prova di forza. Deve piegare Pittella e soprattutto Emiliano. Lo staff della Boschi prende in carico la questione. Bisogna assolutamente inserire l’emendamento, che ha già saltato l’occasione del decreto Sblocca Italia, nella legge di stabilità . E così accade.
Per la gioia del compagno della Guidi che, sfruttando il nome del ministro, nel frattempo, riesce a ingraziarsi la Total e a incassare un subappalto, nella Lucania della Tempa Rossa, da ben 2,5 milioni di euro.
Antonio Massari
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile IL CANDIDATO DEL CENTRODESTRA SI DIMOSTRA INTELLIGENTE E SCAVALCA LA SINISTRA…SALVINI DEVE CAMBIARE LA FELPA
Sembra un sorpasso a sinistra, quello del candidato sindaco del centrodestra a Milano, Stefano Parisi. 
Non tanto sull’avversario del centrosinistra e ex commissario di Expo Giuseppe Sala, quanto sul Pd milanese, che in questi giorni ha rimesso al centro del dibattito interno ai dem il bando comunale per la costruzione di moschee a Milano.
Ma se il Pd litiga, il candidato del centrodestra non ha dubbi: “A Milano serve una moschea”.
E batte proprio dove il dente degli avversari duole: “Era un progetto della giunta Pisapia che in 5 anni non ha saputo portare a termine: bisogna capire da dove vengono i soldi, garantire sermoni in italiano e la sicurezza”.
Temi che avrebbero innescato i ripensamenti all’interno del Pd locale, che ormai sembra pronto a ridiscutere il progetto del bando.
Ma sul dietrofront i rappresentanti dei Centri islamici di Milano si dicono giustamente pronti a dare battaglia : “Per presentare i progetti abbiamo speso dei soldi, quantomeno chiederemo i danni”
Ora Parisi si dimostra candidato di buon senso, non ha senso boicottare l’espressione della libertà religiosa e la costruzione di luoghi di culto.
Con le dovute garanzie non ci sono motivi ostativi alla costruzione di una moschea, anzi semmai meglio un luogo che puoi tenere sottto controllo che tanti punti di preghiera di cui non hai conoscenza.
Chissà se qualche noto pirla milanese comprenderà questa semplice considerazione.
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile MICHELA BIANCOFIORE NON RINNOVA LA TESSERA E SI APPRESTA A SALUTARE GLI AZZURRI: “E’ FORZA ITALIA CHE ESCE DA ME, IL PRESIDENTE NON C’E’ PIU'”
Come in certi micidiali crepuscoli che si portano via ogni colore, il tramonto del berlusconismo toglie via anche Michaela Biancofiore, coloratissima “amazzone” e “valchiria” anche trash del variopinto regno d’Arcore che fu.
“Non rinnovo la tessera del partito dopo ventidue anni”, ha annunciato ieri colei che amava appellarsi la “Lady Oscar di Berlusconi”, nel silenzio totale del capo e di Forza Italia tutta (sola eccezione: le parole solidali di Vincenzo Gibiino, senatore).
La premessa per un addio al partito, da decidere ufficialmente soltanto dopo i risultati delle comunali a Bolzano, l’8 maggio.
Ma i dettagli contano meno dell’annuncio, o meglio della mera ipotesi che una come Biancofiore possa lasciare Berlusconi.
Per la verità ci aveva già pensato un annetto fa, ma il fenomeno resta innaturale, quasi incredibile, tale che persino lei non si rassegna, lo nega: “Non sono io che esco da Forza Italia, ma è questa Fi ad uscire da me”, dice adesso.
E visto che non si parla di fenomeni trascendenti, ma di carne e partiti, c’è da chiedersi, in questa (ennesima) uscita, cosa resti in piedi, tra lui, lei e Forza Italia, di cosa si parli ormai esattamente.
Perchè berlusconiana, e feticcio del berlusconismo, è sempre stata la Biancofiore: per essenza, da quando aveva sei anni e per lei il capo di Mediaset era “l’uomo che mi ha portato i cartoni animati”, in pratica un eroe; e poi definitivamente quando lo conobbe a Macherio e fu “un’esplosione nel cuore, un marchio a fuoco nella pelle”.
“Una berlusconiana ante litteram, prima, dopo e per sempre”, ecco la sua definizione. Berlusconiana anche oltre il dileggio di chi l’ha sempre trovata un filo esagerata, nel suo definire il “presidente” il “prolungamento del mio cordone ombelicale” e trasognata fino al punto da affermare — impunemente — che quella dei quarantenni come lei è, a destra e a sinistra, la “Berlusconi generation”.
Biancofiore fu, per dire, felice di avere una torta di compleanno sormontata da un dito medio, ricordo di quella volta in cui a Bolzano l’allora Cavaliere lo mostrò per illustrare un certo leggiadro aneddoto dei suoi.
Porta ancora l’anello di diamanti che il “presidente” le regalò dieci anni fa per la vittoria a Bolzano. E’ tipa da aver piazzato la il suo carlina Puggy sulla real scrivania, con l’idea di farne la mascotte per la campagna elettorale nel 2013 (mentre il fido Bonaiuti, altro poi fuggito, pregava che il quadrupede non bagnasse le carte)
Fino a tre mesi fa strologava di amorazzi canini tra la sua e il preclaro Dudù.
Fu l’unica esponente del governo Letta a scendere in piazza per l’ex premier appena condannato nel processo Mediaset, quando tutti i ministri del Pdl avevano deciso di restare a casa per buona pace delle larghe intese; la sola alla quale, poi, Letta (con lo zampino pare di Alfano) controfirmò le dimissioni dal governo, lasciando che tutti gli altri berlusconiani invece le ritirassero, essendo stata quella una semplice mossa di protesta.
E lei anche quella volta fece spallucce: “Ho un transfert verso il presidente Berlusconi e lo difenderò fino alla morte anche a costo del mio posto a palazzo Chigi”, disse.
Ed ecco, appena due anni e mezzo dopo, la morte — per così dire – ha invece gli occhi di Elisabetta Gardini, commissaria straordinaria del partito, che adesso ha scelto per Bolzano un altro candidato, diverso da quello che voleva lei: “Berlusconi mi ha delegittimato, la Gardini ha spaccato l’unità del centrodestra, abbiamo buttato via una vittoria addirittura al primo turno”.
Litigi da nomenklatura, si dirà , questioni da cerchio magico.
Sì, ma è soprattutto il tema dell’odore della vittoria, in ballo. “A Berlusconi ho mandato cinquanta note, gli ho parlato tutti i santi giorni: ha lasciato fare”.
Ecco il vero tradimento del berlusconismo: l’irresistibile richiamo della vittoria, o almeno della pugna, che oggi l’ex Cavaliere non sente, o non vuol sentire.
“Ho sempre detto che sarei rimasta finchè c’era Berlusconi, e lui non c’è più. Non ha più voglia di vincere. Non ci crede più”, ha detto lei giorni fa a Libero.
E così Biancofiore, che pure ha nel “gettare il cuore oltre l’ostacolo” il suo finale preferito, non sa più bene cosa lanciare oltre che cosa.
Susanna Turco
(da “L’Espresso”)
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Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile DA LUCA DI MONTEZEMOLO A DONALDO NICOSIA, DA TRULLI A UBI E UNICREDIT
Si chiama Lenville overseas e ha sede a Panama la società che proietta il nome di Luca di Montezemolo
nel lungo elenco degli italiani con l’offshore.
I documenti analizzati da l’Espresso confermano che lo studio Mossack Fonseca ha curato anche gli interessi del presidente di Alitalia.
Nei primi mesi del 2007 sono stati siglati una serie di contratti che, tra l’altro, indicano Montezemolo come procuratore di Lenville.
Il manager, a quell’epoca al vertice di Ferrari e presidente di Fiat, ha ricevuto la delega per operare su un conto alla Bim Suisse, filiale elvetica dell’italiana Banca Intermobiliare. Raggiunto da l’Espresso, Montezemolo non ha risposto alle richieste di chiarimenti.
Le carte di questi affari sono custodite nell’immensa banca dati di Mossack Fonseca. Un gigantesco archivio informatico a cui, grazie a un anonimo informatore, hanno avuto accesso i giornalisti dell’Icij, l’International Consortium of investigative journalists . Montezemolo si trova in folta compagnia.
Circa un migliaio di clienti provenienti dal nostro Paese sono citati, a vario titolo, nei documenti che l’Espresso ha consultato. Imprenditori, professionisti, volti noti dello spettacolo, ma anche moltissimi personaggi sconosciuti alle cronache sono approdati a Panama per mettere al sicuro il patrimonio di famiglia.
Nei prossimi giorni, una volta completate le nostre verifiche, daremo conto di questi affari offshore.
Intanto va segnalato che nelle carte ricorrono i nomi di due grandi istituti di credito italiani come Unicredit e Ubi. Non solo.
I file panamensi aggiungono particolari inediti su vicende giudiziarie come il caso dell’eredità di Nino Rovelli, il re della chimica anni Settanta.
E negli stessi documenti segreti compare anche il nome di Giuseppe Donaldo Nicosia, sotto inchiesta a Milano per frode fiscale e bancarotta fraudolenta.
Un’inchiesta in cui è coinvolto anche l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, che sta scontando in carcere una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Anche Jarno Trulli, l’ex pilota di Formula Uno, risulta azionista della Baker street sa, una società registrata nelle isole Seychelles e creata con l’assistenza dei legali dello studio Mossack Fonseca.
Il campione, ritiratosi dalle corse nel 2012, è andato offshore grazie all’intermediazione del Credit Foncier Monaco, uno degli istituti di credito più forti sulla piazza di Montecarlo.
Questo è quanto risulta dalle carte ufficiali, ma Trulli, contattato da l’Espresso tramite il suo manager, non ha risposto alle richieste di chiarimenti.
«Mossack Fonseca non risulta essere un consulente fiscale della capogruppo» è stata invece la replica del portavoce di Unicredit.
I file segreti raccontano una storia più articolata. La banca milanese in effetti ha avuto relazioni d’affari con lo studio panamense per la gestione di circa 80 società offshore. Per esempio la Baracaldo inc. e la Overshoot inc. entrambe di Panama, oppure la Nemo partners Ltd, registrata alle Isole Vergini britanniche. Nel 2010 però Unicredit prende le distanze.
Il cambio di rotta coincide con un altro avvenimento: il gruppo italiano vende parte delle sue attività in Lussemburgo ai tedeschi di Dz bank.
E proprio dal Granducato passava il rapporto tra Unicredit e Mossack Fonseca. I documenti danno conto anche dei tentativi dei manager dello studio panamense per riallacciare i rapporti con l’istituto di credito. Senza successo.
Anche per Ubi banca, la grande Popolare bergamasca che si è da pochi mesi trasformata in spa, la piattaforma d’operazioni per gli affari offshore si trovava a Lussemburgo.
È quindi Ubi international che dal Granducato ha incrociato la rotta di Mossack Fonseca. Nelle carte compaiono i nomi di 40 sigle offshore, registrate a Panama e alle isole Seychelles, che appaiono legate a Ubi. Una decina risultano ancora attive. Nei documenti si trova però traccia di numerose conversazioni tra i manager di Mossack Fonseca e i manager di Ubi banca in Lussemburgo.
«Non abbiamo società controllate in quelle località », ha risposto la banca a l’Espresso. Gli azionisti delle offshore sono però da ricercare tra i clienti di Ubi, che via granducato e con l’assistenza delo studio panamense sono così riusciti a sbarcare in un paradiso fiscale. Chi sono questi clienti? Mistero, perchè il capitale delle società è al portatore.
Nessun mistero invece per quanto riguarda la Countryside Group Ltd delle Seychelles. Il titolare delle azioni, lo shareholder, come viene indicato nei file di Mossack Fonseca, è Oscar Rovelli, uno degli eredi di suo padre Nino, l’imprenditore che quarant’anni fa controllava il gruppo chimico Sir.
Il nome dei Rovelli è stato al centro di una complicata vicenda giudiziaria conclusa nel 2006 con una sentenza di Cassazione.
Quel verdetto, che condannava tra gli altri l’avvocato Cesare Previti, stabiliva che la famiglia si era comprata a suon di bustarelle la sentenza del Tribunale di Roma che le assegnava un risarcimento del valore di quasi 400 milioni di euro nei confronti dell’Imi la banca che aveva suo tempo finanziato la Sir.
Nel frattempo però quella somma era già stata dispersa nei più diversi paradisi fiscali ed è così partita un’indagine della magistratura per recuperare il denaro. L’inchiesta ha già portato a sequestri importanti negli anni scorsi.
La Countryside Group delle Seychelles non fa parte, però, dell’elenco di offshore estere già individuate dagli investigatori. Oscar Rovelli ha risposto a l’Espresso, tramite il suo avvocato, di «non avere alcun ricordo di quella società ».
È invece ancora in pieno svolgimento la caccia al tesoro di un altro cliente di Mossack Fonseca del calibro di Giuseppe Donaldo Nicosia, imprenditore della pubblicità televisiva, latitante dal 2014, quando avrebbe dovuto essere arrestato per truffa all’Iva, bancarotta fraudolenta e altro.
Nicosia era socio di Dell’Utri nella società spagnola Tomè Advertising SL, che secondo le accuse della Guardia di Finanza sarebbe servita per una truffa da 43 milioni all’Erario.
L’ex braccio destro di Berlusconi avrebbe beneficiato personalmente di una parte del presunto bottino. in particolare Nicosia gli avrebbe versato 10mila euro al mese dal 2008 al 2011 con la giustificazione, ritenuta falsa, di un ipotetico affitto del palazzo di Dell’Utri in via Senato a Milano.
Secondo le indagini della Guardia di Finanza Nicosia avrebbe reinvestito i proventi della presunta frode in acquisti di lusso: Rolls Royce, Harley Davidson, scuderie di cavalli.
Ma il fiore all’occhiello è il doppio appartamento acquistato nel 2006 a New York: il Cityspire Condominium, al 150 West 56th Street.
E qui entra in gioco il ruolo di Mossack Fonseca. In rapida successione Nicosia costituisce due offshore: il 20 maggio 2011 Darion Trading, alle British Virgin Islands, e, il 13 giugno, Amadocia, nel Delaware americano.
Subito dopo che fa?
Per 3,2 milioni di dollari vende l’appartamento di Manhattan a sè stesso, cioè alla Amadocia, controllata da Darion Trading. Un vero lavaggio all’ombra delle offshore. Ma non è tutto.
Perchè su quella casa pendeva una richiesta di sequestro proveniente da Milano, presa in esame negli Usa nel marzo 2015, ma approvata dal giudice Richard Roberts appena lo scorso 1 marzo. Peccato che in autunno Nicosia avesse già ceduto il suo gioiello per 3,7 milioni.
Oltre al danno anche le beffe.
(da “L’Espresso“)
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Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile PANAMA PAPERS: COINVOLTI PUTIN, IL PADRE DI CAMERON, I VERTICI COMUNISTI CINESI E DECINE DI STAR
Una colossale fuga di notizie. La più grande della storia della finanza internazionale. Milioni di pagine di documenti che raccontano quasi 40 anni di affari offshore.
Tutto parte dallo studio legale Mossack Fonseca, con base a Panama city, nel cuore di uno dei più efficienti e impenetrabili paradisi fiscali del mondo.
Grazie a un informatore, i giornalisti dell’Icij ( International consortium of investigative journalists ) a cui partecipa l’Espresso in esclusiva per l’Italia, hanno avuto accesso a questo enorme archivio di carte segrete.
L’inchiesta è durata più di un anno, da quando i file panamensi – 11,5 milioni in tutto – sono stati recapitati al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung, che poi li hai messi in comune con gli altri giornali del consorzio.
Sulle stesse informazioni sono già al lavoro anche le autorità fiscali di diversi Paesi, tra cui la Germania e gli Stati Uniti.
Mai prima d’ora una simile mole di dati finanziari riservati era stata messa, tutta insieme, a disposizione della pubblica opinione e degli investigatori.
I numeri parlano da soli. Oltre 200 mila società , fondazioni, trust con sede in 21 paradisi fiscali sparsi per il mondo, dai Caraibi ai mini Stati del Pacifico, da Cipro fino al deserto del Nevada, negli Stati Uniti.
E poi decine di migliaia di clienti, cittadini di 200 Paesi diversi, tra cui politici, uomini di spettacolo, imprenditori, sportivi.
I nomi degli italiani citati nell’archivio, come l’Espresso racconta in un altro articolo , sono circa 800.
I file riguardano operazioni che vanno dal 1977 fino alla fine del 2015. E offrono un resoconto inedito sulla gestione di grandi flussi di denaro attraverso il sistema finanziario globale, soldi che a volte sono il frutto dell’evasione fiscale, della corruzione o anche del crimine organizzato.
La maggior parte dei servizi offerti dall’industria dell’offshore è infatti perfettamente legale se usata nel rispetto delle leggi e dichiarata al Fisco.
Ma i documenti esaminati dall’Icij mostrano che banche e studi legali non avrebbero seguito le norme che permettono di individuare i clienti coinvolti in attività illegali.
I file di Mossack Fonseca mettono in luce che alcuni dei più importanti istituti di credito internazionali sono coinvolti nella creazione di società difficili da rintracciare, nelle Isole Vergini britanniche, Panama e in altri paradisi fiscali.
La banca dati esaminata dall’Icij comprende più di 15.300 sigle di comodo costituite dalle banche, tra cui giganti come la svizzera Ubs e la britannica Hsbc, al servizio dei propri clienti.
Nei documenti compaiono società offshore che riconducono alla cerchia degli uomini più vicini al presidente russo Vladimir Putin. C’è il presidente ucraino Petro Poroshenko e pure il padre, deceduto nel 2010, del primo ministro britannico David Cameron, che in patria si è lanciato in una campagna politica contro l’evasione.
I professionisti che più di 40 anni fa hanno fondato lo studio di Panama — e continuano a gestirlo oggi come partner principali — sono personaggi molto conosciuti nella società e nella politica del loro Paese.
Jà¼rgen Mossack è un immigrato tedesco arrivato a Panama con il padre, che cercava una nuova vita dall’altra parte dell’Atlantico dopo aver servito le SS hitleriane durante la seconda guerra mondiale.
Ramon Fonseca, noto in patria anche come romanziere, negli ultimi anni ha lavorato come consigliere del presidente di Panama. Da quando a marzo la sua società è stata coinvolta nel caso, il consorzio Icij ha cominciato a fare domande sull’attività dello studio legale, Fonseca ha preso un periodo di aspettativa dal suo incarico di consigliere.
Anche Lionel Messi, il più famoso calciatore del mondo, si è rivolto allo studio Mossack Fonseca per creare una società che si chiama Mega Star Enterprises Inc., un nome che si aggiunge alla lista di scatole offshore di Messi, già finito nel mirino del Fisco spagnolo.
E ancora a proposito di sport e affari, le carte tirano in ballo anche personaggi coinvolti nello scandalo della Fifa, la Federazione mondiale di calcio.
I report rivelano, per esempio, che lo studio legale di Juan Pedro Damiani, membro del comitato etico della Fifa, ha avuto relazioni commerciali con il vicepresidente della Federazione Eugenio Figueredo, arrestato a Zurigo il 15 maggio dell’anno scorso e sotto inchiesta in Uruguay.
Come Messi, anche un altro big dello star system internazionale come l’attore Jackie Chan si è rivolto a Mossack Fonseca per aprire sei società .
Panama è da sempre anche uno dei paradisi fiscali più attivi nella registrazione di navi di ogni tipo, dai panfili dei super – ricchi ai mercantili.
Ebbene, lo studio Mossack Fonseca risulta aver gestito la creazione delle società offshore a cui sono intestati gli yacht del re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz Al Saud e del sovrano del Marocco Mohammed VI.
L’immensa banca dati a cui ha avuto accesso l’Icij dimostra anche che, tra i leader politici internazionali, la famiglia del presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha usato fondazioni e società di Panama per nascondere partecipazioni azionarie in alcune miniere d’oro e anche proprietà immobiliari a Londra. I figli del primo ministro del Pakistan, Nawaz Sharif, hanno invece comprato palazzi nella capitale britannica, intestati a offshore create da Mossack Fonseca.
I membri della famiglia di almeno otto tra ex e attuali componenti del vertice del Partito Comunista cinese (Comitato Permanente dell’Ufficio Politico) dispongono di società in paradisi fiscali create attraverso Mossack Fonseca. Tra questi c’è anche il cognato del presidente Xi Jinping, a cui sono riconducibili due società nelle Isole Vergini britanniche.
Nella lista dei leader mondiali che hanno usato lo studio Mossack Fonseca per creare società offshore compare anche l’attuale presidente dell’Argentina, Mauricio Macri, già sindaco di Buenos Aires e imprenditore.
Macri risulta amministratore e vice presidente di una società alle Bahamas, amministrata dallo studio Mossack Fonseca. Un portavoce dell’uomo politico argentino ha risposto alle domande dell’Icij precisando che quella società faceva capo alla famiglia di Macri, il quale però non ha mai posseduto personalmente azioni.
Una presa di posizione simile è arrivata anche dallo staff del presidente ucraino Petro Poroshenko.
La holding registrata nelle British Virgin islands, così come altre due società di Cipro e dei Paesi bassi «non hanno nulla a che fare con l’attività politica» di Poroshenko. Questa la dichiarazione dei portavoce del leader di Kiev, che è anche un uomo d’affari a capo tra l’altro di una grande azienda alimentare.
Le informazioni sulle sue proprietà offshore avrebbero invece potuto compromettere la rapida carriera Sigmundur David Gunnlaugsson, da tre anni primo ministro dell’Islanda.
Sin dal 2009, quando è entrato in Parlamento, Gunnlaugsson possedeva azioni in una società delle British Virgin islands, di cui in quell’anno ha girato la proprietà alla moglie per un dollaro.
Il fatto è che il patrimonio di quella offshore era in gran parte costituito da obbligazioni delle banche islandesi fallite in seguito alla crisi finanziaria del 2008. Gunnlaugsson è quindi diventato un creditore di quegli istituti di credito di cui nel frattempo ha negoziato il salvataggio in qualità di primo ministro. Tutto questo senza che nessuno sapesse della sua società nelle Isole Vergini britanniche.
Nel Regno Unito il premier Cameron si è messo alla testa di una battaglia contro i centri offshore invitando, per esempio, le Isole Vergini britanniche, territorio d’oltremare della Corona, a «mettere ordine in casa propria».
Un compito difficile per lo stesso Cameron, visto che suo padre Ian, multimilionario agente di cambio, era un cliente di Mossack Fonseca. Lo studio legale panamense era stato utilizzato per proteggere il proprio fondo d’investimento, Blairmore Holdings Inc., dalle tasse inglesi. Cameron padre ha controllato il fondo dalla creazione nel 1982 fino alla sua morte avvenuta nel 2010.
Quest’ultima vicenda è un esempio di quanto profondamente le società offshore facciano parte della vita delle èlite politiche e economiche in tutto il mondo.
Nel caso di Putin, i file alzano il velo su una serie di operazioni finanziarie riservate gestite da banche, società e persone legate al leader russo.
Ne esce un network di transazioni in grado di movimentare più di 200 milioni di dollari per volta.
Ecco un esempio concreto. Il 10 febbraio del 2011, una società anonima delle Isole Vergini britanniche, la Sandalwood Continental Ltd, ha prestato 200 milioni di dollari a un’altra società fantasma con base a Cipro, chiamata Horwich Trading Ltd. Ventiquattr’ore dopo, la Sandalwood ha girato il proprio credito alla Ove Financial Corp., un’altra misteriosa società delle Isole Vergini, che ha concluso l’acquisto sborsando un solo dollaro. Ma il giro del denaro non finisce qui.
Lo stesso giorno Ove ha passato quei medesimi crediti a una offshore di Panama, denominata International Media Overseas. Anche questa transazione è stata conclusa al prezzo di un dollaro. Nel giro di un solo giorno, quindi, il prestito era passato attraverso tre Paesi, due banche e quattro società , con il risultato finale di rendere molto difficile ricostruire l’origine e la destinazione.
C’erano molte motivazioni che potevano aver spinto gli ideatori di questo schema a scegliere un percorso tanto complicato.
Una su tutte: il fiume di denaro lambisce pericolosamente la cerchia più intima di Putin. La banca Rossiya di San Pietroburgo, un’istituzione il cui azionista di maggioranza e presidente è considerato uno dei cassieri personali del presidente russo, ha costituito la Sandalwood Continental e diretto il flusso del denaro.
La International Media Overseas, dove il credito di 200 milioni sembra essere infine “atterrato”, è invece controllata, in base ai documenti ufficiali, da uno dei più vecchi amici di Putin, Surgey Roldugin, un violoncellista di musica classica, che è il padrino della figlia maggiore del presidente russo.
Il prestito da 200 milioni è solo una delle dozzine di transizioni, che ammontano a un totale di 2 miliardi di dollari, trovate nei documenti di Mossack Fonseca che coinvolgono persone o società legate a Putin.
In una risposta scritta alle domande dell’Icij, lo studio legale panamense ha affermato di «non aver mai agevolato o promosso operazioni illegali». Le accuse secondo le quali sarebbero state create strutture finanziarie studiate apposta per nascondere l’identità dei reali proprietari «sono completamente prive di fondamento e false».
Ramon Fonseca, uno dei due soci fondatori, ha detto in una recente intervista a una tv panamense che lo studio «non ha responsabilità per ciò che i clienti fanno con le loro società offshore». Fonseca ha paragonato la sua attività a quella di un produttore di automobili. Incolpare il nostro studio per quello che la gente fa con le proprie società – dice Fonseca – è come accusare una casa automobilistica «se la macchina viene usata per fare una rapina».
International consortium of investigative journalists
(Inchiesta realizzata da: Bastian Obermayer, Gerard Ryle, Marina Walker Guevara, Michael Hudson, Jake Bernstein, Will Fitzgibbon, Mar Cabra, Martha M. Hamilton, Frederik Obermaier, Ryan Chittum, Emilia Dàaz-Struck, Rigoberto Carvajal, Cècile Schilis-Gallego, Matthew Caruana-Galizia, Miguel Fiandor and Mago Torres)
(da “L’Espresso”)
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Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile “CON TRE SFIDANTI PIU’ STORACE SI METTE IN SCENA LA FIERA DELL’EGO”
«Io, Bertolaso, Meloni Storace…». 
A un certo punto dell’intervista con il Corriere della Sera, Alfio Marchini si concede un sorrisetto e un sospiro. E dice: «Vedrà che il quadro generale evolverà e si esemplificherà ».
E ancora: «Il tema per tutti non è fare un passo indietro ma farne due avanti verso la vittoria e la costruzione di qualcosa di nuovo, politicamente innovativo e di prospettiva. Con tre candidati più Storace si rischia di mettere in scena la fiera dell’ego. E lo dico da esperto della materia».
Quindi, aggiunge, «di quattro candidati ne rimarranno in campo al massimo due».
Nel giorno dell’inaugurazione del quartier generale della sua lista col «Grande cuore», Alfio Marchini lancia un segnale chiaro. Che ha, come punto d’arrivo, una ricomposizione dell’area moderata che corre per Roma. E che porti a meno candidati di quelli che ci sono.
Il sondaggio di Pagnoncelli sul Corriere della Sera la dà lontano dal ballottaggio. Sempre se i blocchi rimarranno questi. Ma rimarranno questi?
«I sondaggi non sono ancora attendibili soprattutto per candidati civici, che non hanno un marchio come i partiti nazionali. E consideri che non abbiamo ancora presentato le liste».
Ci saranno novità tra i candidati?
«Il quadro si semplificherà nei prossimi giorni».
Come sta preparando la campagna?
«Tre anni fa feci una scelta di campo equidistante da tutti, con un avversario ben definito che era Alemanno. Fu una campagna più semplice».
E oggi?
«Dal giorno delle dimissioni di Marino, sto cercando di contribuire a costruire a Roma una alternativa al M5S e al Pd che abbia il segno della discontinuità . E ci sono ancora tutte le condizioni e il tempo per realizzare quel progetto».
Chi sono gli elettori di Marchini?
«Tre anni fa erano per il 70% di area ex centrosinistra. Oggi per l’80% vengono dall’area ex centrodestra. Aver mantenuto lo stesso livello di consensi è stato miracoloso. Ora va completata l’opera».
Difficile, con così tanti moderati in campo… Non le pare?
«È giunto il tempo del dialogo e del buon senso. Non mi considero un moderato ma un estremista del buon senso. E questo buon senso lo utilizzerò per garantire a Roma un governo solido e il più ampio possibile».
Quindi vuole riunire il centrodestra?
«La realtà ci dice che centrodestra e centrosinistra sono esplosi. Erano vecchi schemi ormai superati. Bisogna andare oltre. Il civismo deve ossigenare la politica perchè questa è l’ultima speranza contro il populismo».
Berlusconi-Marchini contro Meloni- Salvini?
«Non credo ci sia in Italia uno spazio per una grande forza lepenista come in Francia. Credo piuttosto che sia giunto finalmente il tempo di far nascere una destra liberale e sociale che si confronti con una sinistra progressista. Siamo ancora alla politica degli ex. A prescindere dal fatto che siano fascisti, ex comunisti o ex democristiani…».
Berlusconi e Bertolaso le hanno mandato molti messaggi. Alleanza in vista?
«Ripeto, vedrà che il quadro generale evolverà e si esemplificherà ».
Sia più esplicito.
«Nessuno dei partecipanti coltiva il gusto autolesionista della sconfitta. A partire da Berlusconi, che non mi sembra sia afflitto da questa sindrome».
Difficile che Berlusconi torni sulla Meloni, dopo tutto quello che è successo.
«A 80 anni non mi sembra abbia alcuna intenzione di abdicare. Ancor meno di firmare una resa».
Quindi Bertolaso farà un passo indietro?
«Il tema per tutti non è fare un passo indietro ma farne due avanti verso la vittoria e la costruzione di qualcosa di nuovo, politicamente innovativo e di prospettiva. Con tre candidati più Storace si rischia di mettere in scena la fiera dell’ego. E lo dico da esperto della materia».
Si sbilanci e faccia una previsione.
«Di quattro candidati, al massimo ne resteranno due. Per ora non mi chieda di più. Non ci sarà un ballottaggio tra Pd e grillini, che criticano tanto le primarie e confezionano la scelta della Raggi seguendo un manuale di marketing politico. A Roma nel 1993 nacque il vecchio bipolarismo, a Roma nel 2016 si definiranno gli schemi politici dei prossimi dieci anni».
Addirittura
«Se il Pd perdesse Roma per mano dei 5 stelle, sarebbe una pericolosa prova generale per il referendum di autunno su cui il Renzi ha puntato tutto».
Tommaso Labate
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile “MAI CONOSCIUTO GEMELLI”… “POSSONO DIRCI INCAPACI MA NON DISONESTI”
Prima un nostro tweet, a cui lei ha risposto pubblicamente, poi – ieri sera alle sette – una lunga telefonata. Maria Elena Boschi ci aveva replicato sul social network dicendo di esser pronta a rispondere a tutte le domande.
Eccole, allora. «Io quel provvedimento lo difendo, risponde a una necessità , crea lavoro. Naturalmente posso sbagliare, non dico di essere perfetta. Ma anche nei miei errori c’è sempre la buonafede, mai la lusinga di qualcuno o gli interessi personali».
Il ministro ha vissuto una giornata con sensazioni contrastanti: la gioia per una nipotina appena nata, contrapposta all’ultimo caso scatenato nel governo dalle dimissioni del ministro Guidi, che la cita in un’intercettazione, parlando col compagno, Gianluca Gemelli, indagato nella vicenda dell’estrazioni petrolifere in Basilicata, dando l’idea di uno scambio di favori e di una generale opacità che tocca questo governo.
Boschi ci dice di aver fatto sapere alla procura lucana che dalla prossima settimana sarà disponibile a farsi sentire come persona informata dei fatti, se lo riterranno.
Ministro, lei conosceva, o ha mai incontrato, Gianluca Gemelli, il compagno della ministra dimissionaria Guidi?
«No».
Dall’inchiesta lucana viene forte un sentore di lobby. Se anche lei non conosceva personalmente Gemelli, sapeva che la Guidi aveva un compagno con interessi nel settore delle estrazioni, ambito su cui il governo stava intervenendo con un provvedimento?
«Ogni settore che smuove posti di lavoro ha le sue lobby. Noi abbiamo una linea chiara: sbloccare il Paese, toglierlo dalle sabbie mobili della burocrazia. Vale per le estrazioni, per l’edilizia che ha perso oltre mezzo milione di posti di lavoro, per la banda larga. Non sapevo nulla del compagno di Federica. Ma conosco molto bene il provvedimento, atteso dal 1989. Era ed è sacrosanto. Se poi il compagno di Guidi o chiunque altro ha violato la legge, giusto che ne risponda. Noi abbiamo semplicemente fatto la cosa giusta per l’Italia».
Scusi però, se lei non lo conosceva, e non sapeva neanche di questi interessi di Gemelli, e quindi se non c’è intenzione politica di favorire nessuno, allora c’è incapacità : non vi rendete conto degli interessi e appetiti che ruotano attorno ad alcune importantissime opere. Non trova sia persino più pericoloso?
«Certo che intorno alle opere pubbliche si muovono interessi. È ovvio. Ma non per questo si deve bloccare tutto altrimenti l’Italia muore. Occorre avere due stelle polari: la legge e la propria coscienza. Io personalmente le ho rispettate entrambe. Ci attaccano i poteri proprio perchè non siamo schiavi dei poteri forti, non siamo il terminale di niente e di nessuno. Questo non piace a molti».
La Guidi in una delle intercettazioni dice «Maria Elena è d’accordo». A cosa si riferisce? Avete mai parlato, e quando, del contenuto specifico di quell’emendamento? «Certo. Io con i colleghi parlo di tutti gli emendamenti. Faccio questo di mestiere: il ministro dei Rapporti col Parlamento».
Ma Guidi ha mai manifesto insistenza con lei sul tema di quell’emendamento?
«No. Del resto più volte direttamente il presidente del Consiglio aveva sottolineato pubblicamente l’importanza di Tempa Rossa. È tutto alla luce del sole, nessun blitz, nessun gioco segreto».
Lei ha detto che un ministro per i Rapporti con il Parlamento deve portare tutti i provvedimenti del governo in aula. Ma non è così, il ministro non è obbligato, non è un passacarte.
«Guardi che questo provvedimento lo abbiamo voluto fortemente perchè considerato strategico per il Paese. Se il compagno della Guidi ha compiuto un atto illecito, ne risponderà lui davanti ai giudici. Per me le cose sono semplici: se una cosa è giusta e serve si approva, altrimenti non si approva. Questo non significa essere schiavi dei poteri forti, ma legislatori».
Ministro, l’emendamento esce e entra, di notte, prima dallo Sblocca-Italia e poi nella legge di stabilità . Perchè? Evidentemente il problema c’era eccome.
«Normali dinamiche parlamentari. Trova almeno altri cento esempi simili negli ultimi due anni».
Non direi. Sento dire che nel governo si lamenta una tempistica sospetta di questa inchiesta secondo lei è legata alla battaglia politica sul referendum sulle trivelle? Pensa davvero ci sia un’offensiva giudiziaria contro di voi?
«So che tra alcuni dei nostri c’è questa tesi; ma io non ci voglio credere. Non faccio dietrologie. E comunque noi siamo diversi da chi ci ha preceduto. Federica ha sbagliato a fare quella telefonata, lo ha ammesso, se ne è andata. La Cancellieri col governo precedente ha sbagliato, lo ha ammesso ed è rimasta al suo posto. Ho anche molto apprezzato che a nome del Pd Bonifazi abbia chiesto i danni civili e penali a Beppe Grillo. Possono dirci che non siamo capaci, se credono. Ma non che siamo disonesti».
Ministro, a proposito di conflitti d’interessi, parliamo un po’ di Banca Etruria. Suo padre, Pierluigi Boschi diventa vicepresidente della banca tre mesi dopo l’arrivo di Maria Elena al governo. Un puro caso o la sua ascesa è stata favorita in qualche modo? «Non penso. Era già in cda e non credo che sia stato agevolato dal cognome. Sicuramente adesso sta pagando come gli altri, forse persino più degli altri a causa mia. Ma è un uomo forte».
Può fare però chiarezza su tutte le modifiche azionarie che coinvolgono la vostra famiglia, e su fidi, o mutui, o prestiti, eventualmente ricevuti da quella Banca complessivamente?
«Si tratta di poche migliaia di euro in tutto. E mio fratello ha ottenuto un mutuo con sua moglie per l’acquisto della loro casa, alle stesse condizioni degli altri dipendenti. Tutto qui».
Nel consiglio dei ministri del 22 novembre, quello del decreto salva-banche e della norma che rende più difficili le azioni risarcitorie sui dirigenti di banca (articolo 35 comma 35), lei c’era o no? E alle riunioni preparatorie?
«Non c’ero. Le norme le ha scritte il Mef, credo confrontandosi con Banca di Italia. Quanto a mio padre: è stato commissariato, Banca d’Italia lo ha sanzionato due volte (non una, due: credo sia un caso unico), immagino che con i suoi colleghi subirà un’azione di responsabilità . La legge è uguale per tutti, con noi al governo. Mio padre paga come tutti gli altri. Dove sarebbe il conflitto di interessi?».
Scusi, ma se lei non c’era, non è un’ammissione indiretta del suo conflitto d’interessi?
«Noi legati alle lobby? Siamo alle barzellette. È vero il contrario, noi non facciamo parte delle grandi lobby che hanno governato il Paese a lungo. Per questo facciamo loro paura. Ma siamo pronti a una legge sul conflitto di interessi: è già stata approvata in prima lettura».
Boschi, non trova imbarazzante che il procuratore di Arezzo, Rossi, che indaga su Banca Etruria, sia stato consulente di Palazzo Chigi?
«Rossi è stato scelto da Letta, non da Renzi. Non mi risulta che abbia mai preso un euro da Palazzo Chigi. Dicevano che per questo motivo mio padre non era stato indagato: adesso che è indagato, cosa si inventeranno?».
Ad autorizzare la consulenza a Rossi fu, nel Csm, Giuseppe Fanfani, uno degli avvocati di Banca Etruria. Non sono situazioni di conflitto d’interessi? Non eravate i rottamatori di tutto questo?
«Non so chi abbia autorizzato la consulenza al Csm. È una domanda che può rivolgere al Csm stesso. Io parlo per il governo, non per i giudici. Cui auguro di cuore buon lavoro»
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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Aprile 3rd, 2016 Riccardo Fucile IN SARDEGNA TUTTI I DIPENDENTI DEL COMUNE DI NARBOLIA CHIEDONO IL TRASFERIMENTO
Appena la porta d’ingresso scricchiola, in municipio son già tutti sull’attenti. Gli impiegati sollevano la
testa e subito si guardano intorno: «Ma è arrivato il sindaco?». In un attimo, tra gli uffici, scatta l’allarme. E all’istante cala il silenzio.
Maria Giovanna Pisanu piomba in Comune sempre senza preavviso. Qualche volta tende la trappola: fa sapere di essere lontano da Narbolia e si presenta all’improvviso. «Forse pensa di trovarci a chiacchierare o a perdere tempo. Noi invece siamo persone oneste, non siamo fannulloni».
Maria Giovanna Pisanu è il più giovane primo cittadino delle storia di questo paese della Sardegna.
Occhi verdi, tono di voce sempre basso, mai un filo di trucco: ha 35 anni, fa l’avvocato e in questi giorni passa per essere il sindaco più cattivo d’Italia.
I dipendenti comunali non vogliono più lavorare con lei, nè con i suoi assessori, e per questo hanno chiesto il trasferimento. Tutti: undici su undici.
Vorrebbero andar via al più presto e sperano di trovare un posto libero in qualche altro ente della zona.
La Giunta ha già approvato le istanze di mobilità e il sindaco si trova a gestire un terremoto che non aveva messo in conto: «Posso essere considerata spietata perchè pretendo che i dipendenti facciano al meglio il loro dovere? Sbaglio se pretendo l’intervento di un operaio quando vedo che nelle strade nessuno taglia l’erba? Esagero se chiedo al manutentore di sistemare i lampioni spenti da giorni? Sono attenta e rigorosa, ma lo faccio per rispetto dei cittadini».
Narbolia è un paese di 1800 abitanti con un territorio vasto e bello. Dietro la case in basalto spuntano le vette del Montiferru, a pochi chilometri c’è il mare della costa occidentale.
Il Comune ha undici dipendenti: dirigenti e impiegati, un solo vigile e un solo operaio a tempo indeterminato.
L’ufficio del segretario è già vuoto: è il secondo che getta la spugna in meno di una legislatura.
«Sapete perchè se la sono presa con me? Perchè il 24 e il 31 dicembre — dice il sindaco — ho preteso che gli uffici rimanessero aperti di pomeriggio. Era giusto allungare le vacanze?».
La fuga di massa è l’ultima puntata di una guerra iniziata poco dopo le elezioni del 2013. Maria Giovanna Pisanu ha mantenuto la promessa della campagna elettorale: «In questo Comune c’è bisogno di grossi cambiamenti». Detto, fatto.
«Ora la situazione si è fatta insopportabile — dice il geometra Mario Tatti — Manca dialogo, ancor prima il rispetto verso di noi e verso il nostro lavoro».
«Ci sentiamo sviliti — aggiunge la responsabile della area amministrativa, Giusi Firinu – Nessuno si è mai tirato indietro, neanche quando c’è stato bisogno di stare in ufficio per molte ore in più senza retribuzione».
Il vigile urbano è pronto a traslocare dopo 37 anni di servizio e con lui il giovane ingegnere che dirige l’ufficio tecnico.
«Nessun cittadino si è lamentato per un disservizio — protesta Tania Carta, impiegata degli uffici finanziari — Il sindaco si è convinto che siamo fannulloni senza motivo». Per una mediazione non c’è più tempo. E Maria Giovanna Pisanu non ha intenzione di trovare un accordo con i dipendenti.
«Noi abbiamo bisogno di persone motivate per portare avanti il programma e migliorare il paese. All’amministrazione spetta il compito di porre gli obiettivi ai dipendenti e noi vorremmo che venissero raggiunti. Ora che hanno dimostrato di non avere più le motivazioni necessarie, non ho motivo per fermarli. Noi inizieremo subito la ricerca di nuovo personale, poi loro se ne potranno anche andare. Spero che trovino un altro ente che sia disposto a prenderseli in carico».
Nicola Pinna
(da “La Stampa”)
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