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“MATTEO, SEI ARROGANTE E NON ALL’ALTEZZA”: CUPERLO E SPERANZA AFFONDANO SU RENZI

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

IL PREMIER STAVOLTA NON REPLICA A TONO, E’ IN DIFFICOLTA’

“Oggi abbiam segnato un punto”, sussurrano quelli della minoranza dem, all’uscita dalla direzione.
I numeri della votazione sono impietosi come previsto, 13 contrari alla relazione di Renzi e 98 a favore.
E tuttavia quelli della sinistra, quasi increduli, escono dal Nazareno sorridendo. “Dopo quello che gli avevamo detto, ci aspettavamo una replica da asfaltatore, e invece niente…”.
Quattro lunghissime ore di direzione, duello all’ultimo colpo su trivelle e sinistra, inchieste, Costituzione, referendum, primarie, ruolo del leader.
Cuperlo arriva sul podio una mezz’ora dopo il leader, parte con una battuta su “questo attivo dedicato all’energia, prima o poi faremo anche una direzione…”. Poi va in crescendo, e sembra quasi di sentire D’Alema: un attacco dopo l’altro, fino alla botta più dura, e inattesa: “Non ti stai mostrando in questa fase all’altezza del ruolo che ricopri. Non mostri la statura di un leader, anche se a volte coltivi l’arroganza dei capi. Questo può fare il danno del Pd”.
Gelo in sala. “Sento il peso di stare in un partito che non ha molto delle ragioni che me lo ha fatto scegliere”.
Poco dopo Roberto Speranza è altrettanto ruvido: “Quando ho detto che non avremmo mai votato la mozione di sfiducia molti compagni mi hanno scritto per protestare, dicendomi che non ne possono più: devi prendere coscienza che una parte del popolo di sinistra non ti capisce”.
E ancora: “La segreteria di Renzi è stata del tutto insufficiente, non ha saputo fare del Pd una comunità ”.
Il tema dell’astensione al referendum pesa, ma non è il punto dominante. Certo, quel manifesto della Quercia che invitava all’astensione nel 2003 sull’articolo 18, mostrato da Renzi alla direzione, è stato vissuto come una provocazione.
Ma, al fondo, sul quesito sulle trivelle il segretario ha già  ammorbidito la linea da un paio di giorni: lui tifa per il mancato quorum, ma non vuole “puntare il fucile” contro chi andrà  alle urne.
Più pesanti i temi del partito, il processo decisionale, e per Speranza il tema del petrolio lucano.
“Non bastano le dimissioni della Guidi, c’è il sospetto di un disastro ambientale, di veleno nella terra, su questo sono pronto a scatenare una guerra”, dice l’ex capogruppo.
Cuperlo è furioso da sabato scorso: in mattinata lui aveva invitato Guerini al suo seminario a Firenze per discutere di come riorganizzare il Pd, clima disteso, sorrisi. Poche ore dopo, alla scuola dei giovani Pd, Renzi auspicava di “spazzare via” le opposizioni al referendum costituzionale di ottobre.
“Chi dovrebbe rimanere dopo che hai spazzato via tutte le opposizioni? Questo è l’opposto dello spirito costituente. Non è il tuo referendum, ma un nodo per superare il bicameralismo: più lo personalizzi e lo carichi di significati impropri, più alimenti gli attacchi che vengono da fuori ma anche le ragioni di dissenso dentro il Pd”.
Sono mesi che l’ex sfidante alle primarie, in pubblico e in privato, sta pregando il premier di non fare del referendum di ottobre un plebiscito su se stesso.
La mossa di sabato, con la frase sulle opposizioni da spazzare via, l’ha molto scosso. “Io lavoro per evitare strappi, ma Renzi proprio non riesce a fare squadra”, si sfoga Cuperlo coi suoi.
L’appello del leader a fare squadra dunque non buca il muro del Nazareno.
Solo sulle comunali la minoranza annuncia di voler lavorare “tutti insieme”.
Su tutto il resto, a partire dal caso Tempa Rossa, le distanze sono enormi. “Chi governa deve dare risposte, invece di dire queste cose contro i magistrati”, protesta il bersaniano Davide Zoggia.
Nella replica Renzi risponde punto su punto: a Speranza manda a dire che “quell’emendamento era stato discusso in Parlamento”, a Cuperlo che “io ho una idea di sinistra credibile, possibile, moderna e riformista, che è diversa dalla tua. Ma per me sinistra è creare lavoro”.
“Io inadeguato? Rispetto la tua opinione. Ma il nostro è un gruppo dirigente plurale, il giglio magico è una ricostruzione banale, il Pd è molto più forte di quello che pensate, sulle tasse da tagliare al ceto medio resto della mia idea”.
Renzi però non asfalta, anzi accusa il colpo: “Non è vero che ho attaccato la minoranza di fronte ai ragazzi della scuola Pd, ho detto loro che non esistono i renziani e chi si dice tale deve essere curato, ho detto che il partito è più grande della personalizzazione del leader…”.
Una excusatio che stupisce i big della minoranza, che si erano riuniti prima della direzione per mettere insieme la strategia, determinati a provocare la reazione rabbiosa del Capo.
Capitolo a parte il duello con Michele Emiliano, capofila del sì al referendum, che accusa Renzi di aver detto “bugie” sulle trivelle. “Mi devi ascoltare, guarda che io ti ho votato, non sono mica delle minoranza e ho i capelli bianchi”.
“Michele, sei meglio delle cose volgari che dici, come quando mi definisci venditore di pentole: noi ti vogliamo bene, non devi urlare per attirare l’attenzione, hai detto che alle europee ha votato il 48%, invece era il 58%, se citi i numeri devi studiare…”. Botte da orbi anche sul rischio di licenziamenti in caso di vittoria del sì, e sulle inchieste di Potenza: “Sei stato imprudente, oggi è arrivata una sentenza con condanne pesanti”, tuona il governatore della Puglia.
“La Costituzione dice che sei innocente fino alla Cassazione, mi meraviglio di te che sei un magistrato, rispettare le garanzie è di sinistra”.
Alla fine Emiliano vota no alla relazione del segretario: “Usa gli stessi argomenti dei petrolieri”. Così votano anche Cuperlo, Speranza, Bersani, Epifani.
All’uscita, il governatore pugliese spiega che “non è una questione personale tra me e Renzi, è una questione referendaria e io invito gli iscritti del Pd a votare sì”.
“Escludo una mia candidatura al congresso del Pd”, risponde sornione a chi gli domanda se stia preparando la sfida a Renzi.
Emiliano non sarà  in partita, ma terrà  banco fino al 17 aprile per invitare il popolo del Pd alle urne, l’esatto contrario di quello che ha chiesto il premier.
Che cita Prodi per sostenere il suo no, “la vittoria del sì sarebbe un suicidio”.
Niente, neanche la citazione del fondatore dell’Ulivo aiuta a placare gli animi. Anna Ascani tenta la carta del “fascismo” dei 5 stelle per serrare le fila: “Non c’è alterativa al Pd”. Ma la minoranza non segue.
D’Alema annuncia che martedì sera sarà  a Otto e mezzo da Lilli Gruber: prevista un’altra scarica.
E in fondo il tema con cui la minoranza ha colpito in direzione è proprio quello sollevato dal “leader Massimo” nell’intervista di due settimane fa al Corriere: l’”arroganza”, lo stile del leader. Solo che, in questa fase, con i pm ad ascoltare la Boschi nelle stesse ore della direzione e a due mesi dalle comunali “che non saranno facili da vincere”, Renzi deve rinunciare all’asfaltatrice: “Il Pd lo abbiamo fatto grazie al lavoro di Walter, Pierluigi, Dario, Guglielmo”.
Elenca tutti gli ex segretari, compresi quelli rottamati. Una cosa assai inusuale per lui, abituato a tuonare contro “quelli di prima”, “quelli del 25%”.
“Gli italiani non ne possono più delle nostre discussioni interne”, dice quasi come in un appello. La minoranza incassa ma non depone le armi.
“Sul petrolio, vedrete, non gli daremo tregua”, assicura Speranza.

(da “Huffingtonpost”)

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CONDANNATI EX VERTICI TOTAL PER TEMPA ROSSA

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

LA SENTENZA ARRIVA MENTRE RENZI SI LAMENTA DELLA MAGISTRATURA LUCANA

La sentenza di condanna in primo grado emessa dal tribunale di Potenza arriva, ironia della sorte, proprio mentre il segretario del Pd Matteo Renzi in direzione criticava la magistratura lucana per le inchieste “mai arrivate a sentenza”.
Al termine di una camera di consiglio durata circa quattro ore, il giudici di Potenza hanno condannato a pene comprese fra due e sette anni di reclusione gli ex vertici della Total e alcuni imprenditori e amministratori.
La vicenda – diversa dalle indagini attualmente in corso – si riferisce ai lavori per la costruzione del centro oli di “Tempa rossa”, fra Corleto Perticara (Potenza) e Gorgoglione (Matera).
L’inchiesta, coordinata dall’allora pm di Potenza Henry John Woodcock, risale al 2008.
Le condanne più gravi sono state inflitte a Roberto Pasi e Roberto Francini, ex dirigenti locali della Total, a sette anni di reclusione ciascuno.
L’ex amministratore delegato della compagnia petrolifera francese, Lionel Lehva, è stato condannato a tre anni e sei mesi di reclusione, così come Jean Paul Juguet, ex manager della Total. In totale, gli imputati nel processo sono 31.

(da “Huffingtonpost”)

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TAJANI: “MELONI, BASTA CAMBIARE IDEA”

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

“FACCIA CHIAREZZA NEL SUO PARTITO, NON SI PUO’ MUTARE OPINIONE OGNI GIORNO”

«Noi abbiamo suggerito prima Alfio Marchini, e la Meloni ha detto no. Poi la Meloni si era messad’accordo con tutti noi per Guido Bertolaso e aveva iniziato a girare Roma con lui, poi però ha cambiato idea. Adesso arriva questa proposta (lei sindaco, Marchini vice, Bertolaso city manager…n.d.r.) … L’unità  del centrodestra è un patrimonio per cui occorre lavorare, ma non può essere il frutto di decisioni estemporanee».
Antonio Tajani, romano, esponente moderato di Forza Italia e vicepresidente del Parlamento europeo non intende «fare polemica» con Giorgia Meloni.
Ma una cosa ci tiene a precisare: «Pacta sunt servanda. C’è stato un documento sottoscritto. Sono stati la Lega e FdI a cambiare idea. La politica è anche regole. Si deve essere seri».
Meloni propone ciò in nome dell’unità  del centrodestra.
«Il centrodestra, come le ho detto, era unito su Bertolaso. Se aveva interesse a candidarsi la Meloni doveva dirlo subito: sarebbe stata candidata. Ma non è che lo può a fare adesso a campagna di fatto iniziata, cambiando posizione più volte. Doveva dirlo all’inizio ma ha sempre detto che non ne aveva intenzione. Insomma, dovrebbero fare chiarezza al loro interno. Noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare per l’unità  del centrodestra: dai vertici ai gazebo. Ma l’unità  non vuol dire annientarsi e scomparire: perchè mi sembra che i sondaggi danno Fratelli d’Italia e Forza Italia alla stessa percentuale a Roma».
A proposito di sondaggi. Gli ultimi danno Guido Bertolaso molto dietro.
«Siamo a bocce ferme. Ancora occorre far conoscere le sue qualità  e il programma. Noi abbiamo scelto un candidato che non è esponente di partito: scelta fatta nella direzione della richiesta che c’è nel Paese di un profilo che sia espressione della società  civile, che abbia dimostrato di saper fare e non impegnato in altri ruoli. Bertolaso, insomma, farà  solo il sindaco. Mi sembra invece che l’appello della Meloni abbia l’obiettivo di cercare di rafforzare la sua posizione e la sua lista».
È vero ciò che si vocifera, ossia che in fondo ci sperate ancora in un ticket con Alfio Marchini?
«Marchini è un candidato che a noi piaceva, lo abbiamo detto fin dall’inizio. È un’espressione civica che poteva allargare i confini del centrodestra, a noi andava bene. Poi Fratelli d’Italia ha detto no. Detto ciò in questo momento mi sembra più forte Bertolaso che Marchini. Ma io faccio l’appello al tutto il centrodestra, perchè sono convinto che la partita si vince al centro».
Con Guido Bertolaso candidato?
«Assolutamente sì»

Antonio Rapisarda
(da “il Tempo”)

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MELONI IN SALDO, MERCATO COMUNALI ROMA: ORA GIORGIA OFFRE A MARCHINI IL POSTO DI VICESINDACO CHE REPLICA: “NO GRAZIE, FACCIA LEI UN PASSO INDIETRO”

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

DURA REPLICA DI AUGELLO: “DOPO AVER INSULTATO PER UN MESE   MARCHINI, DEFINITO ESPONENTE DEI POTERI FORTI E DELLA PORNOFINANZA, ORA CI VENGONO A CERCARE PER USCIRE DAL CASINO IN CUI SI SONO CACCIATI”

“Non siamo interessati. A meno che non sia Giorgia Meloni a fare un passo indietro. Dal quartier generale di Alfio Marchini arriva un no secco alla proposta — lanciata dal capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli — di riunificare tutto il centrodestra sotto la guida della ex presidente della Camera, offrendo a Guido Bertolaso il ruolo di city manager e ad Alfio Marchini quello di vicesindaco.
Una proposta che non scalda neppure il cuore di Forza Italia. E soprattutto quello di Silvio Berlusconi, ancora profondamente amareggiato dalla scelta di Giorgia Meloni di candidarsi dopo aver sottoposto l’ex capo della Protezione civile al responso dei gazebo.
C’è chi, tra gli «azzurri», è convinto che l’apertura di Fratelli d’Italia sia soltanto un gesto di paura, per evitare che sia una eventuale alleanza Bertolaso-Marchini a spingere invece Fratelli d’Italia e Lega a finire ultimi all’interno del centrodestra.
Chi proprio non vuole assolutamente sentir parlare di alleanze con Giorgia Meloni è la lista civica di Alfio Marchini.
Ieri il senatore Andrea Augello ha scritto un post durissimo sul suo profilo Facebook contro la proposta di Fratelli d’Italia: «Sono come bambini che giocano all’ufficio con i timbri e le penne del papà . Dopo aver insultato per un mese Marchini e dopo aver fatto di tutto prima per candidare Bertolaso, poi per scaricarlo sulle spalle di Berlusconi, gli eterni ragazzi di Fratelli d’Italia decidono di riabilitare l’ingegnere romano, da loro definito esponente dei poteri forti, Marxini, protagonista della pornofinanza, emissario di Renzi e non so più cos’altro, purchè salvi la Meloni dal guaio in cui si è cacciata, accettando di sostenerla in cambio della carica di vicesindaco…».
«Purtroppo per loro, il mondo degli adulti non funziona così — prosegue — Chi ha sbagliato deve metterci rimedio. Chiedendo scusa, ad esempio per aver insultato senza motivo persone che nulla avevano fatto per meritare questo trattamento. Non lanciando stupidaggini e proposte arroganti sui giornali ma sedendosi intorno ad un tavolo con umiltà  ricominciando da capo. Dichiarando in primis la propria disponibilità  ad un passo indietro, prima di pretenderlo da altri. Su queste premesse si può ancora ricompattare un fronte in grado di stravincere. Ma è ora di mandare i bambini a nanna e di fare sul serio».

Paolo Zappitelli
(da “il Tempo”)

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ILARIA ALPI, IL TESTE CHIAVE DICHIARO’ IL FALSO SULL’OMICIDIO IN SOMALIA PERCHE’ FU PAGATO

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

ANCHE DAL MINISTERO DELL’INTERNO ITALIANO

Diciannove anni di bugie, confermate in tutti i gradi di giudizio.
Il caso Alpi-Hrovatin decisamente non doveva essere risolto. Un fascicolo da far scivolare lentamente nel copioso armadio dei segreti italiani, lasciati marcire per stanchezza e perdita della memoria storica.
Alla fine — grazie all’ostinazione della famiglia, oggi rappresentata da Luciana Alpi, e di pochi giornalisti — quel meccanismo di testimoni falsi, carte sparite, perizie sospette, indagini mai fatte, in un mix tutto italiano di sciatteria e di “vivi e lascia vivere” si è inceppato.
Venerdì primo aprile la Procura di Roma — oggi diretta da Giuseppe Pignatone — ha finalmente ascoltato a verbale Ahmed Ali Rage, alias Gelle, somalo ormai 50enne, rifugiato a Birmingham, in Inghilterra, dal 1998.
E’ il testimone chiave che permise alla corte di Assise d’Appello di Roma di emettere la sentenza di condanna a 26 di reclusione per Hashi Omar Hassan, accusato di aver fatto parte del commando entrato in azione il 20 marzo 1994.
Testimone che ha dichiarato il falso, come lui stesso ha ammesso fin dal 2002, quando — dopo la condanna del connazionale — chiamò il giornalista somalo Aden Sabrie.
I soldi per il testimone
Gelle ha mentito per denaro. Lo ha raccontato per la prima volta — in una telefonata registrata — nel luglio del 2002. E lo ha confermato in video nel febbraio dello scorso anno all’inviata di Chi l’ha visto? Chiara Cazzaniga.
Secondo le prime indiscrezioni questa stessa versione è stata poi ripetuta anche al pm romano Elisabetta Cennicola, che lo ha ascoltato insieme ai magistrati inglesi su rogatoria internazionale.
Chi lo ha pagato? Forse un pezzo di verità  arriverà  martedì 5 aprile da Perugia, dove è in corso il processo di revisione della condanna contro Hassan, il capro espiatorio accusato ingiustamente.
In quella sede verranno sentiti diversi protagonisti della vicenda, ad iniziare dall’ambasciatore Giuseppe Cassini, ovvero il diplomatico che trovò Gelle in Somalia, facendolo poi arrivare in Italia con il pretesto di deporre sulle presunte torture del nostro contingente militare durante la missione Unosom.
Ilfattoquotidiano.it è in grado di ricostruire il flusso di denaro incassato dal testimone nei pochi mesi della sua permanenza in Italia, dall’ottobre al dicembre del 1997, prima della sua fuga verso l’Inghilterra.
Soldi usciti dalle casse del ministero dell’Interno, tutti regolarmente registrati in alcune note riservate, finite negli atti della commissione parlamentare d’inchiesta che si occupò del caso dal 2004 al 2006.
“Il vicepresidente Veltroni è informato”
Il 4 giugno del 1997 il capo della Direzione centrale della polizia criminale, organo del ministero dell’Interno, scrive una nota riservata al capo della Polizia, all’epoca Fernando Masone.
“A seguito di mia telefonata con il Vice Presidente del Consiglio dei Ministri, On.le Veltroni, nella giornata odierna ho ricevuto il Ministro Plenipotenziario Giuseppe Cassini, inviato speciale per la Somalia”, è l’esordio della nota.
Che poi aggiunge: “Il diplomatico ha avanzato la richiesta di (…) disponibilità  di 3-5mila dollari per approfondire, con adeguata retribuzione alle fonti informative”. Stanziamento di fondi utili “al fine di un rasserenamento dei familiari della giornalista uccisa, costituendo le premesse per arrivare a conoscere la reale dinamica dei fatti”. L’allora vicepresidente Walter Veltroni si era attivato per cercare di risolvere il caso, chiedendo allo stesso Cassini di svolgere una specifica indagine in Somalia.
E’ lo stesso capo del dipartimento ad evidenziare la particolarità  dell’esigenza dell’ambasciatore, tanto da aggiungere: “L’attività  in parola sembrerebbe, ‘prima facie’, più congeniale ai Servizi di informazione”.
Ma la pratica va avanti. C’è poi un altro elemento chiave riportato nelle note riservate di quell’epoca e riguarda il presunto movente.
Cassini riferisce ai funzionari del ministero dell’Interno che — secondo “fonti confidenziali da lui ritenute affidabilissime” — il motivo dell’agguato non sarebbe legato alle inchieste di Ilaria Alpi sul traffico di armi e di rifiuti, ma ad una generica vendetta nei confronti degli italiani per le torture subite dalla popolazione civile.
E a supporto della tesi preannuncia l’uscita di uno “scoop” del settimanale Panorama, con “con foto, in cui un paracadutista allora presente in Somalia fornirà  notizie sui citati atti di violenza in danno di somali”. Una pista, questa, che anni dopo si dimostrerà  infondata.
Il 9 giugno una seconda nota arriva nelle mani di Masone: “Potrebbe essere invece positivamente valutata la possibilità  di fornire al Dott. Cassini la somma di denaro da lui richiesta al fine di ampliare il quadro conoscitivo”. Il viaggio dell’ambasciatore alla caccia del testimone può iniziare. Terminerà  l’11 ottobre successivo, quando a Fiumicino sbarcherà  Ahmed Ali Rage, il somalo pronto ad accusare un innocente.
I soldi per il testimone
Il primo ottobre 1997 la Direzione centrale di polizia di prevenzione del ministero dell’Interno manda un’altra nota al capo della polizia Masone. Cassini aveva, nel frattempo, già  individuato il testimone chiave da portare in Italia, pronto ad accusare Hashi Omar Hassan, sostenendo di aver assistito direttamente all’agguato.
Nella nota ci sono due notizie importanti per capire il caso: “II diplomatico aggiungeva di potersi adoperare per far venire in Italia tale somalo, ritenuto persona affidabile ed attendibile, per deporre dinanzi all’autorità  giudiziaria, a condizione però che le autorità  italiane gli assicurassero un soggiorno spesato in Italia per un periodo di sei mesi, onde evitare un immediato rientro in Somalia, per tutela personale”.
La prima riguarda la remunerazione del testimone; la seconda il periodo di soggiorno in Italia, sei mesi. I tempi sono fondamentali: effettivamente Gelle rimarrà  nel nostro paese solo il tempo necessario per accusare davanti alla Digos e al pm Franco Ionta il somalo Hashi, lasciando l’Italia prima di poter deporre davanti ai giudici della corte di Assise. Una tempistica, dunque, già  prevista fin dall’inizio, secondo questo documento riservato del ministero dell’Interno. La stessa notizia, d’altra parte, emergerà  nel 2005, quando il capitano della Guardia di finanza Gianluca Trezza — ufficiale di collegamento della commissione parlamentare guidata da Carlo Taormina — riferirà  la testimonianza del datore di lavoro romano di Gelle, tale Scomparin: “Sembrerebbe che il soggiorno di Gelle in Italia fosse già  ‘a tempo’ all’atto della sua assunzione presso l’officina, come se gli ‘uomini del ministero’ già  sapessero che nell’arco di 4-5 mesi il somalo avrebbe lasciato l’Italia”, si legge in un rapporto del 25 ottobre del 2005, depositato nell’archivio storico della Camera dei deputati.
Il 10 ottobre 1997 Gelle arriva dunque in Italia e il personale del Dipartimento della pubblica sicurezza del Viminale lo accompagnano a deporre prima davanti ai colleghi della Digos romana e poi davanti al pm Ionta.
Tre giorni dopo — annotano i funzionari del ministero dell’Interno — a Gelle vengono mostrate le immagini girate subito dopo l’agguato.
Un passaggio importante anche questo, visto che l’11 ottobre al pm Ionta aveva dichiarato di “essere sicuro al 90%, la donna era seduta sul sedile anteriore e l’uomo sul sedile posteriore”. Una incongruenza che si scontrava in maniera eclatante con quanto documentato dalle telecamere, con la posizione dei corpi inversa: Ilaria Alpi era dietro e Miran Hrovatin di fianco all’autista. Dettagli, per gli inquirenti, che non incidevano sull’attendibilità  della testimonianza.
Albergo, vestiti, caffè: tutto pagati
Il 15 ottobre il ministero dell’Interno inizia a documentare i soldi versati al testimone. Trecentomila lire per “sostentamento e vestiario” e altre 500mila per l’albergo.
Una settimana dopo vengono versati altre 200mila lire, per le piccole spese. Il 28 ottobre, alle ore 10.40, Gelle riceve un’ulteriore tranche di 500mila lire.
Lo stesso giorno viene richiesta una somma aggiuntiva di 3 milioni, “per le spese di soggiorno e per l’acquisto di vestiario invernale”.
Fondi che andranno a coprire i pagamenti di tutte le esigenze del testimone, con rate comprese tra le 200 e le 300mila lire.
E il caffè spesso era pagato: “Unitamente allo stesso, ci siamo recati presso un bar per degustare una consumazione”, annotano con precisione i funzionari dell’Interno il 21 novembre 1997. Dopo poco più di un mese Ahmed Ali Rage sparisce.
Gli investigatori italiani ci metteranno 19 anni per ritrovarlo.

Andrea Palladino
(da “il Fatto Quotidiano“)

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PANAMA PAPERS, LA RETE DI VLADIMIR PUTIN NELLO SCANDALO DEI PARADISI FISCALI

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

OPERAZIONI DA 2 MILIARDI CHE PORTANO AL CREMLINO… L’AMICO VIOLONCELLISTA CON 100 MILIONI SUL CONTO

Sono almeno dieci anni che giornali, governi e servizi segreti cercano le prove della presunta corruzione di Vladimir Vladimirovich Putin.
Si è sempre parlato di amicizie, connessioni e perfino di possibili prestanome. Ma mai prove. Anche questa volta, nelle migliaia di pagine che arrivano da Panama il nome del presidente russo non compare nemmeno una volta.
Spunta fuori però un quasi sconosciuto musicista di San Pietroburgo, titolare di diverse società  che, tutte assieme, avrebbero asset superiori ai cento milioni di dollari (ma secondo fonti russe, sarebbero invece due miliardi di dollari).
Un po’ tantino per Sergej Roldugin che ai giornalisti si è limitato a rispondere: «Sapete ragazzi, ora non sono pronto a commentare la cosa. Si tratta di questioni delicate. Ero legato a questi affari tanti anni fa…».
Secondo le carte, Roldugin e altri sodali avrebbero guadagnato milioni in affari impossibili da trattare senza il patrocinio di Putin.
Inoltre, secondo le carte la famiglia del presidente russo avrebbe tratto beneficio da questo flusso denaro, ovvero i soldi dei prestanome sembravano i soldi di Putin.
Qualche esempio: Roldugin risulta avere una quota pari al 12,5% nella più grande aggenzia pubblicitaria televisiva russa, la Video Internazional (un miliardo di entrate annue). Inoltre possiede parte della Kamaz, fabbrica di veicoli militari e il 15% di una compagnia cipriota chiamata Raytar. Ancora: il 3,2% della Banca Rossiya. Non male per un violoncellista.
L’amico
La cosa interessante è che Roldugin è molto amico di Putin.
Secondo il quotidiano Guardian, gli avrebbe presentato la moglie Ludmila (dalla quale il presidente è ora divorziato) e avrebbe fatto da padrino alla figlia Maria.
Notizie rilevanti, certo, ma non sufficienti a corroborare l’accusa di corruzione che perfino l’amministrazione americana ha avanzato nei confronti del leader russo. E poi si tratterebbe di ben poca cosa rispetto agli almeno quaranta miliardi di dollari di ricchezze che i critici attribuiscono a Vladimir Vladimirovich.
Le ultime notizie hanno scatenato reazioni particolarmente vivaci da parte del Cremlino, forse perchè coinvolgono direttamente le figlie del presidente. Informato degli articoli che stavano per uscire su vari mezzi d’informazione, il portavoce Dmitrij Peskov ha parlato di «diffamazione e menzogne», ma ha aggiunto un’accusa precisa: quella contro Putin è una campagna orchestrata per influenzare le elezioni parlamentari d’autunno.
Indagini
In realtà , in questi anni di indagini sono emersi moltissimi fatti assai rilevanti che sembrano coinvolgere decine di amici ed ex colleghi del Kgb che sono diventati ricchi e importanti.
E la domanda, naturalmente, è: con l’aiuto di Putin?
Il pensiero corre immediatamente ad alcuni dei più «vicini», come i fratelli Rotenberg che condividevano la passione per il judo con l’allora giovanissimo Vladimir.
Poi i compagni del primo direttorato del Kgb (Gennadij Timchenko, uno dei pochi che ha avuto il privilegio di rivendere all’estero il petrolio russo) e gli amici che negli anni Novanta crearono una cooperativa di dacie vicino San Pietroburgo, tra i quali, ad esempio, Yurij Kovalchuk, indicato da molte fonti come il banchiere della Famiglia.
Ora, si tratterà  certamente di gente particolarmente ferrata negli affari, onestissima e molto brillante. Ma è possibile che l’amicizia col capo non abbia contribuito a trasformare la Banca Rossiya (di Kovalchuk) partita con un capitale di qualche milione di euro in uno dei colossi del Paese che ha assorbito a prezzi stracciati altre banche, aziende di comunicazioni e altri asset in buona parte di provenienza pubblica?
La Banca Rossiya
Casualmente, altro socio di peso della stessa banca Rossiya è Nikolaj Shamalov, anche lui compagno di vecchia data di Putin (naturalmente era nella cooperativa di dacie).
È sempre una coincidenza il fatto che il figlio di Shamalov, Kirill, sia il marito della figlia di Putin? Nel rapporto che l’oppositore Boris Nemtsov stava preparando quando venne ucciso, si sostiene che gli amici di Putin hanno attuato una vera e propria «spoliazione» di Gazprom, trasferendo per pochi soldi asset a società  controllate da loro. Da Gazprombak a Gazprom-Media, azienda che è passata di mano «a un quarantacinquesimo del suo valore», secondo Nemtsov.
Possibile che chi è alla guida di Gazprom non abbia detto nulla?
Nemtsov ricordava che si tratta di Aleksej Miller, che già  lavorava agli ordini di Putin al comune di San Pietroburgo. Naturalmente tutti questi amici così ben piazzati nel mondo del biziness (come dicono in Russia) hanno rampolli altrettanto brillanti.
Dai due figli di Shamalov, uno azionista di varie società , l’altro dirigente di Gazprombank, a Boris Kovalchuk, Sergej Ivanov, Gleb Frank, Igor e Roman Rotenberg. Sì, sempre gli stessi nomi.
La guerra interna
Una decina di anni fa si scatenò una guerra tra il partito dei democratici e quello dei cosiddetti silovikì, cioè uomini del Kgb e delle forze armate, per avere tutto il potere sotto Putin.
Ci furono anche arresti clamorosi (un vice ministro e un generale dell’antidroga). Poi i silovikì presero il sopravvento e, secondo alcuni ben addentro alle cose, diedero inizio a quella che fu chiamata la «ri-privatizzazione di velluto».
L’espressione è di Oleg Shvartsman, un uomo d’affari coinvolto nell’operazione. Oggi sono loro, ex agenti segreti, ex compagni di judo, ex vicini di dacia, a controllare buona parte dell’economia del Paese.
Su Putin solo voci, come il grande palazzo nel Caucaso, il patrimonio personale «segreto» di quaranta miliardi, eccetera.
Di certo sappiamo solo che l’anno scorso ha dichiarato un reddito di poco superiore ai centomila euro, due modesti appartamenti e un posto auto coperto.

Fabrizio Dragosei
(da “il Corriere della Sera”)

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IL GIALLO DEGLI 800.000 EURO PER L’ATTICO DI BERTONE

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

LA FONDAZIONE BAMBIN GESU’ NE HA SALDATI 422.000 ALL’IMPRESA, ALTRI 307.000 VERSATI DAL CARDINALE DOPO LO SCANDALO

Per la ristrutturazione della casa del cardinale Tarcisio Bertone i lavori sono stati pagati due volte o i due pagamenti riguardano cantieri diversi, il primo la sistemazione dell’appartamento vero e proprio, il secondo le opere di edilizia sulle parti comuni del palazzo?
È questa la domanda alla quale deve rispondere la magistratura vaticana che ha indagato l’ex presidente del Bambin Gesù Giuseppe Profiti e l’ex tesoriere Massimo Spina.
La parte più consistente dei lavori (per un importo di 422 mila euro) è stata infatti pagata con sette fatture dalla Fondazione dell’ospedale pediatrico, a fronte del documentato avanzamento dei lavori.
Ma esistono altre fatture, per un importo complessivo di oltre 300 mila euro, che l’impresa Castelli Re di Gianantonio Bandera ha presentato al Governatorato vaticano, il quale si è poi rivalso sul cardinale Bertone, chiedendogli di pagare di tasca sua.
Cosa che il porporato ha fatto. La Stampa ha potuto visionare alcune di queste fatture, che la Castelli Re ha presentato per il pagamento al Vaticano.
LA FONDAZIONE PAGA  
La ditta romana aveva presentato il suo progetto, passato al vaglio della direzione tecnica del Governatorato. Una parte, la più consistente, riguardava l’unificazione dei due appartamenti al terzo piano del Palazzo San Carlo, che avrebbero formato la nuova residenza di Bertone per un totale di 296 metri quadrati: opere di edilizia, di consolidamento, rifacimento dei pavimenti, dell’impianto elettrico e di quello idraulico, del riscaldamento, infissi, arredamenti interni.
Questi lavori sono stati seguiti passo dopo passo e i loro costi interamente sostenuti dalla Fondazione Bambin Gesù, con sette fatture emesse e pagate tra il dal 3 dicembre 2013 e il 28 maggio 2014, per un totale di 422.005 euro, con un aumento del prezzo preventivato pari a 112.005 euro.
LE FATTURE  
Fino ad ora inedite erano rimaste invece le altre fatture, presentate dalla Castelli Re direttamente al Governatorato.
Si tratta di quattro fatture emesse dall’impresa tra il giugno e l’ottobre 2014 (dunque tutte successive a quelle pagate dalla Fondazione Bambin Gesù): la prima in data 3 giugno 2014, per un importo di 91.324 euro; la seconda e la terza, per un importo di 122.481 euro, la quarta, infine, in data 10 ottobre per un importo di 135.036 euro.
Nel documento riassuntivo della Direzione dei Servici Tecnici del Governatorato (commessa n. 504629) si legge questo riepilogo generale dei costi: la ditta Castelli Re aveva presentato un preventivo di 307.676 euro, al quale si sono aggiunte opere per 29.372 euro, per un totale finale di 337.048 euro.
Le maestranze e i materiali messi a disposizione dallo Stato della Città  del Vaticano ammontano a 27.812 euro, quelli di ditte terze (nè Vaticano, nè Castelli Re) ammontano a 5.684 euro. In tutto, questa parte di lavori, costa 370.544 euro.
Nel documento dei Servizi Tecnici del Governatorato si fa riferimento all’impegno del cardinale Bertone – preso attraverso una lettera datata 9 novembre 2013 – a versare un contributo di 307.676 euro, cioè l’esatto ammontare preventivato al Governatorato dalla Castelli Re.
CONTO DA 792 MILA EURO  
Ricapitolando, se si mettono insieme le spese sostenute dalla Fondazione Bambin Gesù, quelle sostenute dal cardinale Bertone e quelle delle maestranze del Governatorato, si arriva a un costo complessivo di 792.544 euro.
Questi soldi sono stati tutti spesi unicamente per unire i due appartamenti e ristrutturarli? No, perchè è noto che oltre ai lavori riguardanti l’appartamento di Bertone al terzo piano, la Castelli Re si è occupata anche del rifacimento di parti comuni, a cominciare dal tetto del Palazzo San Carlo.
La casa del cardinale, infatti, non è un attico. L’ampio terrazzo è condominiale e utilizzabile da tutti gli inquilini. Erano necessari lavori perchè l’impermeabilizzazione non teneva più e filtrava acqua. Inoltre la Castelli Re ha operato anche nelle cantine, dunque in altre parti comuni del palazzo.
QUELLE DICITURE DIFFERENTI
È interessante notare che, mentre le fatture inviate per l’incasso alla Fondazione Bambin Gesù recano la dicitura «Ristrutturazione locali terzo piano Palazzo San Carlo», ed è sempre elencato lo stato avanzamento lavori con il dettaglio di tutti gli interventi edilizi e impiantistici relativi all’appartamento, le fatture inviate dalla Castelli Re al Governatorato portano come dicitura «Opere edili ed affini per la ristrutturazione dell’appartamento del Segretario di Stato emerito ubicato al 3° piano del palazzo San Carlo». Si parla cioè soltanto di «opere edili». Erano questi i costi delle parti comuni del palazzo?
L’IPOTESI DEL PM VATICANO  
Va notata però anche un’altra differenza. Mentre in queste fatture della Castelli Re non si parla di impiantistica, i relativi certificati di pagamento della Direzione dei Servizi Tecnici del Governatorato portano una dicitura diversa: «Ristrutturazione edile e impiantistica degli appartamenti al terzo piano» del palazzo San Carlo.
Nei suoi ordini di pagamento, insomma, il Governatorato sembra pagare per l’intera ristrutturazione della casa di Bertone, e non solo per le opere comuni.
Ma la somma per quella ristrutturazione interna, nel momento in cui il Governatorato fa i bonifici alla Castelli Re, era in realtà  già  stata pagata dalla Fondazione Bambin Gesù, che aveva commissionato il progetto all’impresa e ne aveva approvato il capitolato dopo averlo sottoposto al cardinale Bertone.
Da qui l’ipotesi della magistratura vaticana di lavori pagati due volte. Se i cantieri della stessa ditta erano due, uno per la nuova casa di Bertone e l’altro per i lavori sul tetto e nelle cantine del palazzo San Carlo, e a questi ultimi lavori facevano riferimento le fatture presentate al Vaticano, perchè il Governatorato avrebbe chiesto al cardinale di pagare anche per opere edili riguardanti le parti comuni?
E perchè Bertone avrebbe dovuto risarcire il Governatorato e non invece la Fondazione Bambin Gesù, che aveva invece sborsato 422.000 euro per i lavori di edilizia e di impiantistica del suo appartamento?

Andrea Tornielli
(da “La Stampa”)

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LA STORIA DEI 5,4 MILIARDI PER LA FLOTTA MILITARE

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

IL SUPERBUROCRATE DEL MINISTERO E L’AMMIRAGLIO INDAGATO NON PER AVER CERCATO BENEFICIO PER SE’

L’uomo chiave in questa storia si chiama Valter Pastena, ieri burocrate sconosciuto ai più e oggi — è il dato che mette in allerta gli inquirenti — consulente del Ministero guidato, fino all’altro ieri, da Federica Guidi.
Il burocrate è notissimo a chiunque, nel mondo industriale, abbia dovuto accedere a finanziamenti del ministero delle Finanze. E in questo caso si trattava di gestire spese per 5,4 miliardi di euro: il progetto del rimodernamento dell’intera flotta italiana, inserito nella cosiddetta legge navale, fiore all’occhiello dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di stato maggiore della Marina italiana, fino all’altro ieri in pole position per la guida della Protezione Civile.
Parliamo di uno dei nomi che, due settimane fa, avevano suscitato le perplessità  del presidente della Repubblica nel giro di nomine — tra servizi segreti e stati maggiori — che Matteo Renzi dovrà  gestire nei prossimi mesi.
Le perplessità  del presidente Sergio Mattarella erano più che fondate: la procura sta indagando su De Giorgi e, a insospettire ancor di più gli inquirenti, è proprio la gratuità  dell’incarico che il super burocrate Pastena riceve dal dicastero della Guidi. La parabola di questo secondo filone d’indagine porta al ministero della Difesa, per la precisione alla Marina Militare, che, oltre De Giorgi, vede indagato Gianluca Gemelli. Sempre lui, il compagno di Federica Guidi che, anche in questo caso, è indagato per traffico d’influenza illecita, proprio per aver speso la posizione dell’ex ministra.
Accusa aggravata dall’ipotesi dell’associazione per delinquere — con De Giorgi e altri — e dal concorso in abuso d’ufficio.
E questa volta, in ballo, c’erano i 5,4 miliardi destinati alla flotta italiana. E il grigio burocrate del Mef, ormai in odore di pensione, che in entrambi i ministeri — il Mise e il Mef — svolge un ruolo nevralgico.
Tocca a lui elaborare le “norme” — chiamiamole così, per semplificare — che servono a sbloccare i più importanti capitoli di spesa pubblica nel settore industriale. Sa come si scrivono. Conosce chi le redige. Sa con chi deve parlane. Conosce ogni più minuto ingranaggio del meccanismo burocratico.
E gli investigatori della squadra mobile di Potenza scoprono un fatto essenziale: si occupa proprio del progetto che sta a cuore all’ammiraglio De Giorgi.
L’ammiraglio, in questa vicenda, non viene accusato dagli inquirenti di aver cercato un profitto per sè, ma per l’intera Marina Militare.
Il punto è, però, che per realizzare il suo sogno cade in una rete ben collaudata: Gemelli, che può vantare la sua relazione con l’ex ministra, e l’amico Nicola Colicchi, consulente della Camera di Commercio di Roma.
Un lungo passato nella Compagnia delle Opere, che ha presieduto a Roma, già  coinvolto in un’indagine a Milano, che l’ha visto assolto, da tempo Colicchi bazzica ambienti che ruotano intorno al business dell’energia.
Una passione che condivide con Gemelli e un terzo uomo, Paolo Quinto, ex collaboratore della senatrice del Pd Anna Finocchiaro.
Il trio che ha incuriosito gli investigatori, portando alla luce questo e altri filoni di indagine, è composto proprio da Gemelli, Colicchi e Quinto.
Che di volta in volta contattano persone diverse, negli ambienti istituzionali, per raggiungere i loro obiettivi.
Questa volta è il turno di Pastena che, se vuole, può intervenire al Mef per premere sul progetto che riguarda le ambizioni dell’ammiraglio De Giorgi.
La legge Navale stanzia 5,4 miliardi, sì, ma di anno in anno bisogna sbloccarli. E sia il Mef, sia il Mise, in questa prassi sono essenziali. La firma di Federica Guidi, sulla pratica, è imprenscindibile.
E Gemelli può spendere la sua vicinanza alla ministra. Ma ci vuole qualcuno che al Mef, alleggerisca la strada della “norma” che sblocca i fondi, prima che la Guidi possa apporre la sua firma. E l’uomo giusto è Valter Pastena. Che diventa essenziale.
È l’uomo titolato a comunicare tra i due ministeri. Ma è vicino alla pensione. E, peraltro, i fondi andranno sbloccati di anno in anno. Per lui, però, è già  pronto un futuro al Mise.
Quello guidato dalla Guidi. E nel frattempo Gemelli può continuare a puntare sui suoi rapporti con la Guidi per puntare agli affari che, se non riguardano direttamente lui, possono interessare i suoi sodali.

Antonio Massari
(da “il Fatto Quotidiano“)

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GUIDI, DUE INCONTRI CON I PETROLIERI, POI I “FAVORI”A GEMELLI

Aprile 4th, 2016 Riccardo Fucile

I VERBALI… COMMESSE PURE AD AUGUSTA, IN CAMBIO DE GIORGI PUNTAVA ALLO SBLOCCO DEI FONDI PER LE NUOVE NAVI MILITARI

Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi.
Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell’ex ministro che va ben oltre l’ingenuità  di una chiamata di troppo.
In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della “lobby petrolifera”, promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio “cortesie” destinate a favorire gli affari del compagno.
Il mafioso.
Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società  non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare “fornitore di servizi ingegneristici” per la compagnia del petrolio, per il futuro.
Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell’23 ottobre 2014.
Al telefono ci sono Franco Broggi – capo ufficio appalti della Tecnimont l’azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata – e Gemelli.
Quest’ultimo ha appena chiesto di poter “fare tutto ciò che riguarda l’ingegneria per eventuali lavori successivi”. Broggi risponde in maniera netta: “Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c’è quell’incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu… Tutto si fa nella vita”. Gemelli ringrazia: “Tu sei un mafioso siciliano!”.
“Da una telefonata successiva – scrive il gip – si capisce come l’incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont”.
Insomma, l’accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro.
La coppia Gemelli-Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l’emendament) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore “spingendo” le ditte di Gemelli.
Mimì e Cocò.
Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. “Senti – chiede Broggi – sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?”. “No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante”, risponde Gemelli svelando che “questo tizio”, l’uomo di Tecnimont, aveva rinviato l’appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo.
“I due dell’Ave Maria si sono visti”, esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po’ infastidito perchè la cosa è “adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà  a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l’istituzione che dice ‘prendi una società  italiana’; però c’è modo e modo”.
“La Guidi li stanerà “.
L’altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest’ultimo è l’interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l’inserimento dell’emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stablità .
L’incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: “Nathalie le ha rappresentato le difficoltà  con le Regioni Basilicata e Puglia”.
“E il ministro – scrive il gip – ha detto che avrebbe convocato le Regioni (…) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati”. In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta “assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto””. “L’incontro è andato bene”, riferirà  in un’altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica “a me ha detto che è andato tutto bene”, la risposta.
Lo sblocco dei fondi navali.
Sull’asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal “programma navale per la tutela della capacità  marittima della Difesa”.
Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi.
L’ipotesi dell’accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi – presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già  indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis – fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa.
“Venne da me Colicchi – racconta Pastena – e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi”.
Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi – che transitavano presso il Mise della Guidi – per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena.
Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell’intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno “Schema di decreto ministeriale concernente le modalità  di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale” (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il “parere preliminare delle Commissioni”.
Parere che la Guidi definisce “urgente”, auspicando che l’iter si concluda “al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa”.
Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà  fatto un contratto come consulente del Mise.

(da “la Repubblica“)

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