Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
RESTERA’ TUTTO COME OGGI O IL M5S PASSERA’ FINALMENTE A UNA GESTIONE CHE NON ASSOMIGLI PIU’ A UNA AZIENDA SRL ?
Oddio quanto è ipocrita l’Italia! Da quando ho dato in diretta la notizia della morte di Gianroberto
Casaleggio, un’ondata bipartisan ha travolto agenzie e social media con messaggi, post e tweet di questo tenore: “Protagonista politico innovativo e appassionato”, Sergio Mattarella. “Un innovatore”, Renato Brunetta. “Innovativo protagonista della politica”, Corrado Passera. E ancora: “ha rivoluzionato la comunicazione politica nel nostro Paese”, Beatrice Lorenzin. “Uomo coraggioso che ci ha sempre messo la faccia”, Roberto Maroni. “Protagonista della politica italiana”, Nicola Fratoianni.
Eppure da vivo, non gliele hanno certo mandate a dire. Anzi. Lo hanno letteralmente coperto di insulti.
“Uno che a cinquant’anni si fa la permanente è capace di qualsiasi delitto”, disse non molto tempo fa un pirotecnico Vincenzo De Luca (non in versione Crozza…).
E ancora: Stefano Esposito l’ha definito uno “spione”, Enrico Deaglio un “saccente cretino”. Philippe Daverio ha addirittura scomodato la storia: “Goebbels farebbe i complimenti a Casaleggio”.
E Giampiero Mughini da par suo gli è andato dietro: “Il paragone che si può fare è con Albert Speer, l’architetto del Terzo Reich”.
E poi le accuse più antiche a tenaci: essere l’eminenza grigia del Movimento, l’unico che contasse davvero nell’universo pentastellato (persino rispetto a Beppe Grillo, non per niente ritratto da Vauro dopo la morte del guru come un burattino senza fili), tanto da reinterpretare la regola “uno vale uno” in “uno vale tutti”.
Casaleggio diabolico ispiratore delle espulsioni e responsabile dei presunti brogli nelle votazioni online, “quirinarie” in testa, e straordinaria macchina da soldi alle spalle dei poveri ingenui attivisti pentastellati.
Insomma, una vagonata di improperie tanto ricca e variegata da spingerlo a farne un libricino (ovviamente un e-book): Insultatemi. E da questo si può misurare lo spessore del personaggio…
“Ai posteri l’ardua sentenza”. Casaleggio come Napoleone? Non proprio, ma non è ancora il tempo in cui stabilire se la sua “fu vera gloria”, mentre sono questi i giorni in cui si delineerà il futuro del Movimento cinque stelle, rimasto troppo giovane orfano di padre.
E proprio come quando muore un genitore con tanti figli, con la scomparsa di Casaleggio si apre inevitabilmente una complicata successione.
Stamattina, seguendo il funerale, guardando quelle facce smarrite e poi lo strano brindisi del Direttorio con un gruppo di attivisti, tutti ci siamo chiesti chi sarà il suo erede.
Chi raccoglierà il testimone di “capo” di un Movimento in cui uno vale uno, ma in cui ci deve pur essere qualcuno che vale più degli altri (George Orwell docet)? Luigi Di Maio? Alessandro Di Battista? A chi sarà riconosciuta l’autorità indiscutibile che fu di Gianroberto?
Chi vivrà vedrà , ma intanto per i Cinque stelle è il momento della partita più complicata, molto più complicata della conquista del governo: gestire l’interregno rimanendo uniti, senza spaccarsi, senza litigare e senza individuare il nuovo leader con procedure contorte e poco chiare che suscitino polemiche o, peggio, facciano volare le carte bollate.
Eh già , perchè il rischio è anche questo. Da Saragat a Bertinotti, da Rauti a Buttiglione, da Fini ad Alfano, da Fassina a Verdini, la storia della politica italiana è piena di scissioni, liti, recriminazioni.
E come se non bastasse, la Seconda Repubblica ci ha abituato anche a vedere le Aule parlamentari sostituite da quelle dei tribunali.
Ma il Movimento fa della differenza dal resto dei partiti il suo punto di forza. E se i cinque leader del Direttorio si armeranno più o meno come i Sette contro Tebe per contendersi lo scettro del comando, beh allora il colpo per il prestigio e l’immagine di tutti i pentastellati sarà durissimo. Forse esiziale.
Ma parliamo anche dell’altra eredità in ballo: quella legale.
La normale successione prevista dal Codice civile per ognuno di noi e che nel caso di Casaleggio mette nel piatto la gestione del mitico Blog di Beppe Grillo e di fatto quella del Movimento, con tutto ciò che ne consegue.
L’erede designato di questo patrimonio privato eppure così pubblico sembra il figlio Davide, da qualche tempo sempre più presente, anche se da dietro le quinte forse più del padre, nella vita dei Cinque Stelle.
E qui si apre il match più delicato. Se la gestione di un movimento politico che ambisce a guidare il Paese si eredita come un appartamento o un’azienda, il cortocircuito è inevitabile.
Vanno in crisi la Costituzione, le norme sulla rappresentanza politica, la stessa natura democratica del M5s.
E, naturalmente, l’immagine dei grillini e, ancora una volta, la loro pretesa di essere diversi. Anzi, la loro pretesa di essere migliori: perchè se così fosse sarebbero sì diversi dagli altri, ma certamente non in meglio!
E allora? E allora con la scomparsa di Casaleggio per i Cinque stelle è arrivato il momento di crescere. E di cambiare.
Di risolvere la vexata quaestio, di smettere di essere l’unico partito politico italiano (e forse mondiale) gestito da una s.r.l.
Anche perchè, altrimenti, sarà inevitabile il paragone con il partito-azienda per eccellenza, con il solo partito per cui si è ipotizzata (ma non realizzata) una successione dinastica di padre in figlia.
Insomma, sarà inevitabile il paragone con quella Forza Italia che per i pentastellati è l’uomo nero per antonomasia.
Mirta Merlino
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
LA STORIA DEL RAGAZZO CRESCIUTO SUI CAMPETTI DI POVERE E PIETRE DEL GHANA CHE ADESSO GIOCA IN SERIA A CON IL BOLOGNA
È una storia di calcio e di migranti, quella di un ragazzo cresciuto sui campetti di polvere e di pietre del Ghana che ora gioca negli stadi di serie A: a narrarla è il documentario «Godfred» e il protagonista è il centrocampista classe 1996 del Bologna Godfred Donsah.
Lo ha realizzato proprio il club rossoblù, in particolare con il suo filmaker Claudio Cioffi, e sarà online sulla webtv del Bologna Calcio dalle ore 12 di venerdì: «Godfred»è uno spaccato che ripercorre le origini di Donsah e che racconta in particolare la storia della sua famiglia. Quella del padre William, che quando il figlio aveva 8 anni ha camminato per sette giorni nel deserto dal Ghana alla Libia, per poi imbarcarsi come tanti su un gommone diretto a Lampedusa: due giorni di viaggio in mare, poi il lavoro nei campi di pomodori in Italia per spedire i soldi alla famiglia, ai quattro figli rimasti in Ghana e alla moglie, che lavora nelle piantagioni di cacao.
GLI INIZI
E poi c’è lui, Godfred, sempre protagonista al campetto di Sunyani, la città dove è cresciuto e che si trova a un’ora di volo dalla capitale Accra.
«Da piccolo giocava, giocava e giocava. In Ghana chi passa il tempo a giocare a pallone è considerato un vagabondo, ma io l’ho lasciato fare perchè vedevo quanto era determinato» svela la madre Anane.
Quel calcio, spesso preferito alla scuola, che poi nel 2011 gli ha regalato la grande occasione: viene notato in una delle tante partite organizzate per mettere in mostra i talenti locali da Olivier Arthur, che ora è il suo agente, e arriva la chiamata dall’Italia. Palermo, dove il connazionale Acquah (ora al Torino) gli regala il primo paio di scarpe da calcio, poi Verona dove avviene il ricongiungimento con papà William dopo otto anni in cui i due non si vedevano.
«Guardavo Toni dal basso verso l’alto, perchè nel 2006 lo avevo visto al Mondiale in tv in Ghana e ora mi stavo allenando con lui: un sogno» svela Donsah, che nella scorsa estate è passato al Bologna.
GLI AIUTI IN GHANA E LA PIANTAGIONE DI CACAO
Al club rossoblù l’idea del documentario è venuta proprio sotto Natale, poichè Donsah ha sempre raccontato la gioia e la commozione in occasione dei suoi ritorni in patria.
E allora Claudio Cioffi per tre giorni ha seguito Donsah come un’ombra, raccontando con la sua telecamera gli abbracci con gli amici di sempre e vivendo i luoghi della sua infanzia: «Per arrivare alla piantagione di cacao c’erano 10-15 chilometri da fare a piedi — racconta Godfred mentre scorrono le immagini di lui che cura le piante tagliando le erbacce col machete — in futuro il mio sogno è quello di possedere una enorme piantagione per dare lavoro a tante persone».
Donsah ora guadagna bene ed è nel mirino di alcune big europee, ma sta già facendo tanto per aiutare la sua famiglia e la città di Sunyani: ha dato una mano alle sorelle a studiare all’università e a Natale è arrivato con un borsone di magliette e palloni del Bologna per i ragazzini del campetto che sognano di diventare come lui e che a volte si ritrovano proprio Donsah, Acquah e l’ex Juventus Boakye (ora al Latina, in B) a giocare con loro.
IL VALORE DEI SOLDI
Godfred è un ragazzo semplice, a cui la vita ha insegnato presto il valore del denaro: «In Ghana 100 o 200 euro valgono come 10.000 euro qui in Italia, sono soldi con cui si può cambiare la vita di una persona. Anche questo pensiero quando vado in campo mi aiuta a essere concentrato. Cosa penso quando un calciatore sperpera soldi? Ogni persona ha il suo modo di vivere, io ringrazio Dio per ciò che ho».
Nel documentario la famiglia racconta tutto di Donsah: il padre si commuove ripensando a quegli otto anni di lontananza, una delle sorelle lo ringrazia per la carriera universitaria che ha reso possibile e gli amici di sempre lo accolgono come un eroe. E se mai il suo mestiere di calciatore lo mettesse di fronte all’ignoranza o al razzismo di qualcuno, la risposta è pronta: «Anche in questo caso dico che ognuno vive come crede. Ma se qualcuno mi tira una banana io la mangio, perchè con la fatica che faccio in campo mi sarebbe d’aiuto».
Ironia e semplicità : la ricetta di Godfred, il migrante diventato campione.
Alessandro Mossini
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
DUE PERSONE CIVILI APRONO IL FRONTE DEI DIRITTI IN FORZA ITALIA
Chi c’era la descrive come “una riunione poco partecipata”. 
Ma dalla quale, malgrado tutto, è arrivata un’indicazione importante. Che dovrà essere necessariamente affrontata di nuovo nelle prossime settimane.
In vista dell’approdo in Aula a Montecitorio del discusso disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili — già approvato dal Senato in prima lettura — anche dentro Forza Italia si sta formando un gruppo di deputati pronto a votare a favore del provvedimento.
Proprio così. Guai però a chiamarla “fronda”. Anche perchè ne fanno parte pure due ex ministre delle Pari opportunità come Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo.
L’incontro nel corso del quale è emersa questa posizione si è svolto pochi giorni fa e ha visto la partecipazione di una quindicina di deputati azzurri sui 53 totali (tanti ne conta oggi alla Camera il partito di Silvio Berlusconi dopo la dissoluzione del Pdl).
Perciò è stato deciso di ‘aggiornare’ la discussione ai giorni immediatamente antecedenti al voto.
Oltre a Carfagna e Prestigiacomo si sono detti propensi a votare “sì” al ddl Cirinnà anche l’ex ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, e i due deputati lombardi Elena Centemero e Massimo Palmizio (entrambi non erano presenti alla riunione).
Nella stessa sede si sono invece detti apertamente contrari a questa ipotesi Daniela Santanchè, Francesco Paolo Sisto, Piero Longo e Antonio Palmieri.
Altri invece hanno preferito non dire una parola. Come noto, a Palazzo Madama Forza Italia ha votato contro il provvedimento in questione. Arrivando addirittura a chiedere l’intervento del capo dello Stato, Sergio Mattarella, per via del ‘soccorso’ al governo arrivato dai verdiniani di Ala.
Cosa è successo nel frattempo? Perchè ora potrebbe esserci, almeno da parte di qualcuno, un ‘cambio di verso’?
“Il testo del ddl Cirinnà è confuso e scritto male, addirittura con riferimenti normativi sbagliati — dice a ilfattoquotidiano.it Mara Carfagna —. La cosa più grave, però, è che ancora oggi nel nostro Paese vengano violati i diritti di decine di migliaia di persone: malgrado tutto, questa legge rappresenta un passo in avanti”. Parole che lasciano poco spazio alle interpretazioni.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Vito. “Il provvedimento è certamente migliorabile — spiega l’ex ministro —. Ritengo però che Forza Italia, essendo un partito a vocazione liberale moderno e al passo con le esigenze della società , non possa che discuterne decidendo alla fine di votare a favore”.
Se prima, ricorda il deputato azzurro, il problema era rappresentato dalla stepchild adoption (cioè l’adozione del figlio del partner), oggi “questa è stata stralciata dal testo del ddl”.
E se il governo dovesse porre la fiducia? “Dovremo votare naturalmente contro — risponde Vito — ma poi al voto finale sul provvedimento esprimerci per il ‘sì’”. Apertamente contraria, invece, la Santanchè. “Mi opporrò fino all’ultimo ad una legge che considero un bluff e che ha ampi profili di incostituzionalità — attacca —. La quale, peraltro, non riguarda solo le coppie omosessuali ma anche quelle etero, sulle quali lo Stato non dovrebbe mettere bocca”.
Se ne riparlerà nelle prossime settimane, anche se il voto favorevole di FI sarebbe più che altro simbolico visto che alla Camera il governo poggia su numeri solidi (garantiti dal premio di maggioranza del “Porcellum” di cui nel 2013 ha usufruito l’allora coalizione di centrosinistra).
Al momento il testo, che dovrebbe arrivare in Aula a inizio maggio, è all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio, dove sono stati presentati 889 emendamenti (500 solo della Lega Nord). Forza Italia ne ha depositati 85, fra cui uno che riguarda i sindaci.
I quali — secondo la modifica proposta — “nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione”, possono “dichiarare la propria obiezione di coscienza alla costituzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e ad ogni atto ad esse antecedente, conseguente o comunque connesso”.
Non proprio un inizio conciliante.
Giorgio Velardi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
CANARIE E CROAZIA HANNO DECISO LO STOP… LA NORVEGIA IMPONE REGOLE SEVERE: L’ENI HA ATTESO ANNI PER IL VIA LIBERA.. LA GRAN BRETAGNA IMPONE UN PRELIEVO FISCALE TRA IL 68% E L’82%
“La legislazione che ha l’Italia sulle trivellazioni è tra le più rigorose in Europa”. Questo ha ripetuto negli ultimi mesi il governo Renzi e questo ha detto anche il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti.
È vero? Oppure, come dicono i promotori del referendum che si svolgerà il 17 aprile, l’Italia non è affatto severa con le compagnie, dal sistema delle royalties fino ai controlli?
Le tasse e le norme statali nel settore degli idrocarburi sono il termometro per capire se uno Stato è favorevole o meno ai petrolieri e in Europa i vari Paesi adottano politiche molto differenti.
C’è il caso della Norvegia, dove la tassazione è sì molto alta, ma lo è anche la produzione. Nonchè il livello di controlli nei confronti delle compagnie.
Esistono regole molto severe sull’estrazione di idrocarburi con l’obiettivo di preservare gli ecosistemi marini.
Anche la Gran Bretagna è piuttosto favorevole allo sfruttamento degli idrocarburi, anche se con differenze molto nette caso per caso.
In Europa gli Stati si comportano in modo molto eterogeneo, come dimostra quanto avvenuto in Francia dove il ministro dell’Ecologia Sègolène Royal ha chiesto nei giorni scorsi lo stop a tutte le trivellazioni nel mar Mediterraneo, seguendo l’esempio della Croazia.
Emblematico anche quanto accaduto alle Canarie dove un anno fa è finita l’avventura del gruppo petrolifero Repsol che, dopo sette settimane di lavoro di prospezione, ha annunciato che non avrebbe chiesto nuovi permessi per estrarre idrocarburi.
Una decisione presa dalla società e non certo dal governo spagnolo che, nel rilasciare quei titoli, era andato anche contro le comunità e i governi locali.
LE PIATTAFORME NEI MARI EUROPEI: CHI TRIVELLA DI PIÙ
Sul numero di piattaforme che si trovano nelle acque dell’Unione europea gli ultimi dati disponibili sono quelli forniti dalla Commissione europea quando, nel 2011, ha stabilito nuove norme di sicurezza per le attività offshore, poi confluite nella Direttiva 2013/30/UE.
Oltre mille gli impianti operativi per l’estrazione di petrolio o gas nelle acque europee, tenendo conto anche di quelli di Islanda, Liechtenstein (nell’Oceano Atlantico) e Norvegia.
Non comprendono questi ultimi tre Stati, invece, i dati del 2010 (sempre della Commissione) relativi agli impianti nei singoli Paesi: la maggior parte, 486, nel Regno Unito, 81 in Olanda, 135 in Italia (ad oggi il numero è immutato) e 61 in Danimarca.
Meno di 10 impianti, invece, in Germania, Irlanda, Spagna, Grecia, Romania, Bulgaria, Polonia.
LE REGOLE NEGLI ALTRI PAESI
Ma al di là dei numeri, come funziona del resto d’Europa? Come si comportano i governi degli altri Paesi con le compagnie petrolifere?
In Francia le domande per ottenere un permesso di ricerca vanno inoltrate al ministero dell’Ecologia, dell’Energia e dello Sviluppo sostenibile che, una volta consultate le autorità locali interessate, valutano il progetto.
Se il ministero non ha obiezioni di tipo tecnico o ambientale, il permesso di esplorazione viene concesso attraverso un decreto ministeriale.
Tale permesso ha validità 5 anni, rinnovabile due volte. E se la compagnia trova petrolio o gas, per iniziare la coltivazione la società titolare del permesso di ricerca deve attendere il consenso ministeriale.
Se accordata, la concessione di coltivazione ha una durata che varia normalmente tra i 25 e i 50 anni.
Nel Regno Unito, il Petroleum Act del 1998 riconosce alla Corona britannica la proprietà delle risorse di idrocarburi presenti sul territorio e, quindi, il diritto esclusivo di esplorazione e produzione.
Le attività vengono svolte attraverso un sistema di licenze. I permessi per le attività onshore sono assegnati su richiesta dei partecipanti, mentre per le attività offshore sono indette periodicamente delle aste di assegnazione.
IL CASO DELLA NORVEGIA
La Norvegia è uno dei Paesi con la maggior produzione di gas e petrolio (pari a oltre 20 volte quella dell’Italia) e impone regole molto severe sull’estrazione di idrocarburi. Non si possono effettuare sondaggi entro i 50 chilometri dalla riva.
Solo a marzo Eni ha avviato la produzione del giacimento di Goliat, il primo impianto a olio a entrare in produzione nell’Artico, in una zona priva di ghiacci nel mare di Barents.
Goliat doveva essere pronto nel 2013, ma l’ente norvegese che controlla le operazioni petrolifere, il Petroleum Safety Authority (Psa) dopo le ispezioni non ha mai dato l’ok, nonostante il mercato e le pressioni per un progetto di certo ambizioso.
L’ultimo ‘no’ è arrivato a fine dicembre. Lo Stato norvegese mantiene il diritto di proprietà sui minerali del sottosuolo. Le attività di esplorazione e sfruttamento di tali risorse quindi, sono gestite con un sistema di assegnazione di licenze mediante cicli di asta.
LE TASSAZIONI PIÙ FAVOREVOLI AI PETROLIERI
Per comprendere se in un Paese venga o meno applicata una tassazione favorevole alle compagnie è necessario comparare i dati.
In Italia, per l’offshore, l’aliquota delle royalties è del 7% per le estrazioni di petrolio e del 10% per l’estrazione di gas (è fissa al 10% su terraferma), ma le società non pagano nulla sotto la produzione di 50mila tonnellate per il petrolio e di 80mila metri cubi per il gas. Nel complesso il prelievo fiscale è tra il 50 e il 67,9%.
In Germania, invece, l’aliquota delle royalties è del 10%, ma i singoli Là¤nder possono prevederne una diversa. In realtà in molti Paesi le royalties sono state abolite e sostituite da sistemi diversi di tassazione.
Secondo i dati diffusi da Nomisma Energia la Norvegia arriva a prelievi fiscali del 78% ed è tra i Paesi con la tassazione più alta, pur prevedendo una serie di benefici alle imprese.
Di fatto il regime fiscale attira un alto livello di investimenti e di produzione di idrocarburi. Sono state abolite le royalties, mentre oggi esiste una tassazione specifica su attività petrolifere (pari al 50%) e una generica sui profitti delle società (pari al 28%).
Nel Regno Unito il prelievo fiscale oscilla tra il 68 e l’82% perchè i canoni variano in base al bando, senza royalties, abolite nel 2002.
In Danimarca, invece, la tassazione può arrivare al 77%.
La Francia utilizza un sistema di prelievo fiscale sulle attività petrolifere che prevede un mix di royalties, imposte sulla produzione e imposte sul reddito della società . Il Paese ha una bassa produzione e un altrettanto basso prelievo fiscale, in media tra il 37 ed il 50%.
LA FRANCIA SEGUE L’ESEMPIO DELLA CROAZIA
Nei giorni scorsi il ministro francese dell’Ecologia Sègolène Royal ha dato il via libera a una moratoria con effetto immediato sui permessi di ricerca di idrocarburi “viste le conseguenze drammatiche che possono colpire l’insieme del Mediterraneo in caso di incidente”.
La moratoria riguarda sia le acque territoriali della Francia sia la zona economica esclusiva (la piattaforma continentale).
L’intenzione, dunque, è quella di chiedere l’estensione del provvedimento “nel quadro della convenzione di Barcellona sulla protezione dell’ambiente marino e del litorale mediterraneo”. Una decisione che, nelle intenzioni del ministro, dovrebbe dare una forte spinta allo sviluppo dell’efficienza energetica e delle rinnovabili.
La notizia in Italia è arrivata nel momento più delicato possibile, a una settimana dal referendum, ma non è una vera novità , dato che Royal aveva già annunciato a gennaio che la Francia avrebbe rifiutato ogni nuova richiesta di permesso di ricerca di idrocarburi.
E proprio a gennaio, in Croazia, il nuovo premier Tihomir Oreskovic era stato altrettanto chiaro: “Presenterò al Parlamento una proposta di moratoria contro il piano di Zagabria per lo sfruttamento di gas e petrolio in Adriatico”.
L’anno prima la Croazia aveva assegnato dieci licenze per la ricerca di idrocarburi in Adriatico, ma la scorsa estate alcune compagnie petrolifere hanno fatto dietrofront, rinunciando a sette delle concessioni ottenute.
A marzo, invece, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha bloccato il piano per le trivellazioni di gas e petrolio al largo della costa sud orientale dell’Atlantico. Sempre Obama a ottobre scorso aveva congelato almeno per i prossimi 18 mesi’ e trivellazioni a largo dell’Alaska.
Luisiana Gaita
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
NEL 2011 DICEVA: “IO ELETTORE CHE FA SEMPRE IL SUO DOVERE”…OGGI SOSTIENE: “LEGITTIMO ASTENERSI”
“Non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria“.
Tradotto: il referendum sulle trivelle è pretestuoso, quindi è legittimo astenersi.
A dirlo non è un leader di partito, bensì il presidente emerito della Repubblica e senatore a vita Giorgio Napolitano in un’intervista a Repubblica.
L’ex capo dello Stato non sa se domenica andrà alle urne (il motivo dell’incertezza sarebbe una trasferta a Londra già programmata), ma intanto non ha rinunciato a esprimere il suo pensiero sulla consultazione e, di riflesso, sullo strumento referendario come mezzo di democrazia diretta.
Una presa di posizione molto politica e poco istituzionale, che segue pedissequamente quella del Pd e di Matteo Renzi, ultimo premier da lui nominato.
Le parole di Napolitano, invece, sono diametralmente opposte a quelle del presidente della Consulta Paolo Grossi (“Bisogna andare a votare sempre. Solo così si è buoni cittadini”), pronunciate l’11 aprile scorso al cospetto dell’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il successore di Napolitano, come suo stile, ha preferito non pronunciarsi ufficialmente per non influire sul dibattito politico (specie dopo l’invito del governo all’astensione), ma ufficiosamente ha fatto sapere che domenica andrà a votare.
Tra Napolitano e le urne, al contrario, c’è la gita in Inghilterra e, soprattutto, la convinzione sulla “pretestuosità di questa iniziativa referendaria”. Peccato, però, che quando al Colle c’era lui la pensava diversamente.
Quando Napolitano spingeva per la partecipazione ai referendum
E’ il 6 giugno 2011, ai referendum abrogativi su acqua pubblica, nucleare e Lodo Alfano manca neanche una settimana.
Napolitano è capo dello Stato da sei anni. I giornalisti sono appostati in attesa che lasci Montecitorio, la domanda è d’obbligo: “Presidente, andrà a votare?”. “Io sono un elettore che fa sempre il suo dovere” dice Napolitano.
Che poi, a distanza di due settimane, scrive una lettera a Marco Pannella per chiedergli di interrompere l’ennesimo sciopero della sete iniziato per protestare contro il sovraffollamento delle carceri.
E’ il 23 giugno, il presidente della Repubblica usa queste parole: “La valorizzazione dello strumento referendario come elemento di democrazia diretta e la grande attenzione da te sempre prestata alle regole che presiedono alla partecipazione elettorale dei cittadini, sono il segno di una costante preoccupazione per la necessità di un consapevole e attivo coinvolgimento dell’opinione pubblica e dei cittadini nella vita politica del paese e della volontà di contrastare e combattere fenomeni di distacco e disinteresse verso la vita pubblica”.
Il pensiero dell’allora inquilino del Quirinale è assai chiaro: i referendum servono a coinvolgere i cittadini nella vita pubblica e a contrastare il disinteresse della gente per la politica.
E lui, ai referendum, va a votare sempre: lo ha fatto nel 2011 e ancor prima nel 2005, prima della sua elezione, quando bisognava esprimersi sulle norme per la procreazione assistita.
Napolitano oggi: “Referendum pretestuoso, astensione legittima”
Dall’ultima tornata referendaria sono passati meno di cinque anni e Napolitano ha cambiato idea. Lo ha detto a Repubblica: “L’astensione è un modo di esprimere la convinzione dell’inconsistenza e della pretestuosità di questa iniziativa referendaria”.
E ancora: “Non si possono dare significati simbolici a un referendum. Ci si pronuncia su quesiti specifici che dovrebbero essere ben fondati. Non è questo il caso”.
Di più: “Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità , non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”.
Parola di presidente emerito della Repubblica italiana. Che per nove anni è stato “custode dei valori della Costituzione”. Che all’articolo 48 recita testualmente: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”.
Pierluigi Giordano Cardone
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
COMPAIONO ANCHE I NOMI DI STEFANO PESSINA E DI SOCIETA’ LEGATE A BERLUSCONI
Emanuela Barilla, Adriano Galliani, il miliardario Stefano Pessina. E poi società riconducibili a Silvio Berlusconi e Flavio Briatore.
Sono questi i nomi più importanti che l’Espresso pubblicherà in una nuova inchiesta sui Panama Papers , il colossale archivio dello studio Mossack Fonseca.
Nell’articolo, il settimanale rivela una seconda lista di italiani con i soldi offshore. Sono 100 in tutto, imprenditori, professionisti, manager di ogni parte d’Italia.
Tra le carte panamensi emerge tra l’altro il nome della Sport Image international delle Isole Vergini britanniche, una società della galassia di Silvio Berlusconi che una ventina di anni fa finì al centro di un’indagine giudiziaria per i pagamenti in nero ad alcuni calciatori del Milan, da Ruud Gullit e Marco Van Basten.
Come amministratori della Sport Image, fondata nel 1989, sono indicati Adriano Galliani e altri due manager a quell’epoca targati Fininvest: Giancarlo Foscale e Livio Gironi. Struie invece, è una cassaforte, anche questa creata da Mossack Fonseca, di cui si sono serviti sia il leader di Forza Italia sia Flavio Briatore (benchè i loro nomi non compaiano direttamente nelle carte panamensi).
A metterla a loro disposizione fu l’avvocato britannico David Mills, creatore del sistema offshore da 775 milioni di euro per conto del capo della Fininvest.
L’Espresso ha ricostruito anche gli affari offshore di altri personaggi molto conosciuti dell’economia come Emanuela Barilla , azionista del gruppo del Mulino Bianco insieme ai fratelli Guido, Luca e Paolo.
Dalle carte di Mossack Fonseca risulta che Emanuela Barilla ha costituito nel 2014 una offshore con sede alle Isole Vergini Britanniche, la Jamers international.
Stefano Pessina , 74 anni, nativo di Pescara, è invece uno dei manager più influenti dell’industria farmaceutica mondiale.
Residente a Montecarlo da tempo, Pessina controlla la multinazionale Wallgreens Boots Alliance e il suo patrimonio personale è stato stimato 13,3 miliardi di dollari, inferiore in Italia solo ai Ferrero e a Leonardo Del Vecchio.
I Panama Papers rivelano che Pessina, insieme alla compagna Ornella Barra, controlla una offshore con un’insegna quantomeno originale. Si chiama Farniente holding.
Vittorio Malagutti
(da “L’Espresso”)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
NON DEFINISCE APPARECCHIO TV NE’ CHI PAGA E CHI NO IL TRIBUTO
Il Consiglio di Stato impone l’alt sul Canone Rai. 
Il tribunale amministrativo, che per legge deve dare un parere sul decreto del Ministero dello Sviluppo Economico, avanza due critiche: in primo luogo manca una “definizione di apparecchio televisivo”; in secondo luogo non si precisa che il canone si versa una volta sola, anche in presenza di più televisori in casa, nè se sia da pagari in presenza di smartphone o tablet in grado di intercettare il segnale tv.
Una bocciatura che cade a metà aprile, a pochi mesi dalla prima bolletta elettrica che conterrà l’imposta, prevista a luglio.
Lo scrive la Repubblica, che fornisce i dettagli delle osservazioni del Consiglio di Stato.
In un suo atto, il Consiglio di Stato lamenta che il decreto – scritto dal ministero dello Sviluppo Economico – non offre una “definizione di apparecchio tv”. E neanche precisa che il canone si versa una volta sola, anche se abbiamo più televisori in casa. E’ dunque indispensabile chiarire che la famiglia deve versare la gabella un’unica volta, e soltanto se possiede un tv che riceve i programmi in modo diretto “oppure attraverso il decoder”. In questo modo, il decreto chiarirà una volta e per sempre che non si deve pagare niente quando si hanno uno “smartphone o un tablet” che pure riescono oggi a intercettare il segnale televisivo.
Il Consiglio di Stato osserva anche che la riscossione del nuovo canone pone un problema di privacy, vista l’elevata mole di dati che si scambieranno gli “enti coinvolti (Anagrafe tributaria, Autorità per l’energia elettrica, Acquirente unico, Ministero dell’interno, Comuni e società private)”.
Eppure il decreto ministeriale non prevede neanche uno straccio di “disposizione regolamentare” che assicuri il rispetto delle normativa sulla riservatezza.
Sempre il Consiglio di Stato stigmatizza la scarsa chiarezza del decreto ministeriale che pure tratta una materia molto sentita dagli italiani.
Oscuro, ad esempio, è il passaggio che definisce le categorie di utenti tenute al pagamento dell’imposta per Viale Mazzini.
E poi c’è il capitolo della dichiarazione che bisogna inviare all’Agenzia delle Entrate per attestare di non avere il televisore.
Gli adempimenti in capo a chi non deve versare la gabella tv sono tali da imporre allo Stato una campagna d’informazione capillare, che il decreto però si guarda bene dal chiedere.
Infine il Consiglio di Stato punta l’indice sul fatto che il ministero dell’Economia non ha dato un formale via libera (attraverso il meccanismo del “concerto”) al decreto scritto dal ministero dello Sviluppo Economico.
Il ministero dell’Economia si è limitato ad una presa d’atto dell’esistenza di questo atto. In assenza del “concerto”, però, si rischia di inficiare la “correttezza formale” dell’iter amministrativo.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
IL GIOVANE MINISTRO DELL’ECONOMIA SPIAZZA I SOCIALISTI CON IL SUO MOVIMENTO
Nè di destra, nè di sinistra, forse di centro, certamente con l’ambizione di intercettare le diverse
«energie», dice, che si agitano in Francia. Ad ampio raggio.
Senza dimenticare il malcontento degli elettori che oggi si rivolgono al Fronte Nazionale.
Il giovane astro nascente della politica d’Oltralpe, Emmanuel Macron, spiega il senso del movimento politico che ha appena inaugurato, a tredici mesi dalle elezioni presidenziali: «En marche», avanti verso cosa?
Probabilmente verso la fondazione di un partito vero e proprio: «Si tratta di un movimento politico – risponde – non escludo, però, che possa presentare candidati (alle prossime elezioni, ndr ). Non è l’obiettivo immediato. Oggi il mio intento è rifondare un’esperienza differente dell’impegno politico attraendo nuovi talenti».
Vassoi di croissant e caffè lunghissimi in caraffe d’argento, sobrio completo blu scuro e ampio sorriso, Macron ne parla a un gruppo ristretto di giornalisti italiani nel corso di una colazione informale in una delle sue stanze del casermone di Bercy.
È la sede grigia e austera del ministero dell’Economia, la «fortezza» – così la chiamano – che l’ex banchiere ha scosso di riforme (o almeno di tentativi).
Fino a quest’ultimo sisma: una nuova formazione che entra in scena nel mezzo del dibattito su primarie e candidature per l’Eliseo. A destra (ci sarà Sarkozy? Lo scavalcherà Juppè?). Ma soprattutto dalla sua parte
Macron non ha la tessera socialista, ma è un ministro-chiave di un governo di sinistra; ed è il partito del presidente Franà§ois Hollande a guardare alla sua iniziativa con maggior preoccupazione, evocando lo spettro del 2002: il ballottaggio in cui per fermare Jean-Marie Le Pen pure il Ps fu costretto a votare per la destra di Chirac. Il primo ministro Manuel Valls l’ha definito «assurdo» in questa idea di non voler essere nè da una parte nè dall’altra.
Il suo movimento non rischia di frammentare ulteriormente lo schieramento, di nuovo a vantaggio della destra?
«La sinistra non deve rinchiudersi in una sorta di intimidazione collettiva — replica – che consiste nel dire che alcuni dibattiti sono vietati in nome del tutti uniti contro il Fronte Nazionale».
Ma per essere diretti: Macron sostiene o meno la candidatura di Hollande per un rinnovo del mandato? O punta a scendere in campo in prima persona?
«È troppo presto per dirlo – taglia corto – questo non è il momento delle candidature, ma quello dei dibattiti e di fare diagnosi».
Fa capire chiaramente di essere ostile ai tatticismi, alle scelte dettate da calcoli di partito, adattando alla «cucina politica» la massima di Bismarck sulle leggi: «Sono come le salsicce, a vedere cosa c’è dentro passa la voglie di mangiarle».
La politica non è una professione, nella sua visione, ma un impegno, «una missione».
Che sia ambizioso nessuno lo nega, e sono in molti a paragonare la sua ascesa, ad appena 38 anni, a quella del premier italiano Matteo Renzi.
Gli analisti francesi però sono incerti sulla possibilità che così precocemente Macron si metta in lizza per l’Eliseo.
Il movimento che non è ancora un partito per ora non ha grandi appoggi politici espliciti. Il ministro ha invitato apertamente (quasi) tutto l’arco parlamentare ad aderire, fino alla destra repubblicana.
Per ora conta su qualche simpatia socialista, gli «orfani» dell’ex presidente del Fmi Dominique Strauss-Kahn, sindaci locali, qualche deputato di assemblee regionali.
Che potrebbero per ora prendere una doppia tessera.
Non è escluso neanche che dai banchi di destra arrivino iscrizioni.
I sondaggi indicano che agli elettori dei Repubblicani Macron piace. Soprattutto, il ministro non sembra disprezzare neanche i voti che finora sono andati a ingrossare la destra estrema del Fronte Nazionale.
Se quei voti sono anti-sistema, è il suo ragionamento, sono stati spesi male, perchè l’FN è dentro il sistema da decenni, e invece En marche è «un’offerta politica nuova». Probabilmente non è una soluzione adatta ai movimenti in piazza in questi giorni in Francia, dai manifestanti contro la riforma della legge sul lavoro agli «indignati» della «Nuit debout» accampati in place de la Rèpublique.
Ma è comunque un ombrello che intende dichiaratamente intercettare un malessere che cresce anche in Francia, dopo la Grecia e la Spagna, e che non trova risposte in quelle che Macron definisce «formazioni politiche classiche».
Alessandra Coppola
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 14th, 2016 Riccardo Fucile
AL DI LA’ DEL RAGGIUNGIMENTO DEL QUORUM, SE SI SUPERERA’ QUESTA SOGLIA RENZI NON DORMIRA’ SOGNI TRANQUILLI IN VISTA DEL REFERENDUM COSTITUZIONALE
Apparentemente è facilissimo: se domenica notte verrà raggiunto il quorum avranno vinto i
referendari, altrimenti sarà Renzi ad aver avuto ragione.
Ma la realtà è molto più complicata. Perchè può pure capitare che il quorum non scatti, e ciò nonostante il premier abbia buoni motivi per non essere soddisfatto.
In altre parole, dipende. Da cosa? Da quanti saranno i sì.
Pochi sì, massima tranquillità a Palazzo Chigi; tanti o tantissimi sì, grande allarme da quelle parti.
Proviamo a stabilire il livello di guardia.
IL NUMERO MAGICO
Delle trivelle al premier non importa granchè, tanto che invita gli italiani ad andarsene al mare. Però gli importa molto, anzi moltissimo, dell’altro referendum: quello costituzionale che si terrà in autunno.
E in quel caso non potrà sperare nell’astensione, dovrà spingere milioni di elettori alle urne. Quanti? Difficile stabilirlo a priori.
Però nel 2006 ci fu un altro referendum costituzionale che riguardava la riforma proposta dall’ex Cavaliere.
Nell’occasione votarono in 26 milioni (e Berlusconi venne sconfitto).
Quel numero teniamolo a mente. Ci permette una stima a spanne di quanti voti potrebbero servire a Renzi in ottobre: almeno 13 milioni per potercela fare.
Se convincerà un maggior numero di italiani, meglio per lui. Però quella è la base minima. Ed ecco il «link» con le trivelle: il voto di domenica può fornire qualche interessante indizio sulle reali speranze del premier.
IL TERMOMETRO DEI MALDIPANCIA
L’area no-triv rappresenta grosso modo il maldipancia politico nei confronti del governo. Lo sostengono a vario titolo tutte le opposizioni, dalla sinistra-sinistra alla Lega, dal centrodestra ai grillini.
Negli ultimi giorni l’attenzione si è molto accesa anche come effetto della vicenda petroli. Insomma, può essere un test niente affatto trascurabile. E qui ricordiamoci il numero magico, 13 milioni.
Se i «sì» non arriveranno a quella soglia, e magari si fermeranno parecchio sotto, difficilmente potranno rovinare i piani del premier.
Se invece dovessero superarla, allora Renzi avrebbe poco da stare sereno. Vorrebbe dire che in autunno, sulla Costituzione, nulla sarà scontato, potrà accadere di tutto.
E i vincitori politici del referendum, sebbene sconfitti dal quorum, saranno proprio i no-triv.
Ugo Magri
(da “La Stampa”)
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