Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
BILANCI MAI PRESENTATI, REGISTRI NON AGGIORNATI PER ANNI… IL CONTO E’ DI 400 MILIONI
Una montagna di debiti, ma anche no. Forse un po’ meno di quelli presunti oppure, chi lo sa, un bel po’ di più…
All’azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria (Asp) dire che i conti non tornano è un eufemismo.
Ci sono fatture pagate non si sa per cosa; si stima che ce ne siano alcune incassate due, forse tre volte; risultano «ignoti» parte degli stessi fornitori; sono stati liquidati valanghe di decreti ingiuntivi di pagamento e ne arrivano ancora in continuazione.
Inutile dire che mai una volta a qualcuno è venuto in mente di presentare opposizione. Tale è il caos patrimoniale della Asp che nessuno – ma proprio nessuno – oggi saprebbe dire a quanto ammonta esattamente il suo debito: le cifre ipotizzate vanno da un minimo di 400 milioni di euro a un massimo del tutto indefinito.
E non hanno ancora trovato il bandolo della matassa nemmeno i supercontabili della Kpmg, i revisori voluti dai ministeri di Economia e Salute per aiutare le regioni con i piani di rientro.
Il loro conteggio più aggiornato (di pochi giorni fa) parla – testuale – di debito «presunto»: 276 milioni di euro al 31 dicembre 2014.
Ai quali vanno aggiunte le pretese dei creditori dal 1° gennaio 2015 a oggi che potrebbero far lievitare la cifra, appunto, a 400 milioni di euro o anche più.
Le richieste di chiarimenti
Se la partita fosse chiusa così andrebbe già benissimo. Il fatto è che ogni mese c’è qualcuno che si presenta dal tesoriere della banca per incassare, attraverso decreti ingiuntivi firmati dai giudici, vecchie somme mai pagate dalla Asp.
E spesso – molto spesso – non si riesce a risalire alla documentazione che corrisponde a quelle fatture.
Per provare a venirne a capo sono stati contattati 1.926 fornitori.
La sostanza era: «Vi dobbiamo qualcosa?». Hanno risposto 788 e i loro chiarimenti sono parte del debito presunto di oggi.
E gli altri 1.138? Niente. Ancora nessuna risposta.
Il che significa che, potenzialmente, potrebbero essere anche tutti creditori. Senza contare il fatto che ai 1.926 contattati ne vanno aggiunti altri 607 che – scrive la Kpmg – «rimangono ignoti e non è stato possibile trovare i riferimenti in azienda».
Ignoti, cioè con un nome e un indirizzo sulla carta, ma nei fatti inesistente.
Sono aziende trasferite? Fallite? Chiuse? Inventate per truffare la Asp? Mistero.
Come è un mistero il fatto che dai vecchi documenti risulti pagato un debito di 395 milioni di euro per fatture che però, in gran parte, non si sa a cosa si riferiscano.
Il bilancio inesistente
Com’è possibile?, viene da chiedersi. Semplice: per anni e anni i responsabili amministrativi della Asp non hanno preso nota dei conti pagati e, quindi, non li hanno cancellati dalla lista dei debiti.
Non sono mai esistiti libri contabili obbligatori. Nè ha funzionato la comunicazione fra la Asp e il tesoriere (Banco di Napoli e poi Banca Nazionale del Lavoro) che liquidava le somme ai creditori prelevandole dall’Azienda sanitaria.
Men che meno si è potuto registrarle nel bilancio, almeno finchè c’è stato un bilancio. Perchè per il 2014 e 2015 il bilancio non esiste.
Semplicemente non è stato presentato. Non pervenuto. Risultato: si naviga a vista e nessuno osa prendersi la responsabilità di firmare questo o quel debito da liquidare, perchè nessuno può avere la certezza che lo stesso debito non sia stato già pagato. È anche per questo motivo che negli uffici contabili della Asp è una specie di corsa alle dimissioni.
L’esperto da 600 euro al giorno
Massimo Scura – il commissario straordinario mandato dal governo l’anno scorso a riorganizzare la sanità calabrese – racconta tutto il suo sconcerto: «Ho chiesto al direttore della ragioneria di fare le verifiche sul pagamento delle fatture e decidere quali chiudere e quali no. Era un suo compito. Mi ha risposto, testuale: non ci penso nemmeno lontanamente, non posso essere certo di non pagare per la seconda volta. Gli ho detto che allora poteva dimettersi e così ha fatto: si è dimesso dall’incarico ed è passato altrove». Allora Scura è andato dai vertici amministrativi: «Ho detto al responsabile: toccherebbe a lei, e sa che ha fatto questo signore? Si è messo in malattia per 15 giorni dopodichè si è dimesso anche lui dall’incarico».
Terzo passaggio: «Ho nominato un advisor preso da fuori per evitare possibili pressioni ambientali». Tanto per chiarire: un super esperto a 600 euro (lordi) al giorno. Dice Scura: «È durato tre mesi e poi è scappato anche lui accampando scuse varie, secondo me invece se n’è andato proprio per le pressioni ambientali anche se non l’ha mai detto chiaramente».
Sanità = bancomat
Adesso il progetto del commissario è creare una squadra ad hoc: «Metterò in piedi una macchina feroce e usciremo da questo pantano» promette, ignorando chi parla di bancarotta imminente o chi lo accusa di immobilismo. Sa bene che molto dipenderà da quanti creditori si presenteranno all’incasso nei prossimi mesi. Magari si riuscirà a smascherarne qualcun altro dopo «il tizio che voleva sei milioni di euro – racconta lui –: stavano per pagare le sue fatture quando hanno scoperto che le avevano già liquidate a un altro…»
Da queste parti «sanità = bancomat», dicono tutti. Chi ha «prelevato» senza averne diritto ha impoverito risorse e servizi di un territorio che serve circa 350 mila utenti e che conta gli ospedali di Locri, Polistena, Melito Porto Salvo, Gioia Tauro e Palmi.
La conseguenza di quell’impoverimento sul territorio è stata una richiesta di assistenza sempre più grande per gli Ospedali Riuniti della città di Reggio, punto di riferimento per altri 200 mila utenti.
Ma a Reggio non riusciranno ancora per molto a farsi carico dei servizi non garantiti nella provincia. Quindi delle due l’una: o la Asp rimette a posto i conti e rialza la testa oppure trascina giù anche l’azienda ospedaliera reggina, in equilibrio da 15 anni e che nel 2015 ha chiuso i conti con 600 mila euro di attivo: «Temo sia l’ultima volta» avverte il direttore generale Frank Benedetto.
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
PER CONTENDERSI LE NUOVE FICTION AL “MERCATO” DI LOS ANGELES, LA RAI MANDA IN GITA IL QUADRUPLO DI ESPERTI RISPETTO ALLA CONCORRENZA
Che il mercato dell’audiovisivo di Los Angeles sia una tappa esclusiva per i maggiori operatori televisivi internazionali è scritto ormai negli annali stessi dei «L.A. screenings» dove ogni anno decine di produttori comprano, vendono e scambiano fiction e serie televisive.
Un grande appuntamento, insomma, dove tradizionalmente anche Rai, Mediaset, Fox, Sky e Discovery sono presenti per attivare progetti e acquistare prodotti.
Come dire: se nei prossimi anni continueremo a vedere le grandi serie televisive e conoscerne di nuove, come avvenuto nel passato per House of cards, The blacklist, Ncis e tante altre lo si dovrà alla lungimiranza e alle capacità degli operatori del settore che «riportano» a casa quanto di meglio trovano sul mercato, e le serie più gettonate.
Tutto ciò accade una volta l’anno, e ogni anno le aziende televisive italiane e internazionali si incontrano in California e si contendono esclusive editoriali.
Da Sky, (che è la più attiva su quel mercato) a Mediaset passando per la Rai.
Anche quest’anno (L.A. scrennings si è appena concluso) è andata così.
Sky ha inviato quattro manager, Discovery uno dall’Italia e un altro dalla Spagna, e Mediaset tre dirigenti della Tv.
Solo dei manager Rai non è dato conoscere il numero certo.
Da viale Mazzini fanno sapere che vista l’importanza dell’evento c’è una delegazione di dirigenti che rappresenta un po’ tutto il sistema televisivo Rai.
Ma il numero esatto è difficile da quantificare. Ci sono i referenti delle tre reti, poi della fiction, degli acquisti e via dicendo.
Ma il numero esatto non viene fuori. Almeno da viale Mazzini.
Più semplice chiederlo a Los Angeles, dove pare li abbiano contati e sono in quattordici.
Ricapitolando: 2 Discovery, 3 Mediaset, 4 Sky, e 14 per la Rai.
Paolo Festuccia
(da “La Stampa”)
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Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
PARLA LA MOGLIE DEL MAGISTRATO CHE HA DENUNCIATO L’ILLECITO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLA LIGURIA, GIA’ COINVOLTO CON L’ALTRO LEGHISTA RIXI NEL PROCESSO PER LE SPESE PAZZE… MA IL MANDATO DI ARRESTO PER LA CASTA PADANA NON ESISTE … TOTI SENZA DIGNITA’ FA FINTA DI NULLA, LE OPPOSIZIONI DORMONO
La proposta d’uno scambio secco: «Tu intervieni tramite tuo marito sull’inchiesta spese pazze, e il presidente ti rinnova per cinque anni l’incarico».
L’exploit dello stesso presidente durante un colloquio faccia a faccia: «Ora capisce cosa significa subire delle ingiustizie?».
Le confidenze ad alcune colleghe, che hanno poi confermato date e circostanze agli inquirenti.
E un arco di tempo – dal novembre/dicembre 2015 al marzo scorso – durante il quale è andata in scena una vicenda che rischia di terremotare la maggioranza di centrodestra in Regione.
Incontro riservato
Secondo il pubblico ministero Massimo Terrile che lo ascolterà domani, Bruzzone ha fatto pressioni su Afra Serini, dipendente della Regione e moglie del pm Alberto Lari in servizio a Genova, affinchè insieme al marito si prodigasse per limitare i danni del caso scontrini, in cui lo stesso Bruzzone è coinvolto.
Sempre agli occhi degli investigatori il politico non ha agito in prima persona, ma con l’iniziale collaborazione della segretaria Anna Cavallini, indagata per lo stesso reato. Ed entrambi, sostiene l’accusa, hanno usato come merce di scambio il rinnovo dell’incarico di capo di gabinetto all’ufficio di presidenza, che Serini ha ricoperto fino a marzo, quand’è stata di fatto silurata dopo la scadenza.
Questa scansione è basata in primis sulle rivelazioni che la funzionaria ha fornito nel corso di vari interrogatori andati in scena a fine marzo, quando si è rivolta per la prima volta ai magistrati.
La donna (è attualmente assistita dall’avvocato Chiara Antola) ha spiegato che ai primi di dicembre aveva ricevuto una richiesta di colloquio urgente da parte della più stretta collaboratrice di Bruzzone.
“Siamo andate in una stanza a parlare — ha raccontato al magistrato —, lei ha chiuso a chiave la porta e mi ha detto che se non intervenivo con mio marito per le ‘spese pazze’, non mi avrebbero rinnovato il ruolo che ricoprivo”.
Il capo di gabinetto è sconcertata e chiede un incontro con Bruzzone. Lui la fa aspettare parecchio, fin dopo Natale. Quando la riceve, rimane evasivo, parla di richieste di autorizzazioni difficili da ottenere”
La dirigente non ha ceduto al ricatto, non ha chiesto al marito, il magistrato Alberto Lari, di mettere una buona parola per lui. Male.
Bruzzone fa intendere a Serini cosa abbia provocato non aver accettato determinate condizioni e che la sua carriera è in pericolo. “Una situazione problematica”, l’avverte prima di congedarla. È l’epilogo di un lungo e pressante tentativo di uscire dalle sabbie mobili, iniziato ai primi di dicembre.
Parallelamente c’è l’inchiesta madre in cui Bruzzone è stato rinviato a giudizio con Edoardo Rixi, attuale assessore allo Sviluppo Economico in Regione e vice segretario nazionale di Matteo Salvini e l’ex consigliere regionale Maurizio Torterolo.
I tre leghisti tra il 2010 e 2012 avrebbero speso i soldi pubblici per scopi personali e non istituzionali e di funzionamento del gruppo. Torterolo in sede di udienza preliminare ha patteggiato due anni.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
ROBERTO DOVREBBE ESSERE LIBERO DALLA SCORTA, DAI DIFFAMATORI DI PROFESSIONE E DAI POLITICI VICINI ALLA CAMORRA CHE LO INFANGANO
Ho incontrato Roberto Saviano per la prima volta a maggio del 2008, il suo libro era uscito due anni prima e da 19 mesi viveva sotto scorta.
Aveva 28 anni e stava infagottato in un girocollo di lana blu, anche se a New York faceva già caldo.
Era arrivato negli Stati Uniti per partecipare a un festival di letteratura. Venne invitato ad una cena in cui l’ospite d’onore era Salman Rushdie, i due non si erano mai visti e mi trovai tra loro quando cominciarono a parlare di libri pericolosi e di vite blindate. In quel suo primo viaggio americano Saviano venne messo sotto protezione dell’Fbi, l’autore dei Versi Satanici invece si muoveva liberamente per Manhattan.
Rushdie gli chiese quando Gomorra aveva cominciato a dare fastidio e Saviano si mise a raccontare: «Quello che non mi hanno perdonato non è il libro ma il successo, il fatto che sia diventato un bestseller. Questo li ha disturbati e più la cosa diventa nota e più sono incazzati con me. Se il libro fosse rimasto confinato al paese, a Napoli, alla mia realtà locale, allora gli andava anche bene».
«Anzi, i camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta. Avevano perfino cominciato a farne delle copie taroccate da vendere per la strada e un boss aveva rimesso le mani in un capitolo riscrivendosi alcune parti che lo riguardavano. Poi però la cosa è cresciuta e questo ha iniziato a disturbarli. Perchè fino ad allora non finivano mai sulla prima pagina dei giornali, neppure quando facevano massacri, e si sentivano tranquilli e riparati. Il libro ha risvegliato l’attenzione in tutta Italia e questo non mi è stato perdonato»
Oggi Gomorra ha compiuto dieci anni, i riflettori dell’opinione pubblica e della giustizia sono tornati ad accendersi sulla camorra, che era scivolata nel disinteresse da tempo, i casalesi hanno pagato un prezzo giudiziario importante a questa notorietà e Roberto Saviano vive ancora sotto protezione.
La scorta non è un merito, è una gabbia e il segnale più evidente di un Paese malato. Un Paese che ha il record dei giornalisti sotto tutela perchè denunciano la criminalità organizzata (anche per questo l’Italia è messa così male nella classifica mondiale della libertà di stampa), dove si bruciano le auto ai cronisti, dove gli avvocati dei mafiosi minacciano platealmente nelle Aule dei Tribunali chi ha avuto il coraggio di raccontare.
Di questo dovremmo parlare
Invece c’è chi fa campagna elettorale, come il senatore verdiniano Vincenzo D’Anna, sostenendo che a Saviano si dovrebbe togliere la scorta e che con i soldi risparmiati si combatterebbe meglio la camorra.
Se ragionassimo come il senatore potremmo replicare che anche i soldi delle nostre tasse potrebbero essere meglio spesi se non dovessero pagare il suo stipendio da parlamentare che ha già cambiato partito tre volte.
Che l’accusa a Saviano sia strumentale e serva a fare campagna elettorale in zone dove la camorra controlla il territorio lo svela senza vergogna lo stesso D’Anna: «Da noi in Campania i voti ce li guadagniamo lottando, non stando zitti».
E lottare significa sostenere che Saviano è «un’icona farlocca» e che la protezione gli va tolta perchè «è uno che ha copiato metà dell’unico libro che ha fatto».
Non si capisce quale sia il nesso tra le due cose, mentre è chiarissima l’intenzione di guadagnare consenso e popolarità denigrando chi denuncia la criminalità organizzata in un feudo elettorale dove la camorra prospera.
La questione poteva finire qui, salvo che persone come D’Anna sono sempre più compagni di viaggio della maggioranza di governo, ma ieri l’ex direttore del Foglio Giuliano Ferrara non si è lasciato sfuggire la ghiotta occasione di scrivere un articolo per sposare il pensiero del senatore verdiniano e per rincarare la dose contro Saviano. Ferrara finge di fare un pezzo “pericoloso” e perciò coraggiosissimo, visto che dice di amare quel politico di razza casertana che ha l’ardire di affermare che «il libro è farlocco e la scorta farlocca», ma la verità è che non c’è nulla di più facile in Italia che sputare controvento, dissacrare e diffamare. Prendere un’icona e farla a pezzi è la massima soddisfazione e garantisce consenso, sorrisini complici e simpatia.
Su cosa significhi dire tutto questo in Campania, sul messaggio inviato e sulle conseguenze evidenti Ferrara non se ne preoccupa, ama il gesto plateale e rumoroso, ha usato tutto il suo spazio sulla prima pagina del Foglio per ridicolizzare Saviano, e sarà felice che anche noi ce ne dobbiamo occupare.
Anzi si concede anche il lusso di dire che «le minacce in Italia sono un genere su cui vivono e prosperano fior di stronzi».
Non riesco a togliermi di mente un altro politico della stessa razza “antica e nobile” di D’Anna quando disse che un professore bolognese era «un rompicoglioni» in quanto colpevole di denunciare d’essere in pericolo per avere la scorta.
Purtroppo Marco Biagi venne ucciso sul portone di casa mentre scendeva dalla sua bicicletta. Ma il piacere di un certo dileggio è rimasto intatto.
I libri di Roberto Saviano si possono criticare, sezionare, smontare, ma in modo onesto e non per strizzare l’occhio ai casalesi.
A me non piacciono le icone, gli eroi, le gabbie mentali e la messa all’indice del pensiero critico.
Mi piacciono le persone coraggiose, quelle sì e mi piacerebbe che si ragionasse sulle conseguenze che quel libro ha avuto nell’opinione pubblica e nella vita di un ragazzo.
Saviano ormai passa più della metà del suo tempo fuori dall’Italia, proprio per camminare libero, per scegliere di entrare in un bar o di andare al cinema senza dover chiedere il permesso in anticipo. Per non avere la scorta.
E spera che non sia lontano il giorno in cui non ce ne sarà più bisogno anche qui, ma questi attacchi allontanano quel giorno e rendono “La Scorta” un simbolo intoccabile.
In quel maggio di otto anni fa Salman Rushdie concluse così la sua chiacchierata: «Devi riprenderti la tua libertà . Ascoltami bene Roberto, non arriverà mai un giorno in cui un poliziotto o un giudice si prenderanno la responsabilità di dirti: è finita, sei un uomo libero, puoi andare tranquillo, uscire da solo».
Poi l’accompagnò alla macchina dell’Fbi e mentre gli chiudeva la portiera aggiunse: «Roberto abbi cura di te, sii prudente, ma riprenditi la tua vita e ricordati che la libertà è nella tua testa».
L’auto blindata dei federali partì veloce, mentre Rushdie, da solo, si mise a camminare nella notte lungo il Central Park.
Saviano ha capito quella lezione, cammina nel mondo da solo, e vorrebbe essere libero anche a casa sua.
Libero dalla scorta, dai politici che scambiano voti e dai diffamatori.
Mario Calabresi
(da “La Repubblica”)
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Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
LA COSTITUENTE COMUNISTA NASCE DA PDCI E ALCUNI QUADRI DI RIFONDAZIONE: APPUNTAMENTO IL 24 GIUGNO A BOLOGNA
Il prossimo 26 giugno a Bologna rinasce il Partito comunista italiano. Si chiamerà proprio così e avrà come logo il simbolo voluto da Palmiro Togliatti e disegnato da Renato Guttuso della falce e martello con la bandiera italiana in secondo piano.
A 25 anni dal XX congresso di Rimini in cui un Achille Occhetto tra le lacrime calava il sipario su 70 anni di lotte, al circolo Arci di San Lazzaro di Savena, comune alle porte del capoluogo emiliano, il 24 giugno si terrà una assemblea nazionale che sancirà l’avvio del nuovo partito.
Tuttavia il presidente dell’Associazione Berlinguer, titolare dei diritti di quello che fu il simbolo e di tutta l’eredità del Pci, contattato da ilfattoquotidiano.it, ha spiegato di non sapere niente di questa vicenda.
Ma andiamo con ordine.
Dietro l’operazione per la ricostruzione del Pci c’è l’intero gruppo dirigente del Partito comunista d’Italia (in pratica i Comunisti italiani che furono di Cossutta e Diliberto), ma anche molti appartenenti a Rifondazione comunista, alla Cgil, al mondo della cultura, dello spettacolo.
Tutto nasce nel 2014 quando 100 persone firmano un manifesto: “Di fronte alla crisi strutturale e sistemica del capitalismo” si legge nel documento, “a fronte dell’involuzione neo-centrista del Partito democratico, che sta portando l’Italia verso il modello americano e sta distruggendo le fondamenta della Costituzione repubblicana e antifascista, è ancora più urgente dare corpo ad una presenza unitaria della sinistra”.
Tra i firmatari di quel documento c’erano anche il filosofo Gianni Vattimo, il cantante del Teatro degli orrori Pierpaolo Capovilla e la band romana della Banda Bassotti.
Per l’Assemblea nazionale delle prossime settimane la scelta di Bologna non è casuale.
Proprio al quartiere della Bolognina, nel novembre 1989 Achille Occhetto aprì alla svolta annunciando che il partito nato a Livorno nel 1921 non avrebbe dovuto “continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove”. Parole che lasciarono di stucco l’immenso popolo dei comunisti italiani, che ancora non si erano ripresi dalla morte di Enrico Berlinguer.
Da allora la falce e martello aveva continuato a campeggiare come simbolo di diversi partiti, ma sempre un po’ diversa da quella originale, i cui diritti sono sempre rimasti in mano al Pds prima e ai Ds poi.
Rifondazione comunista fin dal 1991 utilizzerà il simbolo, ma sempre in forme diverse rispetto a quella che fu del Pci.
Nel 1999 con la nascita dei Comunisti italiani guidati da Cossutta e Diliberto, il loro partito adottò una bandiera molto simile a quella che fu del Pci. Ora però oltre al simbolo identico a quello storico che campeggiava a Botteghe Oscure (sembra cambiare solo un dettaglio: il colore delle aste delle bandiere, scuro invece che chiaro) ricompare anche il nome.
Il font del carattere è diverso, le lettere non sono puntate, ma per la prima volta dal 1991 si legge Pci. C’è poco da sbagliarsi.
Intanto però il senatore Pd Ugo Sposetti — presidente della Associazione Berlinguer che ha ereditato dai Ds i diritti del simbolo storico del Pci — contattato da ilfattoquotidiano.it, spiega di non sapere niente della ricostituzione di un nuovo Pci: “Se quando il loro simbolo verrà registrato sarà identico al nostro, faremo quello che dovremo fare. Purtroppo — spiega Sposetti, che è stato anche l’ultimo tesoriere dei Democratici di sinistra — se c’è qualche variazione sul simbolo non gli puoi dire nulla”.
Poi chiarisce che il problema riguarderebbe solo il logo: “Il fatto che si chiami Pci non c’entra nulla, c’entra soprattutto il simbolo”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
ADDIO AD ALBERTAZZI, IL RICORDO DI DARIO FO
Giorgio e io eravamo due persone terribilmente diverse.
Da sempre, fino a ieri, ognuno dei due voleva imparare qualche cosa dall’altro, voleva completare se stesso in un certo senso, inserire dentro di sè elementi che erano congeniali all’amico, non a lui.
Entrambi eravamo anarchici. Io lo ero strutturalmente, da sempre, per natura. Lui invece lo diventava, forse per mettersi in equilibrio con me.
Eravamo una strana coppia. Abbiamo percorso insieme teatri, strade, piazze. Bologna e Milano, Torino e Napoli, le città della Romagna….
Quante esperienze vissute, recitate e giocate insieme e in nessun modo testimoniate. Mancano le riprese di eventi ed esperienze che probabilmente furono uniche.
Una storia del teatro italiano dovrebbe passare anche da lì.
Io conobbi Giorgio Albertazzi nei primi Anni 50, quando a Torino la tivù era agli albori e noi facevamo prove, esperimenti di teatro dal vivo. Formavamo una specie di èquipe, che andava in onda quasi senza prove.
Franca lo conobbe quando noi due eravamo appena fidanzati. Fu Giorgio che la chiamò, per recitare per la televisione «La professione della signora Warren» di Oscar Wilde.
Giorgio era il regista e la ammirava davvero. A ogni ripresa, a ogni stop lui la applaudiva. Molto tempo dopo, portammo insieme al successo in tre «Il diavolo con le zinne». Testo, regia e costumi miei, Giorgio e Franca protagonisti.
È la storia di un giudice, Giorgio appunto, che cerca di essere onesto e perbene. Per corromperlo, un diavolo entra nei panni della sua serva, Pizzocca. Lo spirito del demonio carica Pizzocca di attrattive sessuali per sedurre e corrompere il povero giudice.
Fu un divertimento, per il pubblico e per noi tre.
Dario Fo
(da “La Stampa”)
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Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
SULLA NAVE ITALIANA IMPEGNATA NELLA MISSIONE DI SOCCORSO DEI PROFUGHI… TANTE RAGAZZE TRA GLI UFFICIALI E IN INFERMERIA E TANTA UMANITA’
Una fortezza Bastiani galleggiante, e i Tartari arrivano davvero. Arrivano disarmati e disperati. Oltre dodicimila, questa settimana.
Almeno settanta se li è presi il mare, ma potrebbero essere molti di più.
La portaerei «Cavour», avvicinandosi in elicottero da Lampedusa, sembra un giocattolo tra le onde.
Dall’alto appare lo scafo, poi la plancia di comando e il radar di scoperta aerea, infine il ponte con lo ski-jump, il trampolino di lancio al termine della pista di decollo. Ventisettemila tonnellate grigie nel mare blu, a trenta miglia dalle acque libiche. L’Europa finisce qui.
Non è una fine cronologica: non ancora. È una fine geografica.
Una frontiera che risulta evidente a chi arriva da sud, e cerca sollievo alla miseria. Meno chiara a chi osserva da nord.
L’opinione pubblica europea fatica a capire che qui, in questo quadrato di Mediterraneo, si gioca il destino di due continenti.
Dietro i porti degli scafisti iniziano trenta milioni di chilometri quadrati d’Africa, popolata da un’umanità in movimento.
A terra si litiga senza capire. In mare si capisce senza litigare.
La nave «Cavour» guida Eunavfor Med, la missione europea contro i trafficanti di essere umani. Non è l’unico sforzo comune.
Nel Canale di Sicilia, più a nord, opera Triton, l’operazione dell’agenzia Frontex. Più a sud Mare Sicuro, che protegge i pescherecci italiani e le piattaforme che stasera mandano fiamme all’orizzonte. Ci sono imbarcazioni di organizzazioni non-governative e della Guardia Costiera.
Tutti a cercare di fermare qualcosa che non si ferma.
L’ammiraglio Andrea Gueglio, ligure, comandante della missione, tira fuori qualche cifra che spiega la forza dei suoi lugubri avversari.
Venire dalla Libia costa. Un passaggio su un gommone, da 500 a 1.000 euro. Su una barca in legno, da 1.100 a 1.300 euro. Su un peschereccio, da 2.500 e 3.500 euro.
Un viaggio può fruttare agli scafisti più di un milione. Non smetteranno, se non sono costretti. Oggi il traffico di essere umani è la seconda industria libica, dopo il petrolio.
Eunavfor Med è stata ribattezza «Operazione Sophia» dal nome di una bimba nata sulla fregata tedesca «Schleswig-Holstein», figlia di una donna africana soccorsa in mare.
All’operazione aderiscono 24 nazioni: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Rep. Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia. C’è chi fa di più e chi fa di meno.
L’Italia guida la missione, fa molto e lo fa bene. I nostri militari non saranno guerrieri feroci: ma quando c’è da combinare disciplina e prontezza, sono tra i migliori.
È curioso come i caratteri nazionali diventino complementari, su una nave europea.
Il capitano di vascello Alberto Sodomaco è un triestino di poche parole. Il comandante Captain Jose Maria Fuente de Cabo, Chief of Staff, uno spagnolo esuberante. Due ufficiali francesi e un ufficiale sloveno si occupano di intelligence.
L’austriaco tiene i conti e parla di politica. I tedeschi, che andiamo a visitare sulla nave rifornitrice «Frankfurt», sono organizzati: hanno pronti i kit per i migranti, numerati.
All’inizio partecipavano ai soccorsi con pesanti tute sigillate, perfette per il mare del Nord. Poi hanno capito che a trenta miglia dalla Libia fa caldo.
Nave «Cavour» pattuglia lentamente, cinque nodi. Saliamo e scendiamo scale verticali, ascoltiamo spiegazioni di turbine e armamenti.
C’è qualcosa di surreale nel vedere il sistema missilistico superficie-aria Samm-It e i cannoni calibro 76mm, a doppio caricamento, dotati di munizionamento radio-guidato di tipo Dart (Driven Ammunition Reduced Time of flight): le minacce, oggi, sono altre. Ma i visori notturni servono. Gli elicotteri sono indispensabili.
L’hangar, necessario per il ricovero e la manutenzione, diventa teatro di una conversazione collettiva, la domenica pomeriggio.
Si alzano uno dopo l’altro, gradi diversi sulle spalle: ufficiali, sottufficiali, marinai e vogliono parlare di immigrazione e di Europa, di libri e di Donald Trump. È un tentativo di portare normalità in un luogo eccezionale, e funziona.
Tante ragazze del sud, nella fortezza Bastiani galleggiante. Le trovo dovunque.
Tra gli ufficiali e in infermeria, nell’hangar e in plancia. Non in cucina e in lavanderia, a meno che non si siano nascoste al mio arrivo.
Parlando con alcune di loro capisco che la Marina Militare non offre solo un impiego e uno stipendio, ma una narrazione. La sensazione che la propria vita vada da qualche parte, come questa nave.
C’è Martina Muto, comune di 2° classe, 19 anni, di Pompei, addetta alle operazioni dell’hangar della portaerei. Parla e sorride con gli occhi azzurri. Quando, durante un’esercitazione di salvataggio, c’era bisogno di un uomo in mare, s’è buttata lei, una donna.
Dice Gueglio che, quand’è risalita, era entusiasta: «Ammira’, ma quando mai potevo immaginare una cosa del genere!».
C’è Anna Tradigo, comune di 1° classe, 21 anni, tarantina. È minuscola, vivace, porta i capelli raccolti. Lavora nell’hangar, ha militato in A2 di pallacanestro: quando si gioca sulla nave, tutti la vogliono in squadra.
«Voglio diventare tecnica dei Ris dei Carabinieri», dice seria. «La prima volta mi è andata male, ma essere qui aumenta il punteggio. E poi in mare mi trovo bene». L’hanno messa a tavola con l’ospite, l’ammiraglio e il comandante, ma non sembra per nulla intimorita.
C’è il tenente di vascello Seila Di Luca, capo componente del servizio armi e ufficiale di guardia in plancia.
C’è il tenente di vascello Gabriella Nastasìa, pugliese. Incarico: «capo componente tecnico operazioni garante della connettività Internet e telefonia di bordo». Traduzione: quando non riescono a telefonare a casa, vanno da lei.
Sulla «Cavour» solo telefoni fissi, niente cellulari. Internet per la posta elettronica. Niente social.
C’è il tenente di vascello Ilde Covino, dottoressa di bordo: mi mostra le due sale operatorie, l’unità di terapia intensiva e quella di rianimazione, l’unità per il trattamento dei pazienti ustionati e quella di diagnostica per immagini, l’unità odontoiatrica e le tre sale degenza con 32 posti letto.
È orgogliosa del suo ospedale che si muove sul mare e sa, purtroppo, che si riempirà spesso.
In questo momento, a bordo, stanno 550 persone. Ma sulla «Cavour» ci sono 1.200 letti. Uomini e donne hanno alloggi separati. Mi portano nello spazio femminile dell’equipaggio — diciotto brande, ognuna protetta da una tenda. In fondo bagni e docce. «Siete solo in nove», dico. Come fa a saperlo? «Ho contato gli accappatoi».
L’ammiraglio Gueglio sostiene che le donne hanno migliorato la Marina e ingentilito le navi: è scomparso il nonnismo, per esempio. È come se i maschi si sentissero osservati, e la cosa non gli dispiacesse.
Chiedo se sono ammessi rapporti sentimentali o sessuali. Mi guardano come un marziano. «Un uomo e una donna insieme? La porta resta aperta», spiegano. E se qualcuno la chiude?, domando. Sorridono.
C’è una strana atmosfera su una nave in missione. È come se tutti sapessero di essere utili. È come se il lavoro servisse e il riposo contasse.
L’equipaggio nel tempo libero legge, guarda la tv, corre, gioca, mette il tavolo da ping-pong dove stavano gli elicotteri.
La domenica sera la vedetta e un barista, Massimilino Bucci e Raffaele Raffo, prendono tromba e sax e suonano «September» degli Earth, Wind and Fire. Ci sanno fare, suonano bene.
Leonardo Vaira, nostromo di bordo, invita Antonia Ferro, infermiera. Ballano. Ballano al centro della sala. Ballano sapendo che hanno visto cose tristi e altre ne vedranno.
Ballano sul confine ultimo dell’Europa: che non è finita, grazie a gente come loro.
Beppe Severgnini
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 29th, 2016 Riccardo Fucile
NESSUN “AMOR DI PATRIA” POTRA’ MAI CONDURRE ALL’ABIURA DI EVENTUALI RESPONSABILITA’
I Marò sono, entrambi, rientrati in Patria.
Vittoria diplomatica? Vittoria del diritto sulle ragioni della politica?
Personalmente, non credo a nessuna delle due…
La posizione “giudiziaria” di La Torre e Girone, per com’è stata gestita da un Paese dotato di un “sistema giustizia” palesemente da “quarto mondo”, ha fatto rabbrividire.
Una custodia cautelare adottata, non soltanto sine die, ma addirittura in carenza di qualsivoglia ipotesi accusatoria formalmente data.
Termini procedimentali, processuali e prescrizionali “ballerini” ed indefiniti.
Gestione “meramente politica” di una vicenda umana e processuale che doveva essere del tutto avulsa dalle dinamiche del potere…
È “questo” che ha indignato. È “questo” che ha fatto scattare quell’amor di Patria che ci ha fatto sentire, tutti, almeno un pò, dei Marò.
Cosa sia successo davvero (ed alludo all’eventuale “fatto reato” addebitato e/o addebitabile ai nostri due Fucilieri della Marina Militare) è tutto ancora da stabilire.
Occorrerà un processo serio ed approfondito.
La verità andrà accertata ed al di là di ogni ragionevole dubbio.
Lo postulano l’etica, il senso di giustizia e la stessa tensione per la verità , perchè un altro dato è parimenti fuori discussione: nessun “amor di Patria” – soprattutto a destra – potrà mai condurre all’abiura di eventuali responsabilità .
Salvatore Castello
Right BLU – La Destra Liberale
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Maggio 28th, 2016 Riccardo Fucile
ROTTO IL MEGACONTRATTO PER LA CONSEGNA DI SILURI STIPULATO SOTTO IL GOVERNO MONTI…. “AVREBBE DOVUTO ESSERE L’ITALIA A SOSPENDERE LE FORNITURE BELLICHE”
Nessuno sembra essersi accorto di una curiosa coincidenza di eventi riguardo alla conclusione della vicenda marò
Nelle stesse ore in cui la Corte Suprema indiana accettava, suo malgrado, di rendere immediatamente esecutivo l’ordine del Tribunale arbitrale internazionale dell’Aja di far rientrare in Italia il fuciliere di Marina Salvatore Girone, il Ministero della Difesa indiano annullava un mega-contratto da 300 milioni di dollari con Finmeccanica (Leonardo) per la fornitura di siluri per i sottomarini di Nuova Delhi.
La perfetta coincidenza temporale di questa decisione — ufficialmente legata allo scandalo delle tangenti pagate dalla stessa Finmeccanica sull’appalto da 560 milioni per 12 elicotteri AW101 di AgustaWestland venduti all’India nel 2010 — alimenta il sospetto che sia stata presa come ritorsione verso l’Italia: la cancellazione dell’affare come prezzo da pagare per la restituzione definitiva dei marò all’Italia.
Un sospetto reso ancor più concreto dal fatto che l’accordo per questa importante fornitura all’India — un centinaio di siluri pesanti Black Shark prodotti dalla Wass di Livorno, azienda del gruppo Finmeccanica — era stato raggiunto nel marzo 2013 nelle stesse ore in cui il governo Monti prendeva la clamorosa e contestata decisione di riconsegnare alle autorità indiane i due marò: un sorprendente voltafaccia arrivato solo pochi giorni dopo che il ministro degli Esteri Giulio Terzi aveva annunciato che i due militari non sarebbero più tornati in India. Marò che vanno, appalti che vengono.
In quei giorni, la perfetta coincidenza di tempi attirò sul governo il sospetto di aver barattato la libertà dei due fucilieri in nome degli interessi economici e commerciali del gruppo industriale di cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze è il principale azionista (30,2 per cento).
La stessa perfetta coincidenza si ripete oggi, ma in senso inverso.
Marò che vengono, appalti che vanno.
Uno smacco per l’Italia, la quale, contrariamente all’India, ha sempre ritenuto prioritari gli affari legati alle forniture militari, rispetto alla vicenda dei marò.
Come ricorda Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi (Opal) di Brescia — “qualsiasi altro Paese, al posto dell’Italia, avrebbe sospeso le forniture belliche. Invece i governi Monti, Letta e Renzi non solo hanno continuato ad inviare all’India sistemi militari (per più di 328 milioni di euro) ma hanno addirittura autorizzato nuovi contratti (283 milioni): nei soli due anni del governo Renzi sono stati autorizzate esportazioni per quasi 145 milioni per forniture di armamenti di ogni sorta, aeromobili, navi da guerra, munizionamento e sistemi elettronici”.
Enrico Piovesana
(da “il Fatto Quotidiano”)
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