Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
IL PD SI RIAVVICINA AI CINQUESTELLE, CENTRODESTRA IN CADUTA CONTINUA… AL BALLOTTAGGIO M5S-PD 53,1%-46,9%, PD-CDX 54,2%-45,8%, M5S-CDX 57,4%-42,6%
L’ultimo sondaggio di Emg per La7 conferma in pratica quello di Scenari politici per Huffingtonpost
di pochi giorni fa e fotografa una situazione che, per quanto riguarda i partiti al primo turno che vede un testa a testa tra M5S e Pd, divisi da appena lo 0,5% di consensi.
Il M5S è dato al 31,9% contro il 31,4% del Pd.
In una settimana il Centrodestra perde un altro 1%: la Lega precipita all’ 11,8%, Forza Italia all’11,5%, Fdi è stabile al 4%. Anche uniti sono ormai staccati di 4-5 punti dal vertice.
Lo scenario è più pesante in caso di ballottaggio.
In caso di scontro M5S-Pd i primi avrebbero la meglio 53,1% contro 46,9%.
Se tra M5S e Centrodestra, i primi travolgerebbero i secondi 57,4% a 42,6%.
Ma il Centrodestra peggiora la sua posizione anche in caso di ballottaggio con il Pd, fino a qualche settimana fa se lo poteva giocare, ora perderebbe secco 54,2% a 45,8%.
Dei tre partiti di centrodestra chi ha subito il calo maggiore è la Lega di Salvini (-0,8% in una settimana, il 5% in pochi mesi), segno evidente che ormai quel tipo di politica non paga più. Ma gli elettori scontenti si sono diretti verso i grillini, visto che non ne beneficiano nè Forza Italia nè Fdi.
(da agenzie)
argomento: elezioni | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
LA MANOVRA DI RENZI PER AFFOSSARE IL GOVERNO DI SCOPO E AVERE ANCORA IL BOCCINO IN MANO
Le situazione meteo, alla data del 27 novembre dello scorso anno, è ben raffigurata dalla foto che apre un sito dedicato alle previsioni: mezza Italia sotto la neve, addirittura in Abruzzo c’è un lupo in mezzo a una coltre bianca.
Il 27 novembre di quest’anno è la data che Matteo Renzi, in cuor suo, avrebbe deciso per celebrare il referendum sulle riforme, come scrive Fabio Martini sulla Stampa, in un articolo ben documentato e non smentito.
Fonti autorevoli confermano che “se non è il 27 è il 20 novembre, ma a questo punto è chiaro che si sceglierà tra le ultime due domeniche di novembre”.
L’una o l’altra, sempre di urne sotto la neve si tratta per quella che il premier considera la battaglia della vita.
Una scelta che certo ha a che fare con la necessità di più tempo per la campagna elettorale e con la necessità di raddrizzare il tiro rispetto all’impostazione inziale, quando la linea era “o così o lascio la politica” e la data indicata era il 2 ottobre.
Ma c’è anche dell’altro nella data che qualunque metereologo sconsiglierebbe, e che magari impatta sull’affluenza nelle zone appenniniche.
Ed è una motivazione tutta politica. Anzi una doppia motivazione politica.
La prima va incontro a una preoccupazione del capo dello Stato, quella cioè di approvare in un ramo del Parlamento la legge di Stabilità , prima di celebrare il referendum. E, appunto, la legge di stabilità verrà licenziata dalla Camera (dove entra il 15 ottobre) il 15 novembre.
La seconda (di motivazione politica) riguarda la strategia del premier. Che, con le urne sotto la neve, si tiene aperta in caso di vittoria del No la possibilità di andare al voto politico anticipato.
Altro che governo tecnico o governo di scopo. Più fonti convergono sullo stesso ragionamento: “Se si vota il 2 ottobre, la data pensata inizialmente, la legge di stabilità non è neanche presentata in una Camera. Dunque se vince il no, il premier si dimette ed è necessario fare un governo ‘per’ la legge di stabilità . Un governo che nasce dall’emergenza e, come accade in Italia, arriva alla fine della legislatura. Se si vota il 20 o 27 novembre invece…”.
Invece accade che il boccino dell’iniziativa resta nelle mani di Renzi. Il quale, di fronte alla vittoria del no ma una con una legge di stabilità approvata in un ramo, ha più possibilità : 1) può dire: bene, prendo atto che è stato bocciata la riforma, dunque le ragioni della legislatura si sono esaurite, e allora mi dimetto e da dimissionario chiedo alla mia maggioranza di approvare la legge di stabilità nell’altro ramo e poi si vota (un governo dimissionario può approvare la legge di stabilità in un ramo del Parlamento); 2) può dire: bene, prendo atto che è stato bocciata la riforma, dunque le ragioni della legislatura si sono esaurite, e allora chiedo alla mia maggioranza di approvare la legge di stabilità nell’altro ramo e poi, il minuto dopo mi dimetto e anche in quel caso si vota, anche con due leggi elettorali diverse (Italicum Camera e Consultellum Senato).
In ogni caso, è chiaro che tutta la manovra serve a depotenziare il tema di un “governo di scopo” attorno a cui in molti — nel Pd — si sono attivati, immaginando un futuro senza Renzi.
Perchè il primo alleato di un governo di scopo è “l’emergenza”, “la necessità ”, “il rischio default o spread” (Do you remember Mr Monti?).
Non certo solo la necessità di fare una legge elettorale.
Sostiene più di un costituzionalista di fede renziana: “In uno scenario del genere Renzi, approvata la legge di stabilità , si dimette e alle consultazioni può anche dire: facciamo un tentativo come quello che Napolitano fece con l’allora presidente del Senato Marini, nel 2008, ma franerebbe subito e comunque dipenderebbe tutto ancora da lui, farlo nascere o metterlo di traverso”.
Insomma, la neve e gli esperti suggerimenti del Colle copriranno e fanno scomparire tante cose, come le fantasie estive dei governi di scopo per archiviare Renzi che eccitano tanta parte del Pd.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Renzi | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
PROFUGHI UCCISI PER OTTENERE I LORO RENI, FEGATI E CUORI… IL MERCATO DEI TRAPIANTI HA LA SUA BASE IN EGITTO, UN BUSINESS DI UN MILIARDO E MEZZO DI DOLLARI ALIMENTATO DA OMICIDI E SEQUESTRI
Omdurman. Zona est della grande area urbana di Khartoum, Sudan. ![](https://s32.postimg.org/6u5szyywl/traffico_di_organi.jpg)
Oltre due milioni di persone in un reticolo di strade: baracche, mercati variopinti e imponenti minareti, a pochi metri dalla confluenza tra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro.
“È qui che i rapiti vengono caricati sui camion. E una volta che sono sui camion non ne escono più”. A rivelarlo è una fonte della diplomazia internazionale, uno dei testimoni che hanno deciso di parlare, di raccontare a Repubblica il viaggio dei disperati verso la morte, e di far luce sulla reale dimensione della pratica più barbara: le uccisioni mirate all’espianto di organi.
“Le intelligence dei paesi coinvolti sono già al lavoro — prosegue la fonte — perchè il fenomeno che vede il Sudan come paese di passaggio, coinvolge soprattutto l’Egitto. Qui sono allestiti presidi ospedalieri illegali, gestiti da organizzazioni criminali internazionali.
E il fenomeno non è marginale perchè riguarda sia eritrei e sudanesi che volontariamente scelgono di farsi espiantare un organo; sia chi ha famiglia nei territori del Nord o in Europa e diventa oggetto di riscatto; sia le categorie più deboli, a partire da donne e bambini”.
I sospetti sul ruolo svolto dall’Egitto vengono coltivati da tempo dalle istituzioni italiane, anche se in questo momento di forte tensione con il paese africano nessuno se la sente di confermare ufficialmente per non creare ulteriori fronti di scontro dopo la vicenda Regeni.
L’attenzione internazionale sul fenomeno si è riaccesa il 4 luglio scorso quando gli uomini della Mobile di Palermo e di Agrigento, coordinati dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, eseguono un mandato di fermo per 38 persone ritenute appartenenti ad un’organizzazione internazionale dedita al traffico di esseri umani.
All’interno del decreto della Procura di Palermo sono contenuti i verbali dell’interrogatorio rilasciato l’11 maggio del 2015 dallo “scafista pentito” Atta Wehabrebi.
“Talvolta — confessa il testimone — i migranti non hanno i soldi per pagare il viaggio e allora mi è stato raccontato che queste persone vengono consegnate a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15.000 dollari. In particolare questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche”.
“Traffico d’organi, migranti possibili vittime, ma in Italia controlli severi
Parole che aggiungono dettagli alla “leggenda”, perchè la verità è un’altra, ben più complessa e dolorosa, e permette oggi di ricostruire forse la coda più drammatica di un business globale che vale 1,4 miliardi di dollari l’anno.
La stima — finora inedita — è contenuta in un rapporto che sarà presto reso pubblico realizzato dalla Global Financial Integrity, la fondazione con base a Washington considerata uno dei massimi centri mondiali di analisi sui flussi finanziari illeciti. Secondo i calcoli della GFI, il 10% dei 118.000 trapianti che ogni anno si praticano globalmente è illegale. In media 12.000 trapianti che fruttano al mercato nero e alle organizzazioni criminali internazionali fino a 1,4 miliardi di dollari.
La questione sudanese.
Il 4 giugno del 2015 un convoglio organizzato dal Commissariato per i rifugiati sudanese sta trasportando 49 migranti eritrei dal centro di Wad Sharifey, vicino la città di Kassala, al campo per i rifugiati di Shagarab, quando viene aggredito da un gruppo organizzato dotato di una massiccia potenza di fuoco.
Nell’assalto 14 persone vengono rapite. Tra loro ci sono anche sette bambini. La ricostruzione dell’imboscata è ricca di dettagli e raccolta all’interno di un rapporto dell’Unchr (l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite) inviato alle autorità sudanesi che hanno aperto un’inchiesta
L’11 giugno, appena sette giorni dopo, viene attaccato un altro convoglio umanitario che trasporta 19 eritrei, tutti sotto i 29 anni. L’agguato si consuma nei pressi di Khartoum, capitale del Sudan. Il pickup dei rapitori sperona il pullman che porta i profughi, facendolo ribaltare.
Nell’Africa dei conflitti insanabili e delle migrazioni epocali, il Sudan è oggi il Mar Rosso del popolo eritreo ed etiope che sogna una nuova vita nella ricca Europa. Nel corso del 2015 — calcola un Report realizzato da Unhcr e dall’International Organization for Migration — ogni mese oltre mille persone hanno attraversato i suoi confini bivaccando nei campi profughi intorno alla capitale. Alcune di loro ce l’hanno fatta, altre no.
I dati riservati delle Nazioni Unite parlano di almeno 66 casi accertati di rapimenti nei primi sei mesi del 2015 operati da gruppi criminali ben organizzati e con ramificazioni internazionali.
Questi i numeri verificati, ma in realtà le persone che spariscono sono molte di più. Per loro il primo passo è la richiesta di un riscatto ai parenti: 14.000 dollari per chi ha la famiglia a Khartoum, 30.000 per chi ha i parenti in Europa.
Chi paga ha salva la vita; chi non paga finisce nelle mani degli aguzzini e diventa merce di scambio sul mercato illegale degli organi.
L’odissea dei disperati.
Il viaggio dei rapiti inizia da Omdurman, dove i camion fanno rotta verso l’Egitto.
“A volte i rapimenti avvengono in modo violento — racconta una fonte attiva nella cooperazione internazionale — altre volte intervengono dei mediatori, spesso della stessa nazionalità dei rapiti, che li traggono in inganno promettendo un aiuto per raggiungere le coste libiche”.
Ma è in Egitto che — dalla ricostruzione di più testimoni — si tengono le operazioni per l’espianto di organi.
“Abbiamo foto e documentazione — dichiara Alganesh Fessaha, presidente dell’organizzazione non governativa Ghandi Charity, nata in Costa d’Avorio nel 2003 — e referti medici che ricostruiscono i casi delle tante persone trovate senza organi in Egitto. Si tratta di storie recenti, che risalgono agli ultimi due anni. A volte però non sono i trafficanti a occuparsi dell’espianto. Capita spesso che le persone ferite siano gettate per strada e lì raccolte da poliziotti corrotti che le portano in ospedale dove vengono espiantate. Entrare in alcune camere mortuarie in Egitto è quasi impossibile perchè la polizia non te lo permette”
La ricostruzione di Alganesh si arricchisce delle dichiarazioni di una autorevole fonte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha chiesto di rimanere anonima.
Ecco la sua denuncia: “Non esiste alcun tipo di controllo sugli ospedali militari egiziani. Anche le autorità sanitarie del Paese sanno poco o nulla di quanto accade lì dentro”.
L’Egitto inoltre è molto vicino a paesi come gli Emirati Arabi e Israele, dove la domanda di organi è particolarmente forte, e ha strutture sanitarie e competenze mediche adeguate ad effeturare i trapianti.
Caratteristiche che secondo Global Financial Integrity fanno del paese arabo un centro continentale e mondiale per il traffico illecito di organi e della sua capitale uno dei mercati più importanti.
A differenza dell’Europa e dell’Italia in particolare dove, ricorda Alessandro Nanni Costa, direttore generale del Centro Nazionale Trapianti, “facciamo un attento controllo sulle liste di attesa dei trapianti e verifichiamo se qualcuno scompare all’improvviso”.
Dal Sinai al Sudan. La geopolitica degli stati ha influito pesantemente sulla geografia criminale dei traffici di esseri umani. I ripetuti bombardamenti dell’esercito di Al-Sisi sul Sinai hanno contribuito a liberare la regione dalle organizzazioni criminali che l’avevano trasformata nella loro base operativa, obbligandole a spostare il cuore delle loro attività in Sudan e in Libia.
“Prima dell’intervento dell’esercito — racconta don Moses Zerai, presidente di Habeshia, l’agenzia per la cooperazione allo sviluppo che da anni combatte contro il traffico di uomini — nel deserto del Sinai sono stati ritrovate centinaia di corpi ai quali mancavano organi vitali come reni, fegato e cuore. I profughi ci hanno raccontato che tutto avveniva in strutture mobili, attrezzate come ospedali. Negli ultimi anni sono passati per il Sinai circa 60.000 profughi, per la maggior parte eritrei, etiopi e sudanesi: i rapimenti erano all’ordine del giorno. Poteva infatti capitare che durante uno stesso periodo venissero messe sotto sequestro anche 1.500 persone. E ancora oggi ci sono fosse comuni sparse per tutto il deserto”.
Le denunce internazionali.
Don Moses Zerai ha denunciato il fenomeno dei rapimenti e degli espianti sia al ministero degli Esteri italiano sia all’ambasciata egiziana presso la Santa Sede.
In momenti e con modalità differenti anche Alganesh Fessaha ha tentato di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale intervenendo direttamente presso l’Unione Europea, ma — denuncia oggi — senza ottenere alcun risultato.
L’Unhcr è impegnata nella tutela dei migranti e da marzo a giugno del 2015 ha “istruito”, solo in Sudan, 2.708 profughi sul rischio di rapimenti e del traffico d’organi.
Tutto questo però non basta per frenare il fenomeno: nel febbraio del 2015, a Mosul in Iraq, dodici medici sono stati uccisi perchè — secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite — si sono rifiutati di praticare l’espianto degli organi ad alcuni prigionieri.
Il 4 aprile scorso, nel mare di Alessandria d’Egitto, sono stati ritrovati i corpi senza vita di nove somali. La madre e i suoi due bambini piccoli erano stati privati degli organi vitali.
Tante tracce di un’unica disperazione che chiamano in causa l’altra faccia di questo fenomeno.
“I compratori vengono dai paesi ricchi — ribadisce Alessandro Nanni Costa, direttore generale del Centro Nazionale Trapianti — e sono spesso arabi, turchi, israeliani, perfino statunitensi. Da noi, come detto, ci sono maglie strette dalle quali è difficile passare”.
Qualcuno però ci riesce, soprattutto all’estero.
Lo fa affidandosi a broker internazionali o setacciando il deep web. E alla fine sborsa 100.000 dollari per comprarsi una seconda occasione nella vita.
Daniela Autieri e Roberta Rei
(da “La Repubblica“)
argomento: denuncia | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
SUL VOLO DI RITORNO DALLA POLONIA: “QUANDO SI METTE AL CENTRO DELL’ECONOMIA MONDIALE IL DENARO E NON L’ESSERE UMANO, QUESTO E’ GIA’ UN PRIMO TERRORISMO”
«Non è giusto dire che l’islam sia terrorista, a me non piace parlare di violenza islamica». Papa Francesco dialoga con i giornalisti sull’aereo che lo riporta da Cracovia a Roma e risponde così a una domanda sull’uccisione di padre Jacques Hamel, l’anziano sacerdote francese sgozzato mentre celebrava la messa.
I cattolici sono sotto choc dopo il barbaro assassinio di padre Hamel. Lei ci ha detto che tutte le religioni vogliono la pace, ma lui è stato ucciso nel nome dell’islam. Perchè quando parla di terrorismo lei non pronuncia mai la parola islam?
«A me non piace parlare di violenza islamica, perchè tutti i giorni quando sfoglio i giornali vedo violenze, qui in Italia: c’è quello che uccide la fidanzata o la suocera, e questi sono violenti cattolici battezzati. Se parlassi di violenza islamica dovrei parlare anche di violenza cattolica? Gli islamici non sono tutti violenti. E’ come una macedonia, ci sono i violenti nelle religioni. Una cosa è vera: in quasi tutte le religioni c’è sempre un piccolo gruppetto fondamentalista. Anche noi ne abbiamo. E quando il fondamentalismo arriva a uccidere – si può uccidere con la lingua, lo dice l’apostolo Giacomo, non io, e si può uccidere con il coltello – non è giusto identificare l’islam con la violenza. Ho avuto un lungo dialogo con il grande imam di Al Azhar: loro cercano la pace e l’incontro. Il nunzio di un paese africano mi diceva che nella capitale del suo paese c’è sempre una coda di gente per passare la porta santa e alcuni si accostano ai confessionali. Ma la maggioranza va avanti a pregare all’altare della Madonna, e ci sono musulmani che vogliono fare il Giubileo. Quando sono stato in Centrafrica sono andato da loro, l’imam è salito sulla papamobile. Si può convivere bene. Ci sono gruppetti fondamentalisti. Mi domando, quanti giovani che noi europei abbiamo lasciati vuoti di ideali vanno alla droga, all’alcool o vanno là e si arruolano. Sì, possiamo dire che il cosiddetto Isis è uno stato islamico che si presenta come violento, perchè come carta d’identità ci fa vedere come sgozzavano gli egiziani. Ma questo è un gruppetto, non si può dire, non è vero e non è giusto dire che l’islam sia terrorista».
Oltre alle preghiere e al dialogo, quale iniziativa concreta si può adottare per contrastare la violenza islamica?
«Il terrorismo è dappertutto, lei pensi al terrorismo tribale di alcuni paesi africani. Il terrorismo cresce quando non c’è un’altra opzione. Ora dico qualcosa che può essere pericoloso… Ma quando si mette al centro dell’economia mondiale il dio denaro e non l’uomo e la donna, questo è già un primo terrorismo. Hai cacciato via la meraviglia del creato e hai messo al centro il denaro. Questo è un primo terrorismo di base… pensiamoci».
Santità , la repressione in Turchia dopo il golpe forse è peggiore del colpo di stato: militari, giudici, diplomatici, giornalisti. Più di 13mila arrestati, oltre 50mila persone silurate. Una purga. L’altroieri il presidente Erdogan ha detto a chi lo criticava: pensate agli affari vostri! Vogliamo chiederle: perchè finora non ha parlato di questo? Teme ripercussioni sulla minoranza cattolica?
«Quando ho dovuto dire qualcosa che non piaceva alla Turchia ma della quale ero sicuro, l’ho detta, con le conseguenze che voi conoscete – ha risposto il Papa con un evidente riferimento alle sue parole sul genocidio armeno – Ma ero sicuro. Non ho parlato finora perchè non sono ancora sicuro, con le informazioni ricevute, su che cosa stia succedendo lì. Ascolto le informazioni che arrivano in Segreteria di Stato, e quelle di qualche analista politico importante. Sto studiando la situazione con la Segreteria di Stato e la cosa ancora non è chiara. E’ vero, sempre si deve evitare il male ai cattolici. Ma non al prezzo della verità . C’è la virtù della prudenza, ma nel caso mio voi siete testimoni che quando ho dovuto dire qualcosa che toccava la Turchia, l’ho detta».
Come sta dopo la caduta che le abbiamo visto fare a Czestochowa?
«Guardavo la Madonna e mi sono dimenticato dello scalino! Ero col turibolo in mano e quando ho sentito che cadevo, mi sono lasciato andare e questo mi ha salvato. Se avessi opposto resistenza, avrei avuto delle conseguenze. Invece è andato tutto bene».
Nel suo primo discorso al Wawel subito dopo il suo arrivo in Polonia lei ha detto che inizia a conoscere l’Europa centro-orientale partendo da questo paese. Come le è sembrato?
«Era una Polonia speciale, perchè era invasa ancora una volta, ma dai giovani! Cracovia l’ho vista tanto bella, la gente polacca tanto entusiasta. Questa sera, con tutta questa pioggia, c’era tanta gente per strada, non solo giovani ma anche le vecchiette. Avevo una conoscenza dei polacchi da quando ero bambino, perchè dove lavorava papà sono arrivati dei polacchi. Erano buoni e ho ritrovato questa bontà ».
I nostri figli giovani sono rimasti commossi dalle sue parole che corrispondono bene al loro linguaggio giovanile. Come si è preparato con esempi così vicini alla loro vita?
«A me piace parlare con i giovani e mi piace ascoltare i giovani. Loro mi mettono sempre in difficoltà perchè mi dicono cose che non ho pensato o che ho pensato a metà . Giovani inquieti, creativi… e da lì prendo questo linguaggio. Tante volte devo domandare che cosa significano alcune espressioni. Il nostro futuro sono loro, e dobbiamo fare il dialogo tra passato e futuro. Per questo io sottolineo tanto l’importanza del dialogo tra i giovani e i nonni, perchè possiamo dare anche la nostra esperienza: che loro sentano il passato, la storia, che la riprendano e la portino avanti con il coraggio del presente. E’ importante. A me non piace quando sento dire: questi giovani dicono stupidaggini! Anche noi ne diciamo tante. Loro dicono stupidaggini e dicono cose buone, come noi, come tutti. Noi dobbiamo imparare da loro e loro da noi. E così si cresce senza chiusure e senza censure».
C’è una domanda che molti pongono in questi giorni: la polizia australiana indaga su nuove accuse contro il cardinale George Pell. Questa volta si tratta di accuse di abusi su minori. Secondo lei qual è la cosa giusta da fare da parte del cardinale?
«Le prime notizie arrivate erano confuse. Erano notizie di 40 anni fa e neppure la polizia ci aveva fatto caso in un primo momento. Poi tutte le denunce sono state presentate e in questo momento sono nelle mani della giustizia. Non si deve giudicare prima che lo faccia la giustizia. Se io dessi un giudizio a favore o contro, non sarebbe buono perchè giudicherei prima. E’ vero, c’è il dubbio. E c’è quel principio chiaro del diritto: in dubio pro reo. Dobbiamo aspettare il corso della giustizia e non fare prima un giudizio mediatico, un giudizio delle chiacchiere. Bisogna stare attenti a quello che deciderà la giustizia. Una volta che giustizia ha parlato, parlerò io».
La settimana scorsa si è parlato di una partecipazione del Vaticano tra i negoziatori per la crisi in Venezuela. E’ una possibilità concreta?
«Due anni fa ho avuto un incontro positivo con il presidente Maduro. Poi lui ha chiesto udienza l’anno scorso, ma l’ha cancellata perchè aveva l’otite. Ho lasciato passare del tempo e quindi gli ho scritto una lettera. Ci sono stati contatti per un eventuale incontro. Sì, con le condizioni che si fanno in questi casi: si pensa in questo momento – ma non sono sicuro – alla possibilità che nel gruppo della mediazione, ci sia anche un rappresentante della Santa Sede».
Prima di iniziare la conferenza stampa Francesco ha ricordato l’inviata della Rai morta a Cracovia: «Vorrei dare a voi, perchè siete compagni di lavoro, le condoglianze per la morte di Anna Maria Jacobini. Oggi ho ricevuto la sorella e le nipoti. E’ una cosa triste di questo viaggio».
Poi il Papa ha festeggiato il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, nel suo ultimo giorno di incarico, insieme a Mauro, un addetto ai bagagli dei voli papali, anche lui alla fine della sua esperienza lavorativa.
«Vorrei ringraziare padre Lombardi e Mauro, perchè questo sarà l’ultimo viaggio che fanno con noi. Padre Lombardi a Radio Vaticana per più di 25 anni, poi dieci anni nei voli papali. E Mauro, 37 anni incaricato dei bagagli. Li ringrazio tanto».
Al termine della conferenza stampa, come introduzione alla Gmg del 2019 a Panama, il giornalista Javier Martinez Brocal di Rome Reports ha regalato a Francesco un cappello Panama che il Papa ha indossato.
Andrea Tornielli
(da “La Stampa”)
argomento: Chiesa | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
ALL’ITALIA SERVE UN PROGETTO LIBERAL-POPOLARE CREDIBILE, UNA NUOVA E FERVENTE SFIDA, NON CHIACCHIERE E DISTINTIVO
Quelli che non hanno (proprio) più, nè “arte”, nè “parte”, salvo la spasmodica voglia di provare a
conservarsi qualche poltroncina comoda “ad ogni costo”…
Hanno rinnegato tutti i valori nei quali l’elettorato si immedesimava e grazie ai quali le nuove generazioni avevano immaginato di costruire la destra del futuro (quella delle libertà , del liberismo “solidale” e dell’Europa dei popoli, tanto per intenderci).
Hanno piegato le visioni ardite alle logiche della “conservazione”.
Hanno imboccato la strada della deriva greve e retriva, dimenticandosi (totalmente) che sono cresciuti all’ombra di uomini (e mi riferisco ad Almirante, Rauti, Fini e Tatarella) che, nel bene e nel male, erano avanti “anni luce”…
Oramai non sono più “nè carne, nè pesce”.
Rinnegano (sostanzialmente) finanche la legalità preferendo trincerarsi dietro le seducenti ali di un drammatico “legalese”. Immaginando che gli avrebbe portato in dote un 7, 8% di voti in più (oltre ai soldi della relativa Fondazione: il vero fine ultimo della “grande azione politica”), hanno usato tutti i mezzi per impossessarsi del simbolo di Alleanza Nazionale. Arroganti e presuntuosi. Fanno solo tristezza!
Gli Italiani non hanno bisogno di una spilletta da applicare sulla giacca e lo stesso Paese non ha bisogno di sedicenti camerati travestiti coi colori “alla moda”…
Dopo le ultime politiche furono pubblicati diversi studi secondo i quali, lo spazio, a destra, ci sarebbe stato a condizione che si fosse imboccata la “strada lepenista”… Personalmente mi faceva letteralmente “senso” un’idea del genere ed i tristi fatti verificatisi negli anni successivi (la sempre più consistenza perdita di consenso elettorale, insomma) hanno dimostrato che facevo bene a provare quella ritrosia (ma chiamarlo “schifo” sarebbe più corretto) concettuale e valoriale…
E’ vero che c’è tanta gente che non va più a votare, ma non saranno gli hashtag a convincerli. Studiate. Leggete, Appassionatevi veramente.
Tirate fuori gli attirbuti se li avete davvero…
Immagino che posssa essere davvero triste risvegliarsi un giorno e rendersi conto di essere stati soltanto “chiacchiee e distintivo”… Problemi loro, comunque…
Al Paese serve un progetto liberal-popolare netto e preciso. Una nuova e fervente sfida. Qualcosa di cui i “cognati d’Italia” non saranno mai all’altezza.
Salvatore Castello
Right BLU – La Destra Liberale
argomento: destra | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
E’ L’UNICA COSA GIUSTA CHE HA DETTO: FDI E’ UN PARTITO REAZIONARIO CHE NON HA NULLA A CHE FARE CON IL MSI… SE VUOI CAMBIARE LINEA DEVI AVERE IL CORAGGIO DI CAMBIARE ELETTORATO E RISCHIARE QUALCHE POLTRONA
«Via la Fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia».
A dirlo è Giovanni Donzelli, membro dell’esecutivo nazionale del partito guidato da Giorgia Meloni.
E della leader amico da anni, facendo parte a pieno titolo di quella «generazione Atreju», tanto da far pensare che sia stata lei a mandarlo in avanscoperta per “vedere l’effetto che fa”.
Donzelli ha affidato i suoi pensieri a un lungo post sul suo blog.
«L’ex centrodestra non esiste più – esordisce – e credo che per noi di Fratelli d’Italia sia il momento di iniziare a immaginare una nuova fase, dobbiamo ridisegnare i nostri confini”
Fin qui come scoprire l’acqua calda.
Per farlo, aggiunge, «è necessario abbattere qualche totem e superare qualche resistenza mentale».
È qui che arriva il punto che, probabilmente, nel partito farà molto discutere: «Personalmente credo sia arrivato il momento di consegnare definitivamente alla storia l’esperienza di Alleanza Nazionale. È ormai un feticcio che ci distrae dall’immaginare il futuro. Anche graficamente credo sia utile immaginare un logo senza richiami al passato. Fratelli d’Italia deve e può parlare a tutti gli Italiani. Non solo a chi votava AN».
Un’operazione di immagine, insomma.
La nuova linea politica quale sarebbe?
E qui siamo nel solito generico: «La destra deve ovviamente essere vicina agli ultimi, ma deve anche essere punto di riferimento per chi con capacità , sacrifici e ingegno sta tenendo in piedi l’Italia. C’è un mondo di liberi professionisti che nessuna forza politica considera più”.
A parte che vorremmo sapere da Donzelli quali sarebbero “gli ultimi” che starebbero a cuore a Fdi, visto che vota sistematicamente per negare diritti e mai per riconoscerli, in ogni caso quel mondo di partite Iva, autonomi e professionisti in realtà è già coperto dal Pd renziano, dai Cinquestelle e in parte da Forza Italia.
Altra cosa sarebbe se ci si rivolgesse a quei milioni di italiani sotto la soglia di povertà , al di là delle suddivisioni fuorvianti di categorie professionali.
Ma veniamo a un altro distinguo di Donzelli: “la destra guarda ovviamente con disprezzo a chi si inginocchia alla Merkel, ma non può nemmeno cadere nell’errore di sostituire la sudditanza psicologica con la Merkel con una sudditanza parallela con Marine Le Pen, non vogliamo sostituire strapotere a strapotere. Sono certo che una Europa a trazione francese non potrebbe fare molto di più rispetto ad adesso per gli interessi delle aziende italiane. Senza pensare ad esempio alle tematiche etiche. Sulla difesa della famiglia tradizionale forse Marine Le Pen è più vicina a Nichi Vendola che ai miei valori».
Il problema di Donzelli è il non avere una formazione “europea”, fenomeno tipico della destra post-missina, confondendo la difesa degli interessi nazionali da negoziare con una “Europa delle patrie” con una mera visione nazionalistica ottocentesca che è la negazione dell’Europa sognata da molti pensatori di destra.
Fino a criticare uno dei pochi aspetti positivi di Marine Le Pen, la concezione laica dello Stato e il riconoscimento dei diritti civili, temi sui quali Fdi è rimasto ancorato alla destra di Bava Beccaris, a quella destra becera di latifondisti, per capirci, che Mussolini spazzò via con il suo programma sociale.
Ci saremmo aspettati un forte richiamo alla “legalità ” come tema fondante della destra (magari con richiesta di espulsioni immediate di personaggi sotto processo anche in Fdi), al “merito” come prassi di excursus politico, con presa di distanze da correnti interne e “cordate locali” presenti nel partito, alla “solidarietà sociale” verso chi fugge dagli orrori delle guerre, tema “sensibile” per chi ha ancora un animo non contaminato dal cinismo mercantilistico.
Ma per farlo occorrerebbe coraggio, quello di cambiare in parte elettorato, riuscendo a parlare e a dialogare anche con “gli altri”.
Ultimamente il partito della Meloni ha sottoposto a militanti e iscritti diversi «sondaggi» via mail e il quadro che ne emerge è tragico: i simpatizzanti si sarebbero espressi per un asse sempre più forte con la Lega, conservando le proprie specificità (tradotto: sì al listone comune che permette di mantenere le poltrone, no al partito unico, così si può continaure a fare carriera interna accodandosi al ras locale di turno).
E sul simbolo la maggioranza dei militanti si sarebbe detta pronta ad archiviare la stagione di An ma è restia a cancellare la Fiamma che ricorda il sempre rimpianto a parole Movimento Sociale che peraltro, non essendo stato un partito reazionario, nulla ha a che vedere con Fdi, altrimenti si sarebbe chiamato Movimento Asociale Italiano.
Tutti temi da congresso, insomma.
E qui arriva la ciliegina sulla torta.
Donzelli annuncia che si potrebbe tenere entro la fine del 2016 per inaugurare “una fase costituente il più aperta possibile”.
Aperta a chi? “A chi si è schierato con la Meloni, alle liste fiancheggiatrici e a chi ha aderito al progetto “Terra Nostra” della Meloni”.
Insomma ai parenti stretti d’Italia.
E questa sarebbe la svolta?
Dimenticavamo: chiacchiere a parte, nessuna presa di distanza da Salvini, nonostante i titoli sui giornali.
L’unione fa la farsa: avanti con la prossima sceneggiata.
E occhio a Parisi: in questo bailamme è meno sprovveduto di tanti urlatori.
argomento: Fratelli d'Italia | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
HA BALLATO IL MERENGUE DEL “FEDERATORE” PER UNA SOLA STAGIONE, ORA TOCCA ALL’INDEFESSO SERVITORE DEL CAPITALISMO RELAZIONALE
Dalle stanze di Regione Liguria trapela la notizia di un Giovanni Toti abbastanza furioso per la drastica rimessa in riga da parte del signore e padrone Berlusconi, che ne ha piallato via con un sol colpo le aspirazioni a svolgere un ruolo nazionale da leader e il sistema di alleanze su cui basava la conquista della centralità a destra.
Dopo aver ballato per una stagione il merengue del nuovo federatore di tutta la paccottiglia politica sul trucido — dalla Santanchè a Calderoli — deve essere stato duro per il governatore ligure, nato in Versilia e con il cuore a Cologno Monzese, sapersi confinato in un territorio marginale e doversi impegnare in qualcosa di cui ignora perfino i rudimenti: amministrare.
Soprattutto, suona stridente essere sopravanzato al vertice da uno come Stefano Parisi, le cui ricette in politica sono identiche alle proprie (mettere insieme una coalizione dagli alfaniani fino ai leghisti); con il piccolo particolare che in Liguria si è vinto mentre a Milano no. Insomma, un clone perdente.
Perchè questo improvviso cambio di cavallo, deciso in quel di Arcore?
Rispondere al quesito può offrire utili indicazioni sull’intero quadro politico e sui movimenti in atto. Accelerati dall’appuntamento referendario autunnale.
Come, per altro verso, dimostra il cambio repentino nella direzione di Libero — da Maurizio Belpietro, critico della riforma costituzionale/elettorale Boschi-Renzi, al renziano di complemento Vittorio Feltri — non meno delle acrobazie in Rai per coprire tutte le testate giornalistiche della casa con pasdaran del “sì”.
Ecco — dunque — il perchè del cambio in corsa ai vertici di Forza Italia: Toti dava crescenti segni di scandalosa indipendenza, evidenziata dalla sintonia oppositiva nei confronti del governo con gli anti-renziani dichiarati Renato Brunetta e Paolo Romani, i lepenisti alla amatriciana (e cassoeula) Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Al contrario il cinguettante ex dg confindustriale Parisi assicura maggiore flessibilità e conoscenza delle compatibilità da navigato uomo di mondo.
Ossia, può garantire al padrone la ripresa della linea consociativa (inciuciesca/nazzarena) con il premier Renzi.
Ciò dimostra che — al di là delle manfrine — il Berlusconi sul viale del tramonto è consapevole di essere aziendalmente sotto schiaffo da parte del governo (leggi Renzi). Non a caso è stato proprio il partito azienda dei Felice Confalonieri a spingere per un riassetto delle faccende politiche che salvasse il salvabile del business; già lesionato da un Bollorè (Vivendi) che si muove alla Berlusconi.
Sull’altro fronte, tutto questo segnala anche il crescente nervosismo del premier, riguardo agli esiti presunti del referendum.
E le spregiudicate pressioni a 360 gradi che sta esercitando (unitamente alla campagna di propaganda, tra il terroristico e il demenziale, in cui è impegnata a spron battuto la ministra Boschi) dimostrano che i sondaggi riservati in suo possesso non sono per nulla tranquillizzanti.
Più in generale, i posizionamenti in atto ci forniscono importanti indicazioni sull’orografia in gestazione nella scena politica: se il ridisegno dello Stato oggetto della consultazione novembrine promuove l’ordine postdemocratico tendente alla democratura, con cui la corporazione della politica e relativi partner blindano il loro controllo sulla società (preminenza dell’esecutivo, o meglio della premiership, sugli altri poteri; riduzione del controllo elettorale sugli organigrammi pubblici), quanto attorno a Renzi si sta coagulando è un vero blocco d’ordine a tutela del privilegio.
In altri tempi lo si sarebbe definito “la destra” (con tante scuse per i 5S e le loro rudimentali strumentazioni politologiche che rifiutano le distinzioni cultural-ideali).
È dunque normale che Berlusconi subisca il richiamo (oltre che i ricatti) dell’operazione: cane non mangia cane.
E che come pegno di buona fede sacrifichi il vitello grasso Toti, per festeggiare l’arrivo di un indefesso servitore del potere purchessia, sia esso capitalismo relazionale o carrierismo politicante, quale il Parisi.
Pierfranco Pellizzetti
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Forza Italia | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
L’ASSESSORA M5S E’ STATA CONSULENTE AL TEMPO STESSO DELL’AZIENDA RIFIUTI E DELLA SOCIETA’ CHE VINSE L’APPALTO DA 39 MILIONI PER SMALTIRLI IN FRIULI
Ci sono i camion che, colmi di rifiuti organici, da quattro anni fanno la spola tra gli impianti
inservibili di Roma e il Friuli Venezia Giulia.
Ci sono due gare bandite da Ama e vinte, nel 2013 e nel 2016, con un ribasso minimo prima da un gruppo di imprese del Nord e poi dalla sola Bioman.
E infine, a chiudere il cerchio, c’è l’attuale assessora all’Ambiente della giunta capitolina a 5 Stelle in veste di doppio consulente: tra il 2010 e il 2012, senza rinunciare al ricco contratto stipulato con la municipalizzata del Campidoglio, Paola Muraro ha lavorato proprio per la Bioman.
È la società per azioni di Mirano che per smaltire la frazione “umida” della spazzatura dei romani si è aggiudicata appalti per 39 milioni di euro.
Come recita il suo curriculum, l’ex superconsulente che ieri ha ricevuto un nuovo incoraggiamento dalla sindaca Virginia Raggi (“sta lavorando bene”) nell’arco di tre anni si è occupata per l’azienda dell’attività di “autocontrollo, redazione e attuazione di un programma gestione qualità ” per gli impianti di compostaggio.
Inoltre, ha offerto la sua “assistenza tecnico-amministrativa per la predisposizione di atti autorizzativi e la collaborazione nella preparazione di documenti gestionali”. Tutto il necessario, insomma, per presentarsi con le credenziali in ordine quando si deve partecipare a una gara pubblica come quelle di Ama.
La prima la Bioman se l’è aggiudicata nel giugno del 2013 assieme a Sesa spa e Ing. Am srl.
L’associazione di imprese in quell’occasione riusciva a sorpassare l’unica concorrente e ad assicurarsi tre dei quattro lotti in palio.
Due riguardano Rocca Cencia, la stessa struttura di cui l’assessora Muraro si è occupata per Ama fino al 30 giugno scorso. L’affare, un colpo da 21 milioni di euro per due anni di “trasporto e recupero di rifiuti organici”, si concretizzava per lo stop imposto all’impianto di compostaggio di Maccarese da una serie di lavori di ristrutturazione.
Nel 2016, invece, la Bioman ha deciso di correre da sola ed è stata l’unica azienda a presentare offerte per i 10 lotti in cui è stato risuddiviso il servizio.
Così, lo scorso 25 maggio, sono state firmate le carte di un secondo affidamento da 18 milioni. Questa volta la criticità per cui i rifiuti di Roma sono stati trasportati al Nord è rappresentata da Rocca Cencia.
Già il 18 giugno, ancora prima di essere nominata assessora, Paola Muraro affidava alla pagina del Movimento 5 Stelle di Roma un post sul progetto dell’ecodistretto di Rocca Cencia, già presentato nel 2015 in Regione e capace di compostare fino a 50mila tonnellate all’anno di “umido”: “Non ho mai partecipato alla sua progettazione, in quanto ho sempre manifestato forti perplessità sulla sua effettiva realizzazione in una località già caratterizzata dalla presenza di altri impianti”.
Cosa fare allora con l’umido non trattato? Nel breve, in attesa di nuove strutture, Ama si dovrà affidare al bando vinto da Bioman.
La società a cui Paola Muraro ha offerto la sua consulenza dal 2010 al 2012.
(da “La Repubblica”)
argomento: Roma | Commenta »
Agosto 1st, 2016 Riccardo Fucile
PARLA IL GIORNALISTA FRANCESE CHE SI E’ FINTO SOLDATO DELL’ISIS… CHI SONO I GIOVANI EUROPEI FANATIZZATI DALLA STATO ISLAMICO
Ancora la Francia bersaglio dei fanatici dello Stato islamico. Che stavolta alzano il tiro, sgozzano sull’altare della chiesa a Saint-Etienne du Rouvray, in Normandia, vicino a Rouen, il parroco, padre Jacques Hamel, 84 anni, filmano l’esecuzione e lanciano proclami in arabo dal pulpito prima di essere abbattuti dagli uomini delle forze speciali.
Uno dei terroristi, Adel Kermiche, 19 anni, era noto ai servizi per aver tentato di raggiungere la Siria ed era in libertà vigilata col braccialetto elettronico.
Cosa che non gli ha impedito di portare a termine l’azione. Riattivando, dopo Nizza, le polemiche sulla sicurezza che hanno come bersaglio il presidente della Repubblica Franà§ois Hollande, il primo ministro Manuel Valls, il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve.
Adel Kermiche, un ragazzo catturato nella rete del jihadismo, affascinato dal radicalismo nichilista del califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
Come altri 1500 francesi di origine araba partiti per il Medio Oriente o rimasti per spargere il terrore in patria.
Alcuni dei quali il pubblico ha conosciuto grazie al documentario “Les soldats d’Allah”, andato in onda su Canal+, e girato da un infiltrato in una cellula francese dello Stato islamico che racconta, per l’“Espresso”, tutti i retroscena della sua pericolosa esperienza.
Si fa chiamare Said Ramzi, ma è uno pseudonimo, perchè la sua identità , per intuibili motivi, deve rimanere segreta.
È musulmano, ha 29 anni ed è un giornalista francese di origine araba. Per quattro mesi, con una telecamera nascosta, ha filmato l’intera evoluzione del gruppo, fino alla preparazione di un attentato, immortalando un miscuglio di ossessioni morbose e pulsioni suicidarie.
«All’inizio», racconta Said, «ho girato una quantità incredibile di moschee, in particolare quelle frequentate dai salafiti (scuola di pensiero islamica tradizionalista) soprattutto nel sud della Francia. Ho parlato con tantissimi di loro, senza successo. Molto rapidamente ho capito che i salafiti, in realtà , collaborano attivamente con i servizi francesi. In più di una moschea mi hanno detto che il loro imam incontrava regolarmente gli agenti della Direction Gènèrale de la Sècuritè Intèrieure».
Nonostante il primo ministro francese Manuel Valls dichiari che il salafismo «può portare all’islam radicale e al terrorismo» e che «il secondo si nutre del primo».
Comunque sia, l’odio tra i salafiti francesi e i militanti dello Stato Islamico è tale da permettere a Said di stringere i primi contatti.
«Quando incontravo quelli di Daesh (acronimo arabo per lo Stato islamico) su Facebook», confessa Said, «gli dicevo che i salafiti non smettevano di cancellarmi gli account, di denunciarmi, e così via. Criticando i salafiti sono riuscito a farmi accettare da quelli dell’Is».
Su Facebook, Said incontra un ragazzo che si fa chiamare “Abou Oussama”. Ha vent’anni e abita a Chateauroux, nel centro della Francia.
Oussama era stato arrestato qualche anno prima mentre cercava di recarsi in Siria. Un ragazzo orgoglioso, tanto da rendere noto a Said il suo dossier giudiziario.
«C’erano tutte le dichiarazioni che aveva rilasciato alla DGSI dopo l’arresto», ricorda Said. «Diceva che era d’accordo con Daesh, che voleva sgozzare i miscredenti, uccidere dei militari. Diceva tutto ciò, apertamente, a degli agenti di polizia!».
Oussama viene da una famiglia modesta, ma non poverissima. Non è cresciuto nelle citès, i palazzoni delle periferie francesi. Suo padre è originario della Turchia e fa il muratore, sua madre è francese.
Quando era più giovane, Oussama aveva provato a entrare nell’esercito ma era stato respinto. Secondo il padre il punto di non ritorno è stato proprio il rifiuto dei reclutatori dell’Armèe.
Un profilo che secondo Said è molto comune, tra i vari militanti dell’Is che ha incontrato. All’origine, c’è sempre «un rifiuto della società verso i giovani musulmani o arabi che è molto difficile da accettare», afferma.
Un rifiuto tanto più inaccettabile quanto più assume forme endemiche. «Quando lavoravo in un call-center, per esempio, mi chiedevano di cambiare nome, io avevo deciso di chiamarmi Paul».
In più, dichiarando alle autorità le sue professioni di fede, Oussama si era condannato a una vita ancora più dura. «Piano piano, tutte le porte si erano chiuse attorno a lui», ricostruisce Said.
Tra regime di sorveglianza stretta, obbligo di firma e fedina penale bruciata, «ormai per lui era finita. Gli avevano preso la vita a vent’anni. La sola chance per uscirne, nella sua testa, era il paradiso dei martiri di Allah».
«Quando lo incontro, Oussama è terribilmente solo. All’inizio mi parla del paradiso, di cose piuttosto folli, in particolare riguardo alle donne, ricorda il giornalista. «Afferma che uccideremo dei francesi e che prenderemo le loro donne come schiave» Said gli domanda se secondo lui sia giusto avere degli schiavi. Oussama risponde che è un loro diritto, «e aggiunge che grazie a noi, diventeranno musulmane e accederanno al paradiso».
Il rapporto col sesso femminile è un tema che ha incrociato in continuazione nel corso dell’inchiesta. «Sono rimasti bloccati a quello stadio là , quando sei adolescente e hai voglia di avere tutte le donne per te».
I militanti dello Stato Islamico che ha conosciuto «sono delle persone che hanno visto dei film porno e si sono immaginati al posto dell’attore protagonista. Quando Daesh ha promesso loro che avrebbero avuto tutto ciò nella forma del paradiso pràªt-à -porter affollato di vergini, o “houri” è stato un successo immediato».
A detta di Said, «la religione per loro è solo un pretesto. Se ne fregano alla grande, della religione. Te lo dicono anche, senza rendersene conto. Se credono in Allah, è solo perchè Allah gli ha promesso le vergini. E basta. Credono di rispettare la religione, ma non hanno nè rispetto, nè religione».
Più il gruppo di Oussama si allarga, più Said vi si inoltra, più emergono l’assenza di sensibilità religiosa o politica e – al contrario – una certa morbosità dei militanti.
«Una volta Oussama ha cominciato a parlarmi delle vergini del paradiso, con gli occhi persi nel vuoto. E ha concluso che quella sera sarebbe stato da solo in camera sua, mentre avrebbe potuto essere in paradiso con le famose vergini se, armato di coltello, avesse assaltato un commissariato quello stesso giorno».
Oussama gli propone a più riprese di attaccare con dei coltelli una caserma di polizia. «Riuscivo sempre a convincerlo di non farlo, per fortuna».
La volontà di lanciarsi in attacchi estemporanei denota la mancanza di una qualsiasi strategia. «Quando ne hai una», riflette Said, «è perchè in qualche modo aspiri a cambiare il mondo, nel bene o nel male. Quelli di Daesh non hanno alcuna intenzione di cambiare il mondo. Se ne strafregano, del mondo. Fanno tutto solo ed esclusivamente per sè stessi, per le loro vergini. In qualche modo, sono la quintessenza dell’ultra-liberismo. Sono dei mercenari, in fondo».
«Nei gruppi online», assicura Said, «si scambiano le foto dei vestiti di marca, è tutto un Nike di qua, un Gucci di là , sognano di macchine di lusso…».
I loro riferimenti culturali sono quelli del consumo all’ingrosso e all’ingrasso tipici dei videoclip delle star del rap francese. Una cultura e uno stile teoricamente rifiutati in toto e, tuttavia, ampiamente riprodotti: un altro paradosso dei “soldati di Allah.”
Nondimeno, l’antinomia forse più intrigante è che l’immaginario dello Stato Islamico non seduce solamente gli uomini.
Durante l’inchiesta, Said ha potuto incontrare molte ragazze, per lo più minorenni. Quelli dello Stato islamico «hanno cercato di farmi sposare quattro volte in quattro mesi», dice l’infiltrato.
Gli incontri avvenivano sempre via Internet. «Una di loro mi ha chiesto di diventare il suo walà®y (il suo “tutore”).” Ogni volta che la ragazza doveva recarsi a un appuntamento, «mi chiedeva l’autorizzazione via messaggio».
Altri militanti dovevano portarla in Siria, racconta Said, ma alla fine lei non si è unita a loro. Quando gli agenti di polizia li hanno fermati alla frontiera, hanno trovato un passaporto falso con la sua foto.
«L’ultimo messaggio che mi ha mandato è stato quello in cui mi chiedeva se poteva recarsi dal giudice. Le ho detto di si. Non ho mai più avuto notizie. Aveva solo 17 anni».
L’esplosivo miscuglio di dilettantismo e disperazione conosce, a un certo punto, una drammatica evoluzione. «Presto o tardi avrei dovuto allertare la polizia», afferma Said. «Quello che mi ha “salvato” è stato l’arrivo di un altro militante di Daesh, proveniente da Raqqa», la capitale dello Stato Islamico in Siria.
La sua identità rimane a oggi un mistero. L’uomo non si mostra, ma dirige, tramite Oussama, le attività della cellula, che nel frattempo era arrivata a coinvolgere una decina di persone.
L’uomo venuto da Raqqa intima di avere pazienza e contatta Said. Tramite interposta persona gli fa pervenire delle lettere nelle quali invoca determinazione per «uccidere i miscredenti». L’ultima missiva per Said contiene una lista della spesa di ingredienti utili a fabbricare una bomba.
Gli obiettivi cominciano a profilarsi: i militanti parlano di colpire una discoteca, siti militari o redazioni tv.
«Quando mi ha detto che tra gli obiettivi c’erano anche i giornalisti», ricorda Said, «mi sono detto, “putain! io sono giornalista” e sono seduto di fianco a loro con una telecamera nascosta.
È la pericolosità di questa inchiesta, in ogni istante avrei potuto prendermi una coltellata. Altre inchieste sono altrettanto pericolose; ma qui si tratta di gente la cui motivazione profonda è l’omicidio».
Per la cellula jihadista in formazione, gli attentati del 13 novembre scorso, il Bataclan e le terrazze di Parigi, sono un incoraggiamento.
Nonostante gli arresti a cascata in tutto il Paese, il gruppo accelera la ricerca di armi. Intanto, i radar dei servizi devono aver percepito qualcosa, perchè a fine dicembre una serie di arresti mette fine alle operazioni. Oussama è arrestato per ultimo, il 27 dicembre 2015, a casa di suo padre.
Said prova allora a dirigersi verso un altro gruppo, per i cui membri s’inventa un altro nome. Ma il trucco non funziona e, dopo una serie di velate minacce sul tema della decapitazione, pochi giorni dopo, un altro militante dello Stato islamico gli scrive: “T’es cuit, mec”, “sei bruciato”». È li che si ferma l’inchiesta.
Comprendere la presenza dello Stato islamico in Europa significa, secondo Said, capire che «Daesh ha molti più legami con la pornografia e con il suicidio che con l’Islam. Anzi, è riconducibile proprio all’alleanza diabolica tra queste due nozioni».
E l’unica cosa che si può opporre, dice, «è la creazione di legami sociali, fare in modo che ci sia meno esclusione».
(da “L’Espresso”)
argomento: Attentato | Commenta »